Archive pour septembre, 2011

EDUCARE ALL’ACCOGLIENZA A PARTIRE DALLA CUSTODIA DEL CREATO

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27957?l=italian

EDUCARE ALL’ACCOGLIENZA A PARTIRE DALLA CUSTODIA DEL CREATO

di mons. Giampaolo Crepaldi*

ROMA, giovedì, 15 settembre 2011 (ZENIT.org).- La Chiesa che è in Italia ha individuato nel primo di settembre la giornata di riflessione e preghiera circa i rapporti tra umanità e ambiente e la ha denominata “Giornata per la Salvaguardia del Creato”. Il tema di quest’anno è: “In una terra ospitale educhiamo all’accoglienza”. E’ stato predisposto dalle Commissioni Episcopali CEI per i Problemi del Lavoro e per l’Ecumenismo, un messaggio suddiviso in quattro parti: l’uomo, creatura responsabile ed ospitale; il problema dei rifugiati ambientali; educare all’accoglienza; i miti eredi di questo mondo.
Destinatari di questa presa di coscienza anzitutto sono le nostre comunità cristiane e i singoli christifideles di tutte le età, stati di vita e ceti sociali. Il creato è la dimensione spazio-temporale in cui il Creatore ha fatto l’uomo sua immagine e somiglianza (Gen 2,8-15) per custodire e, come dice il Concilio Vaticano II, per perfezionare ciò che Lui aveva chiamato ad essere. Mi rivolgo ai fedeli laici presenti ed impegnati nelle nostre comunità cristiane e a coloro che sono presenti nella ‘città terrigena’ quale sale e luce di quei valori non negoziabili che debbono contraddistinguere l’operato di un cattolico nella società.
1. L’uomo, creatura responsabile ed ospitale
E’ opportuno riflettere sull’identità della persona umana che è grande proprio perché è l’immagine di Dio e quindi, in primis, l’uomo deve dare cittadinanza a Dio nella sua coscienza e nei suoi parametri di valutazione e di azione. Il credente ha il compito di aiutare la società di oggi a riconoscere che l’uomo è realtà penultima e Dio è la sua piena realizzazione. Ed in questo, direbbe S. Agostino, l’uomo trova pace. Ogni percorso di pensiero antropologico ci presenta la persona umana come soggetto che, in virtù delle sue capacità razionali di intendere e volere, è anche responsabile dei suoi pensieri, delle sue azioni e omissioni. Questa sua responsabilità la deve espletare nei rapporti con Dio, con sé stesso e con il suo prossimo. Una responsabilità per il cristiano diversa dalla risposta di Caino: “sono forse io custode di mio fratello?” (Gen 4,9) che si fa accoglienza e generosa tutela del più debole, nella legalità e nella giustizia, premessa questa per un vero e profetico atto di carità. E’ la consapevolezza dell’appartenenza alla stessa natura umana che ci deve spingere a tutelare nel fratello/sorella in difficoltà, l’imago Dei. E’ la stessa dignità di figlio di Dio che ci dona il battesimo e la fede in Cristo Gesù che non può lasciarci indifferenti nei confronti dei diseredati e quindi offrire loro gesti concreti di speranza.
2. Il problema dei rifugiati ambientali
L’abbandono da parte di singole persone, famiglie o gruppi comunitari di adulti, giovani e bambini di territori del nostro pianeta per la desertificazione, il degrado e la perdita di produttività di vaste aree agricole,  l’inquinamento dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della bio-diversità, l’aumento di eventi naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali e tropicali(1), ci interpella chiedendoci anzitutto di conoscere e informare su questa nuova e drammatica forzata migrazione. Tutti possiamo fare opinione e pressione sulla comunità internazionale e sulle persone che hanno a cuore l’habitat dell’intera umanità perché, anzitutto, si intervenga concretamente “a quo” sul da farsi nell’arrestare quei fenomeni di impoverimento ambientale che hanno la loro causa nella speculazione e nella mal gestione del territorio.
3. Educare all’accoglienza a partire dalla custodia del creato
Accogliere è uno degli atteggiamenti che gli Apostoli hanno rilevato nella vita di Cristo Gesù. Infatti il Maestro e Signore accoglie i peccatori, i malati, i fanciulli, i dubbiosi e inoltre non disdegna di entrare nella casa di Zaccheo e di accogliere Nicodemo di notte. L’accoglienza è uno stile che non può mancare in una comunità cristiana. Il messaggio dei Vescovi italiani per la 6a giornata per la salvaguardia del Creato ci esorta a farci carico del Creato. Anzitutto lodando Dio per ciò che ci ha donato , sentendoci responsabili dell’intera creazione, ed infine facendo nostro lo stile della gratuità e del servizio nei confronti di ogni persona. Il tutto deve partire da una convinzione che ci viene dalla fede e cioè che è in Cristo che la solidarietà diviene reciprocità e vera fraternità. La giornata della salvaguardia del Creato può essere inoltre l’occasione per un incontro tra le varie confessioni cristiane che si pongono quale coscienza per tutta la società al fine di sensibilizzare l’intera famiglia umana a cooperare “affinché le risorse ambientali siano preservate dallo spreco, dall’inquinamento, dalla mercificazione e dall’appropriazione da parte di pochi”(2). Anche questo impegno diviene evangelizzazione e rispetto delle vestigia del Creatore e della sua sapiente attenzione per la vita.
4. I miti, eredi di questo mondo
Matteo nel riportare il discorso della Montagna ci offre un criterio di “possesso” che non appartiene alla logica della sopraffazione o dell’imposizione. Per lui coloro che possederanno la terra nella logica del regno di Dio sono i miti (Mt 5,5), cioè coloro che nella semplicità di un cuore limpido e puro sono lontani da cattiverie, speculazioni o linguaggi violenti e quindi si commuovono e si preoccupano del bene di ogni creatura e persona. Chi sa realizzare per sé la attenzione evangelica della mitezza è colui che più di ogni altro può concretamente spendersi per far comprendere il dono della creazione e il dovere di custodirla vedendo in questo un indiretto atto di amore verso Dio creatore e signore di tutte le cose.
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*Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo-vescovo di Trieste e Presidente della Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE).

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IL PAPA: BISOGNA RECUPERARE IL PRIMATO DI DIO NELLA SOCIETÀ

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27909?l=italian

IL PAPA: BISOGNA RECUPERARE IL PRIMATO DI DIO NELLA SOCIETÀ

Non c’è vera libertà senza Dio, afferma

ANCONA, domenica, 11 settembre 2011 (ZENIT.org).- Il primato di Dio nella vita quotidiana è necessario perché l’uomo scopra la verità su se stesso, perché le ideologie che hanno voluto organizzare la società prescindendo da Dio non sono riuscite a saziare l’uomo.
E’ il messaggio che Papa Benedetto XVI ha lanciato questa domenica nell’omelia con la quale ha chiuso il XXV Congresso Eucaristico Nazionale, nel cantiere navale di Ancona.
Il Pontefice ha sottolineato l’importanza del fatto che Dio torni nella società umana.
“E’ anzitutto il primato di Dio che dobbiamo recuperare nel nostro mondo e nella nostra vita, perché è questo primato a permetterci di ritrovare la verità di ciò che siamo, ed è nel conoscere e seguire la volontà di Dio che troviamo il nostro vero bene”.
Nel mondo contemporaneo, “dopo aver messo da parte Dio, o averlo tollerato come una scelta privata che non deve interferire con la vita pubblica, certe ideologie hanno puntato a organizzare la società con la forza del potere e dell’economia”.
“La storia ci dimostra, drammaticamente, come l’obiettivo di assicurare a tutti sviluppo, benessere materiale e pace prescindendo da Dio e dalla sua rivelazione si sia risolto in un dare agli uomini pietre al posto del pane”.
Ciò, ha osservato, accade perché l’uomo è “incapace di darsi la vita da se stesso”, e “si comprende solo a partire da Dio: è la relazione con Lui a dare consistenza alla nostra umanità e a rendere buona e giusta la nostra vita”.
Il Papa ha anche voluto affermare che l’uomo non può essere veramente libero senza Dio. “Spesso confondiamo la libertà con l’assenza di vincoli, con la convinzione di poter fare da soli, senza Dio, visto come un limite alla libertà”, ha affermato.
Ad ogni modo, “è questa un’illusione che non tarda a volgersi in delusione, generando inquietudine e paura”, perché “solo nell’apertura a Dio, nell’accoglienza del suo dono, diventiamo veramente liberi, liberi dalla schiavitù del peccato che sfigura il volto dell’uomo e capaci di servire al vero bene dei fratelli”.
 
Tempo e spazio per Dio
Il Pontefice ha quindi sottolineato che è imprescindibile “dare tempo e spazio a Dio, perché sia il centro vitale” dell’esistenza umana.
La “sorgente per recuperare e riaffermare il primato di Dio”, ha aggiunto, è l’Eucaristia: “qui Dio si fa così vicino da farsi nostro cibo, qui Egli si fa forza nel cammino spesso difficile, qui si fa presenza amica che trasforma”.
“La comunione eucaristica, cari amici, ci strappa dal nostro individualismo, ci comunica lo spirito del Cristo morto e risorto, ci conforma a Lui; ci unisce intimamente ai fratelli in quel mistero di comunione che è la Chiesa, dove l’unico Pane fa dei molti un solo corpo”.
L’Eucaristia, ha sottolineato il Papa, “sostiene e trasforma l’intera vita quotidiana”, perché “nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri”.
Da essa nasce “una nuova e intensa assunzione di responsabilità a tutti i livelli della vita comunitaria”, e quindi “uno sviluppo sociale positivo, che ha al centro la persona, specie quella povera, malata o disagiata”.
Il Papa ha invitato a partecipare a questa “spiritualità eucaristica”, che è “vero antidoto all’individualismo e all’egoismo che spesso caratterizzano la vita quotidiana” e “porta alla riscoperta della gratuità, della centralità delle relazioni, a partire dalla famiglia”.
Questa spiritualità, ha continuato, “è anima di una comunità ecclesiale che supera divisioni e contrapposizioni e valorizza le diversità di carismi e ministeri ponendoli a servizio dell’unità della Chiesa, della sua vitalità e della sua missione”, e “via per restituire dignità ai giorni dell’uomo e quindi al suo lavoro, nella ricerca della sua conciliazione con i tempi della festa e della famiglia e nell’impegno a superare l’incertezza del precariato e il problema della disoccupazione”.
“Ci aiuterà anche ad accostare le diverse forme di fragilità umana consapevoli che esse non offuscano il valore della persona, ma richiedono prossimità, accoglienza e aiuto”.
“Dal Pane della vita trarrà vigore una rinnovata capacità educativa, attenta a testimoniare i valori fondamentali dell’esistenza, del sapere, del patrimonio spirituale e culturale; la sua vitalità ci farà abitare la città degli uomini con la disponibilità a spenderci nell’orizzonte del bene comune per la costruzione di una società più equa e fraterna”, ha concluso.

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buona notte

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Red begonia in fiore

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Abraham and the three Angels

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Mimo, funambolo e martire (O.R. 23-24 novembre 2009)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2009/272q04a1.html

(L’Osservatore Romano 23-24 novembre 2009)

Mimo, funambolo e martire

di Fabrizio Bisconti

È piuttosto rigido l’atteggiamento dei Padri della Chiesa nei confronti dei mestieri che ruotano attorno all’orbita artistica, relativamente al pericolo che alcune professioni, pertinenti all’arte e allo spettacolo, possano far incorrere i fedeli nel peccato di idolatria. Se, poi, dalla teoria, talora asseverativa e rigorosa, si passa alla prassi, dobbiamo constatare che alcuni mestieri, tradizionalmente vietati o, comunque, posti in seria discussione dalle fonti canoniche, appaiono tra quelli esercitati dai primi cristiani, come documenta la produzione epigrafica delle catacombe romane.
I divieti e gli inviti a stare in guardia dei Padri della Chiesa si riferiscono specialmente agli spettacoli, a cominciare da Clemente Alessandrino, che considera teatro e stadio come « cattedre di pestilenza (Pedagogus, iii, 76, 3), per continuare con Tertulliano che ritiene ispiratori di idolatria i giochi atletici e violenti, ed inutili il pugilato e la lotta (De spectaculis, 11-18). Gli apologisti condannano, senza attenuanti, il circo e l’anfiteatro, in quanto vedere uccidere un uomo è come ucciderlo, mentre per Cipriano lo spettacolo in genere può e deve essere identificato con l’idolatria (De spectaculis, 4). Ma è la testimonianza di Agostino a dare un’idea più chiara e complessiva della visione cristiana dello spettacolo e del travaglio che tormenta i Padri della Chiesa a questo proposito:  « Sono i catecumeni – egli rimprovera – a scandalizzarsi per il fatto che i medesimi uomini riempiano le chiese nelle feste cristiane e i teatri in quelle pagane » (De catechizandis rudibus, 25, 48).
Nonostante il tono asseverativo di questi richiami alla vigilanza, molti documenti romani ci parlano di « teatranti cristiani e non solo di aurighi, ginnasti e musici, ma anche di mimi e pantomimi che, come è noto, erano particolarmente invisi ai Padri della Chiesa, specialmente quando, durante la controversia ariana, scelsero come temi preferiti di pantomima i misteri cristiani, parodiando il battesimo e il martirio (Agostino, De baptismo, vii, 53).
Eppure non mancano alcuni celebri mimi romani sicuramente cristiani, fra tutti va ricordato Vitale, sepolto a San Sebastiano nel V secolo e rammentato da un interminabile epitaffio metrico, dove si ricorda, tra l’altro, la sua abilità nell’imitazione delle donne. Vitale, come si desume dal testo epigrafico, era talmente bravo che la sua sola presenza suscitava ilarità ed allegria; qualsiasi ora con lui era lieta; il suo unico rimpianto consisteva nel fatto che tutti coloro che aveva imitato in vita morissero con lui. Ancora a San Sebastiano era sepolto un famoso funambolo (catadromarius) e a San Paolo fuori le Mura un pantomimo che, come è noto, comporta una messa in scena più completa, con mimo, danza e recitazione. Altre testimonianze epigrafiche ricordano ancora un danzatore a San Paolo e un musico a San Sebastiano, mentre, per quanto attiene alle donne di spettacolo, resta il ricordo di una suonatrice di lira da San Lorenzo fuori le Mura e di una cantante, moglie di un ciabattino, dal cimitero Maggiore, sulla via Nomentana.
Queste due ultime testimonianze sembrano rispondere a un giudizio molto severo sulle « donne di teatro » considerate di infima condizione sociale e di dubbia reputazione (Giovanni Crisostomo, Contra ludos et theatra, 2). L’atteggiamento ostile su certi mestieri nasce da un’etica del lavoro, in base alla quale alcune attività non risultano consone alla dottrina cristiana. Il lavoro eseguito da un cristiano, secondo tale teoria, non deve essere disonesto, immorale e idolatrico:  per questo non si accettano alcune attività e si consigliano i cristiani di cambiare mestiere, se prima della conversione avessero esercitato una professione poco consona con la nuova vita che si stava per condurre. Tertulliano, a questo riguardo, si sofferma proprio sui mestieri permessi ai cristiani o, meglio, esorta ogni cristiano a evitare tutte quelle professioni che potevano accostarlo al culto degli dei (De idolatria, 12, 4).
Non si accettano, innanzi tutto, coloro che praticano o gestiscono la prostituzione, gli aurighi, i circensi, i gladiatori, i sacerdoti, i custodi dei templi pagani, i maghi, gli ipnotizzatori, gli indovini, gli interpreti dei sogni, i fabbricanti di amuleti, gli scultori e i pittori (Tradizione apostolica, 11, 2-15). Proprio questi ultimi, invece, appaiono nelle catacombe romane e, segnatamente, nelle incisioni figurate sui marmi di chiusura dei loculi:  una evoca la professione di un defunto intento a comporre una lastra di opus sectile e un’altra riproduce la bottega dello scultore di sarcofagi Eutropos e non mancano allusioni a pittori, scultori di clipei e musivi vari.
Come si diceva, la prassi e la teoria non parlano la stessa lingua e i cristiani di Roma impongono leggi e divieti troppo rigidi.
L’unico timore tenuto presente anche dalla base sociale della comunità è quello di incorrere nel peccato d’idolatria, che il severo Tertulliano paragona a un cancro, le cui metastasi minano il corpo sociale e da cui occorre difendersi con antidoti estremi (De idolatria, 12, 4). L’apologista africano, come sempre, si riferisce a episodi che stavano accadendo in quel tempo sulla sua chiesa, episodi che da Roma ci accompagnano verso la realtà cartaginese dell’epoca severiana, ma che fioriscono nell’idea generale della tormentata conversione al cristianesimo nei primi secoli. Tertulliano ricorda, infatti, un episodio estremo, che dà il senso delle infrazioni alle regole della Chiesa:  « I costruttori di idoli vengono ammessi nell’ordine ecclesiastico. Quale crimine! ».

“LA GLOBALIZZAZIONE HA BISOGNO DI TROVARE UN’ANIMA”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-27937?l=italian

“LA GLOBALIZZAZIONE HA BISOGNO DI TROVARE UN’ANIMA”

Si è concluso l’incontro mondiale dei leader religiosi a Monaco

di Chiara Santomiero

MONACO, martedì, 13 settembre 2011 (ZENIT.org).- “La globalizzazione, che è una grande risorsa, ha bisogno di trovare un’anima”: è il messaggio contenuto nell’appello per la pace firmato dai 300 leader religiosi riuniti dall’11 al 13 settembre dalla Comunità di Sant’Egidio e dal card. Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco-Frisinga, nel capoluogo bavarese per incontro mondiale “Bound to Live Together. Religioni e culture in dialogo”.
Un appello per il mondo
“L’egoismo – afferma il messaggio letto nella cerimonia finale dell’incontro svoltasi in Marienplatz davanti alla Frauenkirche, la cattedrale di Nostra Signora – conduce ad una civiltà della morte e provoca anche la morte di tanti. Per questo, occorre guardare in alto, aprirsi al futuro e diventare capaci di globalizzare la giustizia”. “Dobbiamo, con forza, – prosegue il messaggio – riproporre il problema della pace in tutte le sue dimensioni”. Infatti “siamo destinati a vivere insieme e tutti siamo responsabili dell’arte del convivere. Il dialogo si è rivelato oggi l’arma più intelligente e pacifica.Èla risposta ai predicatori del terrore, che addirittura usano le parole delle religioni per diffondere odio e dividere il mondo. Niente è perduto con il dialogo”.
Più forti insieme
“Monaco in questi giorni è divenuta la capitale dello spirito – ha affermato nel suo intervento conclusivo Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio – non si sono sentiti passi pesanti dei soldati sulle sue strade, ma i passi leggeri dei cercatori di Dio e dei pellegrini della pace”.
“Siamo più forti e più pieni di speranza dopo questi giorni assieme” perché “siamo scesi in profondità nelle nostre religioni e questo ci insegna ad essere uomini di pace, come ci ha scritto il nostro amato Benedetto XVI nel suo messaggio”.
“Siamo pieni di speranza – ha proseguito Riccardi -, tanto da dire con forza: che il prossimo decennio sia davvero nuovo! La novità è la pace. La pace in un mondo più giusto verso i poveri, dove i ricchi imparino la sobrietà e la partecipazione vera alla lotta contro la povertà. La pace è un sogno e una speranza, non un’utopia. E’ il sogno che matura nel cuore di una donna e di un uomo spirituali, che non si rassegnano al male, alla mancanza di libertà, di libertà religiosa, di libertà dalla miseria. La pace, in modo concreto, è la nostra visione del futuro. Perché la pace è una visione divina, essendo il nome stesso di Dio“.
“In un’atmosfera di stima reciproca, di rispetto e di amicizia – ha aggiunto il card. Marx – ci siamo accordati su ciò che vogliamo e anche su ciò che possiamo realizzare, perché tutto il mondo, tutta la famiglia umana possa avanzare verso il futuro con coraggio e con molta speranza. Nessun paese vive per se stesso. E anche l’Europa non può e non vuole bastare a se stessa, ma ha una missione per il mondo”.
Fiducia nell’umanità
Un’Europa e un mondo scossi da eventi umani e naturali che mettono alla prova lo spirito e l’umanità dei popoli che li abitano. “Se c’era ancora dell’ingenuità nella nostra pacifica società – ha affermato nella sua testimonianza Ole Christian Maelen Kvarme, vescovo luterano di Oslo (Norvegia) -, con l’attentato è andata perduta. Un norvegese biondo ha aggredito la nostra società aperta e il suo attacco mirava alla presenza dei musulmani tra di noi. Com’è possibile rispondere a un tale estremismo, a un tale male, a questi atteggiamenti e alla retorica dell’odio?”.
“Nel dolore e nella rabbia – ha proseguito Kvarme –, sono stati i giovani a indicarci la direzione del nostro futuro. Nella cattedrale ho incontrato vari dei sopravvissuti al massacro e sono rimasto colpito dalla loro determinazione. Ciò di cui abbiamo bisogno ora non è minor apertura, ma più democrazia e costruire la fiducia con il dialogo. Una giovane mi ha detto: ‘Se una persona sola può causare tanto male, pensa all’amore che possiamo creare insieme’”.
“Da questo fortissimo terremoto – ha detto rivolto alle persone riunite nella Marienplatz Gijun Sugitani, consigliere supremo della scuola buddista Tendai (Giappone) – abbiamo imparato una cosa importante. Che gli esseri umani devono essere più umili di fronte alla natura e, allo stesso tempo, che siamo parte integrante di una grande famiglia e che abbiamo bisogno di vivere insieme, perché destinati a convivere”. “Il nostro futuro – ha proseguito Sugitani – non è la tecnologia. I problemi alla centrale nucleare di Fukushima sono stati causati dall’uomo stesso. Il nostro futuro non consiste nella sicurezza del sistema economico. Il nostro futuro sta nella saggezza di imparare l’arte della convivenza, così come è scritto nelle antiche tradizioni religiose”.
“Si potrebbe dire – ha raccontato Edith Dunia Daliwonga, della Comunità di Sant’Egidio nella Repubblica democratica del Congo – che appartengo ad una generazione che ha conosciuto quasi solo la guerra e la violenza, in altri termini una generazione perduta e senza speranza. Infatti senza la pace non c’è futuro e non c’è speranza. La guerra e la violenza per gli uomini sono come una tempesta e come è facile fare naufragio! Non ci si può salvare se non insieme, senza abbandonare nessuno al suo destino di violenza e di povertà. Non bisogna abbandonare l’Africa”.
L’anno prossimo a Sarajevo
“Guardiamoci con più simpatia – afferma l’appello consegnato da bambini di varie nazionalità ai politici non solo della Baviera ma del governo tedesco e di altri paesi intervenuti alla cerimonia finale di Marienplatz – e molto, tutto, tornerà possibile”. “Ètempo di cambiare – insiste l’appello -. Il mondo ha bisogno di più speranza e di più pace. Possiamo imparare di nuovo a vivere non gli uni contro gli altri, ma gli uni con gli altri. Siamo consapevoli delle responsabilità delle religioni nel mettere in pericolo la pace, quando non hanno guardato verso l’alto. Chi usa il nome di Dio, per odiare l’altro e uccidere, bestemmia il Nome Santo di Dio. Per questo possiamo dire: non c’è futuro nella guerra! Non c’è alternativa al dialogo. Il dialogo è un’arma semplice a disposizione di tutti. Con il dialogo costruiremo un nuovo decennio e un secolo di pace. Diventiamo, tutti, artigiani della pace. Sì, Dio conceda al nostro mondo il dono meraviglioso della pace”.
“L’anno prossimo a Sarajevo!”, hanno invitato insieme il Gran Mufti Ceric e il vescovo ausiliare mons. Pero Sudar. A venti anni dal sanguinoso assedio della città nel corso del conflitto nell’ex Jugoslavia, nel 2012 il prossimo incontro della Comunità di Sant’Egidio secondo lo “spirito di Assisi” si svolgerà nella capitale della Bosnia-Erzegovina. “Sarajevo – ha affermato Ceric – è la prima Gerusalemme di Europa, la seconda del mondo, una città di antica convivenza di ebrei, cristiani e musulmani”.
“Abbiamo sempre vissuto uno accanto all’altro – ha proseguito il Gran Mufti – fino a una guerra assurda come tutte le guerre”. Anche se “sembrava impossibile vivere ancora insieme, siamo qui piu’convinti che questo antico sogno sia ancora possibile”. Qualcuno voleva distruggere Sarajevo “ma noi ci siamo rifiutati” e “a chi pensa che nel 2012 finisca il mondo, io dico che a Sarajevo nel 2012 comincerà il futuro”. “Al mio popolo – ha concluso Ceric – dico: abbiate fiducia in Dio e nell’Europa”.

Publié dans:globalizzazione |on 14 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

« Crucifixion en jaune » 1943, de Marc Chagall

http://paroissecatho.boulay.free.fr/meditation_pour_lexaltation_de_la_sainte_croix_l.html

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Omelia per la Festa dell’Esaltazione della Santa Croce : Riscoprire la croce di Cristo, strumento di salvezza (Cantalamessa)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13598.html

Omelia (14-09-2008)

padre Raniero Cantalamessa

Riscoprire la croce di Cristo, strumento di salvezza

Oggi la croce non è presentata ai fedeli nel suo aspetto di sofferenza, di dura necessità della vita, o anche di via per cui seguire Cristo, ma nel suo aspetto glorioso, come motivo di vanto, non di pianto. Diciamo anzitutto qualcosa sull’origine della festa. Essa ricorda due avvenimenti distanti tra loro nel tempo. Il primo è l’inaugurazione, da parte dell’imperatore Costantino, di due basiliche, una sul Golgota e una sul sepolcro di Cristo, nel 325. L’altro avvenimento, del secolo VII, è la vittoria cristiana sui persiani che portò al recupero delle reliquie della croce e al loro ritorno trionfale a Gerusalemme. Con il passar del tempo, la festa però ha acquistato un significato autonomo. E’ diventata celebrazione gioiosa del mistero della croce che, da strumento di ignominia e di supplizio, Cristo ha trasformato in strumento di salvezza.
Le letture riflettono questo taglio. La seconda lettura ripropone il celebre inno della Lettera ai Filippesi, dove la croce è vista come il motivo della grande « esaltazione » di Cristo: « Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre ». Anche il Vangelo parla della croce come del momento in cui « il Figlio dell’uomo è stato innalzato perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna ».
Ci sono stati, nella storia, due modi fondamentali di rappresentare la croce e il crocifisso. Li chiamiamo, per comodità, il modo antico e il modo moderno. Il modo antico, che si può ammirare nei mosaici delle antiche basiliche e nei crocifissi dell’arte romanica, è un modo glorioso, festoso, pieno di maestà. La croce, spesso da sola, senza il crocifisso sopra, appare punteggiata di gemme, proiettata contro un cielo stellato, con sotto la scritta: « Salvezza del mondo, salus mundi », come in un celebre mosaico di Ravenna.
Nei crocifissi lignei dell’arte romanica, questo stesso tipo di rappresentazione si esprime nel Cristo che troneggia in vestimenti regali e sacerdotali dalla croce, con gli occhi aperti, lo sguardo frontale, senza ombra di sofferenza, ma irraggiante maestà e vittoria, non più coronato di spine, ma di gemme. E’ la traduzione in pittura del versetto del salmo « Dio ha regnato dal legno » (regnavit a ligno Deus). Gesù parlava della sua croce in questi stessi termini: come del momento della sua « esaltazione »: « Io, quando sarò esaltato da terra, attirerò tutti a me » (Gv 12, 32).
Il modo moderno comincia con l’arte gotica e si accentua sempre di più, fino a diventare il modo ordinario di rappresentare il crocifisso, in epoca moderna. Un esempio estremo è la crocifissione di Matthias Grünewald nell’Altare di Isenheim. Le mani e i piedi si contorcono come sterpi intorno ai chiodi, il capo agonizza sotto un fascio di spine, il corpo tutto piagato. Anche i crocifissi di Velasquez e di Salvador Dalì e di tanti altri appartengono a questo tipo.
Tutti e due questi modi mettono in luce un aspetto vero del mistero. Il modo moderno – drammatico, realistico, straziante – rappresenta la croce vista, per così dire, « davanti », « in faccia », nella sua cruda realtà, nel momento in cui vi si muore sopra. La croce come simbolo del male, della sofferenza del mondo e della tremenda realtà della morte. La croce è rappresentata qui « nelle sue cause », cioè in quello che, di solito, la produce: l’odio, la cattiveria, l’ingiustizia, il peccato.
Il modo antico metteva in luce, non le cause, ma gli effetti della croce; non quello che produce la croce, ma quello che è prodotto dalla croce: riconciliazione, pace, gloria, sicurezza, vita eterna. La croce che Paolo definisce « gloria » o « vanto » del credente. La festa del 14 Settembre si chiama « esaltazione » della croce, perché celebra proprio questo aspetto « esaltante », della croce.
Bisogna unire, al modo moderno di considerare la croce, quello antico: riscoprire la croce gloriosa. Se al momento in cui la prova era in atto, poteva esserci utile pensare a Gesù sulla croce tra dolori e spasimi, perché questo ce lo faceva sentire vicino al nostro dolore, ora bisogna pensare alla croce in altro modo. Mi spiego con un esempio. Abbiamo di recente perso una persona cara, forse dopo mesi di grandi sofferenze. Ebbene, non continuare a pensare a lei come era sul suo letto; in quella circostanza, in quell’altra, come era ridotta alla fine, cosa faceva, cosa diceva, torturandosi magari il cuore e la mente, alimentando inutili sensi di colpa. Tutto questo è finito, non esiste più, è irrealtà; così facendo non facciamo che prolungare la sofferenza e conservarla artificialmente in vita.
Vi sono mamme (non lo dico per giudicarle, ma per aiutarle) che dopo aver accompagnato per anni un figlio nel suo calvario, una volta che il Signore l’ha chiamato a sé, si rifiutano di vivere altrimenti. In casa tutto deve restare com’era al momento della morte del figlio; tutto deve parlare di lui; visite continue al cimitero. Se vi sono altri bambini in famiglia, devono adattarsi a vivere anch’essi in questo clima ovattato di morte, con grave danno psicologico. Ogni manifestazione di gioia in casa sembra loro una profanazione. Queste persone sono quelle che hanno più bisogno di scoprire il senso della festa di domani: l’esaltazione della croce. Non più tu che porti la croce, ma la croce che ormai porta te; la croce che non ti schiaccia, ma ti innalza.
Bisogna pensare la persona cara come è ora che « tutto è finito ». Così facevano con Gesù quegli antichi artisti. Lo contemplavano come è ora: risorto, glorioso, felice, sereno, seduto sullo stesso trono di Dio, con il Padre che ha « asciugato ogni lacrima dai suoi occhi » e gli ha dato « ogni potere nei cieli e sulla terra ». Non più tra gli spasimi dell’agonia e della morte. Non dico che si possa sempre comandare al proprio cuore e impedirgli sanguinare al ricordo di quello che è stato, ma bisogna cercare di far prevalere la considerazione di fede. Se no, a che serve la fede?

INTRODUZIONE ALLA FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/commentilit/esaltazionecroce.htm

INTRODUZIONE ALLA FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE
 
È una delle 12 grandi feste dell’anno liturgico, ha un giorno di vigilia e si conclude il 21 settembre. La data del 14 settembre è comune all’Oriente e all’Occidente dove il papa orientale Sergio I (687-701) ne ordinò la festa.
La festa dell’Esaltazione riassume e richiama alcuni eventi storici legati al santo Legno, principalmente la scoperta della Vera Croce. Una tradizione formatasi abbastanza presto riferisce che sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, aveva ritrovato a Gerusalemme, presso il Golgota, le tre croci usate per Gesù Cristo e i due ladroni; una guarigione miracolosa, avvenuta al contatto con una d’esse, permise il riconoscimento della croce del Salvatore e di mostrarla alla venerazione del popolo. Appena la notizia della scoperta si diffuse nella Città Santa, una vasta folla si radunò per venerare la Croce del Signore. Il Patriarca di Gerusalemme, san Macarios, la portò su di un pulpito: e quando il popolo la vide innalzata verso l’alto, tutti assieme gridarono, decine di volte “Kyrie eleison”, un evento questo ricordato nel servizio di oggi, con la frequente ripetizione dei “Kyrie eleison” alla cerimonia dell’Esaltazione. Da allora una parte del sacro legno venne conservata nella basilica dell’Anàstasis (detta Santo Sepolcro dai latini), altre parti del sacro legno furono portate a Roma dalla stessa sant’Elena, che le custodì nella cappella della sua abitazione romana, divenuta il monastero di Santa Croce in Gerusalemme.
Si commemora anche la seconda grande Esaltazione della Croce, a Costantinopoli nel 629. Il 4 maggio 614, durante il saccheggio di Gerusalemme, la Vera Croce era caduta nelle mani dei Persiani. Nel 628 l’imperatore Eraclio, sconfiggendo il re Persiano Cosroe, recuperò la preziosa reliquia. Lieto della vittoria, Eraclio a cavallo, vestito della porpora e con il diadema, volle riportare il santo Legno della Salvezza attraverso la porta principale di Gerusalemme. Ma il cavallo si fermò ed il patriarca Zaccaria, che era stato liberato dalla prigionia persiana, fece presente, all’imperatore che il Figlio di Dio non aveva portato in forma solenne la Croce per le vie di Gerusalemme. Eraclio, commosso, a piedi e scalzi, dopo aver deposto la porpora ed il diadema, portò sulle sue spalle il legno benedetto sino al Golgota. Perciò, a ricordo del primo e del secondo avvenimento, si cantano stichiri gioiosi e commoventi: “Oggi si esalta la Croce ed il mondo si santifica, giacché Tu che siedi sul trono con il Padre e il Santo Spirito, stendesti le Tue mani su di essa e tutto il mondo fu portato a conoscerti. Tu rendi degni dell’eterna gloria coloro che in Te sperano”. “Ora giunge la Croce del Signore, ed i fedeli l’accolgono con amore e da essa ricevono la guarigione da tutte le malattie dell’anima e del corpo. Baciamola con gioia e timore; con timore, a causa dei nostri peccati, poiché siamo indegni; con gioia, per la salvezza che concede al mondo il Cristo che vi fu crocifisso, pieno di misericordia per noi”. Quindi Eraclio, temendo che la santa Croce non fosse più al sicuro a Gerusalemme la trasferì con sé nella capitale, Costantinopoli, dove fu trionfalmente esaltata nella Grande Chiesa di Agia Sofia. Da allora si celebra «la croce come strumento di salvezza e di vittoria sui nemici della Chiesa e dei cristiani»[1].
Infine, i servizi liturgici per il giorno hanno anche costanti riferimenti alla visione della Croce vista dall’imperatore Costantino nell’anno 312, poco prima della vittoria su Massenzio, e ci sono allusioni ad un evento che è più specificatamente commemorato il 13 settembre: la Dedicazione della Chiesa della Anastasis, costruita da Costantino su luogo del Santo Sepolcro e completata nel 335.
Nei riti liturgici del Venerdì Santo la Chiesa guarda alla Crocifissione nel suo contesto originale, come un evento nella prima Santa Settimana a Gerusalemme. Nella festa dell’Esaltazione, per contrasto, la Croce è contemplata anche per i suoi effetti sulla storia seguente della Chiesa. Nel Venerdì Santo la nota predominante – anche se mai esclusiva – è di dolore e di pianto; il 14 settembre la Croce è commemorata in uno spirito di trionfo, come “arma di pace e inconquistabile insegna di vittoria” (Kontakion della festa). Per il diretto richiamo alla passione del Salvatore, in Oriente, la festa, anche se cade in domenica, è caratterizzata dal digiuno. Il digiuno è anche legato agli eventi del VII secolo, da cui trae l’origine storica. Nel titolo della festa, l’Esaltazione è definita “universale”. Questo è un elemento essenziale nel significato della ricorrenza: il potere della Croce si estende in ogni parte dell’universo, e la salvezza che porta abbraccia l’intera creazione. Ecco perché, nella cerimonia dell’Esaltazione, il sacerdote si volge per benedire verso ogni punto cardinale: “I quattro angoli della terra, o Cristo nostro Dio, sono oggi santificati” (Tropario alla cerimonia dell’Esaltazione)[2].
Al termine della grande Dossologia, mentre il coro canta il trisaghion, il vescovo, indossati gli abiti pontificali, porta la Croce, adorna di fiori, fuori sull’Altare, tenendola sulla testa e la pone su un leggio posto sull’ambone. Prima di deporla, tenendola sempre sulla testa, si china con essa, quasi per indicare il peso delle persecuzioni, e poi si solleva a ricordo della vittoria del Cristianesimo, mentre il coro canta lentamente “Signore pietà”, abbassando il tono mentre il vescovo si china, alzandolo quando si solleva. Così come avvenne, dopo l’invenzione della Croce, quando il patriarca Macario sollevò il Santo Legno perché tutti lo vedessero, ma, a causa della debolezza delle sue braccia, era costretto ad abbassarlo. Ed anche allora il popolo invocava: “Kyrie, Eleison”[3].

[1] G. Garib, Croce e presenza mariana nella liturgia bizantina, p. 188, in La sapienza della Croce, Atti dell’omonimo congresso, Roma 1977, vol. III.
[2] A. N. Muravjoj, da “Pisma o bogosluzenii”, p.175-177. Traduzione Italiana sul numero 8 del “Bollettino della Chiesa russa in Roma”, sett-ott 1972.
[3] M. Mary e P. Kallistos Ware, The festal Menaion, London.

Publié dans:feste del Signore |on 13 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

Santissimo nome di Maria

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Publié dans:immagini sacre |on 12 septembre, 2011 |Pas de commentaires »
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