Way to Calavary

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_f.htm#FESTEGGIAMO LA CROCE DI CRISTO
FESTEGGIAMO LA CROCE DI CRISTO
San Giovanni Crisostomo *
Dopo aver compiuto studi brillanti e aver passato parecchi anni nella solitudine, Giovanni Crisostomo fu ordinato sacerdote ad Antiochia, sua città natale, nel 386. Rivelò ben presto una eccezionale forza di eloquenza. Nominato vescovo di Costantinopoli nel 398, si dedicò a correggere gli abusi che si erano introdotti in questa Chiesa e a ravvivare la fede nei fedeli. Il suo messaggio, eco di tutta la Bibbia e soprattutto di san Paolo e del Vangelo, sembrò rivoluzionario a molti dei suoi contemporanei. Il coraggio con cui denunciò il lusso della corte imperiale, lo condusse per due volte in esilio. Confinato sul Mar Nero, nel Ponto, morì ormai esausto nel 407.
Oggi il Signore Gesù è sulla croce e noi facciamo festa: impariamo così che la croce è festa e solennità dello spirito. Un tempo la croce era nome di condanna, ora è diventata oggetto di venerazione; un tempo era simbolo di morte, oggi è principio di salvezza. La croce è diventata per noi la causa di innumerevoli benefici: eravamo divenuti nemici e ci ha riconciliati con Dio; eravamo separati e lontani da lui, e ci ha riavvicinati con il dono della sua amicizia. Essa è per noi la distruzione dell’odio, la sicurezza della pace, il tesoro che supera ogni bene.
Grazie alla croce non andiamo più errando nel deserto, perché conosciamo il vero cammino; non restiamo più fuori della casa del re, perché ne abbiamo trovato la porta; non temiamo più le frecce infuocate del demonio, perché abbiamo scoperto una sorgente d’acqua. Per mezzo suo non siamo più nella solitudine, perché abbiamo ritrovato lo sposo; non abbiamo più paura del lupo, perché abbiamo ormai il buon pastore. Egli stesso infatti ci dice: lo sono il buon pastore (Gv. 10,11). Grazie alla croce non ci spaventa più l’iniquità dei potenti, perché sediamo a fianco del re.
Ecco perché facciamo festa celebrando la memoria della croce. Anche san Paolo invita ad essere nella gioia a motivo di essa: Celebriamo questa festa non con il vecchio lievito… ma con azzimi di sincerità e di verità (1 Cor. 5, 8). E, spiegandone la ragione, continua: Cristo infatti, nostra Pasqua, è stato immolato per noi (1 Coro 5, 7). Capite perché Paolo ci esorta a ,celebrare la croce? Perché su di essa è stato immolato Cristo. Dove c’è il sacrificio, là si trova la remissione dei peccati, la riconciliazione con il Signore, la festa e la gioia. Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato per noi. Immolato, ma dove? Su un patibolo elevato da terra. L’altare di questo sacrificio è nuovo, perché nuovo e straordinario è il sacrificio stesso. Uno solo è infatti vittima e sacerdote: vittima secondo la carne, sacerdote secondo lo spirito…
Questo sacrificio è stato offerto fuori dalle mura della città per indicare che si tratta di un sacrificio universale, perché l’offerta è stata fatta per tutta la terra. Si tratta di un sacrificio di espiazione generale, e non particolare come quello dei Giudei. Infatti ai Giudei Dio aveva ordinato di celebrare il culto non in tutta la terra, ma di offrire sacrifici e preghiere in un solo luogo: la terra era infatti contaminata per il fumo, l’odore e tutte le altre impurità dei sacrifici pagani. Ma per noi, dopo che Cristo è venuto a purificare tutto l’universo, ogni luogo è diventato un luogo di preghiera. Per questo Paolo ci esorta audacemente a pregare dappertutto senza timore: Voglio che gli uomini preghino in ogni luogo, levando al cielo mani pure (1 Tim. 2,8). Capite ora fino a che punto è stato purificato l’universo? Dappertutto infatti possiamo levare al cielo mani pure, perché tutta la terra è diventata santa, più santa ancora dell’interno del tempio. Là si offrivano animali privi di ragione, qui si sacrificano vittime spirituali. E quanto più grande è il sacrificio, tanto più abbondante è la grazia che santifica. Per questo la croce è per noi una festa.
* Eis ton stauron kai eis ton lesten, Omelia 1: P.G. 49, 399-401.
http://www.zenit.org/article-30116?l=italian
SAN GREGORIO NISSENO E LA VIA ALLA CONOSCENZA DI DIO
La quarta predica di Quaresima di Padre Raniero Cantalamessa
CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 30 marzo 2012 (ZENIT.org) – Pubblichiamo il testo della quarta predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, tenuta questa mattina nella Cappella “Redemptoris Mater” in Vaticano.
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1. Le due dimensioni della fede
Sant’Agostino ha operato, a proposito della fede, una distinzione che è rimasta classica fino ad oggi: la distinzione tra le cose credute e l’atto di crederle: “Aliud sunt ea quae creduntur, aliud fides qua creduntur”[1], la fidea quae e la fides qua, come si dice in teologia. La prima è detta anche fede oggettiva, la seconda fede soggettiva. Tutta la riflessione cristiana sulla fede si svolge tra questi due poli.
Si delineano due orientamenti. Da una parte abbiamo quelli che accentuano l’importanza dell’intelletto nel credere e quindi la fede oggettiva, come assenso alle verità rivelate, dall’altra quelli che accentuano l’importanza della volontà e dell’affetto, quindi la fede soggettiva, il credere in qualcuno (“credere in”), piuttosto che credere qualcosa (“credere che”); da una parte quelli che accentuano le ragioni della mente e dall’altra quelli che, come Pascal, accentuano “le ragioni del cuore”.
In forme diverse questa oscillazione riappare a ogni tornante della storia della teologia: nel medio evo, nella diversa accentuazione tra teologia di san Tommaso e quella di san Bonaventura; al tempo della riforma tra la fede fiducia di Lutero e la fede cattolica informata dalla carità; più tardi tra la fede nei limiti della semplice ragione di Kant e la fede fondata sul sentimento di Schleiermacher e del romanticismo in genere; più vicino a noi tra la fede della teologia liberale e quella esistenziale di Bultmann, praticamente priva di ogni contenuto oggettivo.
La teologia cattolica contemporanea si sforza, come altre volte nel passato, di trovare il giusto equilibrio tra le due dimensioni della fede. Si è superata la fase in cui, per ragioni polemiche contingenti, tutta l’attenzione nei manuali di teologia aveva finito per concentrarsi sulla fede oggettiva (fides quae), cioè sull’insieme delle verità da credere. “L’atto di fede –si legge in un autorevole dizionario critico di teologia – nella corrente dominante di tutte le confessioni cristiane, appare oggi come la scoperta di un Tu divino.
L’apologetica della prova tende così a collocarsi dietro una pedagogia dell’esperienza spirituale che tende a iniziare a una esperienza cristiana, di cui si riconosce la possibilità inscritta a priori in ogni essere umano”[2]. In altre parole, più che far leva sulla forza di argomentazioni esterne alla persona, si cerca di aiutarla a trovare in se stessa la conferma della fede, cercando di risvegliare quella scintilla che c’è nel “cuore inquieto” di ogni uomo per il fatto di essere creato “a immagine di Dio”.
Ho fatto questa premessa perché ancora una volta essa ci permette di vedere l’apporto che i Padri possono dare al nostro sforzo per ridare alla fede della Chiesa il suo smalto e la sua forza d’urto. I più grandi tra di essi sono modelli insuperati di una fede che è oggettiva e soggettiva insieme, preoccupata, cioè, del contenuto della fede, cioè dell’ortodossia, ma al tempo stesso creduta e vissuta con tutto l’ardore del cuore.
L’Apostolo aveva proclamato: “corde creditur” (Rom 10,10), con il cuore si crede, e sappiamo che con la parola cuore, la Bibbia intende entrambe le dimensioni spirituali dell’uomo, la sua intelligenza e la sua volontà, il luogo simbolico della conoscenza e dell’amore. In questo senso i Padri sono un anello indispensabile per ritrovare la fede come la intende la Scrittura.
2. “Credo in un solo Dio”
In quest’ultima meditazione ci accostiamo ai Padri per rinnovare la nostra fede nell’oggetto primario di essa, in quello che si intende comunemente con la parola “credere” e in base a cui distinguiamo le persone tra credenti e non credenti: la fede nell’esistenza di Dio. Abbiamo riflettuto, nelle meditazioni precedenti, sulla divinità di Cristo, sullo Spirito Santo e sulla Trinità. Ma la fede nel Dio trino è lo stadio finale della fede, il “di più” su Dio rivelato da Cristo. Per giungere a questa pienezza bisogna prima aver creduto in Dio. Prima della fede nel Dio trino, c’è la fede nel Dio uno.
San Gregorio Nazianzeno ci ha ricordato la pedagogia di Dio nel rivelarsi a noi. Nell’Antico Testamento viene rivelato apertamente il Padre e velatamente il Figlio, nel Nuovo, apertamente il Figlio e velatamente lo Spirito Santo, ora, nella Chiesa, godiamo della piena luce della Trinità intera. Anche Gesù dice di astenersi dal dire agli apostoli quelle cose di cui essi non sono ancora in grado di “portare il peso” (Gv 16, 12). Dobbiamo seguire la stessa pedagogia anche noi nei confronti di coloro a cui vogliamo annunciare oggi la fede.
La Lettera agli Ebrei dice qual è il primo passo per accostarsi a Dio: “Chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano” (Eb 11,6). È questo il fondamento di tutto il resto che rimane tale anche dopo che si è creduto nella Trinità. Cerchiamo di vedere come i Padri ci possono essere di ispirazione da questo punto di vista, tenendo sempre presente che il nostro scopo principale non è apologetico, ma spirituale, orientato cioè a consolidare la nostra fede, più che a comunicarla ad altri. La guida che scegliamo per questo cammino è san Gregorio Nisseno.
Gregorio Nisseno (331- 394), fratello carnale di san Basilio, amico e contemporaneo di Gregorio Nazianzeno, è un Padre e dottore della Chiesa di cui si va scoprendo sempre più chiaramente la statura intellettuale e l’importanza decisiva nello sviluppo del pensiero cristiano. “Uno dei pensatori più potenti ed originali che conosca la storia della Chiesa” (L. Bouyer), “il fondatore di una nuova religiosità mistica ed estatica” (H. von Campenhausen).
I Padri non si sono trovati, come noi, a dover dimostrare l’esistenza di Dio, ma l’unicità di Dio; non hanno dovuto combattere l’ateismo, ma il politeismo. Vedremo, però, come la strada da essi tracciata per giungere alla conoscenza del Dio unico, è la stessa che può portare l’uomo d’oggi alla scoperta di Dio tout court.
Per valorizzare il contributo dei Padri e in particolare del Nisseno, è necessario sapere come si presentava il problema dell’unicità di Dio a loro tempo. A mano a mano che veniva esplicitandosi la dottrina della Trinità, i cristiani si videro esposti alla stessa accusa che essi avevano sempre rivolto ai pagani: quella di credere in più divinità. Ecco perché il credo dei cristiani che, in tute le sue varie redazioni, per tre secoli, era cominciato con le parole “Credo in Dio” (Credo in Deum), a partire dal IV secolo, registra una piccola ma significativa aggiunta che non sarà più omessa in seguito: “Credo in un solo Dio (Credo in unum Deum).
Non è necessario rifare qui il cammino che portò a questo risultato; possiamo partire senz’altro dalla conclusione di esso. Verso la fine del IV secolo si concluse la trasformazione del monoteismo dell’Antico Testamento nel monoteismo trinitario dei cristiani. I latini esprimevano i due aspetti del mistero con la formula “una sostanza e tre persone”, i greci con la formula “tre ipostasi, una sola ousia”. Dopo un serrato confronto, il processo si concluse apparentemente con un accordo totale tra le due teologie. “Si può concepire – esclamava il Nazianzeno – un accordo più pieno e dire più assolutamente di così la stessa cosa, anche se con parole diverse?”[3].
Una differenza in realtà rimaneva tra i due modi di esprimere il mistero; oggi si è soliti esprimerla così: i Greci e i latini, nella considerazione della Trinità, muovono da versanti opposti; i greci partono dalle persone divine, cioè dalla pluralità, per giungere all’unità di natura; i latini, viceversa, partono dall’unità della natura divina, per giungere alle tre persone. “Il latino considera la personalità come un modo della natura; il greco considera la natura come il contenuto della persona”.[4]
Io credo che la differenza si possa esprimere anche in altro modo. Entrambi, latini e greci, partono dall’unità di Dio; sia il simbolo greco che quello latino comincia dicendo: “Credo in un solo Dio” (Credo in unum Deum”!). Soltanto che quest’unità per i latini è concepita ancora come impersonale o pre-personale; è l’essenza di Dio che si specifica poi in Padre, Figlio e Spirito santo, senza, naturalmente, essere pensata come preesistente alle persone.
Per i greci, invece, si tratta di un’unità già personalizzata, perché per essi “l’unità è il Padre, dal quale e verso il quale si contano le altre persone”.[5] Il primo articolo del credo dei greci suona anch’esso “Credo in uno solo Dio Padre onnipotente” (Credo in unum Deum Patrem omnipotentem”), solo che “Padre onnipotente” qui non è staccato da ‘unum Deum’, come nel credo latino, ma fa un tutt’uno con esso: “Credo in un solo Dio che è il Padre onnipotente”.
Questo è il modo in cui concepiscono l’unicità di Dio tutti e tre i Cappadoci, ma più di tutti san Gregorio Nisseno. L’unità delle tre divine persone è data, per lui, dal fatto che il Figlio è perfettamente (sostanzialmente) “unito” al Padre, come lo è anche lo Spirito Santo attraverso il Figlio” [6]. È questa precisa tesi che fa difficoltà per i latini che vedono in essa il pericolo di subordinare il Figlio al Padre e lo Spirito all’uno e all’altro: “Il nome ‘Dio’ – scrive Agostino – indica tutta la Trinità, non il solo Padre”.[7]
Dio è il nome che diamo alla divinità quando la consideriamo non in se stessa, ma in relazione agli uomini e al mondo, perché tutto ciò che essa opera fuori di sé lo opera congiuntamente, come unica causa efficiente. La conclusione importante che possiamo trarre da tutto ciò è che la fede cristiana è anch’essa monoteistica; i cristiani non hanno rinunciato alla fede ebraica in un solo Dio, l’hanno piuttosto arricchita, dando un contenuto e un senso nuovo e meraviglioso a questa unità. Dio è uno, ma non solitario!
3. “Mosè entrò nella nube”
Perché scegliere san Gregorio Nisseno come guida alla conoscenza di questo Dio davanti al quale stiamo come creature dinanzi al Creatore? Il motivo è che questo Padre, per primo nel cristianesimo, ha tracciato una via alla conoscenza di Dio che si rivela particolarmente rispondente alla situazione religiosa dell’uomo d’oggi: la via alla conoscenza che passa attraverso…la non-conoscenza.
L’occasione gli fu offerta dalla polemica con l’eretico Eunomio, il rappresentante di un arianesimo radicale contro cui scrivono tutti i grandi Padri vissuti nell’ultimo scorcio del IV secolo: Basilio, Gregorio Nazianzeno, il Crisostomo e, più acutamente di tutti il Nisseno. Eunomio identificava l’essenza divina nell’essere “ingenerato” (agennetos). In questo senso, per lui essa è perfettamente conoscibile e non presenta alcun mistero; noi possiamo conoscere Dio non meno di quanto lui conosca se stesso.
I Padri reagirono in coro sostenendo la tesi della “inconoscibilità di Dio” nella sua realtà intima. Ma mentre gli altri si fermarono a una confutazione di Eunomio basata più che altro sulle parole della Bibbia, il Nisseno, si spinse oltre dimostrando che proprio il riconoscimento di questa inconoscibilità è la via alla vera conoscenza (theognosia) di Dio. Lo fa riprendendo un tema già abbozzato da Filone[8]: quello di Mosè che incontra Dio entrando nella nube. Il testo biblico è Esodo 24, 15-18 ed ecco il suo commento:
“La manifestazione di Dio avviene dapprima per Mosè nella luce; in seguito egli ha parlato con lui nella nube, infine divenuto più perfetto, Mosè contempla Dio nella tenebra. Il passaggio dall’oscurità alla luce è la prima separazione dalle idee false ed erronee su Dio; l’intelligenza più attenta alle cose nascoste, conducendo l’anima attraverso le cose visibili alla realtà invisibile, è come una nube che oscura tutto il sensibile e abitua l’anima alla contemplazione di quello che è nascosto; infine l’anima che ha camminato per queste vie verso le cose celesti, avendo lasciato le cose terrestri per quanto è possibile alla natura umana, penetra nel santuario della conoscenza divina (theognosia) circondata da ogni parte dalla tenebra divina” [9].
La vera conoscenza e la visione di Dio consistono “nel vedere che egli è invisibile, perché colui che l’anima cerca trascende ogni conoscenza, separato da ogni parte dalla sua incomprensibilità come da una tenebra” [10]. In questo stadio finale della conoscenza, di Dio non si ha un concetto, ma quello che il Nisseno, con un’espressione divenuta famosa, definisce “un certo sentimento di presenza” (aisthesin tina tes parusia) [11].
Un sentire non con i sensi del corpo, s’intende, ma con quelli interiori del cuore. Questo sentimento non è il superamento della fede, ma la sua attuazione più alta: “Con la fede – esclama la sposa del Cantico (Cant 3, 6) – ho trovato l’amato”. Non lo “comprende”; fa di meglio, lo “prende”! [12].
Queste idee del Nisseno hanno esercitato un influsso immenso nel pensiero cristiano posteriore, al punto da essere considerato il fondatore stesso della mistica cristiana. Attraverso Dionigi Areopagita e Massimo il Confessore che riprendono da lui questo tema, il suo influsso si estende dal mondo greco a quello latino. Il tema della conoscenza di Dio nella tenebra ritorna in Angela da Foligno, nell’autore della Nube della non-conoscenza, nel tema della “dotta ignoranza” di Nicola Cusano, in quella della “notte oscura” di Giovanni della Croce e in molti altri.
4. Chi umilia davvero la ragione?
Ora vorrei mostrare come l’intuizione di san Gregorio Nisseno può aiutare noi credenti ad approfondire la nostra fede e a indicare all’uomo moderno, divenuto scettico delle “cinque vie” della teologia tradizionale, un qualche sentiero che lo porti a Dio.
La novità introdotta dal Nisseno nel pensiero cristiano è che per incontrare Dio bisogna oltrepassare i confini della ragione. Siamo agli antipodi del progetto di Kant di mantenere la religione “dentro i confini della semplice ragione”. Nella cultura odierna secolarizzata si è andati al di là di Kant: questi in nome della ragione (almeno della ragion pratica) “postulava” l’esistenza di Dio, i razionalisti posteriori negano anche questo.
Si capisce da ciò quanto sia attuale il pensiero del Nisseno. Egli dimostra che la parte più alta della persona, la ragione, non è esclusa dalla ricerca di Dio; che non si è costretti a scegliere tra il seguire la fede e il seguire l’intelligenza. Entrando nella nube, cioè credendo, la persona umana non rinuncia alla propria razionalità, ma la trascende, che è una cosa ben diversa. Il credente dà fondo, per così dire, alle risorse della propria ragione, le permette di porre il suo atto più nobile, perché, come afferma Pascal, « l’atto supremo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano » [13] .
San Tommaso d’Aquino, considerato giustamente uno dei più strenui difensori delle esigenze della ragione, ha scritto: « Si dice che al termine della nostra conoscenza, Dio è conosciuto come lo Sconosciuto perché il nostro spirito è pervenuto all’estremo della sua conoscenza di Dio quando alla fine si accorge che la sua essenza è al di sopra di tutto ciò che può conoscere quaggiù » [14].
Nell’istante stesso che la ragione riconosce il suo limite, lo infrange e lo supera. Capisce che non può capire, “vede che non può vedere”, diceva il Nisseno, ma comprende anche che un Dio compreso non sarebbe più Dio. È ad opera della ragione che si produce questo riconoscimento, che è, perciò, un atto squisitamente razionale. Essa è, alla lettera, una « dotta ignoranza »[15] , un ignorare “a ragion veduta”.
Si deve dunque dire piuttosto il contrario, e cioè che pone un limite alla ragione e la umilia colui che non le riconosce questa capacità di trascendersi. « Finora -ha scritto Kierkegaard- si è sempre parlato così: ‘Il dire che non si può capire questa o quella cosa, non soddisfa la scienza che vuol capire’. Ecco lo sbaglio. Si deve dire proprio il contrario: qualora la scienza umana non voglia riconoscere che vi è qualcosa che essa non può capire, o -in modo ancor più preciso- qualcosa di cui essa con chiarezza può ‘capire che non può capire’, allora tutto è sconvolto. È pertanto un compito della conoscenza umana capire che vi sono e quali sono le cose che essa non può capire »[16] .
Ma di che genere di oscurità si tratta? Della nube che, a un certo punto, si frappose tra gli egiziani e gli ebrei è detto che essa era « tenebrosa per gli uni e luminosa per gli altri » (cf Es14, 20). Il mondo della fede è oscuro per chi lo guarda dal di fuori, ma è luminoso per chi vi entra dentro. Di una luminosità speciale, del cuore più che della mente. Nella Notte oscura di san Giovanni della Crocera (una variante del tema della nube del Nisseno!) l’anima dichiara di procedere per la sua nuova strada, « senza altra guida e luce, fuor di quella che in cuore mi riluce ». Una luce, però, che è « più sicura che il sol di mezzogiorno »[17].
La beata Angela da Foligno, una delle massime rappresentanti della visione di Dio nelle tenebre, dice che la Madre di Dio « fu tanto ineffabilmente unita alla somma e assolutamente indicibile Trinità, che in vita godette della gioia di cui godono i santi in cielo, la gioia dell’incomprensibilità (gaudium incomprehensibilitatis), perché capiscono che non si può capire »[18].
È un complemento stupendo alla dottrina di Gregorio di Nissa sulla inconoscibilità di Dio.Ci assicura che lungi dall’umiliarci e privarci di qualcosa, tale inconoscibilità è fatta per riempire l’uomo di entusiasmo e di gioia; ci dice che Dio è infinitamente più grande, più bello, più buono, di quanto riusciremo mai a pensare, e che è tutto questo per noi, perché la nostra gioia sia piena; perché non ci sfiori ninimamente il pensiero che potremmo annoiarci a passare l’eternità vicino a lui!
Un’altra idea del Nisseno che si rivela utile per un confronto con la cultura religiosa moderna è quella del “sentimento di una presenza” che egli pone al vertice della conoscenza di Dio. La fenomenologia religiosa ha messo in luce, con Rudolph Otto, l’esistenza di un dato primario, presente, in gradi diverse di purezza, in tutte le culture e in tutte le età che egli chiama “sentimento del numinoso”, cioè il senso, misto di terrore e di attrazione, che coglie improvvisamente l’essere umano di fronte al manifestarsi del soprannaturale o del soprarazionale[19].
Se la difesa della fede, secondo gli ultimi orientamenti dell’apologetica ricordati all’inizio, “si colloca dietro una pedagogia dell’esperienza spirituale, di cui si riconosce la possibilità inscritta a priori in ogni essere umano”, non possiamo trascurare l’aggancio che ci offre la moderna fenomenologia religiosa.
Certo, il “sentimento di una certa presenza” del Nisseno è cosa diversa dal confuso senso del numinoso e dal brivido del soprannaturale, ma le due cose hanno qualcosa in comune. Uno è l’inizio di un cammino verso la scoperta del Dio vivente, l’altro ne è il termine.
La conoscenza di Dio, diceva il Nisseno, comincia con un passaggio dalle tenebre alla luce e termina con un passaggio dalla luce alla tenebra. Non si giunge al secondo senza passare per il primo; in altre parole, senza essersi prima purificati dal peccato e dalle passioni. « Avrei già abbandonato i piaceri -dice il libertino- se avessi la fede. Ma io rispondo, dice Pascal: Avresti già la fede se avessi abbandonato i piaceri »[20].
L’immagine che, grazie a Gregorio Nisseno, ci ha accompagnati in tutta questa meditazione, è stata quella di Mosè che sale sul monte Sinai ed entra nella nube. L’avvicinarsi della Pasqua ci spinge ad andare oltre questa immagine, di passare dal simbolo alla realtà. C’è un altro monte dove un altro Mosè ha incontrato Dio “mentre si faceva buio su tutta la terra” (Mt 27,45). Sul monte Calvario l’uomo Dio, Gesù di Nazareth, ha unito per sempre l’uomo a Dio. Al termine del suo Itinerario della mente a Dio, San Bonaventura scrive:
“Dopo tutte queste considerazioni, ciò che rimane alla nostra mente è di elevarsi speculando non solo al di sopra di questo mondo sensibile, ma anche al di sopra di se stessa; e in questa ascesa Cristo è via e porta, Cristo è scala e veicolo…Colui che guarda attentamente questo propiziatorio fissandolo sospeso in croce, con fede, speranza e carità, con devozione, ammirazione, esultanza, venerazione, lode e giubilo, compie con lui la Pasqua, cioè il passaggio”[21].
Che il Signore Gesù ci conceda di fare questa bella e santa Pasqua con lui!
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[1] Agostino, De Trinitate XIII,2,5)
[2] J.-Y. Lacoste et N. Lossky, “Foi“ , in Dictionnaire critique de Théologie, Presses Universitaires de France 1998, p.479).
[3] Gregorio Nazianzeno, Oratio 42, 16 (PG 36, 477).
[4] Th. De Régnon, Études de théologie positive sur la Sainte Trinité, I, Paris 1892, 433.
[5] S. Gregorio Naz., Or. 42, 15 (PG 36, 476).
[6] Cf. Gregorio Nisseno, Contra Eunomium 1,42 (PG 45, 464)
[7] Agostino, De Trinitate, I, 6, l0; cf. anche IX, 1, 1 («credamus Patrern et Filium et Spiritum Sanctum esse unum Deum»).
[8] Cf. Filone Al., De posteritate, 5,15.
[9] Gregorio Niss., Omelia XI sul Cantico (PG 44, 1000 C-D).
[10] Vita di Mosè, II,163 (SCh 1bis, p. 210 s.).
[11] Omelia XI sul Cantico (PG 44, 1001B).
[12] Omelia VI sul Cantico (PG 44, 893 B-C).
[13] B.Pascal, Pensieri 267 Br.
[14] Tommaso, In Boet. Trin. Proem. q.1,a.2, ad 1.
[15] Agostino, Epistola 130,28 (PL 33, 505).
[16] S. Kierkegaard, Diario VIII A 11.
[17] Giovanni della Croce, Notte oscura, canto dell’anima, str.3-4.
[18] Il libro della beata Angela da Foligno, ed. Quaracchi 1985, p. 468.
[19] R. Otto, Il Sacro, Feltrinelli, Milano 1966.
[20] Pascal, Pensieri, 240 Br.
[21] Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, VII, 1-2 (Opere di S. Bonaventura, V,1, Roma, Città Nuova 1993, p. 564).
http://www.natidallospirito.com/2008/04/20/domenica-delle-palme-3-2/
Domenica delle Palme
Sant’Andrea di Creta
Disc. 9 sulle Palme; PG 97, 990-994
Venite, e saliamo insieme sul monte degli Ulivi, e andiamo incontro a Cristo che oggi ritorna da Betània e si avvicina spontaneamente alla venerabile e beata passione, per compiere il mistero della nostra salvezza.
Viene dì sua spontanea volontà verso Gerusalemme. E’ disceso dal cielo, per farei salire con sé lassù al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si posso nominare (Ef 1, 21). Venne, non per conquistare la gloria, non nello sfarzo e in forma spettacolare. Non contenderà, dice, né griderà, né si udrà la sua voce (Is 12, 2). Sarà mansueto e umile ed entrerà con un vestito dimesso e in condizione di povertà. Corriamo anche noi insieme con colui che si affretta verso la passione e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti al suo cammino rami d’olivo o di palme, tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in adorazione profonda dinanzi ai suoi piedi le nostre persone. Accogliamo così il Verbo di Dio che si avanza e riceviamo in noi stessi quel Dio che nessun luogo può contenere.
Egli, che è la mansuetudine stessa, gode di venire a noi mansueto. Sale, per cosi dire, sopra il crepuscolo del nostro orgoglio, o meglio entra nell’ombra della nostra infinita bassezza, si fa nostro intimo, diventa uno di noi per sollevarci e ricondurci a sé.
Egli salì verso oriente sopra i cieli dei cieli (cf Sal 67, 34), cioè al culmine della gloria e del suo trionfo divino, come principio e anticipazione della nostra condizione futura. Tuttavia non abbandona il genere umano perché lo ama, perché vuole sublimare con sé la natura dell’uomo, innalzandola dalla bassezza della terra verso la gloria. Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia, o meglio dì lui stesso. poiché quanti siamo stati battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (Gal 3, 27) e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese. Per il peccato eravamo rossi come scarlatto; in virtù del lavacro battesimale della salvezza, siamo arrivati al candore della lana per poter offrire al vincitore della morte non più semplici rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell’anima, anche noi ogni giorno, assieme con i fanciulli, acclamiamo santamente: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele.
Diciamo anche a noi a Cristo, diciamogli: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il Re d’Israele. Protendiamo verso di lui, a guisa di rami di palma, le ultime parole sulla croce. Seguiamolo in letizia non con i ramoscelli di ulivo, ma con la gioia fraterna che deriva dalla carità prestata a chi ne ha bisogno.
Stendiamo al suo passaggio a mo’ di mantelli i desideri del nostro cuore, perché volgendo i suoi passi verso la nostra dimora, diventi tutto nostro e gradisca l’offerta totale di noi e con noi rimanga. Ripetiamo a Si”on quel messaggio profetico: Abbi fiducia, figlia di Sion, non temere: Ecco, a te viene il tuo re, umile, cavalca su un’asina (Zc 9, 9).
Viene colui che è presente in ogni luogo e riempie ogni realtà; viene, dico, per compiere in te la salvezza di tutti. Viene colui il quale non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi (cf Lc 5, 32), per richiamarli dalla vie del peccato. Non temere. Vi è Dio in mezzo a te: non potrai vacillare (cf Sal 45, 6) accogli con le braccia aperte lui che nelle sue mani ha segnato la linea delle tue mura. Accogli lui che con le sue mani ha fondato le tue stesse fondamenta. Accogli colui che in sé accolse tutto ciò che è proprio della natura umana, fuorché il peccato. Rallegrati, o città-madre, Sion; non temere. Celebra la tua festa (Na 2, 1). Glorifica per la sua misericordia colui che in te viene a noi.
Ma anche tu, figlia di Gerusalemme, gioisci vivamente. Sciogli il tuo canto, muovi il passo alla danza. Con le parole di Isaia, quel sacro vate, esclamiamo: Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria dei Signore brilla sopra di te (Is 60, 1).
Ma quale luce? Quella che illumina ogni uomo (Gv 1, 9) che viene nel mondo. Voglio dire la luce eterna, la luce senza tempo e donata nel tempo: la luce che si è manifestata nella carne mentre per natura è occulta; la luce che avvolse i pastori e ai Magi fu guida nel cammino; la luce che era nel mondo fin dal principio e per la quale è stato fatto il mondo; e tuttavia il mondo non la conobbe; la luce che venne in casa sua, ma i suoi non l’hanno accolta.
La gloria del Signore accogli: quale gloria? Senza dubbio, la croce sulla quale Cristo è stato glorificato; lui, dico, che è lo splendore della gloria paterna come egli stesso ebbe ad asserire nell’imminenza della sua Passione: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui e lo glorificherà subito (Gv 13, 31-32). Il Signore chiama qui gloria il suo innalzamento sulla croce. La croce di Cristo, infatti, è gloria, ed è la sua esaltazione. Ecco perché egli dice: Io, quando sarò elevato, attirerò tutti a me (Gv 12, 32).
CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Piazza San Pietro
XXIV Giornata Mondiale della Gioventù
Domenica, 5 aprile 2009
Cari fratelli e sorelle,
cari giovani!
Insieme con una schiera crescente di pellegrini, Gesù era salito a Gerusalemme per la Pasqua. Nell’ultima tappa del cammino, vicino a Gerico, Egli aveva guarito il cieco Bartimeo che lo aveva invocato come Figlio di Davide, chiedendo pietà. Ora – essendo ormai capace di vedere – con gratitudine si era inserito nel gruppo dei pellegrini. Quando, alle porte di Gerusalemme, Gesù sale sopra un asino, l’animale simbolo della regalità davidica, tra i pellegrini scoppia spontaneamente la gioiosa certezza: È Lui, il Figlio di Davide! Salutano perciò Gesù con l’acclamazione messianica: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”, e aggiungono: “Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!” (Mc 11, 9s). Non sappiamo che cosa precisamente i pellegrini entusiasti immaginavano fosse il Regno di Davide che viene. Ma noi, abbiamo veramente compreso il messaggio di Gesù, Figlio di Davide? Abbiamo capito che cosa sia il Regno di cui Egli ha parlato nell’interrogatorio davanti a Pilato? Comprendiamo che cosa significhi che questo Regno non è di questo mondo? O desidereremmo forse che invece sia di questo mondo?
San Giovanni, nel suo Vangelo, dopo il racconto dell’ingresso in Gerusalemme, riporta una serie di parole di Gesù, nelle quali Egli spiega l’essenziale di questo nuovo genere di Regno. A una prima lettura di questi testi possiamo distinguere tre immagini diverse del Regno nelle quali, sempre in modo diverso, si rispecchia lo stesso mistero. Giovanni racconta innanzitutto che, tra i pellegrini che durante la festa “volevano adorare Dio”, c’erano anche alcuni Greci (cfr 12, 20). Facciamo attenzione al fatto che il vero obiettivo di questi pellegrini era di adorare Dio. Questo corrisponde perfettamente a ciò che Gesù dice in occasione della purificazione del Tempio: “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni” (Mc 11, 17). Il vero scopo del pellegrinaggio deve essere quello di incontrare Dio; di adorarlo e così mettere nell’ordine giusto la relazione di fondo della nostra vita. I Greci sono persone alla ricerca di Dio, con la loro vita sono in cammino verso Dio. Ora, per il tramite di due Apostoli di lingua greca, Filippo ed Andrea, fanno giungere al Signore la richiesta: “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12, 21). Una parola grande. Cari amici, per questo ci siamo riuniti qui: Vogliamo vedere Gesù. A questo scopo, l’anno scorso, migliaia di giovani sono andati a Sydney. Certo, avranno avuto molteplici attese per questo pellegrinaggio. Ma l’obiettivo essenziale era questo: Vogliamo vedere Gesù.
Riguardo a questa richiesta, in quell’ora che cosa ha detto e fatto Gesù? Dal Vangelo non risulta chiaramente se ci sia stato un incontro tra quei Greci e Gesù. Lo sguardo di Gesù va molto più in là. Il nucleo della sua risposta alla richiesta di quelle persone è: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12, 24). Ciò significa: non ha importanza ora un colloquio più o meno breve con alcune poche persone, che poi ritornano a casa. Come chicco di grano morto e risorto verrò, in modo totalmente nuovo e al di là dei limiti del momento, incontro al mondo e ai Greci. Mediante la risurrezione Gesù oltrepassa i limiti dello spazio e del tempo. Come Risorto, Egli è in cammino verso la vastità del mondo e della storia. Sì, come Risorto va dai Greci e parla con loro, si mostra loro così che essi, i lontani, diventano vicini e proprio nella loro lingua, nella loro cultura, la sua parola viene portata avanti in modo nuovo e compresa in modo nuovo – viene il suo Regno. Possiamo così riconoscere due caratteristiche essenziali di questo Regno. La prima è che questo Regno passa attraverso la croce. Poiché Gesù si dona totalmente, può come Risorto appartenere a tutti e rendersi presente a tutti. Nella santa Eucaristia riceviamo il frutto del chicco di grano morto, la moltiplicazione dei pani che prosegue sino alla fine del mondo e in tutti i tempi. La seconda caratteristica dice: il suo Regno è universale. Si adempie l’antica speranza di Israele: questa regalità di Davide non conosce più frontiere. Si estende “da mare a mare” – come dice il profeta Zaccaria (9, 10) – cioè abbraccia tutto il mondo. Questo, però, è possibile solo perché non è una regalità di un potere politico, ma si basa unicamente sulla libera adesione dell’amore – un amore che, da parte sua, risponde all’amore di Gesù Cristo che si è donato per tutti. Penso che dobbiamo imparare sempre di nuovo ambedue le cose – innanzitutto l’universalità, la cattolicità. Essa significa che nessuno può porre come assoluto se stesso, la sua cultura e il suo mondo. Ciò richiede che tutti ci accogliamo a vicenda, rinunciando a qualcosa di nostro. L’universalità include il mistero della croce – il superamento di se stessi, l’obbedienza verso la comune parola di Gesù Cristo nella comune Chiesa. L’universalità è sempre un superamento di se stessi, rinuncia a qualcosa di personale. L’universalità e la croce vanno insieme. Solo così si crea la pace.
La parola circa il chicco di grano morto fa ancora parte della risposta di Gesù ai Greci, è la sua risposta. Poi, però, Egli formula ancora una volta la legge fondamentale dell’esistenza umana: “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12, 25). Chi vuole avere la sua vita per sé, vivere solo per se stesso, stringere tutto a sé e sfruttarne tutte le possibilità – proprio costui perde la vita. Essa diventa noiosa e vuota. Soltanto nell’abbandono di se stessi, soltanto nel dono disinteressato dell’io in favore del tu, soltanto nel “sì” alla vita più grande, propria di Dio, anche la nostra vita diventa ampia e grande. Così questo principio fondamentale, che il Signore stabilisce, in ultima analisi è semplicemente identico al principio dell’amore. L’amore, infatti, significa lasciare se stessi, donarsi, non voler possedere se stessi, ma diventare liberi da sé: non ripiegarsi su se stessi – cosa sarà di me –, ma guardare avanti, verso l’altro – verso Dio e verso gli uomini che Egli mi manda. E questo principio dell’amore, che definisce il cammino dell’uomo, è ancora una volta identico al mistero della croce, al mistero di morte e risurrezione che incontriamo in Cristo. Cari amici, è forse relativamente facile accettare questo come grande visione fondamentale della vita. Nella realtà concreta, però, non si tratta di riconoscere semplicemente un principio, ma di vivere la sua verità, la verità della croce e della risurrezione. E per questo, di nuovo, non basta un’unica grande decisione. È sicuramente importante osare una volta la grande decisione fondamentale, osare il grande “sì”, che il Signore ci chiede in un certo momento della nostra vita. Ma il grande “sì” del momento decisivo nella nostra vita – il “sì” alla verità che il Signore ci mette davanti – deve poi essere quotidianamente riconquistato nelle situazioni di tutti i giorni in cui, sempre di nuovo, dobbiamo abbandonare il nostro io, metterci a disposizione, quando in fondo vorremmo invece aggrapparci al nostro io. Ad una vita retta appartiene anche il sacrificio, la rinuncia. Chi promette una vita senza questo sempre nuovo dono di sé, inganna la gente. Non esiste una vita riuscita senza sacrificio. Se getto uno sguardo retrospettivo sulla mia vita personale, devo dire che proprio i momenti in cui ho detto “sì” ad una rinuncia sono stati i momenti grandi ed importanti della mia vita.
Infine, san Giovanni ha accolto, nella sua composizione delle parole del Signore per la “Domenica delle Palme”, anche una forma modificata della preghiera di Gesù nell’Orto degli Ulivi. C’è innanzitutto l’affermazione: “L’anima mia è turbata” (12, 27). Qui appare lo spavento di Gesù, illustrato ampiamente dagli altri tre evangelisti – il suo spavento davanti al potere della morte, davanti a tutto l’abisso del male che Egli vede e nel quale deve discendere. Il Signore soffre le nostre angosce insieme con noi, ci accompagna attraverso l’ultima angoscia fino alla luce. Poi seguono in Giovanni le due domande di Gesù. La prima, espressa solo condizionatamente: “Che cosa dirò – Padre, salvami da quest’ora?” (12, 27). Come essere umano, anche Gesù si sente spinto a chiedere che gli sia risparmiato il terrore della passione. Anche noi possiamo pregare in questo modo. Anche noi possiamo lamentarci davanti al Signore come Giobbe, presentargli tutte le nostre domande che, di fronte all’ingiustizia nel mondo e alla difficoltà del nostro stesso io, emergono in noi. Davanti a Lui non dobbiamo rifugiarci in pie frasi, in un mondo fittizio. Pregare significa sempre anche lottare con Dio, e come Giacobbe possiamo dirGli: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!” (Gen 32, 27). Ma poi viene la seconda domanda di Gesù: “Glorifica il tuo nome!” (Gv 12, 28). Nei sinottici, questa domanda suona così: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22, 42). Alla fine la gloria di Dio, la sua signoria, la sua volontà è sempre più importante e più vera che il mio pensiero e la mia volontà. Ed è questo l’essenziale nella nostra preghiera e nella nostra vita: apprendere questo ordine giusto della realtà, accettarlo intimamente; confidare in Dio e credere che Egli sta facendo la cosa giusta; che la sua volontà è la verità e l’amore; che la mia vita diventa buona se imparo ad aderire a quest’ordine. Vita, morte e risurrezione di Gesù sono per noi la garanzia che possiamo veramente fidarci di Dio. È in questo modo che si realizza il suo Regno.
Cari amici! Alla fine di questa Liturgia, i giovani dell’Australia consegneranno la Croce della Giornata Mondiale della Gioventù ai loro coetanei della Spagna. La Croce è in cammino da un lato del mondo all’altro, da mare a mare. E noi la accompagniamo. Progrediamo con essa sulla sua strada e troviamo così la nostra strada. Quando tocchiamo la Croce, anzi, quando la portiamo, tocchiamo il mistero di Dio, il mistero di Gesù Cristo. Il mistero che Dio ha tanto amato il mondo – noi – da dare il Figlio unigenito per noi (cfr Gv 3, 16). Tocchiamo il mistero meraviglioso dell’amore di Dio, l’unica verità realmente redentrice. Ma tocchiamo anche la legge fondamentale, la norma costitutiva della nostra vita, cioè il fatto che senza il “sì” alla Croce, senza il camminare in comunione con Cristo giorno per giorno, la vita non può riuscire. Quanto più per amore della grande verità e del grande amore – per amore della verità e dell’amore di Dio – possiamo fare anche qualche rinuncia, tanto più grande e più ricca diventa la vita. Chi vuole riservare la sua vita per se stesso, la perde. Chi dona la sua vita – quotidianamente nei piccoli gesti, che fanno parte della grande decisione – questi la trova. È questa la verità esigente, ma anche profondamente bella e liberatrice, nella quale vogliamo passo passo entrare durante il cammino della Croce attraverso i continenti. Voglia il Signore benedire questo cammino. Amen.
http://www.certosini.info/preghiera/medit/guillerand/guillerand_25.htm
Dinanzi a Dio: La Preghiera
Di A. Guillerand, monaco certosino
CAPITOLO XXV
LE PREGHIERE STERILI
Non vi sono delle preghiere sterili, non vi sono che delle anime inaridite. La preghiera dell’anima inaridita non è una preghiera; non è una elevazione verso Dio. Tale anima non è dinanzi a Dio, alla sua altezza. Essa resta in se stessa… e vi muore. Solamente le labbra mormorano delle parole che potrebbero essere delle preghiere, o le braccia si tendono in gesti che somigliano a un movimento verso il cielo. Ma nulla, nelle profondità spirituali, accompagna queste manifestazioni esteriori, che mentono. » Le loro labbra mi onorano – dice Gesù – ma il loro cuore è lontano da me! « . Gesù nulla detesta più di questa menzogna. Dio, in un altro libro della Scrittura, la definisce » assolutamente esecrabile « . E io lo comprendo! Tale menzogna spezza l’unità umana. Essa dà al corpo e all’anima, sostanzialmente uniti, due movimenti divergenti. Ci abbassa al di sotto di noi stessi. Sant’Agostino la paragona al muggito delle bestie. E si può andare più lontano, perché il muggito è il grido di un individuo inferiore; la preghiera che mente è invece la parola di un essere diviso e ridotto in polvere, non è la parola di un uomo.
Né vale molto di più la preghiera dell’orgoglio: è quella del fariseo al tempio. Egli non si pone dinanzi a Dio ma dinanzi a se stesso; e domanda a Dio di fare altrettanto. La condanna del Maestro, dal cuore dolce e umile, è nota: essa dice il risultato di questo atteggiamento in una formula schiacciante, che i commentatori dell’Evangelo non hanno forse messo abbastanza in rilievo: » Questi se ne andò perdonato, e l’altro no » (Lc 18,14). La preghiera del fariseo era una forma di paragone in cui il fariseo si attribuiva il primo posto sulla terra, e anche, sembra, in cielo. Il confronto con il pubblicano, solo rappresentante presente del genere umano, era un contrasto che faceva risaltare la sua superiorità. Gesù, riprendendo questo confronto, lo capovolge, e con una sola parola ristabilisce la verità. Ma quale parola! » L’altro! « . Egli non lo confronta; non dice » quello « , né » il secondo « . Gesù gli dà il nome che si merita propriamente: » l’altro « , un pronome indeterminato.
Il fariseo appartiene ancora alla categoria umana nella quale prendeva il primo posto. Ma perde ogni carattere, ogni determinazione; si perde nella massa amorfa. Resta un individuo, non è più una persona. Cessa di essere in rapporto con la Personalità infinita, nella quale ogni personalità umana si compie. Resta separato da essa; il peccato che li divide e del quale veniva a chiedere il perdono nel tempio, continua ad avvilupparlo con i suoi legami, che lo immobilizzano in se stesso; legami che ha appena finito di rinserrare ancor di più. Il fariseo non è più che » l’altro « , colui che non ha saputo costituirsi liberandosi di se stesso e che non ha saputo entrare nella Verità di Dio. » Tu credi di essere ricco e senza bisogno – dice Gesù nell’Apocalisse – e non dubiti che sei misero, miserabile, spoglio di tutto, senza luce e tutto nudo » (Ap 3,17).
L’umiltà non è tuttavia la sfiducia. Essa piuttosto vi si oppone. L’umiltà è un sì felice miscuglio che si fa molta fatica a definirla con precisione. La migliore definizione è quella che la eguaglia alla verità. L’umiltà è un’equazione; è il giusto rapporto percepito, accettato, amato, con ciò che è. Ciò che è, è che Dio è l’Essere stesso e che noi non siamo che in Lui. L’anima che si mantiene a questo posto, dinanzi all’Essere, onde Egli si comunichi a lei e la faccia essere, è nella verità… è umile.
Dopo la colpa, la verità è che noi non siamo più dinanzi a Dio, è che ci siamo distolti da Lui, e che solo Lui può ri-volgerci verso di Sé. La preghiera dell’anima diffidente non dice che la metà di questa verità; essa dimentica la seconda, così importante e dolce: » Quest’anima – dice san Giacomo – è come il flutto del mare, in perpetuo movimento » (Gc 1,6). Dio non può fissare in lei i propri tratti; tale anima non è lo specchio trasparente nel quale Dio possa riprodurre la propria Immagine e generarla. In una parola, ai piedi del Signore, quando si prega, bisogna essere figli e dire » Padre nostro « .
http://www.zenit.org/article-30082?l=italian
« SIATE SEMPRE LIETI NEL SIGNORE! »
Il messaggio del Papa per la XXVII Giornata Mondiale della Gioventù (1° aprile 2012)
CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 27 marzo 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo di seguito il testo del Messaggio di Papa Benedetto XVI per la XXVII Giornata Mondiale della Gioventù, in programma domenica 1° aprile a livello diocesano.
***
Cari giovani,
sono lieto di rivolgermi nuovamente a voi, in occasione della XXVII Giornata Mondiale della Gioventù. Il ricordo dell’incontro di Madrid, lo scorso agosto, resta ben presente nel mio cuore. E’ stato uno straordinario momento di grazia, nel corso del quale il Signore ha benedetto i giovani presenti, venuti dal mondo intero. Rendo grazie a Dio per i tanti frutti che ha fatto nascere in quelle giornate e che in futuro non mancheranno di moltiplicarsi per i giovani e per le comunità a cui appartengono. Adesso siamo già orientati verso il prossimo appuntamento a Rio de Janeiro nel 2013, che avrà come tema «Andate e fate discepoli tutti i popoli!» (cfr Mt28,19).
Quest’anno, il tema della Giornata Mondiale della Gioventù ci è dato da un’esortazione della Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi: «Siate sempre lieti nel Signore!» (4,4). La gioia, in effetti, è un elemento centrale dell’esperienza cristiana. Anche durante ogni Giornata Mondiale della Gioventù facciamo esperienza di una gioia intensa, la gioia della comunione, la gioia di essere cristiani, la gioia della fede. È una delle caratteristiche di questi incontri. E vediamo la grande forza attrattiva che essa ha: in un mondo spesso segnato da tristezza e inquietudini, è una testimonianza importante della bellezza e dell’affidabilità della fede cristiana.
La Chiesa ha la vocazione di portare al mondo la gioia, una gioia autentica e duratura, quella che gli angeli hanno annunciato ai pastori di Betlemme nella notte della nascita di Gesù (cfr Lc 2,10): Dio non ha solo parlato, non ha solo compiuto segni prodigiosi nella storia dell’umanità, Dio si è fatto così vicino da farsi uno di noi e percorrere le tappe dell’intera vita dell’uomo. Nel difficile contesto attuale, tanti giovani intorno a voi hanno un immenso bisogno di sentire che il messaggio cristiano è un messaggio di gioia e di speranza! Vorrei riflettere con voi allora su questa gioia, sulle strade per trovarla, affinché possiate viverla sempre più in profondità ed esserne messaggeri tra coloro che vi circondano.
1. Il nostro cuore è fatto per la gioia
L’aspirazione alla gioia è impressa nell’intimo dell’essere umano. Al di là delle soddisfazioni immediate e passeggere, il nostro cuore cerca la gioia profonda, piena e duratura, che possa dare «sapore» all’esistenza. E ciò vale soprattutto per voi, perché la giovinezza è un periodo di continua scoperta della vita, del mondo, degli altri e di se stessi. È un tempo di apertura verso il futuro, in cui si manifestano i grandi desideri di felicità, di amicizia, di condivisione e di verità, in cui si è mossi da ideali e si concepiscono progetti.
E ogni giorno sono tante le gioie semplici che il Signore ci offre: la gioia di vivere, la gioia di fronte alla bellezza della natura, la gioia di un lavoro ben fatto, la gioia del servizio, la gioia dell’amore sincero e puro. E se guardiamo con attenzione, esistono tanti altri motivi di gioia: i bei momenti della vita familiare, l’amicizia condivisa, la scoperta delle proprie capacità personali e il raggiungimento di buoni risultati, l’apprezzamento da parte degli altri, la possibilità di esprimersi e di sentirsi capiti, la sensazione di essere utili al prossimo. E poi l’acquisizione di nuove conoscenze mediante gli studi, la scoperta di nuove dimensioni attraverso viaggi e incontri, la possibilità di fare progetti per il futuro. Ma anche l’esperienza di leggere un’opera letteraria, di ammirare un capolavoro dell’arte, di ascoltare e suonare musica o di vedere un film possono produrre in noi delle vere e proprie gioie.
Ogni giorno, però, ci scontriamo anche con tante difficoltà e nel cuore vi sono preoccupazioni per il futuro, al punto che ci possiamo chiedere se la gioia piena e duratura alla quale aspiriamo non sia forse un’illusione e una fuga dalla realtà. Sono molti i giovani che si interrogano: è veramente possibile la gioia piena al giorno d’oggi? E questa ricerca percorre varie strade, alcune delle quali si rivelano sbagliate, o perlomeno pericolose. Ma come distinguere le gioie veramente durature dai piaceri immediati e ingannevoli? Come trovare la vera gioia nella vita, quella che dura e non ci abbandona anche nei momenti difficili?
2. Dio è la fonte della vera gioia
In realtà le gioie autentiche, quelle piccole del quotidiano o quelle grandi della vita, trovano tutte origine in Dio, anche se non appare a prima vista, perché Dio è comunione di amore eterno, è gioia infinita che non rimane chiusa in se stessa, ma si espande in quelli che Egli ama e che lo amano. Dio ci ha creati a sua immagine per amore e per riversare su noi questo suo amore, per colmarci della sua presenza e della sua grazia. Dio vuole renderci partecipi della sua gioia, divina ed eterna, facendoci scoprire che il valore e il senso profondo della nostra vita sta nell’essere accettato, accolto e amato da Lui, e non con un’accoglienza fragile come può essere quella umana, ma con un’accoglienza incondizionata come è quella divina: io sono voluto, ho un posto nel mondo e nella storia, sono amato personalmente da Dio. E se Dio mi accetta, mi ama e io ne divento sicuro, so in modo chiaro e certo che è bene che io ci sia, che esista.
Questo amore infinito di Dio per ciascuno di noi si manifesta in modo pieno in Gesù Cristo. In Lui si trova la gioia che cerchiamo. Nel Vangelo vediamo come gli eventi che segnano gli inizi della vita di Gesù siano caratterizzati dalla gioia. Quando l’arcangelo Gabriele annuncia alla Vergine Maria che sarà madre del Salvatore, inizia con questa parola: «Rallegrati!» (Lc 1,28). Alla nascita di Gesù, l’Angelo del Signore dice ai pastori: «Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,11). E i Magi che cercavano il bambino, «al vedere la stella, provarono una gioia grandissima» (Mt 2,10). Il motivo di questa gioia è dunque la vicinanza di Dio, che si è fatto uno di noi. Ed è questo che intendeva san Paolo quando scriveva ai cristiani di Filippi: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). La prima causa della nostra gioia è la vicinanza del Signore, che mi accoglie e mi ama.
E infatti dall’incontro con Gesù nasce sempre una grande gioia interiore. Nei Vangeli lo possiamo vedere in molti episodi. Ricordiamo la visita di Gesù a Zaccheo, un esattore delle tasse disonesto, un peccatore pubblico, al quale Gesù dice: «Oggi devo fermarmi a casa tua». E Zaccheo, riferisce san Luca, «lo accolse pieno di gioia» (Lc 19,5-6). E’ la gioia dell’incontro con il Signore; è il sentire l’amore di Dio che può trasformare l’intera esistenza e portare salvezza. E Zaccheo decide di cambiare vita e di dare la metà dei suoi beni ai poveri.
Nell’ora della passione di Gesù, questo amore si manifesta in tutta la sua forza. Negli ultimi momenti della sua vita terrena, a cena con i suoi amici, Egli dice: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore… Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,9.11). Gesù vuole introdurre i suoi discepoli e ciascuno di noi nella gioia piena, quella che Egli condivide con il Padre, perché l’amore con cui il Padre lo ama sia in noi (cfr. Gv 17,26). La gioia cristiana è aprirsi a questo amore di Dio e appartenere a Lui.
Narrano i Vangeli che Maria di Magdala e altre donne andarono a visitare la tomba dove Gesù era stato posto dopo la sua morte e ricevettero da un Angelo un annuncio sconvolgente, quello della sua risurrezione. Allora abbandonarono in fretta il sepolcro, annota l’Evangelista, «con timore e gioia grande» e corsero a dare la lieta notizia ai discepoli. E Gesù venne loro incontro e disse: «Salute a voi!» (Mt 28,8-9). E’ la gioia della salvezza che viene loro offerta: Cristo è il vivente, è Colui che ha vinto il male, il peccato e la morte. Egli è presente in mezzo a noi come il Risorto, fino alla fine del mondo (cfr Mt 28,20). Il male non ha l’ultima parola sulla nostra vita, ma la fede in Cristo Salvatore ci dice che l’amore di Dio vince.
Questa gioia profonda è frutto dello Spirito Santo che ci rende figli di Dio, capaci di vivere e di gustare la sua bontà, di rivolgerci a Lui con il termine «Abbà», Padre (cfr Rm 8,15). La gioia è segno della sua presenza e della sua azione in noi.
3. Conservare nel cuore la gioia cristiana
A questo punto ci domandiamo: come ricevere e conservare questo dono della gioia profonda, della gioia spirituale?
Un Salmo ci dice: «Cerca la gioia nel Signore: esaudirà i desideri del tuo cuore» (Sal 37,4). E Gesù spiega che «il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44). Trovare e conservare la gioia spirituale nasce dall’incontro con il Signore, che chiede di seguirlo, di fare la scelta decisa di puntare tutto su di Lui. Cari giovani, non abbiate paura di mettere in gioco la vostra vita facendo spazio a Gesù Cristo e al suo Vangelo; è la strada per avere la pace e la vera felicità nell’intimo di noi stessi, è la strada per la vera realizzazione della nostra esistenza di figli di Dio, creati a sua immagine e somiglianza.
Cercare la gioia nel Signore: la gioia è frutto della fede, è riconoscere ogni giorno la sua presenza, la sua amicizia: «Il Signore è vicino!» (Fil 4,5); è riporre la nostra fiducia in Lui, è crescere nella conoscenza e nell’amore di Lui. L’«Anno della fede», che tra pochi mesi inizieremo, ci sarà di aiuto e di stimolo. Cari amici, imparate a vedere come Dio agisce nelle vostre vite, scopritelo nascosto nel cuore degli avvenimenti del vostro quotidiano. Credete che Egli è sempre fedele all’alleanza che ha stretto con voi nel giorno del vostro Battesimo. Sappiate che non vi abbandonerà mai. Rivolgete spesso il vostro sguardo verso di Lui. Sulla croce, ha donato la sua vita perché vi ama. La contemplazione di un amore così grande porta nei nostri cuori una speranza e una gioia che nulla può abbattere. Un cristiano non può essere mai triste perché ha incontrato Cristo, che ha dato la vita per lui.
Cercare il Signore, incontrarlo nella vita significa anche accogliere la sua Parola, che è gioia per il cuore. Il profeta Geremia scrive: «Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore» (Ger 15,16). Imparate a leggere e meditare la Sacra Scrittura, vi troverete una risposta alle domande più profonde di verità che albergano nel vostro cuore e nella vostra mente. La Parola di Dio fa scoprire le meraviglie che Dio ha operato nella storia dell’uomo e, pieni di gioia, apre alla lode e all’adorazione: «Venite, cantiamo al Signore… adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti» (Sal 95,1.6).
In modo particolare, poi, la Liturgia è il luogo per eccellenza in cui si esprime la gioia che la Chiesa attinge dal Signore e trasmette al mondo. Ogni domenica, nell’Eucaristia, le comunità cristiane celebrano il Mistero centrale della salvezza: la morte e risurrezione di Cristo. E’ questo un momento fondamentale per il cammino di ogni discepolo del Signore, in cui si rende presente il suo Sacrificio di amore; è il giorno in cui incontriamo il Cristo Risorto, ascoltiamo la sua Parola, ci nutriamo del suo Corpo e del suo Sangue. Un Salmo afferma: «Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo!» (Sal 118,24). E nella notte di Pasqua, la Chiesa canta l’Exultet, espressione di gioia per la vittoria di Gesù Cristo sul peccato e sulla morte: «Esulti il coro degli angeli… Gioisca la terra inondata da così grande splendore… e questo tempio tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa!». La gioia cristiana nasce dal sapere di essere amati da un Dio che si è fatto uomo, ha dato la sua vita per noi e ha sconfitto il male e la morte; ed è vivere di amore per lui. Santa Teresa di Gesù Bambino, giovane carmelitana, scriveva: «Gesù, è amarti la mia gioia!» (P 45, 21 gennaio 1897, Op. Compl., pag. 708).
4. La gioia dell’amore
Cari amici, la gioia è intimamente legata all’amore: sono due frutti inseparabili dello Spirito Santo (cfr Gal 5,23). L’amore produce gioia, e la gioia è una forma d’amore. La beata Madre Teresa di Calcutta, facendo eco alle parole di Gesù: «si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35), diceva: «La gioia è una rete d’amore per catturare le anime. Dio ama chi dona con gioia. E chi dona con gioia dona di più». E il Servo di Dio Paolo VI scriveva: «In Dio stesso tutto è gioia poiché tutto è dono» (Esort. ap. Gaudete in Domino, 9 maggio 1975)
Pensando ai vari ambiti della vostra vita, vorrei dirvi che amare significa costanza, fedeltà, tener fede agli impegni. E questo, in primo luogo, nelle amicizie: i nostri amici si aspettano che siamo sinceri, leali, fedeli, perché il vero amore è perseverante anche e soprattutto nelle difficoltà. E lo stesso vale per il lavoro, gli studi e i servizi che svolgete. La fedeltà e la perseveranza nel bene conducono alla gioia, anche se non sempre questa è immediata.
Per entrare nella gioia dell’amore, siamo chiamati anche ad essere generosi, a non accontentarci di dare il minimo, ma ad impegnarci a fondo nella vita, con un’attenzione particolare per i più bisognosi. Il mondo ha necessità di uomini e donne competenti e generosi, che si mettano al servizio del bene comune. Impegnatevi a studiare con serietà; coltivate i vostri talenti e metteteli fin d’ora al servizio del prossimo. Cercate il modo di contribuire a rendere la società più giusta e umana, là dove vi trovate. Che tutta la vostra vita sia guidata dallo spirito di servizio, e non dalla ricerca del potere, del successo materiale e del denaro.
A proposito di generosità, non posso non menzionare una gioia speciale: quella che si prova rispondendo alla vocazione di donare tutta la propria vita al Signore. Cari giovani, non abbiate paura della chiamata di Cristo alla vita religiosa, monastica, missionaria o al sacerdozio. Siate certi che Egli colma di gioia coloro che, dedicandogli la vita in questa prospettiva, rispondono al suo invito a lasciare tutto per rimanere con Lui e dedicarsi con cuore indiviso al servizio degli altri. Allo stesso modo, grande è la gioia che Egli riserva all’uomo e alla donna che si donano totalmente l’uno all’altro nel matrimonio per costituire una famiglia e diventare segno dell’amore di Cristo per la sua Chiesa.
Vorrei richiamare un terzo elemento per entrare nella gioia dell’amore: far crescere nella vostra vita e nella vita delle vostre comunità la comunione fraterna. C’è uno stretto legame tra la comunione e la gioia. Non è un caso che san Paolo scriva la sua esortazione al plurale: non si rivolge a ciascuno singolarmente, ma afferma: «Siate sempre lieti nel Signore» (Fil 4,4). Soltanto insieme, vivendo la comunione fraterna, possiamo sperimentare questa gioia. Il libro degli Atti degli Apostoli descrive così la prima comunità cristiana: «spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Impegnatevi anche voi affinché le comunità cristiane possano essere luoghi privilegiati di condivisione, di attenzione e di cura l’uno dell’altro.
5. La gioia della conversione
Cari amici, per vivere la vera gioia occorre anche identificare le tentazioni che la allontanano. La cultura attuale induce spesso a cercare traguardi, realizzazioni e piaceri immediati, favorendo più l’incostanza che la perseveranza nella fatica e la fedeltà agli impegni. I messaggi che ricevete spingono ad entrare nella logica del consumo, prospettando felicità artificiali. L’esperienza insegna che l’avere non coincide con la gioia: vi sono tante persone che, pur avendo beni materiali in abbondanza, sono spesso afflitte dalla disperazione, dalla tristezza e sentono un vuoto nella vita. Per rimanere nella gioia, siamo chiamati a vivere nell’amore e nella verità, a vivere in Dio.
E la volontà di Dio è che noi siamo felici. Per questo ci ha dato delle indicazioni concrete per il nostro cammino: i Comandamenti. Osservandoli, noi troviamo la strada della vita e della felicità. Anche se a prima vista possono sembrare un insieme di divieti, quasi un ostacolo alla libertà, se li meditiamo più attentamente, alla luce del Messaggio di Cristo, essi sono un insieme di essenziali e preziose regole di vita che conducono a un’esistenza felice, realizzata secondo il progetto di Dio. Quante volte, invece, costatiamo che costruire ignorando Dio e la sua volontà porta delusione, tristezza, senso di sconfitta. L’esperienza del peccato come rifiuto di seguirlo, come offesa alla sua amicizia, porta ombra nel nostro cuore.
Ma se a volte il cammino cristiano non è facile e l’impegno di fedeltà all’amore del Signore incontra ostacoli o registra cadute, Dio, nella sua misericordia, non ci abbandona, ma ci offre sempre la possibilità di ritornare a Lui, di riconciliarci con Lui, di sperimentare la gioia del suo amore che perdona e riaccoglie.
Cari giovani, ricorrete spesso al Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione! Esso è il Sacramento della gioia ritrovata. Domandate allo Spirito Santo la luce per saper riconoscere il vostro peccato e la capacità di chiedere perdono a Dio accostandovi a questo Sacramento con costanza, serenità e fiducia. Il Signore vi aprirà sempre le sue braccia, vi purificherà e vi farà entrare nella sua gioia: vi sarà gioia nel cielo anche per un solo peccatore che si converte (cfr Lc 15,7).
6. La gioia nelle prove
Alla fine, però, potrebbe rimanere nel nostro cuore la domanda se veramente è possibile vivere nella gioia anche in mezzo alle tante prove della vita, specialmente le più dolorose e misteriose, se veramente seguire il Signore, fidarci di Lui dona sempre felicità.
La risposta ci può venire da alcune esperienze di giovani come voi che hanno trovato proprio in Cristo la luce capace di dare forza e speranza, anche in mezzo alle situazioni più difficili. Il beato Pier Giorgio Frassati (1901-1925) ha sperimentato tante prove nella sua pur breve esistenza, tra cui una, riguardante la sua vita sentimentale, che lo aveva ferito in modo profondo. Proprio in questa situazione, scriveva alla sorella: «Tu mi domandi se sono allegro; e come non potrei esserlo? Finché la Fede mi darà forza sempre allegro! Ogni cattolico non può non essere allegro… Lo scopo per cui noi siamo stati creati ci addita la via seminata sia pure di molte spine, ma non una triste via: essa è allegria anche attraverso i dolori» (Lettera alla sorella Luciana, Torino, 14 febbraio 1925). E il beato Giovanni Paolo II, presentandolo come modello, diceva di lui: «era un giovane di una gioia trascinante, una gioia che superava tante difficoltà della sua vita» (Discorso ai giovani, Torino, 13 aprile 1980).
Più vicina a noi, la giovane Chiara Badano (1971-1990), recentemente beatificata, ha sperimentato come il dolore possa essere trasfigurato dall’amore ed essere misteriosamente abitato dalla gioia. All’età di 18 anni, in un momento in cui il cancro la faceva particolarmente soffrire, Chiara aveva pregato lo Spirito Santo, intercedendo per i giovani del suo Movimento. Oltre alla propria guarigione, aveva chiesto a Dio di illuminare con il suo Spirito tutti quei giovani, di dar loro la sapienza e la luce: «È stato proprio un momento di Dio: soffrivo molto fisicamente, ma l’anima cantava» (Lettera a Chiara Lubich, Sassello, 20 dicembre 1989). La chiave della sua pace e della sua gioia era la completa fiducia nel Signore e l’accettazione anche della malattia come misteriosa espressione della sua volontà per il bene suo e di tutti. Ripeteva spesso: «Se lo vuoi tu, Gesù, lo voglio anch’io».
Sono due semplici testimonianze tra molte altre che mostrano come il cristiano autentico non è mai disperato e triste, anche davanti alle prove più dure, e mostrano che la gioia cristiana non è una fuga dalla realtà, ma una forza soprannaturale per affrontare e vivere le difficoltà quotidiane. Sappiamo che Cristo crocifisso e risorto è con noi, è l’amico sempre fedele. Quando partecipiamo alle sue sofferenze, partecipiamo anche alla sua gloria. Con Lui e in Lui, la sofferenza è trasformata in amore. E là si trova la gioia (cfr Col 1,24).
7. Testimoni della gioia
Cari amici, per concludere vorrei esortarvi ad essere missionari della gioia. Non si può essere felici se gli altri non lo sono: la gioia quindi deve essere condivisa. Andate a raccontare agli altri giovani la vostra gioia di aver trovato quel tesoro prezioso che è Gesù stesso. Non possiamo tenere per noi la gioia della fede: perché essa possa restare in noi, dobbiamo trasmetterla. San Giovanni afferma: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi… Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,3-4).
A volte viene dipinta un’immagine del Cristianesimo come di una proposta di vita che opprime la nostra libertà, che va contro il nostro desiderio di felicità e di gioia. Ma questo non risponde a verità! I cristiani sono uomini e donne veramente felici perché sanno di non essere mai soli, ma di essere sorretti sempre dalle mani di Dio! Spetta soprattutto a voi, giovani discepoli di Cristo, mostrare al mondo che la fede porta una felicità e una gioia vera, piena e duratura. E se il modo di vivere dei cristiani sembra a volte stanco ed annoiato, testimoniate voi per primi il volto gioioso e felice della fede. Il Vangelo è la «buona novella» che Dio ci ama e che ognuno di noi è importante per Lui. Mostrate al mondo che è proprio così!
Siate dunque missionari entusiasti della nuova evangelizzazione! Portate a coloro che soffrono, a coloro che sono in ricerca, la gioia che Gesù vuole donare. Portatela nelle vostre famiglie, nelle vostre scuole e università, nei vostri luoghi di lavoro e nei vostri gruppi di amici, là dove vivete. Vedrete che essa è contagiosa. E riceverete il centuplo: la gioia della salvezza per voi stessi, la gioia di vedere la Misericordia di Dio all’opera nei cuori. Il giorno del vostro incontro definitivo con il Signore, Egli potrà dirvi: «Servo buono e fedele, prendi parte alla gioia del tuo padrone!» (Mt 25,21).
La Vergine Maria vi accompagni in questo cammino. Ella ha accolto il Signore dentro di sé e l’ha annunciato con un canto di lode e di gioia, il Magnificat: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore» (Lc 1,46-47). Maria ha risposto pienamente all’amore di Dio dedicando la sua vita a Lui in un servizio umile e totale. E’ chiamata «causa della nostra letizia» perché ci ha dato Gesù. Che Ella vi introduca in quella gioia che nessuno potrà togliervi!
Dal Vaticano, 15 marzo 2012