St. Joseph Icon – based on original design Rev. G. Labouchane, Alberta

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/1965/documents/hf_p-vi_aud_19650501_it.html
PAOLO VI
UDIENZA GENERALE
Festa di San Giuseppe Artigiano
Sabato, 1° maggio 1965
Il 1° maggio cristiano auspice il grande Artigiano di Nazareth
Diletti Figli e Figlie!
Se cerchiamo quali motivi spirituali dànno a questa udienza un significato particolare, è facile rilevare che tali motivi sono due: la festa del lavoro e la festa di San Giuseppe; anzi è uno solo, quello che suggerì dieci anni or sono, al Nostro Predecessore, di venerata memoria, Pio XII, di abbinare questi due titoli, che dànno al Calendimaggio il carattere d’un giorno speciale di festa, per farne, com’Egli disse, un «giorno di giubilo per il concreto e progressivo trionfo degli ideali cristiani della grande famiglia del lavoro» (Discorsi e Radiomessaggi, XVII, 76). Questo atto, che ha potuto apparire a qualcuno come un pio artificio, come uno sforzo per attribuire ad una celebrazione profana, anzi laica nel senso più radicale del termine, un qualche tardivo e compiacente riconoscimento, rivela invece, come nel campo cattolico tutti hanno notato con soddisfazione, un gesto doppiamente coerente: coerente con la tradizione del culto cristiano, il quale non soltanto per purificare ed elevare le feste pagane, più d’una di esse ha assorbito nel suo calendario e ha trasfigurato in senso cristiano, ma altresì per obbedire al suo genio profondamente teologico e profondamente umano, il quale scopre in ogni manifestazione autentica della vita un campo sempre possibile e quasi predisposto all’economia dell’Incarnazione, alla penetrazione del divino nell’umano, all’infusione redentrice e sublimante della grazia.
E seconda coerenza: e cioè con tutta l’opera dottrinale e pastorale svolta dalla Chiesa, dai Papi specialmente, dai Vescovi e da Maestri cattolici, da un secolo in qua, per ridare al lavoro una sua nuova spiritualità, una sua animazione cristiana. E allora l’aver fatto coincidere la festa del lavoro con la festa del lavoratore S. Giuseppe, che nella scena evangelica, nella stessa famiglia terrena di Cristo, personifica il tipo umano, che Cristo medesimo scelse per qualificare la propria posizione sociale «fabri filius» (Matth. 13, 55), pone il grande, enorme, moderno problema della riconciliazione del mondo del lavoro con i valori religiosi e cristiani, e della conseguente irradiazione di dignità, di energie, di conforti, di speranze, che il Vangelo può e deve ancor oggi diffondere sulla fatica umana; anzi quasi lo dà, questo problema, per risoluto, anche se oggi pur troppo, in gran parte, risoluto non è.
Anche questo modo di agire è nel costume della Chiesa credente, la quale sovente opera «contra spem, in spem» (Rom. 4, 18), sicura che il tempo, i fatti, gli uomini le daranno ragione, perché lo Spirito di Dio anticipa alla Chiesa una sicurezza profetica, che un giorno, a bene dell’umanità, sarà vittoriosa.
E nulla diremo, in questo brevissimo momento, delle troppe cose che si offrono alla mente dalla presentazione del problema suddetto, del rapporto cioè fra vita religiosa e vita del lavoro: perché queste due supreme espressioni dell’attività umana dovrebbero essere separate fra loro? Perché in contrasto? Come fu che la loro alleanza, la loro simbiosi si ruppe? Quale lunga storia, quale diligente analisi ce ne può indicare le ragioni, i pretesti, le rovine? Forse non fu a tempo compresa la trasformazione psicologica e sociale che il passaggio dall’impiego di umili e primitivi utensili in aiuto della fatica dell’uomo all’impiego della macchina con tutte le sue nuove potentissime energie avrebbe prodotto? Non ci si avvide che nasceva una favolosa speranza dal regno della terra che avrebbe oscurato e sostituito la speranza del regno dei cieli? Non ci si accorse che la nuova forma di lavoro avrebbe risvegliato nel lavoratore la coscienza della sua alienazione, che cioè egli non operava più per sé, ma per altri, con strumenti non più propri, ma di altri, non più solo ma con altri, e che sarebbe sorta nel suo animo la brama d’una redenzione economica e temporale, che non gli lasciava più apprezzare la redenzione morale e spirituale offertagli dalla fede di Cristo, non a quella contraria, ma di quella fondamento e corona? E mancò forse (non certo nei Papi) il linguaggio, mancò il coraggio per dire al mondo del lavoro, sconvolto delle sue stesse affermazioni, qual era la via buona del suo riscatto, e quale il bisogno e il dovere di non mortificare al livello del benessere economico la sua capacità ed il suo diritto di salire insieme al livello delle supreme realtà della vita, che sono quelle dell’anima e di Dio?
Nulla diremo. Del resto sono cose che tutti ora, più o meno, conoscono, e che solo richiamiamo al vostro spirito, oggi e proprio qui, perché abbiate a ricordarle e a meditarle, alla luce che la festa di S. Giuseppe, esempio e protettore del mondo del lavoro, proietta su di noi, quando siamo memori del Vangelo e memori della meravigliosa fedeltà, con cui esso si rispecchia nelle attualissime Encicliche pontificie.
E abbiate a interessarvi di queste cose, che hanno tanta importanza nella vita moderna fino a determinarne le forme salienti ed il corso, non si sa se più travagliato o trionfale. Interessarvi per pregare per il mondo del lavoro, per quanti in esso sono oggi sofferenti: disoccupati, sottoccupati, emigrati, mal sicuri del loro pane, mal retribuiti della loro fatica, amareggiati della loro sorte. E per quanti anche del lavoro fanno argomento programmatico e permanente di lotta sociale, invece che di armoniosa e positiva cooperazione nella giustizia e nella libertà; fonte di odio sociale e di passione, invece che di amore fraterno e di esaltazione di nobili sentimenti. Ed infine perché all’interessamento di pensiero e di preghiera abbiate ad aggiungere, come possibile, quello della solidarietà e dell’operosità, affinché «la giustizia e la pace» auspice l’umile e grande Artigiano di Nazareth, abbiano a rifiorire cristianamente nel mondo del lavoro.
La Nostra Benedizione vi incoraggia e vi assicura l’aiuto del Cielo.
http://digilander.libero.it/joseph_custos/benedetto.htm
LA FESTA DI SAN GIUSEPPE
Quel cuore tedesco sulle orme di Joseph
(“AVVENIRE” – 18 marzo 2006)
Tra chiese e immagini i segni di una devozione fiorita a partire dall’età barocca e rilanciata nel mondo operaio
Da Monaco Di Baviera Diego Vanzi
Per tutti ormai è Benedetto, ma di battesimo si chiama Joseph il Papa venuto dalla Germania. Porta, dunque, il nome del santo di cui domani ricorre la festa. Una figura la cui importanza lui stesso ha voluto richiamare già in questo primo anno di Pontificato, come ricordiamo nell’articolo qui a fianco. Viene dunque spontanea la domanda: chi è san Giuseppe per il mondo tedesco?
La risposta la si trova nelle tante chiese intitolate a Sankt Joseph, l’uomo chiamato dalla Divina Provvidenza a vegliare sul Figlio di Dio fatto uomo. Espressione di una devozione forse meno vistosa rispetto all’Italia, eppure radicata nella fede semplice di generazioni di tedeschi. È ciò che, nella cittadina di Kevelaer nei pressi di Münster, nel Nord/Reno-Vesfalia, si propone di indagare il principale centro di studi giosefologici della Germania. Si tratta di un gruppo specifico di lavoro costituito nel quadro dell’Imak (Internationaler Mariologischer Arbeitskreis Kevelaer) il Centro internazionale di studi mariani che ha Kevelaer ha la sua sede.
Il 19 marzo ogni anno l’istituto di giosefologia pubblica uno studio sulla figura del santo che viene allegato al giornale cattolico Tagespost. E il suo direttore, German Rovina, è autore del volume «San Giuseppe padre e marito», che in lingua tedesca riassume in undici capitoli ciò che la Scrittura e la Tradizione della Chiesa afferma sul padre putativo di Gesù. Proprio a Kevelaer, inoltre, nell’autunno scorso, si è svolto il simposio internazionale di studi su san Giuseppe, che si tiene ogni quattro anni. Sette giorni di conferenze e confronti che hanno avuto come tema conduttore «L’importanza di san Giuseppe nella storia della salvezza».
Un segno, dunque, dell’interesse anche culturale intorno a questa figura. Anche se, va ricordato, quella specifica verso san Giuseppe è una devozione dalle radici relativamente recenti. «Inizialmente – commenta padre Bernhard Paal, gesuita di Monaco, predicatore nella St. Michaelskirche – nell’iconografia la sua figura appariva sempre nel contesto della Sacra Famiglia. Lo troviamo rappresentato insieme a Maria e Gesù, sulla via di Betlemme, nella fuga in Egitto, alla nascita di Gesù o nella visita al Tempio. È a partire dall’epoca barocca, invece – continua padre Paal -, che san Giuseppe inizia ad assumere un proprio profilo più marcato e ad essere raffigurato anche singolarmente». Di qui il fiorire della devozione che raggiungerà il suo culmine nel 1870, quando Pio IX lo proclamerà patrono della Chiesa universale. Anche in Germania questa stagione ha lasciato segni a volte semplici, ma comunque significativi.
«Nella St. Michaelskirche, qui nel cuore della cattolicissima Baviera- esemplifica padre Paal -, è raffigurato su numerosi medaglioni d’argento in vari calici e in un quadro sull’altare centrale». All’inizio del ventesimo secolo è legato, infine, il capitolo più recente della devozione a san Giuseppe, quello legato al mondo del lavoro. L’artigiano di Nazareth è diventato il punto di riferimento per la presenza della Chiesa in ambiente operaio. Un’attenzione sviluppata in maniera particolare nei länder a forte vocazione industriale. E che rimane viva anche attraverso le chiese intitolate specificamente a san Giuseppe lavoratore.
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Benedetto XVI: «Maestro col suo silenzio profondo»
Già nell’Angelus del 18 dicembre il Papa aveva tratteggiato il profilo spirituale di questa figura
Lasciamoci contagiare dal silenzio di san Giuseppe. Ne abbiamo tanto bisogno, in un mondo spesso troppo rumoroso, che non favorisce il raccoglimento e l’ascolto della voce di Dio». Così Benedetto XVI ha invitato a guardare a san Giuseppe durante l’Angelus del 18 dicembre scorso.
«È l’evangelista Matteo – spiegò il Papa in quell’occasione – a dare maggior risalto al padre putativo di Gesù, sottolineando che, per suo tramite, il Bambino risultava legalmente inserito nella discendenza davidica e realizzava così le Scritture, nelle quali il Messia era profetizzato come « figlio di Davide ». Ma il ruolo di Giuseppe – aggiunse il Pontefice – non può certo ridursi a questo aspetto legale. Egli è modello dell’uomo « giusto » (Mt 1,19), che in perfetta sintonia con la sua sposa accoglie il Figlio di Dio fatto uomo e veglia sulla sua crescita umana. Per questo è quanto mai opportuno stabilire una sorta di colloquio spirituale con san Giuseppe, perché egli ci aiuti a vivere in pienezza questo grande mistero della fede».
In quell’occasione Benedetto XVI citò anche la «mirabile meditazione» su questa figura proposta da Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica «Redemptoris custos». «Tra i molti aspetti che pone in luce – continuò Ratzinger –, un accento particolare dedica al silenzio di san Giuseppe. Il suo è un silenzio permeato di contemplazione del mistero di Dio, in atteggiamento di totale disponibilità ai voleri divini. In altre parole, il silenzio di san Giuseppe non manifesta un vuoto interiore, ma, al contrario, la pienezza di fede che egli porta nel cuore, e che guida ogni suo pensiero ed ogni sua azione.
Un silenzio grazie al quale Giuseppe, all’unisono con Maria, custodisce la Parola di Dio, conosciuta attraverso le Sacre Scritture, confrontandola continuamente con gli avvenimenti della vita di Gesù; un silenzio intessuto di preghiera costante, preghiera di benedizione del Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza. Non si esagera – concluse Benedetto XVI – se si pensa che proprio dal « padre » Giuseppe Gesù abbia appreso – sul piano umano – quella robusta interiorità che è presupposto dell’autentica giustizia, la « giustizia superiore », che Egli un giorno insegnerà ai suoi discepoli».
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ALL’ANGELUS
Giuseppe, modello di contemplazione
Mimmo Muolo
Se la nostra vita rischia di annegare in un overdose di decibel, la ciambella di salvataggio ci viene offerta da san Giuseppe. È il consiglio che Benedetto XVI ha dato domenica scorsa ai fedeli riuniti in piazza San Pietro, per l’Angelus festivo.
«Lasciamoci « contagiare » dal silenzio di san Giuseppe – ha esortato il Papa, che era appena rientrato dalla sua prima visita in parrocchia –. Ne abbiamo tanto bisogno, in un mondo spesso troppo rumoroso, che non favorisce il raccoglimento e l’ascolto della voce di Dio. In questo tempo di preparazione al Natale coltiviamo il raccoglimento interiore, per accogliere e custodire Gesù nella nostra vita».
Il Pontefice, che (come riferiamo a parte), già a Santa Maria Consolatrice aveva puntato il dito contro il consumismo natalizio, nella breve riflessione prima della preghiera mariana di mezzogiorno, ha tenuto a mettere in evidenza un altro modo sbagliato di vivere l’avvicinarsi alla grande festa di dicembre. Bisogna, invece, guardare a Giuseppe, «modello dell’uomo giusto».
«Il suo è un silenzio permeato di contemplazione del mistero di Dio, in atteggiamento di totale disponibilità ai voleri divini – ha affermato il Papa –. In altre parole, il silenzio di san Giuseppe non manifesta un vuoto interiore, ma, al contrario, la pienezza di fede che egli porta nel cuore, e che guida ogni suo pensiero ed ogni sua azione. Un silenzio grazie al quale Giuseppe, all’unisono con Maria, custodisce la Parola di Dio, conosciuta attraverso le Sacre Scritture, confrontandola continuamente con gli avvenimenti della vita di Gesù; un silenzio intessuto di preghiera costante, preghiera di benedizione del Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza».
Per questo, ha concluso il Pontefice, «nei giorni che precedono il Natale, è quanto mai opportuno stabilire una sorta di colloquio spirituale con san Giuseppe, perché egli ci aiuti a vivere in pienezza questo grande mistero della fede».
(“Avvenire”, 20 dicembre 2005)
http://www.zenit.org/article-30431?l=italian
SANTA MARIA DEGLI ANGELI E DEI MARTIRI
Quando la storia diventa leggenda
di Paolo Lorizzo*
ROMA, sabato, 28 aprile 2012 (ZENIT.org).- Quando i romani iniziarono con l’imperatore Massimiano nel 298 d.C. la costruzione del maestoso impianto termale (conosciuto e inaugurato come le thermas felices Diocletianas, le ‘terme di Diocleziano’) certo non sospettavano che secoli dopo sarebbero diventate uno dei punti di riferimento più importanti e significativi dell’intera cristianità. La dedica venne voluta in memoria dei cristiani che si pensa vennero resi schiavi e che furono costretti a costruire parte dell’impianto, ma anche in onore dei martiri uccisi dalla persecuzione di Diocleziano avvenuta nel 303 d.C.
Al giorno d’oggi, chi decidesse di svincolarsi tra il caos frenetico di una delle zone del centro più trafficate della città avrebbe soltanto l’imbarazzo della scelta su cosa visitare. L’antico impianto termale infatti, nonostante scempiato fino all’inverosimile come molti dei grandi monumenti dell’antichità, oltre a conservare gran parte del suo fascino, ha mantenuto intatta la sua disposizione architettonica e topografica, ancora facilmente leggibile tra strade e palazzi del quartiere. Tuttavia, poco dopo la costruzione della prima basilica, venne perpetrato, tra il 1586 e il 1589 da papa Sisto V un saccheggio finalizzato alla costruzione della sua residenza sull’Esquilino ma non fu l’unico, visto che proseguirono fino all’inizio del ‘900, epoca in cui si decise di consolidare e restaurare quanto rimaneva.
La loro originale grandiosità è facilmente intuibile attraverso i suoi numeri. Presentavano una superficie doppia rispetto alle già grandiose ‘terme di Caracalla’ (situate sull’Aventino), raggiungendo i 14 ettari di estensione. Il lato lungo del recinto misurava 380 metri il cui centro è rappresentato dall’odierna via Nazionale. Pochi infatti sono a conoscenza del fatto che la circolarità dei ‘portici’ di Piazza della Repubblica, realizzati alla fine dell’Ottocento da Gaetano Koch, è dettata dalle fondazioni della grandiosa esedra posizionata lungo la parete di fondo del muro di cinta che proteggeva l’impianto termale. Questo luogo, per la sua forma semicircolare, era probabilmente destinato alle rappresentazioni teatrali, svago ideale nell’ozio romano, circondato da due biblioteche, i cui volumina vennero qui trasferiti dalla basilica Ulpia del foro Traiano, all’epoca già non utilizzata.
Dopo l’abbandono delle terme, cosi come per l’area del foro, per secoli le strutture vennero riutilizzate come abitazioni e fino al XVI secolo erano praticamente intatte. Nel 1560 l’area del tepidarium (il settore riservato ai bagni caldi) venne trasformata in una chiesa dedicata agli Angeli, ma nulla a che vedere con il progetto che papa Sisto IV fece realizzare da Michelangelo appena due anni dopo, restaurando le strutture romane di collegamento tra il tepidarium e la natatio (piscina d’acqua fredda), creando in questo modo una basilica i cui lavori proseguiranno quasi ininterrottamente fino alla metà del XVIII secolo, dove l’asse principale si costituisce partendo dal vestibolo d’ingresso fino al coro ricavato sopra i resti della natatio.
La nascita della basilica fu anche il risultato dell’insistenza di un caparbio sacerdote siciliano, Antonio del Duca, che ebbe anni prima la visione di un’intensa luce fuoriuscente dall’edificio termale con al centro la visione di sette martiri. Con la costruzione michelangiolesca il progetto venne portato a termine, poi ripreso e sostanzialmente modificato nel XVIII secolo da Luigi Vanvitelli. Questi modificò il sobrio e austero impianto apportando anche modifiche strutturali. Vennero infatti create file di colonne di raccordo tra il vestibolo e il transetto e tra questo e il presbiterio. Creò una facciata ‘a timpano’, rimossa nel 1911, ripristinando uno spazio ‘absidale’ con una circolarità che contrasta e si oppone a quella dei portici della piazza. I due ingressi vennero abbelliti nel 2006 sostituendo i due portali lignei con delle porte bronzee raffiguranti il Redentore e l’Annunciazione realizzate dallo scultore Igor Mitoraj. Nonostante il Vanvitelli abbia sostanzialmente rivoluzionato l’impianto michelangiolesco, adattando la basilica ai suoi tempi, ebbe il grande merito di trasformarla in una grande e pregevole pinacoteca, arricchita da opere provenienti dalla Basilica Vaticana.
Fornire un quadro esaustivo delle ricchezze della Basilica di S. Maria degli Angeli e dei Martiri in poche righe è impresa difficile. Osservare con il naso all’insù i molti capolavori dell’arte barocca romana è sensazione rara, ma appena si scorgono strutture romane salvate dal tempo e dai rifacimenti, sembra ancora di percepire la vita pulsante delle antiche terme romane che ci hanno lasciato segno tangibile ed indelebile della grandiosità di una civiltà che fine del III secolo manifestava gli ultimi sprazzi d’orgoglio prima della divisione dell’impero e di riflesso, l’inizio della fine.
* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PER LA XLIX GIORNATA MONDIALE
DI PREGHIERA PER LE VOCAZIONI.
29 APRILE 2012 – IV DOMENICA DI PASQUA
Tema: Le vocazioni dono della Carità di Dio
Cari fratelli e sorelle!
la XLIX Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, che sarà celebrata il 29 aprile 2012, quarta domenica di Pasqua, ci invita a riflettere sul tema: Le vocazioni dono della Carità di Dio.
La fonte di ogni dono perfetto è Dio Amore – Deus caritas est -: «chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4,16). La Sacra Scrittura narra la storia di questo legame originario tra Dio e l’umanità, che precede la stessa creazione. San Paolo, scrivendo ai cristiani della città di Efeso, eleva un inno di gratitudine e lode al Padre, il quale con infinita benevolenza dispone lungo i secoli l’attuarsi del suo universale disegno di salvezza, che è disegno d’amore. Nel Figlio Gesù – afferma l’Apostolo – Egli «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef 1,4). Noi siamo amati da Dio “prima” ancora di venire all’esistenza! Mosso esclusivamente dal suo amore incondizionato, Egli ci ha “creati dal nulla” (cfr 2Mac 7,28) per condurci alla piena comunione con Sé.
Preso da grande stupore davanti all’opera della provvidenza di Dio, il Salmista esclama: “Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?” (Sal 8,4-5). La verità profonda della nostra esistenza è, dunque, racchiusa in questo sorprendente mistero: ogni creatura, in particolare ogni persona umana, è frutto di un pensiero e di un atto di amore di Dio, amore immenso, fedele, eterno (cfr Ger 31,3). La scoperta di questa realtà è ciò che cambia veramente la nostra vita nel profondo. In una celebre pagina delle Confessioni, sant’Agostino esprime con grande intensità la sua scoperta di Dio somma bellezza e sommo amore, un Dio che gli era stato sempre vicino, ma al quale finalmente apriva la mente e il cuore per essere trasformato: “Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace” (X, 27.38). Con queste immagini, il Santo di Ippona cerca di descrivere il mistero ineffabile dell’incontro con Dio, con il Suo amore che trasforma tutta l’esistenza.
Si tratta di un amore senza riserve che ci precede, ci sostiene e ci chiama lungo il cammino della vita e ha la sua radice nell’assoluta gratuità di Dio. Riferendosi in particolare al ministero sacerdotale, il mio predecessore, il Beato Giovanni Paolo II, affermava che «ogni gesto ministeriale, mentre conduce ad amare e a servire la Chiesa, spinge a maturare sempre più nell’amore e nel servizio a Gesù Cristo Capo, Pastore e Sposo della Chiesa, un amore che si configura sempre come risposta a quello preveniente, libero e gratuito di Dio in Cristo» (Esort. ap. Pastores dabo vobis, 25). Ogni specifica vocazione nasce, infatti, dall’iniziativa di Dio, è dono della Carità di Dio! È Lui a compiere il “primo passo” e non a motivo di una particolare bontà riscontrata in noi, bensì in virtù della presenza del suo stesso amore «riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5,5).
In ogni tempo, alla sorgente della chiamata divina c’è l’iniziativa dell’amore infinito di Dio, che si manifesta pienamente in Gesù Cristo. Come ho scritto nella mia prima Enciclica Deus caritas est, «di fatto esiste una molteplice visibilità di Dio. Nella storia d’amore che la Bibbia ci racconta, Egli ci viene incontro, cerca di conquistarci – fino all’Ultima Cena, fino al Cuore trafitto sulla croce, fino alle apparizioni del Risorto e alle grandi opere mediante le quali Egli, attraverso l’azione degli Apostoli, ha guidato il cammino della Chiesa nascente. Anche nella successiva storia della Chiesa il Signore non è rimasto assente: sempre di nuovo ci viene incontro – attraverso uomini nei quali Egli traspare; attraverso la sua Parola, nei Sacramenti, specialmente nell’Eucaristia» (n. 17).
L’amore di Dio rimane per sempre, è fedele a se stesso, alla «parola data per mille generazioni» (Sal 105,8). Occorre, pertanto, riannunciare, specialmente alle nuove generazioni, la bellezza invitante di questo amore divino, che precede e accompagna: esso è la molla segreta, è la motivazione che non viene meno, anche nelle circostanze più difficili.
Cari fratelli e sorelle, è a questo amore che dobbiamo aprire la nostra vita, ed è alla perfezione dell’amore del Padre (cfr Mt 5,48) che ci chiama Gesù Cristo ogni giorno! La misura alta della vita cristiana consiste infatti nell’amare “come” Dio; si tratta di un amore che si manifesta nel dono totale di sé fedele e fecondo. Alla priora del monastero di Segovia, in pena per la drammatica situazione di sospensione in cui egli si trovava in quegli anni, San Giovanni della Croce risponde invitandola ad agire secondo Dio: «Non pensi ad altro se non che tutto è disposto da Dio; e dove non c’è amore, metta amore e raccoglierà amore» (Epistolario, 26).
Su questo terreno oblativo, nell’apertura all’amore di Dio e come frutto di questo amore, nascono e crescono tutte le vocazioni. Ed è attingendo a questa sorgente nella preghiera, con l’assidua frequentazione della Parola e dei Sacramenti, in particolar modo dell’Eucaristia, che è possibile vivere l’amore verso il prossimo nel quale si impara a scorgere il volto di Cristo Signore (cfr Mt 25,31-46). Per esprimere il legame inscindibile che intercorre tra questi “due amori” – l’amore verso Dio e quello verso il prossimo – scaturiti dalla medesima sorgente divina e ad essa orientati, il Papa San Gregorio Magno usa l’esempio della pianticella: «Nel terreno del nostro cuore [Dio] ha piantato prima la radice dell’amore verso di Lui e poi si è sviluppato, come chioma, l’amore fraterno» (Moralium Libri, sive expositio in Librum B. Job, Lib. VII, cap. 24, 28; PL 75, 780D).
Queste due espressioni dell’unico amore divino, devono essere vissute con particolare intensità e purezza di cuore da coloro che hanno deciso di intraprendere un cammino di discernimento vocazionale verso il ministero sacerdotale e la vita consacrata; ne costituiscono l’elemento qualificante. Infatti, l’amore per Dio, di cui i presbiteri e i religiosi diventano immagini visibili – seppure sempre imperfette – è la motivazione della risposta alla chiamata di speciale consacrazione al Signore attraverso l’Ordinazione presbiterale o la professione dei consigli evangelici. Il vigore della risposta di san Pietro al divino Maestro: «Tu lo sai che ti voglio bene» (Gv 21,15), è il segreto di una esistenza donata e vissuta in pienezza, e per questo ricolma di profonda gioia.
L’altra espressione concreta dell’amore, quello verso il prossimo, soprattutto verso i più bisognosi e sofferenti, è la spinta decisiva che fa del sacerdote e della persona consacrata un suscitatore di comunione tra la gente e un seminatore di speranza. Il rapporto dei consacrati, specialmente del sacerdote, con la comunità cristiana è vitale e diventa anche parte fondamentale del loro orizzonte affettivo. Al riguardo, il Santo Curato d’Ars amava ripetere: «Il prete non è prete per sé; lo è per voi» (Le curé d’Ars. Sa pensée – Son cœur, Foi Vivante, 1966, p. 100).
Cari Fratelli nell’episcopato, cari presbiteri, diaconi, consacrati e consacrate, catechisti, operatori pastorali e voi tutti impegnati nel campo dell’educazione delle nuove generazioni, vi esorto con viva sollecitudine a porvi in attento ascolto di quanti all’interno delle comunità parrocchiali, delle associazioni e dei movimenti avvertono il manifestarsi dei segni di una chiamata al sacerdozio o ad una speciale consacrazione. È importante che nella Chiesa si creino le condizioni favorevoli affinché possano sbocciare tanti “sì”, quali generose risposte alla chiamata di amore di Dio.
Sarà compito della pastorale vocazionale offrire i punti di orientamento per un fruttuoso percorso. Elemento centrale sarà l’amore alla Parola di Dio, coltivando una familiarità crescente con la Sacra Scrittura e una preghiera personale e comunitaria attenta e costante, per essere capaci di sentire la chiamata divina in mezzo a tante voci che riempiono la vita quotidiana. Ma soprattutto l’Eucaristia sia il “centro vitale” di ogni cammino vocazionale: è qui che l’amore di Dio ci tocca nel sacrificio di Cristo, espressione perfetta di amore, ed è qui che impariamo sempre di nuovo a vivere la “misura alta” dell’amore di Dio. Parola, preghiera ed Eucaristia sono il tesoro prezioso per comprendere la bellezza di una vita totalmente spesa per il Regno.
Auspico che le Chiese locali, nelle loro varie componenti, si facciano “luogo” di attento discernimento e di profonda verifica vocazionale, offrendo ai giovani e alle giovani un saggio e vigoroso accompagnamento spirituale. In questo modo la comunità cristiana diventa essa stessa manifestazione della Carità di Dio che custodisce in sé ogni chiamata. Tale dinamica, che risponde alle istanze del comandamento nuovo di Gesù, può trovare eloquente e singolare attuazione nelle famiglie cristiane, il cui amore è espressione dell’amore di Cristo che ha dato se stesso per la sua Chiesa (cfr Ef 5,32). Nelle famiglie, «comunità di vita e di amore» (Gaudium et spes, 48), le nuove generazioni possono fare mirabile esperienza di questo amore oblativo. Esse, infatti, non solo sono il luogo privilegiato della formazione umana e cristiana, ma possono rappresentare «il primo e il miglior seminario della vocazione alla vita di consacrazione al Regno di Dio» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio, 53), facendo riscoprire, proprio all’interno della famiglia, la bellezza e l’importanza del sacerdozio e della vita consacrata. I Pastori e tutti i fedeli laici sappiano sempre collaborare affinché nella Chiesa si moltiplichino queste «case e scuole di comunione» sul modello della Santa Famiglia di Nazareth, riflesso armonico sulla terra della vita della Santissima Trinità.
Con questi auspici, imparto di cuore la Benedizione Apostolica a voi, Venerati Fratelli nell’episcopato, ai sacerdoti, ai diaconi, ai religiosi, alle religiose e a tutti i fedeli laici, in particolare ai giovani e alle giovani che con cuore docile si pongono in ascolto della voce di Dio, pronti ad accoglierla con adesione generosa e fedele.
Dal Vaticano, 18 ottobre 2011
BENEDETTO XVI
http://www.zenit.org/article-30406?l=italian
ACCOGLIERE I BAMBINI SIGNIFICA ACCOGLIERE GESÙ CRISTO
Il cardinal Bagnasco inaugura la fondazione Flying Angels
del cardinal Angelo Bagnasco
ROMA, venerdì, 27 aprile 2012 (ZENIT.org) – Si è svolta ieri pomeriggio, giovedì 26, l’inaugurazione ufficiale di Flying Angels, fondazione la cui missione è l’assistenza a bambini con gravi patologie, provenienti da Paesi in difficoltà e da nuclei familiari bisognosi.
La fondazione è stata inaugurata dal cardinal Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana, nell’ambito di un incontro svoltosi a Roma, presso l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede.
Il Presidente della Cei ha preso spunto dal versetto del Vangelo di Matteo: “Chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me” per l’intervento che riportiamo di seguito.
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Sono lieto di partecipare a questo significativo incontro che sigla la nascita della Fondazione “Flyings Angels”, con lo scopo di trasferire rapidamente i bambini malati nei vari Ospedali pediatrici, tra i quali il noto Istituto “Gaslini” di Genova. L’iniziativa, promossa da persone genovesi, ha raccolto presto ampi consensi, ed esprime quelle “nuove frontiere della solidarietà” che trovano nel Vangelo la linfa generatrice.
Ringrazio cordialmente gli ideatori appassionati – in particolare il dott. Massimo Pollio e il Dott. Alessandro Garrone – e tutti quanti hanno generosamente aderito, e porgo il mio grato saluto al Sig. Ambasciatore dell’Italia presso la Santa Sede, S.E. Francesco Maria Greco, che ci ospita con convinta partecipazione in questa prestigiosa sede.
Mi è stato chiesto di offrire una riflessione alla luce della parola evangelica: “Chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me” (Mt 18,5). L’affermazione di Gesù suona come una esortazione e una promessa: l’invito ad avere uno sguardo di particolare attenzione verso i piccoli, e la promessa di farsi incontrare in ciascuno di loro, non solo come premio e gaudio, ma anche come presidio e tutela.
Questa iniziativa, che viaggerà sulle ali nei cieli del nostro Mediterraneo e oltre, incontrerà i bambini segnati dalla malattia, quindi dall’esperienza precoce della sofferenza, consapevoli che il dolore di un bimbo tocca in modo particolare anche i genitori e la famiglia intera. Pertanto, l’affermazione di Gesù, l’affronteremo da questa specifica prospettiva.
1. La prima parola che sale imperiosa alla mente è “perché?”. Perché la sofferenza umana, ma soprattutto perché la sofferenza dei bambini? In questa domanda, che l’umanità ha portato con sé attraverso i secoli, è implicita una considerazione: ciò che interpella maggiormente, a volte fino allo scandalo, è la sofferenza dei bambini più che degli adulti. Infatti, si parla del dolore degli innocenti, ritenendo che in qualche modo, tra il male morale che gli adulti compiono e la sofferenza, vi sia un qualche misterioso legame.
Ma per i piccoli innocenti questo non si può dare, proprio perché essi non sono responsabili di nessun male. Se il disordine morale porta sempre un qualche scompiglio nell’armonia delle cose – pensiamo ad esempio al disordine ecologico – l’esperienza, e prima ancora l’intuizione collettiva, ci fa percepire che in qualche modo la sofferenza appartiene a quel disordine, che c’è un legame spesso invisibile tra i diversi ordini: spirituale, etico, psicologico e fisico. E, questa disarmonia, è come l’aria inquinata che tutti respiriamo, vivendo in rapporti di reciproca relazione e costruendo tutti l’habitat umano e cosmico.
Ma se fin qui possiamo anche convenire, di fronte al bambino sofferente il filo della riflessione sembra spezzarsi, sentiamo salire la ribellione, e la domanda ritorna ad imporsi prepotente e ineludibile: perché? L’interrogativo lo poniamo a noi stessi, ne ragioniamo con gli altri, ma inevitabilmente sale fino a Dio.
E’ la vicenda emblematica di Giobbe, come di tante anime nella storia fino ai nostri giorni. Essa diventa ancora più acuta quando sono gli adulti che fanno soffrire i piccoli; quando addirittura – questa follia di dolore e di morte – viene scientificamente organizzata. Dov’è Dio? Ma Dio c’è, non è lontano. E’ accanto e risponde in un modo totalmente divino: dice un’ unica parola, compie un unico atto di vicinanza verso la sofferenza universale, il male radicale e i mali che affliggono l’uomo. E’ Gesù di Nazaret! E’ Lui la sua risposta; è Lui la sua assoluta prossimità all’uomo sofferente, fino a diventare nel piccolo una presenza nascosta ma certa, fino a fare del bambino afflitto un “sacramento” della sua presenza nel mondo.
Gesù! Dio rispetta fino in fondo la libertà dei figli, fino ad apparire impotente davanti all’uomo che sconvolge il suo originario disegno di bene, di armonia e di gioia. Ma non s’arrende. Essendo l’amore la verità di Dio, non s’impone agli uomini, ma neppure li abbandona a se stessi. Li raggiunge nella pienezza dei tempi con il suo cuore, Gesù; assume su di sé il male e la sofferenza del mondo; nel misterium iniquitatis c’entra da uomo e da Dio, ne veste i panni e li lava nel suo sangue.
Non toglie dal mondo il dolore e la morte fisica che Egli stesso ha portato nella sua carne, ma scende fino alla loro radice – il peccato – la scioglie nel fuoco dell’amore e così li apre alla luce, ne fa un altare, dona loro il significato di “ianua coeli”, di “fons rigenerationis”: “Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente. Accoglie con la sua sofferenza quell’interrogativo, che – posto molte volte dagli uomini – è stato espresso, in un certo senso, in modo radicale dal libro di Giobbe.
Cristo, tuttavia, non solo porta con sé la stessa domanda (…) ma porta anche il massimo della possibile risposta a questo interrogativo. La risposta emerge (…) non soltanto con il suo insegnamento, cioè con la Buona Novella, ma prima di tutto con la propria sofferenza (…). E questa è l’ultima, sintetica parola di questo insegnamento: “la parola della croce” (Giovanni Paolo II, Salvifici doloris, n.18).
Entrare con la propria sofferenza nella sofferenza di Cristo, significa dunque partecipare in modo unico alla redenzione dell’universo. Dio è amore, e l’amore genera e chiede libertà; proprio per questa ragione Gesù non ha tolto il dolore e la morte dal mondo, ma l’ha redenta abbracciandola Lui stesso, facendone luogo privilegiato del suo essere sulla terra, del suo incontro con gli uomini, perché il dolore non sia una strada senza uscita, di disperazione, ma diventi spazio di speranza.
2. Vorrei ora soffermarmi su due aspetti. Il primo è questo: la realtà del dolore tocca unicamente chi ne è afflitto e i suoi familiari? Forse si allarga ai vicini che si sentono in qualche modo coinvolti, oppure può avere un raggio più ampio? La questione ha significato perché – a ben vedere – riguarda il rapporto tra la persona e la società: ci chiediamo, infatti, se ciò che vive la singola persona è un fatto meramente privato oppure se ha a che fare anche con la collettività, se deve interessare anche a lei, se deve sentirsi coinvolta oppure solo spettatrice.
Anche su questo dilemma è accesa la luce di Cristo, il Verbo eterno, che rivela al mondo la realtà del Dio uno e trino. Com’è noto, l’unità e la trinità di Dio e l’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù, sono i due misteri principali della nostra fede; e come tali hanno qualcosa da dire alla vita dell’uomo, qualcosa non solo di importante ma di decisivo, altrimenti sarebbero irrilevanti e quindi non interesserebbero a nessuno. Ma così non è: il Logos, parlandoci di Dio, parla anche della nostra vita e del nostro destino.
Se l’uomo proviene da Dio creatore, porta l’impronta di Lui, ne è immagine e somiglianza. E questa impronta si manifesta in due modi: innanzitutto nel suo essere un soggetto unico e irripetibile (ognuno è fortemente se stesso), e poi nell’essere un soggetto aperto, in relazione, non solitario. (ognuno è sempre più di se stesso, è anche gli altri). Dio è uno e unico, ma non è solitudine: è “famiglia”, comunione. Per tale motivo, solo nella relazione con il Suo Creatore e con gli altri la persona raggiunge se stessa, compie la sua realizzazione terrena.
E’ questo il fondamento del rapporto tra l’uomo e la società. Per questo la società deve partecipare alla vita dei cittadini con rispetto e responsabilità, sia nelle gioie – ad esempio il matrimonio che fonda una nuova famiglia – come nelle difficoltà e nei dolori: ad esempio il lavoro, la casa, la malattia, la morte. Il rapporto però deve essere reciproco, nel senso che il soggetto ha verso la società dei diritti e dei doveri e così lo Stato.
Non è né coerente né corrispondente alla costituzione dell’uomo avere delle pretese nei confronti della società, e nello stesso tempo tenerla fuori totalmente invocando la privatezza assoluta. Una società di individui-monadi è solo un agglomerato, un coacervo di interessi, di sensibilità, di scopi individuali, dove la legge avrà il compito di tenere a bada i privati appetiti, anziché promuovere il bene comune.
Questo richiede sempre leggi giuste ed eque, ma esige anche un’anima che non dipende dalla norma, ma dal cuore: l’amore. Per questa ragione, il Santo Padre Benedetto XVI ricorda che nessuna buona legislazione potrà fare a meno della “caritas”, di quella legge non scritta che nella storia ha generato forme di dedizione, volontariato, eroismo. La vita di ogni persona è un bene per il soggetto, ma anche per la società intera, è un tesoro per tutti. La persona non appartiene alla società come la parte al tutto, poiché ognuno – per principio – ha un valore per se stesso e non può essere strumentalizzato da nessuno; ma nello stesso tempo, di fatto, ognuno si realizza con e grazie agli altri.
La visione di San Tommaso è estremamente chiara e traduce la dottrina della Chiesa cha nasce, al riguardo, proprio dal mistero trinitario. La stessa Costituzione italiana riconosce laicamente la natura relazionale dell’uomo e le sue conseguenze rispetto alla società. Dentro a questo quadro fondativo, dobbiamo esaminare il quesito sopra esposto: l’appuntamento inevitabile con il dolore tocca esclusivamente l’individuo oppure ha un’eco più ampia e quanto è ampia?
In forza di quanto sopra abbiamo accennato, possiamo rispondere che la sofferenza di uno tocca tutti, non solo l’interessato e i suoi cari, tocca la società intera nella sua legislazione e nei suoi apparati. Come a dire, in sintesi, che bisogna portarlo insieme. Si apre l’orizzonte della solidarietà tra uomini, famiglie, società e Stato.
Vorrei però mettere in evidenza un aspetto che potrebbe sfuggire ad un primo sguardo ma che ritengo fondamentale. Non si tratta solo di un dovere che gli altri hanno – ai diversi livelli di rapporto e di responsabilità - verso i sofferenti: quasi che tutto si riducesse ad un buon impianto organizzativo di intervento affinché il malato sia sostenuto e accompagnato. E’ in gioco anche un altro aspetto: il malato, colui che ha bisogno degli altri per uscire dalla difficoltà o semplicemtne per portarla, di per sé è una provocazione, è una chiamata affinché la società stessa assuma lui così com’è.
Se la società è fatta di persone, e senza di loro non sarebbe nulla, essa ha il dovere di accogliere se stessa nelle singole persone che la compongono e che la fanno essere, così come le persone sono, senza selezioni di intelligenza, di censo, di salute: in una parola di efficienza. Altrimenti non sarebbe una società umana, ma una struttura che discrimina in base alla legge dei più forti. Questa accoglienza operosa che cura e si prende cura non è frutto solo della giustizia, ma è animata dall’amore.
La presenza dell’altro che, con la sua indigenza si presenta a noi, è dunque un richiamo, una richiesta di amore: quindi stimola e rende possibile lo sprigionarsi di quella riserva di dedizione e sacrificio, di fedeltà e dono, che – se non ci fosse la sollecitazione concreta e urgente – resterebbe rinchiusa e forse addirittura sconosciuta a noi stessi. Di fronte alla sofferenza altrui non dobbiamo avere paura di non essere capaci di risposte: in ciascuno esistono, a volte latenti, potenzialità inesplorate e sorprendenti di bene.
La società nel suo insieme, e lo Stato nelle sue proprie forme, devono accettare la sfida: ciò significa non lasciare soli i malati e i loro familiari, consapevoli che l’unica risposta coerente è farsi carico in ogni modo e con ogni mezzo di un patrimonio unico e irrinunciabile che è la vita di ogni persona. Non ci sono scorciatoie, anche se spesso sono presentate e propagate col volto di una falsa pietà. La malattia non si risolve eliminando il malato, ma curando e accompagnando, sapendo che la malattia più temuta e il dolore più grande sono la solitudine e l’abbandono.
3. Il secondo aspetto, sul quale vorrei aggiungere un’ultima parola, riguarda il dolore fisico dei bambini. Se il sofferente domanda alla comunità intera il coinvolgimento con la propria esperienza in nome di quella solidarietà che qualifica una vera società, ci chiediamo ora se la sofferenza abbia qualcosa di ulteriore da dire quando tocca i bambini.
E’ certo che tutto ciò che infierisce sui piccoli suscita un supplemento di reazione emotiva, di slancio generoso per lanciarsi a lenire e sanare, per prendersi cura di chi, se abbandonato a se stesso, si spegnerebbe. Vorrei ricordare innanzitutto il particolarissimo coinvolgimento dei genitori, il dramma di papà e mamma, parenti, che affrontano qualunque sacrificio di salute, di lavoro, di famiglia, di vita sociale, pur di stare vicini ai loro bambini. Non di rado – come succede per il Gaslini – devono risiedere anche per mesi e, nel seguito, ritornare per anni.
La lontananza dagli affetti rende più grave ogni malattia e pesante ogni sofferenza. Se questo vale per tutti, a maggior ragione vale per i bambini. Urge così la necessità che i genitori non si sentano soli con il loro dramma, soli a portare la croce del figlio per il quale vorrebbero dare la loro stessa vita.
Portare insieme, camminare insieme: si apre lo sconfinato campo della tenerezza di tutti coloro che si accostano ai bambini e alle loro famiglie. E insieme, si apre il campo sempre crescente della scienza, della tecnologia e della ricerca. Ma è chiamato in causa anche il tema delle strutture di cura, dell’ organizzazione ispirata ai bambini e ai loro genitori. E’ in gioco, infine, l’impiego delle risorse e della continuità temporale delle cure e dell’assistenza. Emerge una serie di elementi che non sono separabili tra loro, pena la contraddizione tra le dichiarazioni di principio e i fatti, i sentimenti e le azioni.
Senza dubbio s’ impone un uso responsabile delle risorse, e questo non solo perché siamo in periodo di grave crisi; ma è anche evidente che se diventasse decisivo un approccio meramente finanziario alla salute, la società perderebbe quel livello di umanità che deve assolutamente avere per non diventare ingiusta e, peggio, disumana.
Che di fatto seleziona la stessa dignità della vita, lasciando andare alla deriva i più deboli e indifesi, che senza dubbio richiedono alla collettività un maggiore impegno di risorse. E quando una società s’incammina verso la trascuratezza della vita debole, o peggio verso la sua negazione seppure mascherata con belle parole e nobili intenzioni dichiarate, “finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi al servizio del vero bene dell’uomo.
Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n.28). Non dobbiamo dimenticare questo forte richiamo del Santo Padre, poiché, senza il reale rispetto dei valori “primi” – detti anche non negoziabili – è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe sostenere l’uomo nell’intero arco della sua esistenza, ma che in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità.
Ogni altro valore necessario al bene della persona, soprattutto se piccola e indifesa, germoglia infatti e prende linfa dai valori fondativi della vita, della famiglia naturale, della libertà educativa e di religione. La stessa coscienza universale ha ormai acquisito e sancito nelle Carte internazionali una elevata sensibilità verso i più poveri e i più deboli della famiglia umana.
E ci chiediamo: chi è più debole e fragile dei bambini che, abbandonati a se stessi, si spengono? E – permettete che approfondisca la categoria della fragilità – tra i bambini chi è più indifeso di coloro che non hanno ancora voce per affermare il proprio diritto? E che spesso non hanno ancora neppure un volto da opporre?…
Vittime invisibili, ma reali! E, per somiglianza, come non ricordare quanti la voce e la coscienza non l’hanno più, come i malati cosiddetti terminali? Non meritano forse l’attenzione non solo dei familiari e di tanti volontari che sono come il sale buono, ma anche della società intera e dello Stato? Un’attenzione che mai può arrogarsi il diritto di decidere chi merita ancora di vivere e chi, invece, deve essere abbandonato a se stesso. Se queste vite, che somigliano a dei lumini appena o ancora accesi, fossero spente, quanto buio scenderebbe sulla società intera!
E’ – lo comprendiamo – una questione di civiltà, quella vera, che si fa carico della fragilità anche con sacrifici non lievi, ma sempre possibili e doverosi. E’ in gioco il bene delle singole persone, a cominciare dai più piccoli; ma si tratta anche dell’umanità sociale di un popolo, un’umanità che non brandisce i problemi scaricando ogni soluzione dagli altri, ma porta il proprio contributo. Il nostro Paese questa responsabilità la sente viva nella propria anima e nella sua storia: ma è da non perdere, prestando ascolto a parole ammantate di libertà, e che rispondono invero a visioni oscure di efficienza, di mercato, e di comodo.
Grazie per il vostro ascolto e per l’amore operoso e appassionato che ha ispirato questa iniziativa per i bambini e per le loro famiglie: essa va ad arricchire il tesoro di solidarietà evangelica e umana che sostanzia anche oggi il nostro Paese.
OMELIA PER LA IV DOMENICA DI PASQUA B (2012) - DEL BUON PASTORE
VISITA ALLA PARROCCHIA ROMANA DI SANT’ANTONIO DA PADOVA
SANTA MESSA
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
6 maggio 1979
Carissimi fratelli e sorelle!
Oggi, in tutta la Chiesa Cattolica, si celebra la Giornata per le Vocazioni sacerdotali e religiose, e io sono lieto di celebrarla con voi, qui a Roma, nel centro della cristianità, e nella vostra parrocchia affidata ai Sacerdoti della Congregazione dei “Rogazionisti”, che cordialmente saluto.
L’odierna Domenica è stata dedicata a questa suprema ed essenziale necessità proprio perché la Liturgia ci presenta la figura di Gesù “Buon Pastore”.
Già l’Antico Testamento parla comunemente di Dio come Pastore di Israele, del popolo dell’alleanza, da lui scelto per realizzare il progetto della salvezza. Il Salmo 22 è un inno meraviglioso al Signore, Pastore delle nostre anime: “Il Signore è il mio Pastore; non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce; mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino… Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me…” (Sal 23,1-3).
I profeti Isaia, Geremia ed Ezechiele ritornano sovente sul tema del popolo “gregge del Signore”: “Ecco il vostro Dio!… Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna…” (Is 40,11) e soprattutto annunciano il Messia come Pastore che pascerà veramente le sue pecore e non le lascerà più sbandare: “Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore…” (Ez 34,23).
Nel Vangelo è familiare questa dolce e commovente figura del pastore, la quale anche se i tempi sono cambiati a causa dell’industrializzazione e dell’urbanesimo, mantiene sempre il suo fascino e la sua efficacia; e tutti ricordiamo la parabola tanto toccante e suggestiva del Buon Pastore che va in cerca della pecorella smarrita (Lc 15,3-7).
Nei primi tempi della Chiesa poi l’iconografia cristiana si servì grandemente e sviluppò questo tema del Buon Pastore la cui immagine appare spesso, dipinta o scolpita, nelle Catacombe, nei sarcofagi, nei battisteri. Tale iconografia, così interessante e devota, ci attesta che, fin dai primi tempi della Chiesa, Gesù “Buon Pastore” colpì e commosse gli animi dei credenti e dei non credenti e fu motivo di conversione, di impegno spirituale e di conforto. Ebbene, Gesù “Buon Pastore” è vivo e vero ancora oggi in mezzo a noi, in mezzo all’umanità intera, e a ciascuno vuol far sentire la sua voce e il suo amore.
1. Che cosa significa essere il Buon Pastore?
Gesù ce lo spiega con chiarezza convincente:
– il pastore conosce le sue pecore e le pecore conoscono lui: come è bello e consolante sapere che Gesù ci conosce uno per uno, che non siamo degli anonimi per lui, che il nostro nome (quel nome che è concordato dall’amore dei genitori e degli amici) lui lo conosce! Non siamo “massa”, “moltitudine”, per Gesù! Siamo “persone” singole con un valore eterno, sia come creature sia come persone redente! lui ci conosce! lui mi conosce, e mi ama e ha dato se stesso per me! (Gal 2,20);
– il pastore nutre le sue pecore e le conduce a pascoli freschi e abbondanti: Gesù è venuto per portare la vita alle anime, e darla in misura sovrabbondante. E la vita delle anime consiste essenzialmente in tre supreme realtà: la verità, la grazia, la gloria. Gesù è la verità, perché è il Verbo incarnato, è la “pietra angolare”, come diceva San Pietro ai capi del popolo e agli anziani, sulla quale solamente è possibile costruire l’edificio familiare, sociale, politico: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,11-12). Gesù ci dà la “grazia”, ossia la vita divina per mezzo del Battesimo e degli altri Sacramenti. Mediante la “grazia”, diventiamo partecipi della stessa natura trinitaria di Dio! Mistero immenso, ma di indicibile gioia e consolazione!
Gesù infine ci darà la gloria del paradiso, gloria totale ed eterna, dove saremo amati e ameremo, partecipi della stessa felicità di Dio che è Infinito anche nella gioia! “Ciò che saremo non è stato ancora rivelato – commenta San Giovanni –. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,3);
– il pastore difende le sue pecore; non è come il mercenario che quando arriva il lupo fugge, perché non gli importa nulla delle pecore. Purtroppo sappiamo bene che nel mondo ci sono sempre i mercenari che seminano l’odio, la malizia, il dubbio, il turbamento delle idee e dei sensi. Gesù invece, con la luce della sua parola divina e con la forza della sua presenza sacramentale ed ecclesiale, forma la nostra mente, fortifica la volontà, purifica i sentimenti e così difende e salva da tante dolorose e drammatiche esperienze;
– il pastore offre perfino la vita per le pecore: Gesù ha realizzato il progetto dell’amore divino mediante la sua morte in croce! egli si è offerto in croce per redimere l’uomo, ogni singolo uomo, creato dall’amore per l’eternità dell’Amore;
– il pastore infine sente il desiderio di ampliare il suo gregge: Gesù afferma chiaramente la sua ansia universale: “E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo ovile e un solo pastore” (Gv 10,16). Gesù vuole che tutti gli uomini lo conoscano, lo amino, lo seguano.
2. Gesù ha voluto nella Chiesa il sacerdote come “Buon Pastore”.
La parrocchia è la comunità cristiana, illuminata dall’esempio del Buon Pastore, attorno al proprio parroco e ai sacerdoti collaboratori.
Nella parrocchia il sacerdote continua la missione e il compito di Gesù; e perciò deve “pascere il gregge”, deve insegnare, istruire, dare la grazia, difendere le anime dall’errore e dal male, consolare, aiutare, convertire e soprattutto amare.
Perciò, con tutta l’ansia del mio cuore di Pastore della Chiesa universale vi dico: amate i vostri sacerdoti! Stimateli, ascoltateli, seguiteli! Pregate ogni giorno per loro. Non lasciateli soli né all’altare né nella vita quotidiana!
E non cessate mai di pregare per le vocazioni sacerdotali e per la perseveranza nell’impegno della consacrazione al Signore e alle anime. Ma soprattutto create nelle vostre famiglie un’atmosfera adatta allo sbocciare delle vocazioni. E voi genitori siate generosi nel corrispondere ai disegni di Dio sui vostri figli.
3. Infine, Gesù vuole che ognuno sia “buon pastore”.
Ogni cristiano, in forza del battesimo, è chiamato ad essere lui stesso un “buon pastore” nell’ambiente in cui vive. Voi genitori dovete esercitare le funzioni del Buon Pastore verso i vostri figli e anche voi, figli, dovete essere di edificazione con il vostro amore, la vostra obbedienza e soprattutto con la vostra fede coraggiosa e coerente. Anche le reciproche relazioni tra i coniugi devono essere improntate all’esempio del Buon Pastore, affinché sempre la vita familiare sia a quell’altezza di sentimenti e di ideali voluti dal Creatore, per cui la famiglia è stata definita “chiesa domestica”. Così pure nella scuola, sul lavoro, nei luoghi del gioco e del tempo libero, negli ospedali e dove si soffre, sempre ognuno cerchi di essere “buon pastore” come Gesù. Ma soprattutto siano “buoni pastori” nella società le persone consacrate a Dio: i religiosi, le suore, coloro che appartengono agli Istituti Secolari.Oggi e sempre dobbiamo pregare per tutte le vocazioni religiose, maschili e femminili, perché nella Chiesa questa testimonianza della vita religiosa sia sempre più numerosa, sempre più viva, sempre più intensa e sempre più efficace. Il mondo oggi ha più che mai bisogno di testimoni convinti e totalmente consacrati!
Carissimi fedeli, termino ricordando l’accorata invocazione di Gesù buon Pastore: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate il padrone della messe, affinché mandi molti operai alla sua messe” (Mt 9,37; Lc 10,2).
Volesse il cielo che la mia visita pastorale suscitasse nella vostra parrocchia qualche vocazione sacerdotale in mezzo a voi, giovani e fanciulli, innocenti e devoti; qualche vocazione religiosa e missionaria in mezzo a voi, fanciulle e giovinette, che sbocciate alla vita, piene di entusiasmo!
Raccomandiamo il desiderio a Maria Santissima, Madre di Gesù, Buon Pastore, Madre nostra e ispiratrice di ogni sacra Vocazione!
Invochiamo anche l’intercessione del Servo di Dio, il Canonico Annibale di Francia, fondatore della Congregazione dei “Rogazionisti”, la quale, col centro vocazionale “Rogate”, dedica la sua attività principalmente per la promozione delle vocazioni sacerdotali e religiose.
http://www.dellepiane.net/patristica%20B%20quar%20e%20pasqua.htm#2PDOML
La debolezza della fede di Tommaso, fonte di grazia per la Chiesa
Cardinale John Henry Newman nel diciannovesimo secolo
Non dobbiamo credere che san Tommaso fosse stato molto differente dagli altri apostoli. Tutti, più o meno, hanno perso fiducia nella promessa di Cristo quando l’hanno visto condotto per essere crocifisso. Quando è stato messo nel sepolcro, anche la loro speranza è stata seppellita con lui, e quando è stata annunciata loro la notizia della sua risurrezione, nessuno ha creduto. Quando è apparso a loro, “li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore” (Mc 16,14)… Tommaso si è convinto per ultimo perché ha visto Cristo per ultimo. Quel che è certo, é che non è stato un discepolo riservato e freddo: prima aveva espresso il desiderio di condividere il pericolo con il suo Maestro e di soffrire con lui: “Andiamo anche noi a morire con lui” (Gv 11,16). Tommaso ha spinto gli altri apostoli a rischiare la loro vita con il loro Maestro.
San Tommaso amava dunque il suo Maestro, come un vero apostolo, e si è messo al suo servizio. Ma quando l’ha visto crocifisso, la sua fede è venuta meno, per un tempo, come quella degli altri… e più degli altri. Si è isolato, rifiutando la testimonianza, non di una sola persona, ma dei dieci altri apostoli, di Maria Maddalena e delle altre donne… Sembra che avesse avuto bisogno di una prova visibile di ciò che è invisibile, di un segno infallibile venuto dal cielo, come la scala degli angeli di Giacobbe (Gen 28,12), per placare la sua angoscia che gli mostrasse la meta del cammino nel momento di incamminarsi. Un desiderio segreto di certezza lo abitava e questo desiderio si è risvegliato all’udire la notizia della risurrezione di Cristo.
Il nostro Salvatore consente alla sua debolezza, risponde al suo desiderio, ma gli dice: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno”. E così, tutti i suoi discepoli lo servono, pur nella loro debolezza, affinché egli la trasformi in parole di insegnamento e di conforto per la sua Chiesa.