Archive pour septembre, 2011

Un manuale di biologia senza lo schema scimmia-uomo

dal sito:

http://documentazione.info/article.php?idsez=13&id=965

Un manuale di biologia senza lo schema scimmia-uomo

di Marco Respinti, Il Foglio 7 novembre 2007

Un pool di scienziati analizza i limiti dell’evoluzionismo usando solo la scienza

I presupposti del darwinismo sono ancora da dimostrare
Lunedì al Festival della Scienza di Palazzo Ducale a Genova, lo ha detto piuttosto decisamente Massimo Piattelli Palmarini, scienziato cognitivo che si divide fra Università San Raffaele e Università dell’Arizona (sul tema annuncia addirittura un libro intero, che sta scrivendo con il collega statunitense, ateo, ateissimo, Jerry Fodor, filosofo della mente). Il neodarwinismo, dice Piattelli Palmarini (cioè il makeup con cui l’evoluzionismo si è rifatto la cera a fronte degli scacchi mossigli dalla genetica), si fonda su ciò che invece è ancora tutto da dimostrare.
Le perplessità scientifiche sulla “selezione naturale”
Il concetto di “selezione naturale” (perno irrinunciabile di darwinismo e neodarwinismo) è piuttosto vago e quando va bene astratto. E le scoperte più recenti contaddicono il dogmatismo tetragono con cui i neodarwinisti difendono in modo trinariciuto i segreti de “L’origine  della specie”. Insomma, l’evoluzionismo è una ipotesi che fa acqua da molti pori e i suoi fondamenti si contraddicono l’un l’altro (“selezione naturale” come scelta operata assieme da natura e caso cieco). Altro che scienza. Sul punto il dibattito fiorisce da tempo e la letteratura cresce. In pochi anni i titoli che mettono in crisi questo o quel punto dell’impianto teoretico evoluzionistico (senza per questo essere però automaticamente ascrivibili al “creazionismo” o persino alla più “morbida” idea del “progetto intelligente”) si sono moltiplicati rapidamente; e se fare dell’antidarwinismo resta ancora sempre piuttosto scorretto, politicamente parlando, la cosa appare comunque oggi un tantino meno scriteriata che non solo qualche tempo fa.
La parola agli addetti ai lavori
Il salto vero di qualità è venuto peraltro quando del tema si sono messi a trattare seriamente dei veri addetti ai lavori, scienziati autentici (biochimici, cosmologi, paleontologi, antropologi) i quali sono venuti così ad affiancarsi a divulgatori di buon spirito ma magari di poche conoscenze specifiche e a  confortare quei pionieri per lungo tempo lasciati soli a combattere una buona battaglia che però a molti sembrava una carica contro i mulini a vento. Due nomi per tutti, e italiani, Giuseppe Sermonti, genetista, e Roberto Fondi, paleontologo.
Un testo che parla di scienza e solo di scienza
Di libri così ne è appena uscito un altro, che però non è solo un libro in più da archiviare sullo scaffale appropriato. Si tratta di “Evoluzione. Un trattato critico. Certezza dei fatti e diversità delle interpretazioni”. Lo pubblica l’editore Gribaudi di Milano con prefazione di Fernando De Angelis. Ne sono autori un pool di scienziati (chimici, paleontologi, biologi, antropologi, informatici, botanici, embriologi) coordinati dai due curatori dell’opera, scienziati pure loro, Reinhard Junker e Siegfried Scherer, entrambi biologi e quest’ultimo citato da Papa Ratzinger come esempio di scienza non darwinista. Ebbene era il testo che attendevamo, tutti. Il “noi” qui non è maiestatico, ma un soggetto collettivo che comprende sia darwinisti sia antidarwinisti, critici e partigiani, credenti e non, scienziati e profani, possibilisti, dubbiosi e rigoristi. Era il testo che tutti attendevamo perché si tratta di un libro di biologia che anzitutto si occupa della materia in oggetto, la vita organica sul pianeta Terra, lasciando ad altra sede l’approccio polemico e critico. E questo dovrebbe far davvero contenti un po’ tutti. Che i fatti biologici vengano cioè presi in considerazione per quello che sono e che dicono oggettivamente, prima e al di là di ogni considerazione ulteriore, è cosa che di per sé dovrebbe risultare gradita a ogni partito.
Il libro fa luce su alcune teorie infondate
Il libro in questione nasce in Germania nel 1998 e oggi è giunto alla sesta edizione. Su questa è stata condotta la versione italiana, la prima. Tedesco è lo stile del libro, tedesco l’approccio che esso segue, tedesca l’assoluta serietà dell’analisi che propone, rigorosamente tecnica senza mai essere solo tecnicistica. Il suo pregio, enorme, è quello di descrivere (quindi non solo di affermare) cose diverse rispetto a quelle che normalmente si leggono sui testi di genere, consuetamente improntate a un secco determinismo a supporto del quale non esistono però riscontri empirici. La squadra di specialisti coordinata da Junker e Scherer questo infatti anzitutto e soprattutto fa.  Ricorda, e mostra, come infondata sia per esempio la pretesa di far derivare la vita organica dalla materia inanimata, di come i fossili non attestino affatto specie viventi in fase di mutazione (a metà insomma, in transizione) ma solo specie in sé conchiuse, di come giocare con le permutazioni genetiche possa pure risultare affascinante ma comunque sia assai poco sfruttabile per desumerne il concetto di speciazione macroevolutivo caro a ogni tipo di darwinisti, e via di questo passo.
Un libro didattico basto sull’onestà scientifica
Il tutto usando la biologia e solo la biologia. Il libro lo mostra raccontando infatti quel che la scienza ha fin qui accertato, quel che la scienza non sa (ancora?) dire, quel che la scienza non può invece (“statutariamente”) dire. Un gran bel libro, insomma, e utile. Ma il suo maggior vantaggio è l’essere un libro pensato appositamente per la didattica. Ha figure (tante, belle, colorate), schemi e schemini a iosa, diagrammi e alberi genealogici in abbondanza, specimen e illustrazioni. E poi riassuntini, esplosi, box e boxini, utili all’insegnamento, all’apprendimento, alla memorizzazione. È cioè un testo nato per le scuole e che nelle scuole di ogni ordine e grado (lo si può infatti leggere e insegnare a più livelli) farebbe un gran bene a tutti, se insuperabili non fossero quelle forche caudine ministeriali che detengono la prima e l’ultima parola sull’adottabilità di un determinato testo in aula. Forse il testo non potrà mai ufficialmente figurare sui banchi delle scuole, ma costituisce una superba lezione di scienza, di metodo scientifico, di ragione intelligente. L’unica sua partigianeria è quella di raccontare le cose esattamente come gli specialisti le conoscono. Il resto è solo letteratura, talvolta di pessima qualità.

Publié dans:medicina e biologia |on 22 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

ORDINARIO MILITARE: “SOBRIETÀ”, PAROLA CHIAVE DI FRONTE ALLA CRISI

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28027?l=italian

ORDINARIO MILITARE: “SOBRIETÀ”, PAROLA CHIAVE DI FRONTE ALLA CRISI

Messa nella festa di San Matteo, patrono della Guardia di Finanza

ROMA, mercoledì, 21 settembre 2011 (ZENIT.org).- Nel contesto della difficile crisi economica e finanziaria che si sta attraversando, la parola chiave è “sobrietà”, ha spiegato l’Arcivescovo Vincenzo Pelvi, Ordinario militare per l’Italia, nella Messa che ha presieduto questo mercoledì a Roma nella festa di San Matteo, patrono della Guardia di Finanza.
Nell’omelia della celebrazione, svoltasi presso il Comando Generale della Guardia di Finanza, il presule ha ricordato la prontezza con cui Matteo rispose all’invito di Gesù a seguirlo.
“’Egli si alzò e lo seguì’. La stringatezza della frase mostra chiaramente la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata – ha indicato –. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio”.
La vita per Matteo “era diventata, ormai, potere e denaro, timore e rispetto da parte degli altri”, ma “la sua durezza si sbriciola quando vede nello sguardo del Nazareno amore, rispetto, verità”.
“Matteo era abituato agli insulti di chi pagava, attraverso di lui, l’iniqua tassa imposta da Roma imperiale. No, non meritava alcuna compassione. E, invece, ne riceve. E l’inatteso, e l’inaudito amore, con cui il Signore lo guarda, come sempre, scatena la gioia, produce il brivido: Matteo si scioglie, lascia tutto, sa di scommettere sul giusto”.
Anche oggi, ha commentato l’Ordinario militare, “non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste”.
In un “difficile e non scontato momento storico” in cui “giorno dopo giorno occorre costruire l’edificio della sicurezza economica e della stabilità finanziaria”, “sembra che la responsabilità comune abbia lasciato spazio alla speculazione, al guadagno facile, all’arricchimento fraudolento, molto spesso mascherati da un’efficienza di comodo del mercato”, ha riconosciuto.
“A nessuno sfugge che è stata privilegiata una forma di veduta corta e l’economia mondiale è mossa e governata da logiche contrarie all’etica e alla morale, ai principi di gratuità e di fraternità”.
La crisi in atto “dimostra il fallimento dell’antropologia e del pensiero che ne sta alla base”. Ciò che doveva essere uno strumento – la proprietà, la ricchezza, la finanza – “è divenuto principio e fine degli sforzi, misura unica e indiscussa delle azioni”.
Desiderare di vivere meglio “non è male”, ha sottolineato l’Arcivescovo, “ma è sbagliato lo stile di vita che si presume esser migliore, quando è orientato all’avere e non all’essere e vuole avere di più non per essere di più, ma per consumare l’esistenza in un godimento fine a se stesso”.
Per questo, ha esortato a “riscoprire la sobrietà, stile di vita nei confronti dei beni materiali e del loro uso”.
“Ben più di un semplice accontentarsi di quanto si ha o della capacità di non sprecare, la sobrietà ha una dimensione interiore, abbraccia un modo di vedere la realtà circostante che discerne i bisogni autentici, evita gli eccessi, sa dare il giusto peso alle cose e alle persone”.
“Sobrietà a livello personale significa riconoscimento e accettazione del limite, consapevolezza che non tutto ciò che ho la possibilità di ottenere devo forzatamente tirare in mio possesso”.
La sobrietà, ha proseguito, “è la forza d’animo di chi sa subordinare alcuni desideri per valorizzarne altri, di chi sa riconoscere il valore di ogni cosa e non solo il suo prezzo di chi sa dire con convinzione non tutto, non subito, non sempre di più”; “è la forza interiore di chi sa distogliere lo sguardo dal proprio interesse particolare e allargare il cuore e il respiro a una dimensione più ampia”.
“Solo educando l’uomo alla verità avremo un’economia nuova che guarda al bene comune allargando lo sguardo e passando da una responsabilità limitata a una responsabilità sociale”, ha ricordato l’Arcivescovo Pelvi.
“Senza l’orientamento al bene comune finisce per prevalere consumismo, spreco, povertà e squilibri, fattori negativi per il progresso e lo sviluppo”.
In quest’ottica, bisogna elaborare “piani di rilancio dell’economia, aiutando non solo le banche a spese dei contribuenti, ma anche i piccoli imprenditori, le famiglie”, e “investire sulla crescita integrale dei più poveri”, “per metterli in condizione di partecipare al piano di risanamento globale, senza lasciarli ai margini del benessere”.
“I rischi sarebbero limitati – ha concluso –, perché i poveri danno a garanzia la loro stessa vita”.

il volto di Cristo crocifisso

il volto di Cristo crocifisso dans Papa Benedetto XVI 001%20volto%20di%20Cristo%20morto

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Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 21 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

Levi : Da Ulisse a Lilit

dal sito:

http://www.hakeillah.com/2_07_16.htm

Levi

Da Ulisse a Lilit

di Anna Segre

Spesso ci si ritrova, di fronte agli scrittori ebrei, a ricercare qua e là elementi della loro identità; è un compito talvolta facilissimo e più che legittimo, anzi doveroso, quando si parla di autori cresciuti in ambienti osservanti (pensiamo a un Singer, ma anche a Kafka); in altri casi bisogna arrampicarsi sugli specchi, con il dubbio di essere scorretti, e forse velatamente razzisti, come se esistesse un gene dell’ebraicità anche in scrittori che non hanno ricevuto alcuna educazione ebraica. E così talvolta ci si ritrova a costruire castelli in aria sull’umorismo di Svevo, o sulla capra di Saba, castelli estremamente affascinanti, non c’è dubbio, ma forse poco consistenti.
Qui è forse necessario aprire una parentesi per domandarsi che cosa esattamente si debba cercare quando si analizzano le influenze dell’identità ebraica su uno scrittore ebreo; a seconda della risposta che diamo a questa domanda, la ricerca risulterà più o meno agevole. Mi pare che si possano individuare tre ambiti:
1. L’ebraismo come condizione: poiché l’identità ebraica è determinata dall’esterno, e non è una scelta dell’autore che vogliamo studiare, non è necessaria da parte sua alcuna particolare conoscenza, e neppure consapevolezza. In questo ambito di analisi il lavoro, purtroppo, è facilissimo: basta che un autore abbia subito qualche persecuzione o anche solo qualche atto di ostilità e siamo a posto; se non ha subito nulla del genere si può sempre ripiegare sull’identità in bilico, sulla diversità, ecc.; e lì non si sbaglia mai: quale autore di un certo peso non pone da qualche parte nei suoi testi un problema di identità, o non propone qualche conflitto di mondi e di valori? Qualunque analisi in questo senso funzionerà benissimo per qualunque autore ebreo di un certo valore, così come funzionerebbe altrettanto bene per Euripide, Virgilio, Dante o Shakespeare.
2. L’ebraismo come ambiente: la descrizione di un mondo ebraico, le comunità, la sinagoga, le feste, i rituali, i cibi tradizionali, la kasherut; oppure semplicemente la descrizione di parenti e amici ebrei. Qui il gioco comincia a non funzionare più proprio per tutti, ma ancora ce la caviamo, perché temi di questo genere si trovano spesso in autori ebrei anche non osservanti; anzi, spesso, come accade per i torinesi che narrano gli anni ’30 e ’40, abbiamo numerosi racconti che si intersecano e personaggi che si citano reciprocamente; questo rende l’analisi ancora più affascinante.
3. (Ed è quella che interessa davvero) L’ebraismo come linguaggio: non tanto i “modi di dire” (che in fondo servono più che altro a connotare un ambiente, e quindi rientrano nell’ambito precedente); qui si tratta di ricercare riferimenti specifici alla cultura ebraica, come metafore, citazioni, chiavi di lettura della realtà, motivazioni ideali. Il lavoro diventa molto più difficile: persino in un romanzo come Il giardino dei Finzi Contini di Bassani, ambientato quasi completamente all’interno del mondo ebraico, è difficile andare oltre la descrizione di un ambiente e ritrovare temi specificamente ebraici, citazioni di testi della cultura ebraica o altro.
Cosa possiamo trovare in Primo Levi? Sull’influenza che la condizione ebraica ha avuto nella sua vita c’è poco da discutere. Non è molto difficile neppure trovare descrizioni dell’ambiente ebraico, e ancora di più di singoli ebrei, dagli antenati di Argon agli amici di Oro. Troviamo anche riferimenti alla kasherut (magari per negarla, come in Zinco: Un ebreo è uno che a Natale non fa l’albero, che non dovrebbe mangiare il salame ma lo mangia lo stesso, che ha imparato un po’ di ebraico a tredici anni e poi lo ha dimenticato), oppure a cibi tipici: il salame d’oca in Argon, la cui ricetta segreta viene svelata per vendetta, appare in qualche modo come un simbolo del legame di complicità e diffidenza verso il mondo esterno che unisce tra loro i membri della comunità; questa funzione è assunta in modo ben più esplicito dal dialetto giudaico-piemontese, che è il vero protagonista del racconto. Peraltro, per illustrare al lettore questo strano dialetto e per presentare attraverso di esso l’ambiente dei suoi antenati, Levi si è trovato “costretto” a riscoprire e illustrare citazioni bibliche, formule rituali, costumi e tradizioni. A proposito di dialetti, è interessante notare come il giudaico-romanesco di Cesare nella Tregua contribuisca a connotare il personaggio, solare, che non parla nessuna lingua, ma riesce comunque a interagire con tutti.
Si può parlare, per Primo Levi, anche di ebraismo come linguaggio, come chiave di lettura della realtà? A prima vista sembrerebbe la solita arrampicata sugli specchi, trattandosi di un autore certamente proveniente da un ambiente “assimilato”. Tuttavia non c’è bisogno di arrampicarsi sugli specchi per notare che ben due titoli di suoi libri fanno riferimento a testi della cultura ebraica (Lilit, che fa riferimento ad un midrash narrato nell’omonimo racconto, e Se non ora, quando?, citazione dai Pirke’ Avot). Né c’è bisogno di arrampicarsi sugli specchi per rilevare che sulla prima pagina del primo testo da lui pubblicato sono riportate due frasi (1), dello Shemà preghiera fondamentale della ritualità ebraica, fonte di precetti pratici (mezuzà, tefillin), la prima che si impara, e che si ripete ogni giorno coricandosi e alzandosi; è vero che all’inizio di Se questo è un uomo l’oggetto di cui è prescritto il ricordo è diametralmente diverso, quasi come se una nuova pratica dovesse sostituirsi a quella tradizionale, tuttavia è innegabile che la citazione costituisca un forte richiamo alla tradizione e che mantenga due elementi fondamentali del contesto originario: il dovere della memoria (e non è certo estraneo alla tradizione ebraica l’imperativo di ricordare cosa ci ha fatto Amalek) e il dialogo continuo con le generazioni future.
Questi elementi sono abbastanza significativi da autorizzare qualche ricerca ulteriore, e qualche riflessione, seppure aleatoria. Le citazioni bibliche (quando non occasionali, come Henri paragonato al Serpente della Genesi) non sono molto numerose, ma talvolta sono molto significative, come il riferimento alla torre di Babele in Se questo è un uomo, che sembra richiamare alcune interpretazioni midrashiche (2): La torre del Carburo, che sorge in mezzo alla Buna e la cui sommità è raramente visibile in mezzo alla nebbia, siamo noi che l’abbiamo costruita. I suoi mattoni sono stati chiamati Ziegel, briques, tegula, cegli, kamenny, bricks, téglak, e l’odio li ha cementati; l’odio e la discordia, come la Torre di Babele, e così noi la chiamiamo: Babelturm, Bobelturm; e odiamo in essa il sogno demente di grandezza dei nostri padroni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini, di noi uomini.
È anche interessante che proprio con un testo biblico (il libro di Giobbe) Levi abbia scelto di aprire La ricerca delle radici, una sorta di antologia personale: Perché incominciare da Giobbe? Perché questa storia splendida e atroce racchiude in sé le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo.
Talvolta la Bibbia è usata come metafora della condizione degli ebrei, in negativo (Se questo è un uomo: …tali sono tutte le nostre storie, centinaia di migliaia di storie, tutte diverse e tutte piene di una tragica, sorprendente necessità. Ce le raccontiamo a vicenda la sera, e sono avvenute in Norvegia, in Italia, in Algeria, in Ucraina, e sono semplici e incomprensibili come le storie della Bibbia. Ma non sono anch’esse storie di una nuova Bibbia?), ma anche in positivo, come paradigma della liberazione da ogni possibile oppressione; ciò è evidentissimo in Potassio (Il sistema periodico): Ci radunavamo nella palestra del “Talmud Torà”, della Scuola della Legge, come orgogliosamente si chiamava la vetusta scuola elementare ebraica, e ci insegnavamo a vicenda a ritrovare nella Bibbia la giustizia e l’ingiustizia e la forza che abbatte l’ingiustizia: a riconoscere in Assuero e in Nabucodonosor i nuovi oppressori. Ma dov’era Kadosh Barukhù, “il Santo, Benedetto sia Egli”, colui che spezza le catene degli schiavi e sommerge i carri degli Egizi? Colui che aveva dettato la Legge a Mosè, ed ispirato i liberatori Ezra e Neemia, non ispirava più nessuno, il cielo sopra noi era silenzioso e vuoto: lasciava sterminare i ghetti polacchi e lentamente, confusamente, si faceva strada in noi l’idea che eravamo soli, che non avevamo alleati su cui contare, né in terra né in cielo, che la forza di resistere avremmo dovuto trovarla in noi stessi.
Da Babele al Faraone, passando per Giobbe, la cultura ebraica è interrogata in una ricerca di senso, che prende le mosse dalla riflessione sulla creazione stessa dell’uomo (Il sesto giorno in Vizio di forma) e della donna (in Lilit, che propone, pur se come “racconto nel racconto”, il tema kabbalistico del nascondimento della divinità). In particolare è curioso l’atto unico Il sesto giorno, in cui un gruppo di tecnici discute sull’opportunità di creare l’uomo e sulle caratteristiche che dovrebbe avere, ma alla fine tutti scoprono di essere stati scavalcati dalla “direzione”, che ha creato arbitrariamente l’uomo dalla terra: non solo sono numerosi e puntuali i riferimenti alla Genesi (a cominciare dal titolo), ma non si può fare a meno di ricordare che la struttura stessa della vicenda ricalca un famoso midrash, in cui diversi gruppi di angeli discutono sull’opportunità di creare l’uomo e, anche in questo caso, sono poi messi di fronte al fatto compiuto.
Abbiamo analizzato più attentamente le prime opere di Levi; nelle ultime i riferimenti alla cultura ebraica si moltiplicano (in particolare in Se non ora, quando?), tanto che sarebbe impossibile catalogarli tutti. Si potrebbe ipotizzare una progressiva riscoperta e riappropriazione della cultura ebraica da parte di Primo Levi? È un’ipotesi suggestiva, ma sarebbe un po’ difficile da confermare, perché la citazione dello Shemà (che resta comunque la più importante e pregnante) si trova, come si è detto, proprio al principio della sua opera, e anche Il sesto giorno è tra i primi testi. Ammettendo anche che l’ipotesi sia sostenibile (a suffragarla potrebbero contribuire soprattutto i due titoli-citazione, che sono piuttosto tardi), non sarebbe necessariamente il sintomo di un diverso atteggiamento di Levi nei confronti della cultura ebraica: si potrebbe spiegare con la sua straordinaria curiosità, con un generale riavvicinamento alle fonti tradizionali da parte dell’ebraismo italiano (e non solo) nel corso del ventesimo secolo, con lo status di autore ebreo per eccellenza che Levi ha finito per ricoprire nel panorama letterario del nostro paese.

Tuttavia l’ipotesi resta suggestiva. Basti una considerazione: nel racconto Il cantore e il veterano (in Lilit) l’osservanza del Kippur da parte del cantore Ezra viene presentata come una sorta di barriera contro la disumanizzazione del lager; lo stesso si può dire per il midrash sulla creazione della donna in Lilit, narrato nel contesto di una discussione sull’apparente ripetizione presente nei capitoli iniziali della Genesi (in cui l’interlocutore gli fa digrignare i denti, con citazione sottintesa dell’Haggadà di Pesach); questa discussione, che avviene in un tubo durante una pioggia che ha interrotto il lavoro, ricopre la stessa funzione narrativa che aveva in Se questo è un uomo il tentativo di ricordare a memoria e insegnare al compagno Pikolo il XXVI canto dell’Inferno, il canto di Ulisse. Ipotizzare un consapevole passaggio da Dante al midrash appare azzardato e forzato, tuttavia senz’altro questo e altri passi citati in precedenza consentono una riflessione: rispetto ad altri autori Primo Levi parla relativamente poco di ebrei, di vita comunitaria, di riti e cerimonie; in compenso l’ebraismo nella sua opera non si presenta solo come condizione e come ambiente, ma talvolta anche come linguaggio.

Anna Segre

(1) Che sono anche versi biblici (Deuteronomio, VI, 6-7)
(2) Dissero: Egli non dovrebbe scegliere per sé il mondo superiore e lasciare a noi l’inferiore: andiamo, perciò, e costruiamo una torre, poniamoci in cima una divinità, e armiamola di una spada, come se volesse contendere con Lui (Bereshit Rabbà, 38; citato da Midrashim, fatti e personaggi biblici, a cura di Riccardo Pacifici, Marietti, 1986)

Publié dans:ebraismo |on 21 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

IL COMMERCIO DEGLI OVULI: SFRUTTAMENTO E RISCHI PER LE DONATRICI

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28025?l=italian

IL COMMERCIO DEGLI OVULI: SFRUTTAMENTO E RISCHI PER LE DONATRICI

Intervista a Jennifer Lahl, Presidente del Center for Bioethica and Culture Network

di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 21 settembre 2011 (ZENIT.org).- Il commercio degli ovuli femminili è una attività che ha raggiunto un bilancio di molti miliardi di dollari. Negli Stati Uniti viene considerata una vera e propria industria.
Cominciano a comparire però storie di donne che sono state sfruttate e che stanno rischiando la vita in seguito ai danni subiti dalla iperstimolazione e dall’asportazione di ovuli.
Emergono così i lati oscuri, segreti e controversi di questo commercio. Appaiono annunci in tutto il mondo in cui le giovani donne sono sollecitate a vendere i propri ovuli per decine di migliaia di dollari.
La vendita viene giustificata con uno scopo umanitario, sostenendo che questi ovuli serviranno “a realizzare il sogno di qualcuno che soffre di infertilità”.
Ma chi sono le donatrici di ovuli? Sono trattate con giustizia? O sono solo vittime del cinico utilitarismo del mercato? E quali sono i rischi a breve e lungo termine per la loro salute?
Per rispondere a queste e altre domande il Centro di Bioetica e Cultura (Center for Bioethica and Culture Network,
http://www.cbc-network.org/) ha svolto una inchiesta e l’ha raccontata in un film–documentario dal titolo “Eggsploitation. The infertility has a dirty little secret” (www.eggsploitation.com).
Dopo aver visto il film in questione, Kelly Vincent-Brunacini, presidente dell’associazione Femministe per la Vita di New York, ha detto che “Eggsploitation è un documentario avvincente e rivelatore che mostra allo spettatore l’altra faccia dell’industria dell’infertilità”. Così si scoprono le storie inquietanti e strazianti di donne le cui vite sono state cambiate per sempre dopo aver subito la procedura per la donazione di ovuli.
Tutte e tre le donne che testimoniano la loro esperienza nel documentario hanno rischiato la vita a causa delle complicanze associate con la donazione di ovuli. Una ha subito un ictus che ha danneggiato il suo cervello; un’altra ha sviluppato un tumore al seno; mentre l’ultima ha diversi problemi di salute associati alla pratiche di iperstimolazione ovarica a cui è stata sottoposta.
Per approfondire un tema le cui implicazioni sanitarie, mediche e sociali saranno sempre più rilevanti, ZENIT ha intervistato Jennifer Lahl, Presidente del Center for Bioethica and Culture Network
Di che cosa parla “Eggsploitation”, il documentario da lei prodotto?
Lahl: Io sono l’autrice, la produttrice e la regista di « Eggsploitation », che ha vinto il premio come miglior documentario al California Independent Film Festival 2011. Abbiamo venduto il film in oltre 29 paesi ed è stato mostrato in tutto il mondo.
Quali sono quelli che lei chiama i piccoli sporchi segreti dell’industria della fertilità?
Lahl: I « piccoli sporchi segreti » sono molti. Per esempio, le donne non sono informate sui rischi e le complicazioni a breve e a lungo termine. E non sono neanche seguite quando cominciano ad emergere problemi sanitari. Senza avere a disposizione i dati a lungo termine circa le tecniche di iperstimolazione, è evidente che le donne non possono essere adeguatamente informate circa gli eventuali rischi per la salute. C’è molta ipocrisia, si parla di donazione degli ovuli, ma è a tutti gli effetti una “vendita” condizionata dall’utilitarismo del mercato. Il consenso non è informato, ma viene comprato, perché le donne hanno bisogno di denaro. E’ evidente che i medici coinvolti dovrebbe richiedere un “CORRETTO consenso informato”, dovrebbero acquisire dati scientifici per studi di larga dimensione e dovrebbero impedire l’offerta di denaro. Nel corso dell’inchiesta abbiamo scoperto inoltre che alcuni dei farmaci per la fertilità utilizzati non hanno mai ricevuto l’approvazione delle autorità per questo uso particolare.
Il Lupron per esempio è stato approvato dalla U.S Food and Drug Administration (FDA) come farmaco per la cura del cancro alla prostata allo stadio terminale, ma non per la super-ovulazione. Risulta così che le violazioni dell’industria dell’infertilità sono gravi e numerose: nessuno studio a lungo termine sui rischi sanitari, violazione del consenso informato, corruzione indotta con l’offerta di denaro, scarsa o addirittura assente la protezione della donatrice, soprattutto quando si genera un danneggiamento degli ovuli.
A quanto ammonta il bilancio del commercio degli ovuli?
Lahl:Èmolto difficile quantificare il numero di donazioni d’ovuli. La maggior parte di queste compravendite avviene « sotto il tavolo » e « fuori delle griglia delle attività controllate”. Si tratta di un settore in espansione e fuori dal controllo.
Chi sono le donatrici di ovuli?
Lahl: Di solito sono donne tra i 21 e i 30 anni, nel fiore dei loro anni riproduttivi. Nella maggior parte dei casi si tratta di donne che hanno bisogno di soldi. Negli Stati Uniti, sono spesso studentesse universitarie di età compresa tra i 19 ed i 25 anni, le quali hanno bisogno di pagare le tasse scolastiche, l’affitto ecc. Nei paesi più poveri, sono donne che hanno solo bisogno di pagare l’affitto e comprare il cibo per tirare avanti.
Quali sono i rischi per la salute a breve e a lungo termine?
Lahl: I rischi a breve termine sono tutti quelli connessi con le pratiche di iperstimolazione ovarica (OHSS), e poi ictus, trombosi, aumento di peso, squilibri dell’umore…Rischi a lungo termine sono i tumori (in particolare tumori dell’apparato riproduttivo) e problemi di riduzione della fertilità.
Non le sembra paradossale che mentre da una parte vengono abortiti circa 50 milioni di bambini e bambine ogni anno, dall’altra parte ci sono persone disposte a tutto pur di aver ovuli da fecondare?
Lahl: Sì, si tratta di un cinico paradosso. Da una parte si gettano via i bambini concepiti e dall’altra si spendono enormi risorse e si sfruttano i corpi delle persone per creare la vita in laboratorio!
Non sarebbe meglio far nascere tutti i concepiti e lasciare in adozione quelli che non vengono accettati?
Lahl: In un mondo amorevole, la cosa migliore da fare è che madri e padri accolgano tutti i bambini concepiti nelle loro famiglie. Abbiamo molto lavoro da fare per incoraggiare le madri e i padri a tenere i loro bambini ed evitare l’interruzione di gravidanza. Se non si sentono in grado di prendersi cura dei loro bambini, non è facile convincerli che possono favorire e incoraggiare l’adozione.

Publié dans:medicina e biologia |on 21 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

San Matteo Apostolo

San Matteo Apostolo dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 20 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia per San Matteo Apostolo

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16179.html

Omelia per San Matteo Apostolo

(21-09-2009)

a cura dei Carmelitani

1) Preghiera
O Dio, che ci hai reso figli della luce
con il tuo Spirito di adozione,
fa? che non ricadiamo nelle tenebre dell?errore,
ma restiamo sempre luminosi
nello splendore della verità.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo
Dal Vangelo secondo Matteo 9,9-13
In quel tempo, Gesù passando, vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: « Seguimi ». Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli.
Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: « Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori? ».
Gesù li udì e disse: « Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori ».

3) Riflessione
? Il Discorso della Montagna occupa i capitoli 5,6 e 7 del vangelo di Matteo. La parte narrativa dei capitoli 8 e 9 ha lo scopo di mostrarci come Gesù metteva in pratica ciò che aveva appena insegnato. Nel Discorso della Montagna, lui insegna l?accoglienza (Mt 5,23-25.38-42.43). Ora lui stesso la mette in pratica accogliendo i lebbrosi (Mt 8,1-4), gli stranieri (Mt 8,5-13), le donne (Mt 8,14-15), i malati (Mt 8,16-17), gli indemoniati (Mt 8,28-34), i paralitici (Mt 9,1-8), i pubblicani (Mt 9,9-13), le persone impure (Mt 9,20-22), etc. Gesù rompe con le norme ed i costumi che escludevano e dividevano le persone, cioè con la paura e la mancanza di fede (Mt 8,23-27) e le leggi della purezza (9,14-17), e dice chiaramente quali sono le esigenze di coloro che vogliono seguirlo. Devono avere il coraggio di abbandonare molte cose (Mt 8,18-22). Così, negli atteggiamenti e nella prassi di Gesù vediamo in cosa consiste il Regno e l?osservanza perfetta della Legge di Dio.
? Matteo 9,9: La chiamata a seguire Gesù. Le prime persone chiamate a seguire Gesù sono quattro pescatori, tutti giudei (Mt 4,18-22). Ora, Gesù chiama un pubblicano, considerato peccatore e trattato come un essere impuro dalle comunità più osservanti dei farisei. Negli altri vangeli, questo pubblicano si chiama Levi. Qui, il suo nome è Matteo, che significa dono di Dio o dato da Dio. Le comunità, invece di escludere il pubblicano e considerarlo impuro, devono considerarlo un Dono di Dio per la comunità, poiché la sua presenza fa sì che la comunità diventi un segno di salvezza per tutti! Come i primi quattro chiamati, così pure il pubblicano Matteo lascia tutto ciò che ha e segue Gesù. Seguire Gesù comporta l?obbligo di rompere con molte cose. Matteo lascia il banco delle tasse, la sua fonte di reddito, e segue Gesù!
? Matteo 9,10: Gesù si siede a tavola con peccatori e pubblicani. In quel tempo i giudei vivevano separati dai pagani e dai peccatori e non mangiavano con loro allo stesso tavolo. I giudei cristiani dovevano rompere questo isolamento e mettersi a tavola con i pagani e con gli impuri, secondo l?insegnamento dato da Gesù nel Discorso sulla Montagna, espressione dell?amore universale di Dio Padre. (Mt 5,44-48). La missione delle comunità era quella di offrire uno spazio a coloro che non lo avevano. Ma questa nuova legge non era accettata da tutti. In alcune comunità le persone venute dal paganesimo, pur essendo cristiane, non erano accettate attorno allo stesso tavolo (cf. At 10,28; 11,3; Gal 2,12). Il testo del vangelo di oggi ci mostra Gesù che si mette a tavola con pubblicani e peccatori nella stessa casa, attorno allo stesso tavolo.
? Matteo 9,11: La domanda dei farisei. Ai giudei era proibito sedersi a tavola con i pubblicani e con i peccatori, ma Gesù non segue questa proibizione. Anzi, fa amicizia con loro. I farisei, vedendo l?atteggiamento di Gesù, chiedono ai discepoli: « Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori? » Questa domanda può essere interpretata come un?espressione del loro desiderio di sapere perché Gesù agisce così. Altri interpretano la domanda come una critica al comportamento di Gesù, perché per oltre cinquecento anni, dal tempo della schiavitù in Babilonia fino all?epoca di Gesù, i giudei avevano osservato le leggi della purezza. Questa osservanza secolare diventa un forte segno di identità. Allo stesso tempo era fattore della loro separazione in mezzo agli altri popoli. Così, a causa delle leggi sulla purezza, non potevano né riuscivano a sedersi attorno allo stesso tavolo per mangiare con i pagani. Mangiare con i pagani voleva dire contaminarsi, diventare impuri. I precetti della purezza legale erano rigorosamente osservati, sia in Palestina che nelle comunità giudaiche della Diaspora. All?epoca di Gesù, c?erano più di cinquecento precetti per conservare la purezza. Negli anni 70, epoca in cui scrive Matteo, questo conflitto era molto attuale.
? Matteo 9,12-13: Misericordia voglio e non sacrifici. Gesù ascolta la domanda dei farisei ai discepoli e risponde con due chiarimenti. Il primo è tratto dal buon senso: « Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati?. L?altro è tratto dalla Bibbia: ?Imparate, quindi, cosa significa: Misericordia voglio, e non sacrifici?. Per mezzo di questi chiarimenti, Gesù esplicita e chiarisce la sua missione tra la gente: ?Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori ». Gesù nega la critica dei farisei, non accetta i loro argomenti, poiché nascevano da una falsa idea della Legge di Dio. Lui stesso invoca la Bibbia: « Misericordia voglio e non sacrifici! » Per Gesù, la misericordia è più importante della purezza legale. Lui fa riferimento alla tradizione profetica per dire che la misericordia vale per Dio molto di più che tutti i sacrifici (Os 6,6; Is 1,10-17). Dio ha viscere di misericordia, che si commuovono dinanzi alle mancanze del suo popolo (Os 11,8-9).

4) Per un confronto personale
? Oggi, nella nostra società, chi è emarginato ed escluso? Perché? Nella nostra comunità, abbiamo preconcetti? Quali? Qual è la sfida che le parole di Gesù presentano alla nostra comunità?
? Gesù chiede alla gente di leggere e di capire l?Antico Testamento che dice: « Misericordia voglio e non sacrificio ». Cosa vuol dirci Gesù con questo oggi?

5) Preghiera finale
Beato chi è fedele ai tuoi insegnamenti
e ti cerca, Signore, con tutto il cuore.
Con tutto il cuore ti cerco:
non farmi deviare dai tuoi precetti. (Sal 118)

Papa Benedetto XVI: San Matteo (30 agosto 2006)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060830_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 30 agosto 2006

Matteo

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo nella serie dei ritratti dei dodici Apostoli, che abbiamo cominciato alcune settimane fa, oggi ci soffermiamo su Matteo. Per la verità, delineare compiutamente la sua figura è quasi impossibile, perché le notizie che lo riguardano sono poche e frammentarie. Ciò che possiamo fare, però, è tratteggiare non tanto la sua biografia quanto piuttosto il profilo che ne trasmette il Vangelo.
Intanto, egli risulta sempre presente negli elenchi dei Dodici scelti da Gesù (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13). Il suo nome ebraico significa “dono di Dio”. Il primo Vangelo canonico, che va sotto il suo nome, ce lo presenta nell’elenco dei Dodici con una qualifica ben precisa: “il pubblicano” (Mt 10,3). In questo modo egli viene identificato con l’uomo seduto al banco delle imposte, che Gesù chiama alla propria sequela: “Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli si alzò e lo seguì” (Mt 9,9). Anche Marco (cfr 2,13-17) e Luca (cfr 5,27-30) raccontano la chiamata dell’uomo seduto al banco delle imposte, ma lo chiamano “Levi”. Per immaginare la scena descritta in Mt 9,9 è sufficiente ricordare la magnifica tela di Caravaggio, conservata qui a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Dai Vangeli emerge un ulteriore particolare biografico: nel passo che precede immediatamente il racconto della chiamata viene riferito un miracolo compiuto da Gesù a Cafarnao (cfr Mt 9,1-8; Mc 2,1-12) e si accenna alla prossimità del Mare di Galilea, cioè del Lago di Tiberiade (cfr Mc 2,13-14). Si può da ciò dedurre che Matteo esercitasse la funzione di esattore a Cafarnao, posta appunto “presso il mare” (Mt 4,13), dove Gesù era ospite fisso nella casa di Pietro.
Sulla base di queste semplici constatazioni che risultano dal Vangelo possiamo avanzare un paio di riflessioni. La prima è che Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di “pubblicani e peccatori” (Mt 9,10; Lc 15,1), di “pubblicani e prostitute” (Mt 21,31). Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2), mentre l’opinione popolare li associava a “ladri, ingiusti, adulteri” (Lc 18, 11). Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l’importante dichiarazione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17).
Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Altrove, con la celebre parabola del fariseo e del pubblicano saliti al Tempio per pregare, Gesù indica addirittura un anonimo pubblicano come esempio apprezzabile di umile fiducia nella misericordia divina: mentre il fariseo si vanta della propria perfezione morale, “il pubblicano … non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»”. E Gesù commenta: “Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13-14). Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza. A questo proposito, san Giovanni Crisostomo fa un’annotazione significativa: egli osserva che solo nel racconto di alcune chiamate si accenna al lavoro che gli interessati stavano svolgendo. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo -  “poiché non c’è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario.
Un’altra riflessione, che proviene dal racconto evangelico, è che alla chiamata di Gesù, Matteo risponde all’istante: “egli si alzò e lo seguì”. La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un cespite di guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio. Facilmente intuibile l’applicazione al presente: anche oggi non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste. Una volta Egli ebbe a dire senza mezzi termini: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). E’ proprio ciò che fece Matteo: si alzò e lo seguì! In questo ‘alzarsi’ è legittimo leggere il distacco da una situazione di peccato ed insieme l’adesione consapevole a un’esistenza nuova, retta, nella comunione con Gesù.
Ricordiamo, infine, che la tradizione della Chiesa antica è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo. Ciò avviene già a partire da Papia, Vescovo di Gerapoli in Frigia attorno all’anno 130. Egli scrive: “Matteo raccolse le parole (del Signore) in lingua ebraica, e ciascuno le interpretò come poteva” (in Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. III,39,16). Lo storico Eusebio aggiunge questa notizia: “Matteo, che dapprima aveva predicato tra gli ebrei, quando decise di andare anche presso altri popoli scrisse nella sua lingua materna il Vangelo da lui annunciato; così cercò di sostituire con lo scritto, presso coloro dai quali si separava, quello che essi perdevano con la sua partenza” (ibid., III, 24,6). Non abbiamo più il Vangelo scritto da Matteo in ebraico o in aramaico, ma nel Vangelo greco che abbiamo continuiamo a udire ancora, in qualche modo, la voce persuasiva del pubblicano Matteo che, diventato Apostolo, séguita ad annunciarci la salvatrice misericordia di Dio e ascoltiamo questo messaggio di san Matteo, meditiamolo sempre di nuovo per imparare anche noi ad alzarci e a seguire Gesù con decisione.

Publié dans:Papa Benedetto XVI, SANTI APOSTOLI |on 20 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

“AVETE FINITO DI FARCI LA PREDICA?”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28009?l=italian

“AVETE FINITO DI FARCI LA PREDICA?”

di padre Piero Gheddo*

ROMA, martedì, 20 settembre 2011 (ZENIT.org).- Un giovane amico di Torino, Claudio Dalla Costa, che svolge un’intensa attività professionale in un campo molto diverso, ha avuto l’idea di, come dire, monitorare le omelie domenicali nelle chiese della sua città. Per sei anni, scrive, si è spostato da una parrocchia all’altra “per rendermi conto di persona dello stato di salute dell’omelia. Il mio viaggio è stato, salvo rare eccezioni, piuttosto deludente. Incoraggiato da varie persone, ho pensato di buttar giù qualche pensiero che, a mio parere, potrebbe risultare utile a tutti coloro che ogni domenica si cimentano con questo importante compito”. E’ il volume “Avete finito di farci la predica. Riflessioni laicali sulle omelie” (Effatà Editrice, Cantalupa (Torino) 2011, pagg. 160).
Il volumetto si legge volentieri, perché tratta i temi fondamentali della predicazione oggi: L’omelia è malata – Gli ingredienti della predica – Il linguaggio , della Chiesa – I maestri della predicazione – Antologia – Bibliografia. Non è un trattato sull’omiletica, ma una geniale e gustosa raccolta di casi concreti, da imitare o evitare. Che però quasi capovolge alcuni criteri dell’“omiletica” di una volta, quando io studiavo nel seminario teologico (anni Cinquanta!): meno formalismi e più autenticità, meno astrattezza e più realtà della vita quotidiana. Insomma, la Parola di Dio, dice Dalla Costa, non basta proclamarla e spiegarla, va incarnata nella vita, attualizzata con esempi che  possano suscitare interesse e commuovere. Soprattutto interessanti i “maestri della predicazione” studiati dall’autore. Oltre a “Gesù Il Comunicatore”, anche personaggi del nostro tempo: Giovanni Paolo I, padre Nazareno Fabretti, Fulton John Sheen, don Natale Orlandi e padre Mariano da Torino. I quali dimostrano come, anche partendo da posizioni teologiche e caratteriali molto diverse, si può giungere ad essere un predicatore convincente.
Esigenza fondamentale per una  buona omelia, secondo Dalla Costa, è l’autenticità (la vita del prete deve corrispondere a quel che dice), la chiarezza dei contenuti e il “toccare il cuore” degli ascoltatori, cioè presentando la Parola di Dio agganciandola ai problemi del nostro tempo, suscitando interesse e commozione. Il volumetto di Dalla Costa è consigliabile a tutti, ma in particolare ai giovani sacerdoti.
Ai modelli che Dalla Costa presenta, ne presento uno anch’io, di cui quest’anno si celebrano i 150 dalla morte. Il servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti è il Fondatore del Pime (1800-1861), vescovo di Pavia e patriarca di Venezia. Aveva due lauree e prima di diventare sacerdote aveva fatto l’avvocato. Da “missionario di Rho” (gli Oblati diocesani di Milano), “sentiva il fascino del pulpito” e si dedicava alle “missioni al popolo” e quando parlava alla gente si esprimeva “come un paesano”. Il suo modello era San Vincenzo de Paoli che dava ai predicatori questo suggerimento: “Poca oratoria, poca retorica, linguaggio semplice e molto catechismo”. Ramazzotti si acquista la fama di predicatore efficace perché gradito a tutti. Angelo Montonati scrive nella sua biografia (“Angelo Ramazzotti, Fondatore del Pime”, Emi 2000, pagg. 223, citazione a pag. 35), spiegando il motivo di questo gradimento e citando testimoni del tempo:
“I parroci che poterono ascoltarlo in quelle occasioni concordano nel sottolineare lo zelo apostolico di don Angelo e in modo particolare il suo stile che sapeva adattarsi ad ogni tipo di uditorio: con i sacerdoti usava il linguaggio dei teologi e degli esegeti, con il popolo cambiava totalmente registro, esprimendosi in modo semplice e schietto e ricorrendo spesso al dialetto. ‘Parla proprio da paesano’ commentavano soddisfatti gli ascoltatori”. E questo in conseguenza del fatto che lui, uomo colto, sentiva il desiderio di predicare alla gente incolta (‘in erudiendis rudibus hominibus’). Mi chiedo: quanti sono oggi gli “uomini rudi e incolti” nella fede, magari laureati?
———-
*Padre Piero Gheddo (
www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1964) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l’Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.

Publié dans:Omelia (sull') |on 20 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

Christ Not Made by Hands

Christ Not Made by Hands dans immagini sacre not-made-by-hand-sm-2034

http://www.alphastoredesign.com/search-images/www.holytrinitystore.com/page7.html

Publié dans:immagini sacre |on 19 septembre, 2011 |Pas de commentaires »
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