Archive pour janvier, 2012

San Giovanni Bosco – foto

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Publié dans:immagini sacre |on 31 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

31 GENNAIO: SAN GIOVANNI BOSCO

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31 GENNAIO: SAN GIOVANNI BOSCO

(1815-1888)

San Giovanni Bosco è indubbiamente il più celebre santo piemontese di tutti i tempi, nonché su scala mondiale il più famoso tra i santi dell’epoca contemporanea: la sua popolarità è infatti ormai giunta in tutti i continenti, ove si è diffusa la fiorente Famiglia Salesiana da lui fondata, portatrice del suo carisma e della sua operosità, che ad oggi è la congregazione religiosa più diffusa tra quelle di recente fondazione.
Don Bosco fu l’allievo che diede maggior lustro al suo grande maestro di vita sacerdotale, nonché suo compaesano, San Giuseppe Cafasso: queste due perle di santità sbocciarono nel Convitto Ecclesiastico di San Francesco d’Assisi in Torino.
Giovanni Bosco nacque presso Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco) in regione Becchi, il 16 agosto 1815, frutto del matrimonio tra Francesco e la Serva di Dio Margherita Occhiena. Cresciuto nella sua modesta famiglia, dalla santa madre fu educato alla fede ed alla pratica coerente del messaggio evangelico. A soli nove anni un sogno gli rivelò la sua futura missione volta all’educazione della gioventù. Ragazzo dinamico e concreto, fondò fra i coetanei la “società dell’allegria”, basata sulla “guerra al peccato”.
Entrò poi nel seminario teologico di Chieri e ricevette l’ordinazione presbiterale nel 1841. Iniziò dunque il triennio di teologia morale pratica presso il suddetto convitto, alla scuola del teologo Luigi Guala e del santo Cafasso. Questo periodo si rivelò occasione propizia per porre solide basi alla sua futura opera educativa tra i giovani, grazie a tre provvidenziali fattori: l’incontro con un eccezionale educatore che capì le sue doti e stimolò le sue potenzialità, l’impatto con la situazione sociale torinese e la sua straordinaria genialità, volta a trovare risposte sempre nuove ai numerosi problemi sociali ed educativi sempre emergenti.
Come succede abitualmente per ogni congregazione, anche la grande opera salesiana ebbe inizi alquanto modesti: l’8 dicembre 1841, dopo l’incontro con il giovane Bartolomeo Garelli, il giovane Don Bosco iniziò a radunare ragazzi e giovani presso il Convitto di San Francesco per il catechismo. Torino era a quel tempo una città in forte espansione su vari aspetti, a causa della forte immigrazione dalle campagne piemontesi ed il mondo giovanile era in preda a gravi problematiche: analfabetismo, disoccupazione, degrado morale e mancata assistenza religiosa. Fu, infatti, un grande merito donboschiano l’intuizione del disagio sociale e spirituale insito negli adolescenti, che subivano il passaggio dal mondo agricolo a quello preindustriale, in cui si rivelava solitamente inadeguata la pastorale tradizionale.
Strada facendo, Don Bosco capì con altri giovani sacerdoti che l’oratorio potesse costituire un’adeguata risposta a tale critica situazione. Il primo tentativo in tal senso fu compiuto dal vulcanico Don Giovanni Cocchi, che nel 1840 aveva aperto in zona Vanchiglia l’oratorio dell’Angelo Custode. Don Bosco intitolò invece il suo primo oratorio a San Francesco di Sales, ospite dell’Ospedaletto e del Rifugio della Serva di Dio Giulia Colbert, marchesa di Barolo, ove dal 1841 collaborò con il teologo Giovanni Battista Borel. Quattro anni dopo trasferì l’oratorio nella vicina Casa Pinardi, dalla quale si sviluppò poi la grandiosa struttura odierna di Valdocco, nome indelebilmente legato all’opera salesiana.
Spinto dal suo innato zelo pastorale, nel 1847 Don Bosco avviò l’oratorio di San Luigi presso la stazione ferroviaria di Porta Nuova. Nel frattempo, il cosiddetto Risorgimento italiano, con le sue articolate vicende politiche, provocò anche un chiarimento nell’esperienza degli oratori torinesi, evidenziando due differenti linee seguite dai preti loro responsabili: quella apertamente politicizzata di cui era fautore Don Cocchi, che nel 1849 aveva tentato di coinvolgere i suoi giovani nella battaglia di Novara e quella più religiosa invece sostenuta da Don Bosco, che prevalse quando nel 1952 l’arcivescovo mons. Luigi Fransoni lo nominò responsabile dell’Opera degli Oratori, affidando così alle sue cure anche quello dell’Angelo Custode.
La principale preoccupazione di Don Bosco, concependo l’oratorio come luogo di formazione cristiana, era infatti sostanzialmente di tipo religioso-morale, volta a salvare le anime della gioventù. Il santo sacerdote però non si accontentò mai di accogliere quei ragazzi che spontaneamente si presentavano da lui, ma si organizzò al fine di raggiungerli ed incontrarli ove vivevano. Se la salvezza dell’anima era l’obiettivo finale, la formazione di “buoni cristiani ed onesti cittadini” era invece quello immediato, come Don Bosco soleva ripetere. In tale ottica concepì gli oratori quali luoghi di aggregazione, di ricreazione, di evangelizzazione, di catechesi e di promozione sociale, con l’istituzione di scuole professionali. L’amorevolezza costituì il supremo principio pedagogico adottato da Don Bosco, che faceva notare come non bastasse però amare i giovani, ma occorreva che essi percepissero di essere amati. Ma della sua pedagogia un grande frutto fu il cosiddetto “metodo preventivo”, nonché l’invito alla vera felicità insito nel detto: “State allegri, ma non fate peccati”.
Don Bosco, sempre attento ai segni dei tempi, individuò nei collegi un valido strumento educativo, in particolare dopo che nel 1849 furono regolamentati da un’opportuna legislazione: fu così che nel 1863 fu aperto un piccolo seminario presso Mirabello, nella diocesi di Casale Monferrato.
Altra svolta decisiva nell’opera salesiana avvenne quando Don Bosco si sentì coinvolto dalla nuova sensibilità missionaria propugnata dal Concilio Ecumenico Vaticano I e, sostenuto dal pontefice Beato Pio IX e da vari vescovi, nel 1875 inviò i suoi primi salesiani in America Latina, capeggiati dal Cardinale Giovanni Cagliero, con il principale compito di apostolato tra gli emigrati italiani. Ben presto, però, i missionari estesero la loro attività dedicandosi all’evangelizzazione delle popolazioni indigene, culminata con il battesimo conferito da Padre Domenico Milanesio al Venerabile Zeffirino Namuncurà, figlio dell’ultimo grande cacico delle tribù indios araucane.
Uomo versatile e dotato di un’intelligenza eccezionale, con il suo fiuto imprenditoriale Don Bosco considerò la stampa un fondamentale strumento di divulgazione culturale, pedagogica e cristiana. Scrittore ed editore, tra le principali sue opere si annoverano la “Storia d’Italia”, “Il sistema metrico decimale” e la collana “Letture Cattoliche”. Non mancarono alcune biografie, tra le quali spicca quella del più bel frutto della sua pedagogia, il quindicenne San Domenico Savio, che aveva ben compreso la sua lezione: “Noi, qui, alla scuola di Don Bosco, facciamo consistere la santità nello stare molto allegri e nell’adempimento perfetto dei nostri doveri”. Scrisse inoltre le vite di altri due ragazzi del suo oratorio, Francesco Besucco e Michele Magone, nonché quella di un suo indimenticabile compagno di scuola, Luigi Comollo.
Pur essendo straordinariamente attivo, Don Bosco non avrebbe comunque potuto realizzare personalmente dal nulla tutta questa immane opera ed infatti sin dall’inizio godette del prezioso ausilio di numerosi sacerdoti e laici, uomini e donne. Al fine di garantire però una certa continuità e stabilità a ciò che aveva iniziato, fondò a Torino la Società di San Francesco di Sales (detti “Salesiani”), congregazione composta di sacerdoti e nel 1872 a Mornese con Santa Maria Domenica Mazzarello le Figlie di Maria Ausiliatrice.
Personalità forte ed intraprendente, bisognosa di particolare autonomia nella sua azione a tutto campo, non lasciava affatto indifferenti coloro che gli erano per svariati motivi a contatto. Ciò costituisce inoltre una spiegazione ai ripetuti scontri che ebbe con ben due arcivescovi torinesi: Ottaviano Riccardi di Netro e soprattutto Lorenzo Gastaldi. Lo apprezzò e lo appoggiò invece costantemente e senza riserve papa Pio IX, che con la sua potente intercessione permise all’opera salesiana di espandersi non solo a livello locale, sorte invece subita da numerosissime altre minute congregazioni.
Giovanni Bosco morì in Torino il 31 gennaio 1888, giorno in cui è ricordato dal Martyrologium Romanum e la Chiesa latina ne celebra la Memoria liturgica. Alla guida della congregazione gli succedette il Beato Michele Rua, uno dei suoi primi fedeli discepoli. La sua salma fu in un primo tempo sepolta nella chiesa dell’istituto salesiano di Valsalice, per poi essere trasferita nella basilica di Maria Ausiliatrice, da lui fatta edificare. Il pontefice Pio XI, suo grande ammiratore, beatificò Don Bosco il 2 giugno 1929 e lo canonizzò il 1 aprile 1934. La città di Torino ha dedicato alla memoria del santo una strada, una scuola ed un grande ospedale. Nel centenario della morte, nel 1988 Giovanni Paolo II, recatosi in visita ai luoghi donboschiani, lo dichiarò Padre e Maestro della gioventù, “stabilendo che con tale titolo egli sia onorato e invocato, specialmente da quanti si riconoscono suoi figli spirituali”.
La venerazione che Don Bosco ebbe, in vita ed in morte, per sua madre fu trasmessa alla congregazione, che negli anni ’90 del XX secolo ha pensato di introdurre finalmente la causa di beatificazione di Mamma Margherita. Merita infine ricordare la prolifica stirpe di santità generata da Don Bosco, tanto che allo stato attuale delle cause, la Famiglia Salesiana può contare ben 5 santi, 51 beati, 8 venerabili ed 88 servi di Dio.

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L’ECUMENISMO NON DEVE SCADERE NELL’INDIFFERENTISMO

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L’ECUMENISMO NON DEVE SCADERE NELL’INDIFFERENTISMO

Il Papa riceve in Udienza i partecipanti alla Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 30 gennaio 2012 (ZENIT.org) – Per papa Benedetto XVI è stato un po’ un ritorno al passato: venerdì scorso, 27 gennaio, il Santo Padre ha ricevuto in Udienza i partecipanti alla Sessione Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, di cui il cardinale Ratzinger fu prefetto dal 1981 al 2005.
Il Pontefice ha espresso riconoscenza in primo luogo al suo successore, il cardinale William Levada, sotto la cui guida la Congregazione, in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, sta preparando l’Anno della Fede.
“Come sappiamo – ha osservato Benedetto XVI – in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento. Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi”.
Il Papa ha quindi espresso l’auspicio che l’Anno della Fede possa contribuire “a rendere Dio nuovamente presente in questo mondo e ad aprire agli uomini l’accesso alla fede, all’affidarsi a quel Dio che ci ha amati sino alla fine (cfr. Gv 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.
Tra le riflessioni della Plenaria figura il tema dell’unità dei cristiani, oggetto della Settimana di Preghiera conclusasi lo scorso 25 gennaio. A tal proposito Benedetto XVI ha riconosciuto che il dialogo ecumenico ha prodotto “non pochi buoni frutti”, tuttavia è necessario non abbassare la guardia rispetto al “rischio di un falso irenismo e di un indifferentismo, del tutto alieno alla mente del Concilio Vaticano II”.
L’indifferentismo in questione è il prodotto di una “opinione sempre più diffusa”, secondo cui “la verità non sarebbe accessibile all’uomo”. Con la conseguenza che l’umanità si limita a “trovare regole per una prassi in gradi di migliorare il mondo” e la fede finisce rimpiazzata “da un moralismo senza fondamento profondo”.
Senza fede l’ecumenismo sarebbe ridotto a una sorta di “contratto sociale” e a una “prasseologia” finalizzate ad un vago ed utopizzato “mondo migliore”.
“La logica del Concilio Vaticano II – ha proseguito il Papa – è completamente diversa: la ricerca sincera della piena unità di tutti i cristiani è un dinamismo animato dalla Parola di Dio, dalla Verità divina che ci parla in questa Parola”.
Vanno quindi rimessi in primo piano “la relazione tra Sacra Scrittura, la Tradizione viva nella Santa Chiesa e il Ministero dei successori degli Apostoli come testimone della vera fede”, ha aggiunto.
È fondamentale, inoltre, “il discernimento tra la Tradizione con maiuscola, e le tradizioni”, secondo la prassi che si sta utilizzando con la formazione dei fedeli provenienti dall’Anglicanesimo, desiderosi di entrare in comunione con la Chiesa di Roma.
“Esiste, infatti, una ricchezza spirituale nelle diverse Confessioni cristiane, che è espressione dell’unica fede e dono da condividere e da trovare insieme nella Tradizione della Chiesa”, ha detto in proposito Benedetto XVI.
Un principio imprescindibile nei dialoghi ecumenici è proprio la conoscenza della verità, considerata dal papa un “diritto dell’interlocutore in ogni vero dialogo”. Essa è una “esigenza di carità verso il fratello” che implica la necessità di “affrontare con coraggio anche le questioni controverse, sempre nello spirito di fraternità e di rispetto reciproco”.
Il Santo Padre ha proseguito, raccomandando lo studio dei “documenti di studio prodotti dai veri dialoghi ecumenici”. Questi ultimi “non possono essere ignorati, perché costituiscono un frutto importante, pur provvisorio, della riflessione comune maturata negli anni”, sebbene spetti soltanto all’Autorità della Chiesa il compito di “giudicarli in modo definitivo”.
Infatti, attribuire a tali testi “un peso vincolante o quasi conclusivo delle spinose questioni dei dialoghi”, potrebbe risultare controproducente nel “cammino verso una piena unità nella fede”.
Un ultima – ma tutt’altro che secondaria – sfida per il cammino ecumenico, è rappresentata dalle “grandi questioni morali circa la vita umana, la famiglia, la sessualità, la bioetica, la libertà, la giustizia e la pace”. Anche per questi temi bisogna parlare “con una sola voce”, attingendo alle Sacre Scritture e alla “viva tradizione della Chiesa”.
“Difendendo i valori fondamentali della grande tradizione della Chiesa, difendiamo l’uomo, difendiamo il creato”, ha proseguito Benedetto XVI, concludendo che l’unità non è solo “il frutto della fede, ma anche un mezzo e quasi un presupposto per annunciare in modo sempre più credibile la fede a coloro che non conoscono ancora il Salvatore”.

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Biasca, St. Peter and Paul church, “Christ Pantocrator”, apsis fresco, XV century,

Biasca, St. Peter and Paul church, “Christ Pantocrator”, apsis fresco, XV century, dans immagini sacre

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«Sollevo i miei occhi verso i monti, da dove verrà l’aiuto?» (« Salmo 121, 1″) (Enzo Bianchi)

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ENZO BIANCHI

(« Jesus », Maggio 2009)

«Sollevo i miei occhi verso i monti, da dove verrà l’aiuto?» (« Salmo 121, 1″).

Il « Salmista » non aveva grandi vette davanti a sé: pellegrino verso Gerusalemme, il Monte Sion, spingeva lo sguardo verso un’altura spirituale, verso l’Altro che non poteva che trovarsi in alto rispetto alla comune condizione umana. Invocazione, imprecazione, distacco, estraniamento, abbandono: tutto questo esprimiamo con il nostro levare gli occhi al cielo, con lo sguardo proteso che pare aver bisogno di alture per poter davvero far spiccare il volo al nostro anelito. In realtà, il nostro sguardo, anche quando si alza, « si posa » alla ricerca di un luogo in cui sostare per riprendere il cammino. Quante volte nell’ascendere verso una vetta fermiamo il passo, apparentemente per riprendere il fiato, in realtà per misurarci una volta ancora con l’altrove, segno di un Altro che sembra sempre rinviare l’appuntamento a una cima ulteriore, nascosta rispetto a quella più a ridosso di noi. Allora i nostri occhi si attardano a ripercorrere idealmente sentieri che paiono danzare attorno alle falde della montagna, visitano baite e villaggi, discendono lieti dalle cime innevate ai pendii boscosi fino ai pascoli verdeggianti, rincorrono gli irrefrenabili torrenti, si riflettono nelle calme acque di laghetti alpini…
La montagna invita a una duplice contemplazione, a due prospettive speculari e complementari: salendo si fissa lo sguardo sulla vetta, ci si protende verso l’ »al-di-là », l’ulteriore, quasi a incalzare l’irraggiungibile di cui pure calchiamo le radici rocciose. Una volta in vetta, invece, lo sguardo si distende rappacificato in un volgersi che non è retrospettivo ma piuttosto onnicomprensivo: rileggiamo il percorso appena compiuto e nel contempo la realtà dalla quale ci siamo innalzati, abbracciamo con un solo sguardo il mondo che credevamo di conoscere e a volte, per pura grazia, come San Benedetto poco prima di morire, ci può essere dato di vedere «davanti agli occhi tutto intero il mondo, quasi raccolto sotto un unico raggio di sole» (cfr. Gregorio Magno, « Dialoghi 11,35″). La terra che tanto amiamo è lì, teneramente abbracciata al cielo cui aneliamo: questa duplice contemplazione che si dischiude nelle altezze parla alle profondità del nostro intimo e ci invita a intraprendere un viaggio la cui lunghezza non si può misurare perché fatto di memorie e di attese, di radici e di desiderio di spiccare il volo.
Capiamo meglio, allora, come mai la montagna – fosse anche «un’umile collina» come il Monte Sion celebrato nei « Salmi » o come il dolce declivio verso il Lago di Tiberiade che ha sentito scorrere sulla sua superficie la pace delle « Beatitudini » e lo sciamare delle folle benedette – ha sempre simboleggiato il distacco dal quotidiano per perseguire l’ascesa, una ricerca di sé non « autistica » ma aperta al futuro, all’inatteso. Sì, accostarsi alla montagna è un cammino di ascesa interiore, vissuto con tutto il proprio corpo: i sensi spirituali si affinano grazie a quanto sperimentano le nostre membra. Così l’incontro tra il cielo e la terra è evocato dalla contrapposizione tra l’orizzontale della pianura e il verticale del monte, le alterne vicende dell’esistenza paiono simboleggiate dalla sequenza di salite e discese, la leggerezza e la semplicità sono richieste affinché l’ascesa non sia frenata dall’attaccamento all’inutile o al superfluo, il discernimento è acuito e l’oblio contrastato dal non poter tralasciare nulla di essenziale, per quanto apparentemente trascurabile, la vigilanza è tenuta desta dallo scrutare i segni del tempo e del cielo… Anche il rarefarsi dell’aria, il repentino mutare delle condizioni meteorologiche, il brusco contrasto tra passaggi ombreggiati e accecanti riflessi di sole sulla neve contribuiscono a una purificazione che nasce dalla sorprendente scoperta di come la complementarietà degli opposti plasmi il nostro sentire interiore.
Sì, inoltrarsi in montagna – ma anche solo ripercorrere con la mente e con il cuore le balze che si sono imparate a conoscere dai « racconti biblici » e dalle narrazioni di quanti ci hanno preceduto nel cammino della vita – rappresenta una inesauribile esplorazione interiore: davvero, come scriveva Dag Hammarskjold, uomo di fede e amante della montagna, «il viaggio più lungo è il viaggio interiore». Un viaggio che richiede e al contempo stimola coraggio e resistenza, capacità di ascolto e di silenzio, solidarietà e fiducia in sé stessi e negli altri, attenta valutazione delle proprie forze per metterle al servizio di un’impresa nata in noi stessi ma destinata a dilatarsi su quanti ci stanno accanto.
Davvero muoversi «verso l’alto» può essere l’occasione non di irrefrenabile superbia ma, al contrario, di faticosa e liberante ascesi verso una dimensione più grande di noi e al contempo alla nostra portata. Da dove, infatti, ci verrà l’aiuto? «Dal Signore che ha fatto cielo e terra», canta il « Salmo », dal Signore che ha voluto che cielo e terra si toccassero in un abbraccio infinito.

Publié dans:BIBBIA. A.T. SALMI, Enzo Bianchi |on 30 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

PAPA BENEDETTO: L’UNITÀ PER ANNUNCIARE IN MODO SEMPRE PIÙ CREDIBILE LA FEDE

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L’UNITÀ PER ANNUNCIARE IN MODO SEMPRE PIÙ CREDIBILE LA FEDE

Il discorso del Papa ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 27 gennaio 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il discorso pronunciato questa mattina da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza ai partecipanti alla Sessione Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede. L’Udienza si è svolta nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano.
***
Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
Per me è sempre motivo di gioia potermi incontrare con voi in occasione della Sessione Plenaria ed esprimervi il mio apprezzamento per il servizio che svolgete per la Chiesa e specialmente per il Successore di Pietro nel suo ministero di confermare i fratelli nella fede (cfr Lc 22, 32). Ringrazio il Cardinale William Levada per il suo cordiale indirizzo di saluto, nel quale ha ricordato alcuni importanti impegni assolti dal Dicastero in questi ultimi anni. E sono particolarmente riconoscente alla Congregazione che, in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, prepara l’Anno della fede, cogliendo in esso un momento propizio per riproporre a tutti il dono della fede nel Cristo risorto, il luminoso insegnamento del Concilio Vaticano II e la preziosa sintesi dottrinale offerta dal Catechismo della Chiesa Cattolica.
Come sappiamo, in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento. Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi. Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità nell’impegno della Chiesa intera ai nostri giorni. Auspico che l’Anno della fede possa contribuire, con la collaborazione cordiale di tutti i componenti del Popolo di Dio, a rendere Dio nuovamente presente in questo mondo e ad aprire agli uomini l’accesso alla fede, all’affidarsi a quel Dio che ci ha amati sino alla fine (cfr Gv 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto.
Il tema dell’unità dei cristiani è strettamente collegato con questo compito. Vorrei quindi soffermarmi su alcuni aspetti dottrinali riguardanti il cammino ecumenico della Chiesa, che è stato oggetto di un’approfondita riflessione in questa Plenaria, in coincidenza con la conclusione dell’annuale Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani. Infatti, lo slancio dell’opera ecumenica deve partire da quell’«ecumenismo spirituale», da quell’«anima di tutto il movimento ecumenico» (Unitatis redintegratio, 8), che si trova nello spirito della preghiera perché «tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21).
La coerenza dell’impegno ecumenico con l’insegnamento del Concilio Vaticano II e con l’intera Tradizione è stata uno degli ambiti cui la Congregazione, in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ha sempre prestato attenzione. Oggi possiamo constatare non pochi frutti buoni arrecati dai dialoghi ecumenici, ma dobbiamo anche riconoscere che il rischio di un falso irenismo e di un indifferentismo, del tutto alieno alla mente del Concilio Vaticano II, esige la nostra vigilanza. Questo indifferentismo è causato dalla opinione sempre più diffusa che la verità non sarebbe accessibile all’uomo; sarebbe quindi necessario limitarsi a trovare regole per una prassi in grado di migliorare il mondo. E così la fede sarebbe sostituita da un moralismo, senza fondamento profondo. Il centro del vero ecumenismo è invece la fede nella quale l’uomo incontra la verità che si rivela nella Parola di Dio. Senza la fede tutto il movimento ecumenico sarebbe ridotto ad una forma di «contratto sociale» cui aderire per un interesse comune, una «prasseologia» per creare un mondo migliore. La logica del Concilio Vaticano II è completamente diversa: la ricerca sincera della piena unità di tutti i cristiani è un dinamismo animato dalla Parola di Dio, dalla Verità divina che ci parla in questa Parola.
Il problema cruciale, che segna in modo trasversale i dialoghi ecumenici, è perciò la questione della struttura della rivelazione – la relazione tra Sacra Scrittura, la Tradizione viva nella Santa Chiesa e il Ministero dei successori degli Apostoli come testimone della vera fede. E qui è implicita la problematica dell’ecclesiologia che fa parte di questo problema: come arriva la verità di Dio a noi. Fondamentale, tra l’altro, è qui il discernimento tra la Tradizione con maiuscola, e le tradizioni. Non vorrei entrare in dettagli, solo un’osservazione. Un importante passo di tale discernimento è stato compiuto nella preparazione e nell’applicazione dei provvedimenti per gruppi di fedeli provenienti dall’Anglicanesimo, che desiderano entrare nella piena comunione della Chiesa, nell’unità della comune ed essenziale Tradizione divina, conservando le proprie tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali, che sono conformi alla fede cattolica (cfr Cost. Anglicanorum coetibus, art. III). Esiste, infatti, una ricchezza spirituale nelle diverse Confessioni cristiane, che è espressione dell’unica fede e dono da condividere e da trovare insieme nella Tradizione della Chiesa.
Oggi, poi, una delle questioni fondamentali è costituita dalla problematica dei metodi adottati nei vari dialoghi ecumenici. Anche essi devono riflettere la priorità della fede. Conoscere la verità è il diritto dell’interlocutore in ogni vero dialogo. È la stessa esigenza della carità verso il fratello. In questo senso, occorre affrontare con coraggio anche le questioni controverse, sempre nello spirito di fraternità e di rispetto reciproco. È importante inoltre offrire un’interpretazione corretta di quell’«ordine o « gerarchia » nelle verità della dottrina cattolica», rilevato nel Decreto Unitatis redintegratio (n. 11), che non significa in alcun modo ridurre il deposito della fede, ma farne emergere la struttura interna, l’organicità di questa unica struttura. Hanno anche grande rilevanza i documenti di studio prodotti dai vari dialoghi ecumenici. Tali testi non possono essere ignorati, perché costituiscono un frutto importante, pur provvisorio, della riflessione comune maturata negli anni. Nondimeno, essi vanno riconosciuti nel loro giusto significato come contributi offerti alla competente Autorità della Chiesa, che sola è chiamata a giudicarli in modo definitivo. Ascrivere a tali testi un peso vincolante o quasi conclusivo delle spinose questioni dei dialoghi, senza la dovuta valutazione da parte dell’Autorità ecclesiale, in ultima analisi, non aiuterebbe il cammino verso una piena unità nella fede.
Un’ultima questione che vorrei finalmente menzionare è la problematica morale, che costituisce una nuova sfida per il cammino ecumenico. Nei dialoghi non possiamo ignorare le grandi questioni morali circa la vita umana, la famiglia, la sessualità, la bioetica, la libertà, la giustizia e la pace. Sarà importante parlare su questi temi con una sola voce, attingendo al fondamento nella Scrittura e nella viva tradizione della Chiesa. Questa tradizione ci aiuta a decifrare il linguaggio del Creatore nella sua creazione. Difendendo i valori fondamentali della grande tradizione della Chiesa, difendiamo l’uomo, difendiamo il creato.
A conclusione di queste riflessioni, auspico una stretta e fraterna collaborazione della Congregazione con il competente Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, al fine di promuovere efficacemente il ristabilimento della piena unità fra tutti i cristiani. La divisione fra i cristiani, infatti, «non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura» (Decr. Unitatis redintegratio, 1). L’unità è quindi non solo il frutto della fede, ma anche un mezzo e quasi un presupposto per annunciare in modo sempre più credibile la fede a coloro che non conoscono ancora il Salvatore. Gesù ha pregato: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21).
Nel rinnovare la mia gratitudine per il vostro servizio, vi assicuro la mia costante vicinanza spirituale e imparto di cuore a voi tutti la Benedizione Apostolica. Grazie.
[© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana]

Publié dans:Papa Bendetto : discorsi vari |on 30 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

San Tommaso D’Aquino

San Tommaso D'Aquino dans immagini sacre tommaso

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Publié dans:immagini sacre |on 28 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

La vita e le Opere di San Tommaso d’Aquino (memoria il 28 gennaio)

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La vita e le Opere di San Tommaso d’Aquino

(1225 -1274)

di Astrid Filangieri

Il sorgere dell’astro d’Aquino
San Tommaso nacque nel 1225 circa a Roccasecca, dal ramo cadetto dei d’Aquino. Il padre, Landolfo, fu uomo d’arme fin dalla gioventù e condottiero di milizie, ma mostrò anche attitudini per la cultura e capacità di governo, quale giustiziere di Terra di Lavoro, e fu uomo retto e religioso.
La madre, Teodora, era anch’essa di nobile famiglia e dotata di grandi virtù familiari, ma non era esente da una concezione piuttosto dispotica dell’autorità materna.

L’ambiente familiare si distingueva per la sincera pratica della religione, pur tra le asprezze della vita feudale, ed esercitò un influsso notevole sulla formazione del carattere di Tommaso, che conservò sempre per i suoi congiunti un tenero affetto, nonostante la breve, dolorosa parentesi dell’opposizione alla sua vocazione religiosa.
L’educazione presso i Benedettini
All’età di cinque anni Tommaso fu condotto al Cenobio di Montecassino, che brillava come un faro di luce per la pietà e la cultura dei suoi monaci, presso la tomba di San Benedetto, il Patriarca del Monachesimo occidentale.
Il piccolo Tommaso era offerto a Dio dai geni­tori, spinti dal desiderio di avere un figlio consacrato al Signore, anche se non mancava un po’ di orgoglio feudale, che faceva presagire nel fanciullo il futuro capo della potente abbazia.
Ma c’era nel gesto anche un motivo politico, perché, nel 1229, la rocca di Montecassino, considerata un baluardo della potenza papale, era stata assalita e sconvolta dalle milizie di Federico II, con l’appoggio dei d’Aquino. Quando, nel luglio del 1230, a San Germano, fu segnata la pace fra l’Imperatore e il Papa, i d’Aquino, offrendo il loro figlioletto all’abbazia, vollero dare una garanzia dei loro nuovi sentimenti di pace e di amicizia.
Tommaso trascorse a Montecassino circa nove anni, fino al 1239, quando Federico II riprese la lotta contro il Papa e l’abbazia fu di nuovo sotto la minaccia delle armi imperiali, per cui i d’Aquino posero al sicuro il figlio, richiamandolo in famiglia per poi inviarlo a Napoli, a continuare gli studi presso l’Università.
L’educazione benedettina, semplice ed aristocratica, familiare ed austera, lasciò un solco indelebile nella personalità di Tommaso, temprandolo al silenzio contemplativo, all’amore per lo studio, all’attivo dominio di sé, alla pietà affettiva, al gusto per la liturgia, che si manifesterà soprattutto quando comporrà l’ufficio e gl’inni mirabili per la festa del «Corpus Domini».
E’ storicamente accertato l’episodio di Tommaso fanciullo che, passeggiando meditabondo sotto gli austeri chiostri o spaziando lo sguardo verso i cieli sconfinati e i lontani orizzonti, chiedeva insistentemente ai suoi maestri: «Ditemi chi è Dio? »
Erano i primi sprazzi del suo genio indagatore.
La giovinezza all’Università di Napoli
Dal mistico raccoglimento monastico, dopo alcuni mesi trascorsi nel caldo clima della famiglia, l’adolescente Tommaso si trasferiva nella vita libera e movimentata dell’ Ateneo napoletano.
Il brusco passaggio a condizioni ambientali così diverse dalle precedenti avrebbe potuto provocare in lui una crisi fatale; ma la sua forte struttura morale, ancorata a salde convinzioni e sempre pronta ad attingere energie soprannaturali dalla preghiera e dalla vita sacramentale, lo preservò dalle cadute, ed egli continuò, nello studio e nella meditazione, l’appassionata ricerca della verità, iniziata all’ombra del cenobio benedettino. L’università di Napoli era famosa in tutta l’Europa, perché Federico II vi aveva chiamato insigni docenti e aveva assicurato agli studenti agiate condizioni di vita, perché potessero dedicarsi con profitto agli studi. San Tommaso vi frequentò la Facoltà delle Arti che comprendeva il trivio e il quadrivio. Il trivio corrispondeva, in qualche modo, ai corsi di cultura umanistica e filosofica, mentre il quadrivio si estendeva allo studio delle scienze naturali.
Uno dei maestri di Tommaso fu Pietro d’Ibernia, chiamato da Pier delle Vigne, in nome di Federico II, a ricoprire la carica di titolare del quadrivio. Era un profondo conoscitore di Aristotele, su cui scrisse importanti commenti e tenne dotte dispute, fra cui rimase celebre quella tenuta alla presenza del re Manfredi. Il giovane Tommaso veniva così a contatto con le opere del sommo filosofo greco, che un giorno avrebbe sapientemente utilizzato nel magistero e negli scritti.
Una prova del profitto con cui Tommaso si dedicò agli studi è data dal fatto che egli fu scelto dai maestri a fare da ripetitore, ossia da assistente di cattedra. La vasta cultura, e la chiarezza dell’esposizione e la modestia del tratto gli conquistarono la stima e l’affetto dei colleghi studenti, i quali provarono un vivo rimpianto nell’apprendere che Tommaso lasciava l’ambiente universitario, per consacrarsi alla vita religiosa.
La vocazione
Verso la fine del 1243 il giovane studente diciottenne decise di entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori, che si era ormai diffuso nelle principali città dell’Europa, col compito principale di difendere e diffondere le verità della Fede, soprattutto con l’insegnamento e la predicazione.
A Napoli i Domenicani avevano aperto un convento fin dal 1231, con una scuola di Teologia, ed esercitavano un apostolato attivissimo fra la gioventù studentesca.
Tommaso scelse come guida spirituale fra Giovanni di San Giuliano e si sentì fortemente attratto dall’ideale domenicano. La sua scelta non era nata da un effimero entusiasmo, ma era la conseguenza di una decisione consapevolmente maturata nella meditazione e nella generosa risposta all’invito della Grazia. Il motto programmatico dei Domenicani: «contemplata aliis tradere» gli si presentò pienamente congeniale e decise di consacrare tutta la sua vita alla contemplazione e alla irradiazione della verità.
Ma la sua vocazione fu violentemente contrastata dalla famiglia, che, nella decisione presa dal giovane senza il consenso dei genitori, vedeva una ribellione all’inflessibile disciplina familiare e soprattutto vedeva svanire tutti i sogni di grandezza terrena, vagheggiati per il futuro del figlio. La madre stessa, pur dotata di forti virtù domestiche, ordinò ai figli Rainaldo e Landolfo, accampati ad Acquapendente con le milizie di Federico II, di catturare il fuggitivo in rotta per Bologna. Raggiuntolo a Bolsena lo rinchiusero nel castello di Roccasecca, dove, all’insaputa della madre, ordirono un ignobile attentato alla virtù di Tommaso, ma l’intrepido giovane fugò l’ignobile tentatrice con un tizzone ardente. Intanto giunsero al castello le sorelle per cercare di piegare con la tenerezza dell’affetto quell’indomita volontà. Ma né la prigionia nelle fortezze di Monte San Giovanni e di Roccasecca, né l’ignobile attentato tramato dai fratelli, né le lacrime delle sorelle poterono smuovere quell’eroica fermezza. Liberato dalla prigionia, dopo un breve periodo trascorso nel convento di San Domenico a Napoli e poi in quello di Santa Sabina a Roma, Tommaso fu inviato fuori d’Italia e affidato al più celebre maestro di quel tempo, frate Alberto di Colonia, che passerà alla storia col nome di Sant’Alberto Magno.
Il periodo presso Sant’Alberto
Prima a Parigi, poi a Colonia, Tommaso seguì le lezioni di Alberto Magno.
Chiuso nella sua modestia, il giovane domenicano italiano sembrò ai condiscepoli impacciato e tardo d’ingegno, per cui, con una punta d’ironia, gli affibbiarono il nomignolo di «bue muto». Ma vennero presto le occasioni a svelare l’acume del suo intelletto.
Un condiscepolo si era offerto a fargli da ripetitore, ma dovette presto accorgersi che l’allievo, con tutta semplicità, invertiva le parti e dava all’incauto, improvvisato maestro spiegazioni così lucide e profonde da costringerlo a riconoscere e manifestare l’ingegno superiore di Tommaso.
Un’altra volta cadde in mano ai condiscepoli, non si sa come, una pagina di appunti presi da Tommaso alle lezioni di Alberto; e dovettero con grande stupore ammettere che non si trattava di un semplice, anche se preciso, riassunto delle lezioni, ma di un profondo ripensamento delle questioni trattate.
Ma la prova più decisiva venne in occasione di una pubblica disputa, nella quale Tommaso aveva il compito di espositore e difensore di una tesi teologica, mentre il maestro stesso, frate Alberto da Colonia, svolgeva il ruolo di contraddittore.
Le obiezioni incalzavano sempre più serrate e insidiose e Tommaso calmo e sereno le risolveva lucidamente, mostrando una tale padronanza della materia da strappare gli applausi del maestro e dei condiscepoli.
Il giovane italiano rimaneva umile nel suo trionfo. Stimava talmente il valore della sincerità che, giovane, non si sottrasse all’invito di alcuni suoi confratelli burloni, che gli dicevano: « Tommaso, vieni a vedere un bue che vola! ». Taciturno, era chiamato dai suoi condiscepoli “il gran bue muto di Sicilia » (così i confratelli tedeschi, per i quali tutta l’Italia era Sicilia): ma Alberto Magno, suo maestro, che ben lo conosceva, rivolto agli allievi, esclamò: «Voi lo chiamate bue muto, ma egli darà tale muggito nella dottrina che tutto il mondo ne risuonerà».
Con intuizione sicura e precisa, Alberto svelava la natura eccezionale dell’allievo, predicendone la grandezza e avviando il giovane verso la luce della notorietà. Un giorno lo chiamerà «la luce e la gloria del mondo». A Colonia Tommaso fu ordinato sacerdote e si confermò nella sua vocazione di discepolo e predicatore della Verità.
Spesso durante la Messa si commuoveva fino alle lacrime. E quando passava a piedi per i campi, i contadini meravigliati dalla sua imponenza si voltavano verso di lui. Amante della verità sopra ogni cosa, consacrava tutto il suo tempo alla riflessione. Cosicché anche durante i pasti egli continuava a pensare, e i suoi confratelli potevano cambiagli le pietanze nel piatto senza che egli se ne accorgesse.
Dalla cattedra di Parigi
Nel 1252, Tommaso, ventisettenne, lasciava la Germania, perché il maestro lo aveva proposto per l’insegnamento della teologia a Parigi, all’ università della Sorbona, che era uno dei primi centri intellettuali dell’epoca. Il compito affidatogli era grande e difficile, ma egli che non aveva sollecitato l’onore, si piègò all’ubbidienza, ponendo tutte le forze del suo ingegno e tutto l’impegno della sua tenace volontà nell’approfondimento delle verità teologiche.
Dal 1252 al 1256 svolse il suo insegnamento in qualità di baccelliere biblico, il cui compito era di commentare i Libri Sacri, e, nel 1256, iniziò il corso dottorale. Fin dalla prolusione suscitò entusiasmo per la chiarezza dell’esposizione, la profondità delle argomentazioni e la larghezza di visuale.
Proprio in quegli anni si scatenò a Parigi una lotta accanita da parte dei maestri secolari della Sorbona contro i religiosi domenicani e francescani che, con l’opera e l’insegnamento, suscitavano sempre più vasta ammirazione fra gli studenti e la popolazione. Gli avversari ricorsero anche a libelli ingiuriosi e calunniosi, tendenti prima a ridurre e poi a togliere ai maestri religiosi la facoltà di insegnare; e riuscirono anche a brigare presso i prelati della Curia Romana fino a impressionare il Papa Innocenzo IV che, ingannato dai calunniatori, ritenne opportuno restringere e quasi sopprimere i privilegi degli Ordini religiosi, che insegnavano alla Sorbona. Ma il successore Alessandro IV seppe sventare le mene dei calunniatori e abolì tutte le restrizioni, reintegrando Francescani e Domenicani nei loro diritti.
Nell’imperversare della tempesta, Tommaso continuò l’insegnamento con una serenità che gli veniva dalla volontà ferrea e dalla piena consapevolezza della sublimità della sua missione. E quando gli avversari tentarono di colpire la libertà d’insegnamento e la stessa libertà religiosa, egli intervenne a difendere la nobile causa con la sua vasta scienza e il suo vigore di polemista.
Nell’opuscolo «Contra impugnantes Dei cultum et religionem» difese l’ideale degli Ordini religiosi e il loro diritto d’insegnare e di predicare l’eterna Verità.
Gli avversari continuarono a tramare nell’ombra, e Tommaso scrisse, fra il 1269 e il 1270, altre due opere «De perfectione vitae spiritualis» e «Contra pestiferam doctrinam retrahentium homines a religionis ingressu».
San Raimondo da Pennafort e il Maestro generale dei Domenicani, Umberto de Romans, incaricarono San Tommaso di un manuale chiaro e preciso di sintesi della filosofia cristiana. Era necessario che i futuri evangelizzatori acquistassero una buona conoscenza delle lingue dei popoli che volevano convertire. Ma si richiedeva soprattutto una preparazione filosofica adeguata, per dare una base razionale alla esposizione della dottrina cristiana e confutare le obiezioni che venivano mosse contro la fede dai pensatori arabi e giudaici, che facevano riferimento anche alla filosofia greca, in particolare al platonismo e all’aristotelismo.
San Tommaso, nel 1251, iniziò, con fervore missionario, l’opera richiesta, che fu intitolata: «Summa contra gentiles» o «Liber de veritate fidei christianae contra errores infidelium».
E’ una vera apologia delle verità cristiane contro gli errori di tutti i tempi; piena di rispetto e amore verso gli erranti, ma ferma e implacabile contro gli errori.
Il decennio trascorso in Italia fu straordinariamente operoso: insegnamento in varie città (Anagni, Orvieto,Viterbo) al seguito della Corte Pontificia, in qualità di Capo della scuola teologica della Curia papale; Ufficio di Predicatore generale dell’Ordine, che lo impegnava a occuparsi degli studi e delle scuole domenicane; intensa attività del ministero sacerdotale, particolarmente con la predicazione; e dal 1265 al1267, moderatore degli studi al convento di Santa Sabina a Roma che lo aveva accolto agli inizi della vita religiosa. Tornato a Parigi nel 1268, venne coinvolto in una controversia con il filosofo fiammingo Sigieri di Brabante e altri seguaci del filosofo arabo Averroè. Tommaso conciliò fede e intelletto e realizzò una sintesi filosofica (che poi accordò con la Bibbia e la dottrina cattolica) delle opere e degli insegnamenti di Aristotele e di altri filosofi antichi; di Agostino e altri padri della Chiesa; di Averroè, Avicenna e altri studiosi islamici; di pensatori ebrei come Maimonide e Avicebron e di precedenti filosofi della tradizione scolastica.
Pur così impegnato, egli delineava l’opera che più di ogni altra avrebbe portato l’impronta del suo genio, la «Summa Teologica», composta parte in Italia, fra il 1266 e il 1268, parte nella sua seconda permanenza a Parigi fra il 1269 e il 1272, e continuata a Napoli tra la fine del 1272 e il 1273. Scopo del Santo era quello di dare ai giovani studenti domenicani un manuale di teologia che non si esaurisse nelle aule scolastiche, ma desse una chiara e sistematica esposizione delle verità rivelate a coloro che dovevano essere maestri di cultura a tutto il mondo intellettuale. La Summa si sviluppa in tre parti.
Nella prima tratta i grandi argomenti dell’ esistenza di Dio.
Nella seconda parte tratta della morale, in cui è studiato l’uomo che, essendo dotato di intelligenza e di libera volontà, è padrone e responsabile dei suoi atti e con la suo opera deve rivolgersi a Dio, Fine Supremo. Analizza la vita emotiva e la psicologia delle passioni da ordinare e illuminare come forze potenti per la vita morale. Esamina le virtù intellettuali e teologali. Pone l’etica come cardine di tutte le scienze sociali e giuridiche.
Nella terza tratta dei problemi cristologici.
Tommaso è il principale esponente della filosofia scolastica del 1200. Egli cercava di riallineare la filosofia aristotelica al Cristianesimo. La filosofia scolastica partiva dal presupposto secondo cui l’intelligenza umana è in grado di raggiungere la verità mediante il metodo speculativo e assumeva che esistono tre diversi ordini di verità a cui rivolgere la speculazione.
Il suo sistema filosofico, detto « tomismo », costituì per secoli il filone principale sia della dottrina teologica sia dell’insegnamento etico sia della visione del mondo della Chiesa cattolica.
L’opera di Tommaso segna una tappa decisiva nella storia della filosofia e al suo sistema, detto « tomismo », si rifecero per secoli il pensiero cattolico e la dottrina teologica. In alcune encicliche papa Leone XIII e papa Pio XII riconobbero nella filosofia tomista la guida più sicura per la dottrina e l’istruzione scolastica cattolica, scoraggiando qualunque allontanamento da essa. In epoca contemporanea, il neotomismo rappresenta ancora una fra le principali scuole di pensiero; tra i pensatori che si confrontarono con il pensiero di Tommaso vi furono i filosofi francesi Jacques Maritain ed Etienne Gilson.
Accanto alla tematica del giusto prezzo di Aristotele dagli scolastici veniva formulata la teoria del « giusto salario », ossia quella che mantiene al lavoratore un livello di vita adeguato alla sua condizione sociale. Secondo gli scolastici il giusto prezzo doveva garantire la giustizia commutativa, cioè lo scambio uguale, in modo che nessuno, dallo scambio di merci, potesse ottenere più di quanto dava. Per quanto riguarda la MONETA essa, a differenza delle merci reali, che possedevano un « valore intrinseco », aveva un valore convenzionale. Appunto tra gli scolastici predomina una teoria convenzionalista della moneta: la moneta è un segno ed è stata inventata dagli uomini per misurare il valore delle merci ed agevolare gli scambi; è un bene fungibile che si consuma con l’uso. Da qui la condanna all’usura. In Tommaso D’Aquino troviamo infine il tentativo di giustificare la proprietà privata: Dio ha creato la terra per tutti gli uomini, nessuno può arrogarsi un diritto che privi gli altri uomini dell’uso dei beni creati. Nonostante ciò la proprietà privata può essere giustificata come stimolo al lavoro perciò va intesa come una forma di concessione che la comunità fa all’individuo e va esercitata come un servizio.
La metafisica di Tommaso è essenzialmente la metafisica aristotelica tramandata dagli Arabi. La differenza fondamentale è nell’introduzione del concetto di atto e potenza applicati non solo al mondo sensibile, ma anche a livello ontologico.
Per San Tommaso l’essenza è potenza dell’esistenza. Possiamo chiamare l’esistenza atto d’essere, usando il termine di Tommaso, o semplicemente essere.
L’estasi
Nel 1269 San Tommaso era di nuovo nominato maestro di teologia dell’Università di Parigi, dove già si era affermato, suscitando l’entusiasmo degli allievi e il rispetto degli stessi avversari.
Dopo un triennio, fervido di opere e di attività, fu richiamato in Italia; partecipò a Firenze al Capitolo generale dei Domenicani, dove fu deciso di aprire un nuovo studio generale dell’Ordine a Napoli, e di affidare l’insegnamento a San Tommaso.
Passando per Roma, il Santo rivide la pia sorella Teodora col marito conte Ruggiero di Sanseverino, ch’era stato costituito da re Carlo d’Angiò suo vicario nell’Urbe; tornò brevemente ai paesi della sua fanciullezza; provvide a sistemare la tutela del figlioletto della sorella Adelasia, rimasta vedova del conte di Traetto.
San Tommaso fu a Salerno dove tenne una serie di lezioni straordinarie nella celebre Scuola Medica che aveva sollecitato l’onore ed il decoro della parola del Santo.
Rivide Napoli dopo ben ventisette anni e iniziò subito le sue lezioni nella scuola domenicana, ch’era riconosciuta come Facoltà teologica dell’Università, con regio assenso di re Carlo, che fissò anche lo stipendio dovuto al grande maestro.
L’Università di Napoli, anche in periodi di acceso laicismo, ha sempre considerato suo vanto e decoro il magistero universitario del Santo Dottore, che nel 1852 fu proclamato celeste patrono dell’ Ateneo.
Le lezioni del maestro erano seguite da numerosi alunni e anche da persone insigni tra cui cui l’arcivescovo di Capua e l’arcivescovo di Salerno, Matteo Della Porta.
Oltre ad attendere all’insegnamento e alla compilazione di opuscoli apologetici e filosoficoteologici, il Santo si dedicava al sacro ministero della predicazione. Nel 1273 predicò il Quaresimale nella chiesa napoletana di San Domenico e, fatto nuovo per quei tempi, invece del latino, usò la lingua volgare, per poter essere accessibile a tutti.
Intanto attendeva al completamento della terza parte della Somma Teologica. Egli non era freddo, distaccato ragionatore, ma andava alla verità con tutta l’anima. Il pensatore e il santo erano due aspetti indissolubili della sua personalità. Per dedicarsi completamente al servizio della verità, aveva rifiutato alte cariche ecclesiastiche, quali la nomina ad abate di Montecassino, consentendogli di conservare il saio domenicano, e la nomina ad arcivescovo di Napoli. La profonda umiltà e la purità angelica, eliminando l’orgoglio dello spirito e l’orgoglio della carne, permisero al suo genio di spaziare nei cieli del sapere, mentre la preghiera e la contemplazione gli aprirono le sorgenti della Sapienza celeste.
Il 6 dicembre 1273, mentre celebrava nella chiesa di San Domenico a Napoli, fu rapito in estasi e dovettero scuoterlo, per farlo tornare alle normali occupazioni, ma da quel giorno non volle più scrivere.
Al confratello fra Reginaldo da Piperno, che gli faceva continue, dolci insistenze a riprendere la penna, per completare la Somma Teologica, Tommaso disse:
«Tutto quello che ho scritto mi sembra un pugno di paglia a paragone di quello che ho visto e mi è stato rivelato. E’ venuta la fine della mia scrittura, e spero che sia vicina la fine della mia vita».
Chiamato dal Papa Gregorio X a partecipare come esperto al Concilio di Lione, insieme con altri insigni teologi del tempo (Sant’Alberto Magno, San Bonaventura da Bagnoregio, Pietro di Tarantasia) fu colto da improvviso malore lungo il viaggio, e fraternamente ospitato dai monaci di Fossanova nel Lazio. Erano con lui anche fra’ Giacomo da Salerno, umile fratello laico domenicano, che fu addetto al servizio di San Tommaso, e fra Reginaldo da Piperno suo confessore. Riferisce il suo biografo Guglielmo da Tocco, fra Giacomo e fra Reginaldo furono testimoni di un’estasi che san Tommaso ebbe a Salerno «cum esset in conventu fratrum» e un’altra che ebbe nel castello di Sanseverino.
Il sole del suo genio e della sua santità dava gli ultimi bagliori. Commentò in modo stupendo il libro sacro del Cantico dei cantici e, prima di ricevere il Santo Viatico, in umile e fervida adorazione, rinnovò la sua professione di fede: «Ricevo Te, prezzo della redenzione dell’anima mia, per il cui amore ho studiato, vegliato, lavorato. Ho predicato Te, ho insegnato Te. Non ho detto mai nulla contro di Te».
Queste parole sono il più bel compendio di tutta la sua mirabile vita e indicano il segreto della sua prodigiosa attività.
Il 7 marzo 1274, chiudeva la sua giornata terrena ed entrava nella gloria, da lui più volte pregustata nell’estasi orante.
Il Papa Giovanni XXII, trattando la sua causa di canonizzazione, scrisse: «Non dubitiamo che fra Tommaso d’Aquino sia glorioso nel cielo, perché la sua vita è stata santissima e la sua dottrina prodigiosa. Egli solo ha sparso più luce nella Chiesa che tutti gli altri Dottori».
Molte sono le reliquie di questo santo sparse nel mondo.
Il corpo si venera nella chiesa di St. Sernin. Sepolto originariamente a Fossanova, fu traslato, nel gennaio del 1369, a Tolosa dove rimase fino al 1791. In questa occasione il braccio destro fu dato ai Domenicani di Parigi che, in seguito, lo portarono a Roma dove, nella chiesa dei Ss. Domenico e Sisto, veniva esposto ai fedeli l’8 marzo. Un’altra reliquia, sempre proveniente da un braccio, fu donata da Urbano VIII, il 15 maggio del 1633, alla chiesa della Concezione a Via Veneto.
La custodia della reliquia della mano destra è vantata dalla chiesa di San Domenico a Salerno. La contessa Teodora, nel 1288, aveva chiesto all’abate di Fossanova di avere come reliquia la mano destra del santo fratello. E, come narra Guglielmo da Tocco, l’abate staccò la mano destra dal corpo del Santo e la consegnò alla contessa che dapprima la collocò nella cappella del castello di Sanseverino e poi, d’accordo con il figlio Tommaso (colui che edificò la certosa di Padula), decise di donarla alla chiesa domenicana di Salerno.

Publié dans:Santi, Santi: San Tommaso d'Aquino |on 28 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

LA VERGINITÀ HA SEMPRE LA MEGLIO NEL MATRIMONIO (Omelia)

http://www.zenit.org/article-29369?l=italian

LA VERGINITÀ HA SEMPRE LA MEGLIO NEL MATRIMONIO

Vangelo della IV Domenica del Tempo Ordinario

di padre Angelo del Favero*

ROMA, giovedì, 26 gennaio 2012 (ZENIT.org).- 1Cor 7,32-35
“Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato, invece, si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!
Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.”.
Mc 1,21-28
“In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, a Cafarnao, insegnava.(…). Ed ecco,..vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!”. E Gesù gli ordinò severamente: “Taci! Esci da lui!”. E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!”. La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.”.
Nella sua “Introduzione alla vita devota”, san Francesco di Sales, Dottore della Chiesa (1567-1623), afferma che la messa in pratica del Vangelo (ciò che intendiamo con “devozione”) è possibile e doverosa in tutti gli stati di vita del battezzato, nessuno escluso: “E’ un errore, anzi un’eresia, voler escludere l’esercizio della devozione dall’ambiente militare, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalle case dei coniugati”.
Il santo vescovo di Ginevra, dopo aver esemplificato alcuni stati particolari di vita cui corrisponde un modo proprio e legittimo di seguire il Signore, conclude: “la devozione non distrugge nulla quando è sincera, ma anzi perfeziona tutto e, quando contrasta con gli impegni di qualcuno, è senza dubbio falsa”.
Il messaggio è chiaro: in ogni condizione umana si può e si deve testimoniare Gesù Cristo.
Queste parole ci aiutano a comprendere la seconda Lettura.
Paolo, rispondendo alle domande dei Corinzi, aveva dichiarato apertamente di preferire la verginità al matrimonio: “Sei libero da donna? Non andare a cercarla” (1Cor 7,27). Egli ha iniziato a parlare dei due stati di vita con un’affermazione sorprendente, certamente da non prendere alla lettera: “è cosa buona per l’uomo non toccare donna” (1Cor 7,1).
L’apostolo prende qui posizione sulla questione se sia lecito o meno per un cristiano avere relazioni sessuali (“toccare donna”), vale a dire cosa sia preferibile davanti a Dio: sposarsi o non sposarsi? Egli ha già escluso in modo categorico la “porneia” (i rapporti prematrimoniali), ed ora confronta la condizione degli sposati con quella delle persone vergini.
L’affermazione: “chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato, invece, si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!” (1Cor 7,32-34), non intende mortificare lo stato coniugale nel confronto con la verginità consacrata.
Per Paolo, tutti i credenti, uomini e donne, sposati o no, devono impegnarsi a vivere il proprio stato di vita come dono e compito universale di santità, in Cristo.
Certo, agli sposati non mancheranno le loro specifiche “preoccupazioni”, con una certa fatica a vivere in pienezza la relazione con il Signore; ma i rapporti sessuali sono legittimi e santificanti, purché nessuno dei due sposi ne faccia un uso egoistico.
In tal senso, la preoccupazione fondamentale dei coniugi non deve essere quella del “sì/no” all’atto sessuale, ma del “sì” alla verità di esso davanti a Dio.
E la verità del rapporto coniugale è questa: Dio vuole che i due siano “una carne sola” (Mt 19,4-6), e che lo siano in maniera “verginale”, cioè con purezza di cuore e con purezza di amore.
Puro è il cuore che nel dono di sé desidera anzitutto la felicità dell’altro, senza strumentalizzare il rapporto sessuale per il proprio piacere; puro è l’amore, donato e ricevuto, che riconosce in Dio la sua Fonte ed obbedisce ogni giorno alla sua volontà e verità.
E’ lo spirito dei coniugi che non deve essere “impuro”, fa intendere Paolo, ben sapendo che la concupiscenza della carne, anche nel matrimonio, è tentazione diabolica e peccato grave, poiché contraddice radicalmente il significato sponsale inscritto dal Creatore nel corpo.
Passando ora al Vangelo, comprendiamo che l’egoismo sessuale coniugale, anche se condiviso, è per il matrimonio una rovina essenzialmente “diabolica” (‘diavolo’ è l’altro nome di satana, colui che ‘divide’), causa di profonda, dolorosa separazione dell’anima del marito dall’anima della moglie, anche nell’unione dei loro corpi.
In conclusione, mi servo qui ancora di san Francesco di Sales: sia la devozione di chi non è sposato, sia quella di chi è sposato, sono vere e giuste davanti a Dio, purché, nei due diversi stati di vita, ugualmente chiamati alla santità, ognuno, anche “nelle cose del mondo” anzitutto si preoccupi “delle cose del Signore” (1 Cor 7,32-33), vale a dire di star facendo la volontà di Dio in tutte le sue azioni.
——–
* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

PREGARE PER FAR CRESCERE L’AMORE PER LA TERRA SANTA (Messaggio del Custode di Terrasanta…)

http://www.zenit.org/article-29390?l=italian

PREGARE PER FAR CRESCERE L’AMORE PER LA TERRA SANTA

Messaggio del Custode di Terrasanta per la Giornata Internazionale di Intercessione per la Pace in Terra Santa

ROMA, venerdì, 27 gennaio 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il messaggio del Custode di Terrasanta, Padre Pierbattista Pizzaballa, O.F.M., per la IVa Giornata internazionale di intercessione per la pace in Terra Santa, in programma domenica 29 gennaio.
***
Nella Grotta della Natività a Betlemme, appena prima dell’altare della stella, c’è il “camino della cometa”. L’antica devozione dei betlemiti richiama ancora oggi il prezioso servizio della cometa, che ha indicato la strada a pastori e magi, e – terminato il suo compito unico e irrepetibile – si è “spenta” in un “camino”. Il mese che ha seguito la nascita del Signore nostro Gesù Cristo dev’essere stato un tempo molto movimentato. Anche l’attuale gennaio è un mese che continua a rifarsi al Natale, in un crescendo di iniziative che testimoniano quanto ci sia ancora da fare per accogliere degnamente il Principe della Pace. Il “camino della cometa” ci dice che essa ha finito il suo compito, non dobbiamo attendere altro, è al Figlio di Dio che dobbiamo guardare per incontrare Colui che è la giustizia e la pace. Ma pace non c’è… Invocata, proclamata, cercata, proposta, indicata, anche premiata: tutti parlano di pace, ma la pace non c’è. Forse che la pace sia altro dalle parole degli uomini?
“Di fronte alla difficile sfida di percorrere le vie della giustizia e della pace possiamo essere tentati di chiederci, come il Salmista: Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? (Sal 121,1).
La pace non è soltanto dono da ricevere, bensì anche opera da costruire. Per essere veramente operatori di pace, dobbiamo educarci alla compassione, alla solidarietà, alla collaborazione, alla fraternità, essere attivi all’interno della comunità e vigili nel destare le coscienze sulle questioni nazionali ed internazionali e sull’importanza di ricercare adeguate modalità di ridistribuzione della ricchezza, di promozione della crescita, di cooperazione allo sviluppo e di risoluzione dei conflitti (Benedetto XVI, Messaggio Pace 2012). Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio », dice Gesù nel discorso della montagna (Mt 5,9). Per cambiare il cuore ci vuole la preghiera: questo sì. E senza cambiare il cuore non si riuscirà neppure a indirizzare lo sguardo nella giusta direzione. La nostra preghiera dovrà dunque chiedere la determinazione e la coerenza di abbracciare questo impegno, educandoci alla compassione… L’elenco che ci offre il Papa è quanto mai esaustivo circa ciò che va fatto per giungere alla beatitudine di chi opera per la pace nella verità. Egli ribadisce: La pace per tutti nasce dalla giustizia di ciascuno e nessuno può eludere questo impegno essenziale di promuovere la giustizia, secondo le proprie competenze e responsabilità. Invito in particolare i giovani, che hanno sempre viva la tensione verso gli ideali, ad avere la pazienza e la tenacia di ricercare la giustizia e la pace, di coltivare il gusto per ciò che è giusto e vero, anche quando ciò può comportare sacrificio e andare controcorrente.
Benvenuti, dunque alla quarta Giornata internazionale di intercessione per la pace in Terra Santa. Un appuntamento che arricchisce questo mese di riflessione corale sul Dono appena ricevuto, e ci invita a superare ogni divisione per rendere grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo (tema della Settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani). Anche la Giornata di dialogo con l’Ebraismo che ha per tema La Sesta Parola: Non Uccidere, ci ricorda l’urgenza della giustizia e della pace. Lo specifico pregare per far crescere nei cuori e nelle volontà l’amore per la Terra Santa e l’impegno per la giustizia e la pace delle quali soffriamo la mancanza, è innanzitutto dovere di tutte le Chiese che qui convivono e che devono ancor più e meglio testimoniare la riconciliazione, l’unità e la pace, cominciando da Gerusalemme. E’ compito di tutti, dovere di ciascuno, dai Pastori ai genitori, dagli insegnanti ai giovani: pregare per essere capaci di accogliere questo dono è un’urgenza che ci coinvolge tutti.
Questo non-stop di preghiera, di tante Chiese in tanti luoghi del mondo, è un dono importante per la Terra Santa. E’ consolazione, aiuto, sostegno alla speranza per i nostri cristiani che vivono ogni giorno il disagio, la sofferenza, la frustrazione per una situazione sociale alla quale non vedono miglioramenti. Sapere che il 29 gennaio tante persone vorranno unire volontà e cuori per chiedere a Dio la pace per la Terra Santa, per la loro Terra, è rugiada del cielo, è solidarietà di fratelli sconosciuti ma infinitamente cari. Di questo hanno bisogno, di questo abbiamo bisogno.

Publié dans:Terra Santa (dalla) |on 28 janvier, 2012 |Pas de commentaires »
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