Archive pour septembre, 2011

Davide , cantore dei Salmi

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Publié dans:immagini sacre |on 26 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

Chiamati a Vivere – Salmo 139 (Ravasi)

dal sito:

http://www.apostoline.it/riflessioni/salmi/Salmo139.htm

I SALMI CANTI SUI SENTIERI DI DIO
 
Chiamati a vivere (Salmo 139)   
                                                              
 
C’è una vocazione primordiale che sta alla radice del nostro stesso essere, è la chiamata alla vita. Dice il Signore a Geremia nel giorno della sua vocazione profetica: « Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu venissi alla luce, ti avevo consacrato » (1,5), e questa frase sarà ripresa anche da Paolo per descrivere la sua vocazione nella lettera ai Galati (« Dio mi scelse fin dal seno di mia madre » 1,15). È celebre il detto di Cartesio « Cogito, ergo sum », « penso, quindi esisto ».il teologo K. Barth ha introdotto in questa frase una piccola variante che però la rivoluziona: « Cogitor, ergo sum » « sono pensato (da Dio) e quindi esisto ». È questa la tipica visione della Bibbia che alla radice della nostra esistenza pone l’amore di Dio e la sua parola: « In principio Dio disse: Facciamo l’uomo…! ».
Ora, questa grande vocazione che si irradia su tutta la nostra esistenza, su tutto lo spazio che percorreremo, su tutti nostri anni, i mesi, i giorni, le ore della nostra vita  è stupendamente cantata in un salmo, il 139, un testo piuttosto lungo che non possiamo ora citare integralmente ma che invitiamo a riprendere e a leggere con attenzione sulla propria Bibbia. « Il Salmo 139 è una delle più penetranti riflessioni sul significato e sulla presenza di Dio in tutta la letteratura religiosa. Vi si avverte,  più che altrove, il senso miracoloso, avvincente e straordinario di Dio che si proietta in ogni direzione, al di sopra, al di sotto, innanzi e indietro ». Queste parole del teologo anglicano A. T. Robinson in un libro che a suo tempo fece scalpore, Dio non è così (Firenze 1965), colgono il cuore di questo splendido ma molto difficile cantico sapienziale.
La libertà delle immagini, il bagliore delle intuizioni, la forza dei sentimenti, la mutevolezza delle tonalità, il tormento del testo a noi giunto non impediscono al Salmo di avere una struttura nitida e un suo rigore ideologico. La sostanza del messaggio è subito percepibile. Dio tutto sa e tutto può e l’uomo non può sottrarsi a lui. Lo scopo ultimo del poema è quello di far convergere verso l’abbraccio salvifico di Dio tutte le dimensioni, tutta la realtà, tutta l’umanità. Citando due poeti greci, Arato e Cleante, Paolo ad Atene affermava: « In lui viviamo, in lui ci muoviamo ed esistiamo » (Atti 17,28). In un testo aramaico di El-Amarna  (Egitto) leggiamo questa frase: « Se noi saliamo in cielo, se noi scendiamo negli inferi, la nostra testa è nelle Tue mani ».
La prima strofa (vv.1-6) è la celebrazione dell’onniscienza divina, come è attestato dal riecheggiare del verbo « conoscere », che nel mondo semitico indica la penetrazione totale del conoscente nell’oggetto conosciuto. Dio mi conosce « quando seggo e quando mi alzo, quando cammino e quando sosto »: le azioni « polari » estreme della vita che riassumono tutte le altre non sfuggono allo sguardo di Dio, come gli sono familiari il nostro pensiero e la nostra parola prima ancora che essi sboccino.
All’onnipresenza divina è dedicata la seconda strofa (vv. 7-12) in cui si descrive il « folle volo » dell’uomo per sottrarsi a Dio. Tutto lo spazio è percorso, dalla verticale cielo-inferi all’orizzontale est-ovest (aurora- mare Mediterraneo). Tutto il tempo con la sua sequenza notte-giorno è perlustrato da Dio a cui non resiste né la morte né la tenebra.
Leggiamo ora la terza strofa (vv. 13-18) che si fissa sulla realtà più mirabile dell’essere, l’uomo, il « prodigio » di Dio.
Sei tu che hai creato i miei reni,
mi hai intessuto nel grembo di mia madre.
Ti ringrazio perché con atti prodigiosi mi hai fatto mirabile:
meravigliose sono le tue opere
e la mia anima le riconosce pienamente.
Il mio scheletro non ti era nascosto
quando fui confezionato nel segreto,
ricamato nelle profondità della terra.
Anche l’embrione i tuoi occhi l’hanno visto
e nel tuo libro erano tutti scritti
i giorni che furono formati
quando ancora non ne esisteva uno.
Quanto sono insondabili per me i tuoi pensieri, o Dio,
quanto è complessa la loro sostanza!
Se li conto sono più numerosi della sabbia.
Mi risveglio ed ecco sono ancora con te.
 
Attraverso il simbolismo « plastico » del vasaio e dello scultore e quello « tessile » del ricamo si dipinge l’azione di Dio all’intero del grembo della gestante. Quel grembo notturno e oscuro, che è paragonato a quello della madre Terra, è trapassato dallo sguardo creatore di Dio e diventa come un cantiere del nostro destino fisico e spirituale. La funzione della donna è vista dal poeta in parallelo a quella della terra: come il seme cade nel terreno e fa esplodere la sua energia nell’humus che espleta la funzione di matrice, così il seme maschile nel grembo della donna, alimentato dal sangue mestruo (secondo l’antica fisiologia orientale) si trasforma in creatura vivente. Il miracolo della creazione e dell’esistenza è contemplato dal nostro poeta con lo stupore della poesia e della fede.
L’ultima strofa (vv. 19-24) è piuttosto sorprendente perché con la sua veemenza sembra in opposizione alla pace della contemplazione precedente. Il tema è quello del giudizio divino sul male nei cui confronti l’orante si dichiara puro. Anzi, egli « odia con odio implacabile » i nemici di Dio. Si tratta di un’espressione molto forte, di sapore orientale, per indicare lo sdegno contro l’ingiustizia che dilaga nel mondo e per esprimere la propria amorosa adesione al bene. È quasi una scelta di campo  che l’orante fa, ben sapendo che a Dio egli deve tutto e che a lui vuole tutto consacrare.
Si chiude così questo canto di gloria al Dio creatore dell’uomo. « Numerose sono e meraviglie del mondo ma la più grande delle meraviglie resta l’uomo », scriveva il poeta greco Sofocle nell’Antigone. Il nostro salmo è un canto di adorazione al Creatore di un simile capolavoro. Lo scrittore ebreo tedesco Joseph Roth, l’autore della Leggenda del santo bevitore, in un’altra sua opera esprimeva suggestivamente questa sensazione: « Nell’istante in cui potei prendere tra le braccia mio figlio provai un lontano riflesso di quella ineffabile sublime beatitudine che dovette colmare il Creatore il sesto giorno quando egli vide la sua opera  imperfetta pur tuttavia compiuta. Mentre tenevo fra le mie braccia quella cosina minuscola, urlante, brutta, paonazza,sentivo chiaramente quale mutamento stava avvenendo in me. Per piccola, brutta e rossastra che fosse la cosa tra le mie braccia, da essa emanava una forza invincibile ».

GIANFRANCO RAVASI

(da SE VUOI)
 

A Cristo non interessano le vostre cadute ma le volte che vi rialzate (Omelia del Papa a Friburgo)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28084?l=italian

IL PAPA ALLA VEGLIA CON I GIOVANI ALLA FIERA DI FRIBURGO

A Cristo non interessano le vostre cadute ma le volte che vi rialzate

FRIBURGO, sabato, 24 settembre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo sabato da Benedetto XVI in occasione della Veglia di preghiera con i giovani nel piazzale esterno della  Fiera di Friburgo.
* * *
Cari giovani amici!
Durante tutto il giorno ho pensato con gioia a questa serata in cui sarei potuto stare qui insieme con voi ed essere unito a voi nella preghiera. Alcuni forse saranno già stati presenti alla Giornata Mondiale della Gioventù, dove abbiamo potuto sperimentare la particolare atmosfera di tranquillità, di profonda comunione e di intima gioia che caratterizza una veglia serale di preghiera. Auguro che anche noi possiamo fare tale esperienza in questo momento: che il Signore ci tocchi e ci faccia testimoni gioiosi, che pregano insieme e si fanno garanti gli uni per gli altri, non soltanto stasera, ma durante tutta la nostra vita.
In tutte le chiese, nelle cattedrali e nei conventi, dovunque si radunano i fedeli per la celebrazione della Veglia pasquale, la più santa di tutte le notti è inaugurata con l’accensione del cero pasquale, la cui luce viene trasmessa a tutti i presenti. Una minuscola fiamma irradia in tanti luci ed illumina la casa di Dio al buio. In tale meraviglioso rito liturgico, che abbiamo imitato in questa veglia di preghiera, si svela a noi, attraverso segni più eloquenti delle parole, il mistero della nostra fede cristiana. Gesù che dice di se stesso: « Io sono la luce del mondo » (Gv 8,12) fa brillare la nostra vita, perché sia vero ciò che abbiamo appena ascoltato nel Vangelo: « Voi siete la luce del mondo » (Mt 5,14). Non sono i nostri sforzi umani o il progresso tecnico del nostro tempo a portare luce in questo mondo. Sempre di nuovo dobbiamo fare l’esperienza che il nostro impegno per un ordine migliore e più giusto incontra i suoi limiti. La sofferenza degli innocenti e, infine, la morte di ogni uomo costituiscono un buio impenetrabile che può forse essere rischiarato per un momento da nuove esperienze, come da un fulmine nella notte. Alla fine, però, rimane un’oscurità angosciante.
Intorno a noi può esserci il buio e l’oscurità, e tuttavia vediamo una luce: una piccola fiamma, minuscola, che è più forte del buio apparentemente tanto potente ed insuperabile. Cristo, che è risorto dai morti, brilla in questo mondo, e lo fa nel modo più chiaro proprio là dove secondo il giudizio umano tutto sembra cupo e privo di speranza. Egli ha vinto la morte – Egli vive – e la fede in Lui penetra come una piccola luce tutto ciò che è buio e minaccioso. Chi crede in Gesù, certamente non vede sempre soltanto il sole nella vita, quasi che gli possano essere risparmiate sofferenze e difficoltà, ma c’è sempre una luce chiara che gli indica una via che conduce alla vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Gli occhi di chi crede in Cristo scorgono anche nella notte più buia una luce e vedono già il chiarore di un nuovo giorno.
La luce non rimane sola. Tutt’intorno si accendono altre luci. Sotto i loro raggi si delineano i contorni dell’ambiente così che ci si può orientare. Non viviamo da soli nel mondo. Proprio nelle cose importanti della vita abbiamo bisogno di altre persone. Così, in modo particolare, nella fede non siamo soli, siamo anelli nella grande catena dei credenti. Nessuno arriva a credere se non è sostenuto dalla fede degli altri e, d’altra parte, con la mia fede contribuisco a confermare gli altri nella loro fede. Ci aiutiamo a vicenda ad essere esempi gli uni per gli altri, condividiamo con gli altri ciò che è nostro, i nostri pensieri, le nostre azioni, il nostro affetto. E ci aiutiamo a vicenda ad orientarci, ad individuare il nostro posto nella società.
Cari amici, « Io sono la luce del mondo – Voi siete la luce del mondo », dice il Signore. È una cosa misteriosa e grandiosa che Gesù dica di se stesso e di ciascuno di noi la medesima cosa, e cioè di « essere luce ». Se crediamo che Egli è il Figlio di Dio che ha guarito i malati e risuscitato i morti, anzi, che Egli stesso è risorto dal sepolcro e vive veramente, allora capiamo che Egli è la luce, la fonte di tutte le luci di questo mondo. Noi invece sperimentiamo sempre di nuovo il fallimento dei nostri sforzi e l’errore personale nonostante le migliori intenzioni. A quanto appare il mondo in cui viviamo, nonostante il progresso tecnico, in ultima analisi non diventa più buono. Esistono tuttora guerre, terrore, fame e malattia, povertà estrema e repressione senza pietà. E anche quelli che nella storia si sono ritenuti « portatori di luce », senza però essere stati illuminati da Cristo, l’unica vera luce, non hanno realmente creato alcun paradiso terrestre, bensì hanno instaurato dittature e sistemi totalitari, in cui anche la più piccola scintilla di umanesimo è stata soffocata.
A questo punto non dobbiamo tacere il fatto che il male esiste. Lo vediamo, in tanti luoghi di questo mondo; ma lo vediamo anche – e questo ci spaventa – nella nostra stessa vita. Sì, nel nostro stesso cuore esistono l’inclinazione al male, l’egoismo, l’invidia, l’aggressività. Con una certa autodisciplina ciò forse è, in qualche misura, controllabile. E’ più difficile, invece, con forme di male piuttosto nascosto, che possono avvolgerci come una nebbia indistinta, e sono la pigrizia, la lentezza nel volere e nel fare il bene. Ripetutamente nella storia, persone attente hanno fatto notare che il danno per la Chiesa non viene dai suoi avversari, ma dai cristiani tiepidi. Come può allora Cristo dire che i cristiani – e con ciò forse anche quei cristiani deboli e spesso così tiepidi – sono la luce del mondo? Forse capiremmo se Egli gridasse: Convertitevi! Siate la luce del mondo! Cambiate la vostra vita, rendetela chiara e splendente! Non dobbiamo forse restare stupiti che il Signore non ci rivolga un appello, ma dica che siamo la luce del mondo, che siamo luminosi, che splendiamo nel buio?
Cari amici, l’apostolo san Paolo, in molte delle sue lettere, non teme di chiamare « santi » i suoi contemporanei, i membri delle comunità locali. Qui si rende evidente che ogni battezzato – ancor prima di poter compiere opere buone o azioni particolari – è santificato da Dio. Nel Battesimo, il Signore accende, per così dire, una luce nella nostra vita, una luce che il catechismo chiama la grazia santificante. Chi conserva tale luce, chi vive nella grazia è effettivamente santo.
Cari amici, ripetutamente l’immagine dei santi è stata sottoposta a caricatura e presentata in modo distorto, come se essere santi significasse essere fuori dalla realtà, ingenui e senza gioia. Non di rado si pensa che un santo sia soltanto colui che compie azioni ascetiche e morali di altissimo livello e che perciò certamente si può venerare, ma mai imitare nella propria vita. Quanto è errata e scoraggiante questa opinione! Non esiste alcun santo, fuorché la beata Vergine Maria, che non abbia conosciuto anche il peccato e che non sia mai caduto. Cari amici, Cristo non si interessa tanto a quante volte nella vita vacillate e cadete, bensì a quante volte vi rialzate. Non esige azioni straordinarie, ma vuole che la sua luce splenda in voi. Non vi chiama perché siete buoni e perfetti, ma perché Egli è buono e vuole rendervi suoi amici. Sì, voi siete la luce del mondo, perché Gesù è la vostra luce. Voi siete cristiani – non perché realizzate cose particolari e straordinarie – bensì perché Egli, Cristo, è la vostra vita. Siete santi perché la sua grazia opera in voi.
Cari amici, questa sera, in cui ci raduniamo in preghiera attorno all’unico Signore, intuiamo la verità della parola di Cristo secondo la quale non può restare nascosta una città collocata sopra un monte. Questa assemblea brilla nei vari significati della parola – nel chiarore di innumerevoli lumi, nello splendore di tanti giovani che credono in Cristo. Una candela può dar luce soltanto se si lascia consumare dalla fiamma. Essa resterebbe inutile se la sua cera non nutrisse il fuoco. Permettete che Cristo arda in voi, anche se questo può a volte significare sacrificio e rinuncia. Non temete di poter perdere qualcosa e restare, per così dire, alla fine a mani vuote. Abbiate il coraggio di impegnare i vostri talenti e le vostre doti per il Regno di Dio e di donare voi stessi – come la cera della candela – affinché per vostro mezzo il Signore illumini il buio. Sappiate osare di essere santi ardenti, nei cui occhi e cuori brilla l’amore di Cristo e che, in questo modo, portano luce al mondo. Io confido che voi e tanti altri giovani qui in Germania siate fiaccole di speranza, che non restano nascoste. « Voi siete la luce del mondo ». Dio è il vostro futuro. Amen.

Publié dans:Papa Benedetto - viaggi |on 26 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

A painting entitled « God creating the Sun, the Moon and the Stars »

A painting entitled
http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Brueghel_Jan_II_God_creating.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 24 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

OMELIA DEL PAPA NELLA MESSA NELLA DOMPLATZ DI ERFURT

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28074?l=italian

OMELIA DEL PAPA NELLA MESSA NELLA DOMPLATZ DI ERFURT

ERFURT, sabato, 24 settembre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell’omelia pronunciata da Papa Benedetto XVI questo sabato mattina presiedendo la Messa nella Domplatz di Erfurt.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
« Lodate il Signore in ogni tempo, perché è buono »: così abbiamo appena cantato prima del Vangelo. Sì, abbiamo veramente motivo per ringraziare Dio con tutto il cuore. Se in questa città torniamo indietro col pensiero al 1981, l’anno giubilare di sant’Elisabetta, trent’anni fa, ai tempi della DDR – chi avrebbe immaginato che il muro e il filo spinato alle frontiere sarebbero caduti pochi anni dopo? E se andiamo ancora più indietro, di circa settant’anni fino al 1941, ai tempi del nazionalsocialismo – chi avrebbe potuto predire che il cosiddetto « Reich millenario » sarebbe stato ridotto in cenere già quattro anni dopo?
Cari fratelli e sorelle, qui in Turingia e nell’allora DDR avete dovuto sopportare una dittatura « bruna » [nazista] e una « rossa » [comunista], che per la fede cristiana avevano l’effetto che ha la pioggia acida. Tante conseguenze tardive di quel tempo sono ancora da smaltire, soprattutto nell’ambito intellettuale e religioso. La maggioranza della gente in questa terra vive ormai lontana dalla fede in Cristo e dalla comunione della Chiesa. Gli ultimi due decenni, però, presentano anche esperienze positive: un orizzonte più ampio, uno scambio al di là delle frontiere, una fiduciosa certezza che Dio non ci abbandona e ci conduce per vie nuove. « Dove c’è Dio, là c’è futuro ».
Noi tutti siamo convinti che la nuova libertà abbia aiutato a conferire alla vita degli uomini una dignità più grande e ad aprire molteplici nuove possibilità. Anche dal punto di vista della Chiesa possiamo sottolineare con gratitudine molte facilitazioni: nuove possibilità per le attività parrocchiali, la ristrutturazione e l’ampliamento di chiese e di centri parrocchiali, iniziative diocesane di carattere pastorale o culturale. Ma queste possibilità ci hanno portato anche a crescita nella fede? Non bisogna forse cercare le radici profonde della fede e della vita cristiana in ben altro che non nella libertà sociale? Molti cattolici risoluti sono rimasti fedeli a Cristo e alla Chiesa proprio nella difficile situazione di un’oppressione esteriore. Hanno accettato svantaggi personali pur di vivere la propria fede. Vorrei qui ringraziare i sacerdoti e i loro collaboratori e collaboratrici di quei tempi. In particolare, vorrei ricordare la pastorale dei rifugiati immediatamente dopo la seconda guerra mondiale: allora molti ecclesiastici e laici hanno compiuto grandi cose per attenuare la situazione penosa dei profughi e donare loro una nuova Patria. Non da ultimo, un ringraziamento sincero va ai genitori che, in mezzo alla diaspora e in un ambiente politico ostile alla Chiesa, hanno educato i loro figli nella fede cattolica. Meritano, ad esempio, di essere ricordate con gratitudine le Settimane Religiose per i bambini durante le vacanze, come anche il lavoro fruttuoso delle Case per la gioventù cattolica « Sankt Sebastian » a Erfurt e « Marcel Callo » a Heiligenstadt. Specialmente nell’Eichsfeld molti cristiani cattolici hanno resistito all’ideologia comunista. Voglia Dio ricompensare abbondantemente la perseveranza nella fede. La testimonianza coraggiosa e la paziente fiducia nella provvidenza di Dio sono come un seme prezioso che promette un abbondante frutto per il futuro.
La presenza di Dio si manifesta in modo particolarmente chiaro nei suoi santi. La loro testimonianza di fede può darci anche oggi il coraggio per un nuovo risveglio. Pensiamo qui soprattutto ai santi Patroni della Diocesi di Erfurt: Elisabetta di Turingia, Bonifacio e Kilian. Elisabetta venne da un Paese estero, dall’Ungheria, a Wartburg in Turingia. Condusse una vita intensa di preghiera, unita alla penitenza e alla povertà evangelica. Scendeva regolarmente dal suo castello nella città di Eisenach per curarvi di persona i poveri e i malati. La sua vita su questa terra durò poco – raggiunse soltanto l’età di ventiquattro anni –, ma il frutto della sua santità fu immenso. Sant’Elisabetta gode grande stima anche da parte dei cristiani evangelici; può aiutare tutti noi a scoprire la pienezza della fede tramandata e a tradurla nella nostra vita quotidiana.
Alle radici cristiane del nostro Paese rimanda anche la fondazione della Diocesi di Erfurt nell’anno 742 da parte di san Bonifacio. Questo evento costituisce, al contempo, la prima menzione documentata della città di Erfurt. Il Vescovo missionario era venuto dall’Inghilterra ed operò in stretto collegamento con il Successore di san Pietro. Lo veneriamo come « Apostolo della Germania »; morì martire. Due dei suoi compagni che condivisero con lui la testimonianza del sangue per la fede cristiana sono seppelliti qui, nel Duomo di Erfurt: sono i santi Eoban ed Adelar.
Già prima dei missionari anglosassoni ha operato in Turingia san Kilian, un missionario itinerante che proveniva dall’Irlanda. Insieme con due compagni egli morì martire a Würzburg, perché criticava il comportamento moralmente sbagliato del duca di Turingia lì residente. Infine, non vogliamo dimenticare san Severo, il Patrono della Severikirche qui nella Piazza del Duomo: nel quarto secolo, egli era Vescovo di Ravenna; nell’anno 836, le sue spoglie vennero portate a Erfurt, per radicare più profondamente la fede cristiana in questa regione.
Che cosa hanno in comune questi santi? Come possiamo descrivere e rendere fecondo per noi l’aspetto particolare della loro vita? Sì, i santi ci mostrano che è possibile e che è bene vivere in modo radicale il rapporto con Dio, mettere Dio al primo posto e non come una realtà tra le altre. I santi ci rendono evidente il fatto che Dio per primo si è rivolto verso di noi, in Gesù Cristo si è manifestato e si manifesta a noi. Cristo ci viene incontro, parla ad ognuno e lo invita a seguirLo. Questa possibilità, i santi l’hanno valorizzata, si sono, per così dire, protesi dal loro intimo verso di Lui – nel continuo dialogo della preghiera – e da Lui hanno ricevuto la luce che dischiuse loro la vita vera.
La fede è sempre anche essenzialmente un credere insieme con gli altri. Il fatto di poter credere lo devo innanzitutto a Dio che si rivolge a me e, per così dire, « accende » la mia fede. Ma molto concretamente devo la mia fede anche a coloro che mi sono vicini e che hanno creduto prima di me e credono insieme con me. Questo « con », senza il quale non può esserci alcuna fede personale, è la Chiesa. E questa Chiesa non si ferma davanti alle frontiere dei Paesi, lo dimostrano le nazionalità dei santi da me menzionati poc’anzi: Ungheria, Inghilterra, Irlanda e Italia. Qui si evidenzia quanto sia importante lo scambio spirituale che si espande attraverso l’intera Chiesa universale. Se noi ci apriamo a tutta la fede in tutta la storia e nelle sue testimonianze in tutta la Chiesa, allora la fede cattolica ha un futuro anche come forza pubblica in Germania. Al tempo stesso le figure dei santi che ho ricordato ci mostrano la grande fecondità di una vita santa, di questo amore radicale per Dio e per il prossimo. I santi, anche se sono soltanto pochi, cambiano il mondo.
Così i cambiamenti politici dell’anno 1989 nel vostro Paese non erano motivati soltanto dal desiderio di benessere e di libertà di movimento, ma, in modo decisivo, anche dal desiderio di veracità. Questo desiderio venne tenuto desto, fra l’altro, da persone che stavano totalmente al servizio di Dio e del prossimo ed erano disposte a sacrificare la propria vita. Essi e i santi ricordati ci danno il coraggio di trarre profitto dalla nuova situazione. Non vogliamo nasconderci in una fede solamente privata, ma vogliamo gestire in modo responsabile la libertà raggiunta. Come i santi Kilian, Bonifacio, Adelar, Eoban ed Elisabetta di Turingia vogliamo andare incontro ai nostri concittadini da cristiani ed invitarli a scoprire con noi la pienezza della Buona Novella. Allora assomiglieremo alla famosa campana del Duomo di Erfurt che porta il nome di « Gloriosa ». Essa è ritenuta la più grande campana medioevale del mondo ad oscillazione libera. È un segno vivo del nostro profondo radicamento nella tradizione cristiana, ma anche un richiamo a metterci in cammino ed impegnarci nella missione. Suonerà anche oggi alla fine della Messa solenne. Possa allora stimolarci a rendere visibile ed udibile – secondo l’esempio dei santi – la testimonianza di Cristo nel mondo in cui viviamo. Amen.

Publié dans:Papa Benedetto - viaggi |on 24 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

SULLA VIA DI EMMAUS. L’EDUCAZIONE E LA BELLEZZA DI DIO (Bruno Forte)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28078?l=italian

SULLA VIA DI EMMAUS. L’EDUCAZIONE E LA BELLEZZA DI DIO

ROMA, sabato, 24 settembre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lettera pastorale per l’anno 2011-2012 di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, dedicata al tema dell’educazione.

* * *
1. Perché l’educazione? Ho scelto l’educazione come tema di questa lettera pastorale perché la sfida della trasmissione ai nostri ragazzi di quanto per noi veramente conta nella vita appare oggi più che mai ardua. È come se la distanza fra le generazioni si fosse improvvisamente accresciuta, sia per l’accelerazione dei cambiamenti in atto, sia per la novità dei linguaggi che il mondo del computer e della rete ci va imponendo. I “nativi digitali” – coloro cioè che sono nati nell’era di “internet” e che vi accedono con strabiliante naturalezza – fanno fatica a intendersi con gli abitanti del vecchio pianeta terra, solcato da confini e lontananze, che risultavano spesso difficilmente valicabili. Quanto viene proposto dall’opera di genitori e educatori desiderosi di far bene, rischia di essere volatilizzato dal mondo della “rete” in cui i nostri ragazzi navigano alla grande, spesso senza adeguata cautela e discernimento. Mentre il “villaggio globale” dei giovani è sempre più omologato su modelli planetari, le identità tradizionali, radicate in storia, usi e costumi, appaiono relativizzarsi e perdere di interesse ai loro occhi. Anche nell’azione pastorale ci sembra a volte di rispondere a domande che nessuno pone o di porre domande che non interessano più nessuno! La realtà di un mondo senza Dio, in cui non di rado ci pare di trovarci, è forse solo il frutto di questo “Dio senza mondo”, che tale risulta a molti cui vorremmo proporlo, che parlano ormai linguaggi totalmente diversi dai nostri. Come affrontare la sfida educativa che ne consegue? Come dire ai nostri ragazzi ciò che veramente ci sta a cuore, vita della nostra vita, senso delle nostre fatiche e speranza dei nostri giorni? È a domande come queste che più volte ci ha invitato a rispondere Papa Benedetto XVI, che all’educazione alla fede ha dedicato tutta la sua vita di teologo e di pastore. È a tali domande che i Vescovi italiani hanno scelto di prestare la loro attenzione prioritaria in questi anni dieci del terzo millennio. È su di esse che vorrei anch’io riflettere con voi con questi pensieri brevi ed essenziali. Scelgo, perciò, di parlarvi della sfida educativa e lo faccio a partire da un’icona biblica, quella dei discepoli di Emmaus, cui si affianca sulla via un viandante dapprima non riconosciuto, Gesù, che li introduce progressivamente alla realtà tutta intera del suo mistero (Luca 24, 13-35). Mi sembra che il modello del Figlio di Dio, che si fa educatore dei due discepoli tanto simili a noi e ai nostri ragazzi, come noi “stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti”, possa aiutarci a capire come rispondere alla sfida tanto urgente e decisiva dell’educazione.
2. In cammino sulla via di Emmaus: la posta in gioco. Ciò che il racconto di Emmaus ci fa anzitutto capire è che l’educazione è un cammino: essa non avviene nel chiuso di una relazione esclusiva e rassicurante, decisa una volta per sempre, ma si pone nel rischio e nella complessità del divenire della persona, teso fra nostalgie e speranze, di cui è appunto figura il cammino da Gerusalemme a Emmaus percorso dai due discepoli e dal misterioso Viandante. Siamo tutti usciti dalla città di Dio, in quanto opera delle Sue mani, e andiamo pellegrini verso il domani nell’avanzare della sera, bisognosi di qualcuno che ci stia vicino, sulla cui presenza affidabile poter contare: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” (v. 29). Tutti siamo incamminati verso l’ultimo silenzio dell’esistenza che muore! Proprio nel confronto con l’enigma della morte, però, si affacciano alla mente e al cuore due radicali e opposte possibilità: ritenersi “gettati verso la morte” (come pensa il filosofo Martin Heidegger, riflettendo sulla condizione umana) o considerarsi “mendicanti del cielo” (come sostiene per esempio il pensatore cattolico Jacques Maritain), destinati alla vita vittoriosa sulla morte della Gerusalemme celeste. Se l’uomo è solo in questo mondo, l’ultima parola sul suo destino non potrà che essere quella del finale silenzio in cui la sua esistenza si spegnerà. Se invece c’è un Dio d’amore, ogni essere personale è un “tu” unico e singolare cui quest’amore è rivolto, e che come tale vive e vivrà per sempre grazie all’eterna fedeltà dell’interlocutore divino. La tristezza dei due discepoli all’inizio del racconto di Emmaus è quella di chi teme che la morte l’abbia vinta sulla vita; l’entusiasmo con cui ripartono nella notte per andare ad annunciare a tutti di aver incontrato il Risorto è quello di chi sa che la vita ha vinto e vincerà la morte. Fra le due opzioni la scelta è decisiva e va fatta ogni giorno: ecco perché siamo tutti, sempre, in cammino sulla via dell’educazione, per scegliere sempre di nuovo ciò su cui sta o cade il senso ultimo della nostra vita. Ed ecco perché l’annuncio della vita vittoriosa sulla morte deve risuonare ogni giorno, in un’incessante testimonianza vissuta nella condivisione del cammino e nella proposta umile e coraggiosa della buona novella dell’amore: è questa la “nuova evangelizzazione” di cui ogni generazione ha bisogno. Non va mai dato per scontato l’annuncio del senso e della bellezza della vita vista nell’orizzonte di Dio e del Suo eterno amore. Ci sarà sempre bisogno di educatori, che siano persone dal cuore nuovo, capaci di cantare il cantico nuovo della speranza e della fede lungo le vie, talvolta tortuose e scoscese, che i pellegrini del tempo sono chiamati a percorrere. Chi educa non dovrà mai dimenticare che la posta in gioco nell’educazione è la scelta decisiva della persona, l’opzione fondamentale che qualificherà il suo stile di vita e le singole decisioni settoriali. La meta di un’educazione piena e realizzante non può che essere la scelta libera e fedele del bene, la sola che consenta alla persona di entrare nell’obbedienza al disegno di Dio su di lei, dov’è la sua vera pace, come afferma Dante: “E in la sua volontade è nostra pace / ell’è quel mar al qual tutto si move / ciò ch’ella cria e che natura face” (Paradiso, Canto III, 85).
3. Le condizioni del cammino educativo. Il racconto di Emmaus ci fa anche comprendere quali sono le condizioni fondamentali di una relazione educativa. La prima riguarda la dimensione del tempo: occorre aver tempo per l’altro e dargli tempo, accompagnandolo nella durata con fedeltà, vivendo con perseveranza la gratuità del dono del proprio tempo. Oggi si parla di “banca del tempo” per dire quanto è prezioso il mettere a disposizione degli altri gratuitamente anche solo qualche ora della nostra settimana: l’impegno educativo esige un’immensa disponibilità a spendere le risorse di questa banca. Chi ha fretta o non è pronto ad ascoltare e accompagnare pazientemente il cammino altrui, non sarà mai un educatore. Tutt’al più potrà pretendere di proporsi come un modello lontano, alla fine poco significativo e coinvolgente per la vita degli altri. Gesù sulla via di Emmaus avrebbe potuto svelare subito il suo mistero: se non lo ha fatto, è perché sapeva che i due discepoli avevano bisogno di tempo per capire quanto avrebbe loro rivelato, e forse – come dice Sant’Ireneo agli albori della riflessione cristiana – perché anche Dio ha bisogno di tempo per imparare a farsi vicino alla sua creatura così fragile e incostante. Come in ogni rapporto basato sull’amore, anche nel rapporto educativo il dono del tempo è il segno più credibile del proprio coinvolgimento al servizio del bene dell’altro. Comprendiamo così una seconda condizione necessaria a stabilire una vera relazione educativa, del tutto evidente nel racconto di Emmaus: occorre camminare insieme.Prima che essere per l’altro, chi educa deve stare con l’altro. L’educazione avviene attraverso la condivisione, la comprensione e ildialogo: l’essere genitori nella relazione ai figli, l’insegnamento vissuto nel porsi accanto e di fronte a chi apprende, la testimonianza resa a chi vorremmo condurre all’incontro con Cristo, esigono compagnia della vita e della parola… Il fallimento di un’educazione solo autoritaria, che neghi il valore del dialogo e dell’ascolto dell’altro, si dimostra da sé. Sarebbe parimenti sbagliato, però, pensare che l’educazione possa realizzarsi solo fra pari: l’egualitarismo educativo ha combinato disastri. Il dialogo non significa appiattimento delle differenze: non si amano gli altri se non si è se stessi, accettando anche l’inevitabile diversità da loro. “Se mi ami, dimmi di no” è un valido progetto educativo, se inserito in una rete di attenzione e di amore, che non escluda le differenze, ma le porti all’incontro reciprocamente arricchente. Anche in campo educativo è urgente realizzare la “convivialità delle differenze” (don Tonino Bello)!
4. La compagnia di Gesù. Il comportamento del misterioso Viandante sulla via di Emmaus risulta dunque anzitutto quello di chi si fa prossimo all’altro: egli fa compagnia al cammino dei due. “Gesù in persona si accostò e camminava con loro” (v. 15). Accompagnarsi, porre domande, ascoltare le risposte, leggere il cuore dell’altro e farlo ardere con l’annuncio della parola di vita, accendere il desiderio e corrispondervi coi gesti della condivisione: questo è la compagnia della vita, lo spezzare insieme il pane dei giorni (compagnia viene da “cum – pane”, pane condiviso), stando in cammino con l’altro per comprendere e parlare al suo cuore e trasformarlo. Non si tratta insomma tanto di insegnare dall’alto di una cattedra, ma di contagiare la vita con l’eloquenza della vita stessa: “Il mondo di oggi – diceva Paolo VI – ascolta più volentieri i testimoni che i maestri; e, quando ascolta i maestri, lo fa perché sono anche testimoni”. Chi educa deve insomma farsi prossimo: la luce della vita si trasmette nella reciprocità fra i due; nell’attenzione all’altro; nella pazienza di accettare i suoi tempi e di stimolarne le scelte. Come amava ripetere John Henry Newman, “cor ad cor loquitur”, è il cuore che parla al cuore. Accompagnare vuol dire prevenire e accogliere l’altro nell’amore: “Nulla maior est ad amorem invitatio quam praevenire amando”, scrive Sant’Agostino all’amico che gli chiedeva come educare i difficili ragazzi dei suoi tempi (De catechizandis rudibus, 4) – “Non c’è invito più grande all’amore che prevenire amando”. Chi educa deve amare per primo e senza stancarsi, o non educa affatto. Per essere buoni educatori bisogna dare amore ricordandosi sempre dell’amore ricevuto e accettando di lasciarsi continuamente educare dall’amore. Chi sa accogliere, sa anche donare! Per accompagnare fedelmente l’altro, l’educatore deve dimostrargli di apprezzarlo, deve valorizzarlo, perché chi va educato ha bisogno anzitutto di fiducia, di quel sentirsi amato che gli consentirà anche di lasciarsi correggere e ammonire. L’incoraggiamento e l’elogio sono spesso più utili del rimprovero, perché danno la forza di impegnarsi a migliorare. Il rigorismo stanca e deprime. Solo l’amore eleva e incoraggia ed è vita che genera alla vita…
5. La memoria di quanto veramente conta per noi. Gesù non si limita ad accompagnare i due discepoli: egli li stimola, li ammonisce con amore e soprattutto schiude loro il senso della storia della salvezza, per introdurvi il loro cuore inquieto e aprirlo allo stupore davanti al dono dell’amore divino: “Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (v. 27). Facendo memoria delle meraviglie compiute da Dio per il suo popolo, il misterioso Viandante introduce i due nella realtà totale del suo mondo vitale, apre il tesoro del suo cuore e fa loro comprendere ciò che tutti abbiamo ricevuto dal Padre celeste e di cui viviamo veramente. Il “rischio educativo” consiste nell’inserire la persona nella pienezza del reale, e dunque nella tradizione viva della fede e dell’amore che nutrono la vita e ci trasmettono la luce che viene dal passato della salvezza, aprendoci alla novità del futuro della promessa: ci viene da pensare a tutti quelli che ci hanno trasmesso il dono della fede, dai genitori, ai nonni, ai sacerdoti, ai consacrati, agli educatori che hanno segnato la nostra vita. Veramente, l’educazione è opera totale, “cattolica”, nel senso etimologico del termine (“kath’òlou” = in pienezza): formando al grande abbraccio della realtà, grazie all’opera educativa perseverante e integrale, la vita suscita e contagia la vita, il dono ricevuto si fa amore donato, la verità accolta e trasmessa libera e salva. È necessario però che la memoria sia come quella evocata da Gesù, viva, pericolosa, non asettica e inerte: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (v. 32). Solo la parola convinta e la testimonianza credibile di ciò di cui abbiamo fatto esperienza sono in grado di accendere la vita. La memoria va insomma partecipata all’altro con amore, come avviene in Gesù, che al culmine del cammino condiviso si rivela nel gesto dello spezzare il pane benedetto, di offrire e condividere il dono di Dio nel dono di sé. Il Maestro non comunica solo con la parola, ma lo fa anche col gesto: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (vv. 30 e 31). Il gesto benedicente si unisce al segno della condivisione del pane, della vita, del cuore. La comunione è forza educativa, rete relazionale attraverso cui è possibile introdurre l’altro alla pienezza della vita: solo in una relazione di amore fedele, di comunione generosa e piena, passa la vita che illumina la vita, tanto fra genitori e figli, quanto in generale fra insegnanti e alunni, fra educatori e discepoli, fra pastori e popolo loro affidato, fra catechisti e catechizzandi…
6. La profezia della vita nuova e piena. Gesù infine schiude ai due discepoli un nuovo futuro, aprendo il loro cuore a una speranza affidabile: egli accende la profezia, contagiando loro il coraggio e la gioia. È scopo dell’educazione schiudere orizzonti, raccogliere le sfide e accendere la passione per la causa di Dio tra gli uomini, che è la causa della verità, della giustizia e dell’amore. Gesù procede per tappe: si fa vicino, spiega le Scritture, alimenta il desiderio, si fa riconoscere e offre ai due l’annuncio di sé, della sua vittoria sulla morte: “Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro… E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (vv. 15 e 27). “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista” (vv. 30-31). Si accende nei cuori dei due una “grande gioia” (v. 41). È da questa gioia che scaturisce l’urgenza di partire subito per portare agli altri la buona novella di cui sono ormai testimoni: “E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone” (vv. 33-34). L’incontro vissuto esige di essere testimoniato: non puoi fermarti a ciò che hai avuto in dono. Devi a tua volta donarlo, camminando sulle tue gambe e facendo le scelte della tua libertà. L’educazione o genera testimoni liberi e convinti di ciò per cui vivono, o fallisce il suo scopo. Chi educa non deve creare dipendenze, ma suscitare cammini di libertà, in cui ciascuno viva la propria avventura al servizio della luce che gli ha illuminato il cuore. “Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (v. 35). L’educazione ha raggiunto il suo fine quando chi l’ha ricevuta è capace di irradiare il dono che lo ha raggiunto e cambiato: “Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento della storia – affermava il Card. Ratzinger pochi giorni prima della sua elezione a Successore di Pietro, parlando a Subiaco il 1 Aprile 2005 – sono uomini che, attraverso una fede illuminata, rendano Dio credibile in questo mondo… Uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando di lì la vera umanità, uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore… Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini”. Educare, insomma, non è clonare, ma accendere la vita col dono della vita, suscitando i cammini di libertà di un’esistenza significativa e piena, spesa al servizio della verità che sola rende e renderà liberi.
7. Contagiati dal Risorto, educare come lui. L’icona biblica di Emmaus ci consente così una definizione sintetica dell’azione educativa: educare è accompagnare l’altro dalla tristezza del non senso alla gioia della vita piena di significato, introducendolo nel tesoro del proprio cuore e del cuore della Chiesa, rendendolo partecipe di esso per la forza diffusiva dell’amore. Chi vuol essere educatore deve poter ripetere con l’apostolo Paolo queste parole, che sono un autentico progetto educativo: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Corinzi 1,24). Sullo stile educativo di Gesù, quale emerge dal suo rapporto con i discepoli di Emmaus, dobbiamo esaminarci tutti, chiedendoci se e fino a che punto il nostro impegno al servizio dell’educazione sia fatto analogamente di compagnia, memoria e profezia. Facilmente il bilancio ci sembrerà perdente: ci conforta tuttavia il fatto di non essere soli. Dio – che ha educato il suo popolo nella storia della salvezza – continua a educarci e a educare: “Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Giovanni 14,26). Non rinunciamo dunque a raccogliere la sfida educativa, qualunque sia il livello di responsabilità che ci è dato di vivere. Affidiamoci a Maria, che come Madre è stata anche singolare educatrice del Figlio di Dio fatto uomo, nella quotidianità della vita della Santa Famiglia di Nazaret. E confidiamo nel divino Maestro, dicendogli con semplicità e fiducia: “Signore Gesù, Tu ti sei fatto compagno di strada dei discepoli dal cuore triste, incamminati dalla città di Dio verso il buio della sera. Hai fatto ardere il loro cuore, aprendolo alla realtà totale del Tuo mistero. Hai accettato di fermarti con loro alla locanda, per spezzare il pane alla loro tavola e permettere ai loro occhi di aprirsi e di riconoscerti. Poi sei scomparso, perché essi – toccati ormai da te – andassero per le vie del mondo a portare a tutti l’annuncio liberante della gioia che avevi loro dato. Concedi anche a noi di riconoscerti presente al nostro fianco, viandante con noi sui nostri cammini. Illuminaci e donaci di illuminare a nostra volta gli altri, a cominciare da quelli che specialmente ci affidi, per farci anche noi compagni della loro strada, come tu hai fatto con noi, per far memoria con loro delle meraviglie della salvezza e far ardere il loro cuore, come tu hai fatto ardere il nostro, per seguirti nella libertà e nella gioia e portare a tutti l’annuncio della tua bellezza, col dono del tuo amore che vince e vincerà la morte. Amen. Alleluia”.

Publié dans:Arcivecovi e Vescovi, Bruno Forte |on 24 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

23 settembre : San Padre Pio da Pietralcina

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PERCHÉ DIO “SPOGLIA DI TUTTO” LA VITA? – DOMENICA XXVI DEL T.O.

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28067?l=italian

PERCHÉ DIO “SPOGLIA DI TUTTO” LA VITA?

Vangelo della XXVI Domenica del Tempo Ordinario

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 23 settembre 2011 (ZENIT.org).- In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: “Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: ‘Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna’. Ed egli rispose: ‘Non ne ho voglia’. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: ‘Sì, signore’. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. Risposero: “Il primo” (Mt 21,28-32).
Così dice il Signore: “voi dite: ‘Non è retto il modo di agire del Signore’. Ascolta, dunque, casa di Israele: ‘Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?’” (Ez 18,25-28).
Fratelli…Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, divenendo simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre (Fil 2,1-11).
Il 1° maggio 2011, il Santo Padre Benedetto concludeva così l’omelia per la beatificazione di Giovanni Paolo II: “L’esempio della sua preghiera mi ha sempre colpito ed edificato: egli si immergeva nell’incontro con Dio, pur in mezzo alle molteplici incombenze del suo ministero. E poi la sua testimonianza nella sofferenza: il Signore lo ha spogliato pian piano di tutto, ma egli è rimasto sempre una “roccia”, come Cristo lo ha voluto. La sua profonda umiltà, radicata nell’intima unione con Cristo, gli ha permesso di continuare a guidare la Chiesa e a dare al mondo un messaggio ancor più eloquente proprio nel tempo in cui le forze fisiche gli venivano meno”.
Dunque, non è stata la malattia a “spogliarepian piano di tutto” Giovanni Paolo II, ma il Signore, il Padre celeste, Colui che è Divina Misericordia. Infatti, se la verità di tale volontà divina vale per Cristo-Capo (è stato per obbedire al Padre che Gesù “spogliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” – Fil 2,8), vale anche per il suo Vicario e per tutte le membra del Corpo che è la Chiesa.
Ciò significa che l’inesorabile Morbo di Parkinson che colpì Giovanni Paolo II, faceva parte del progetto divino sul suo pontificato fin dal 16 ottobre 1978, giorno in cui fu costituito “roccia” per la Chiesa intera, e fece risuonare nel mondo le memorabili parole: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”.
Una “roccia” che cominciò poi fisicamente a sgretolarsi per la malattia, sì che molti scuotevano la testa e criticavano il Papa per quella che giudicavano una “esibizione mediatica” della sua sempre più invalida persona (erano fra coloro che pensavano: “non è retto il modo di agire del Signore” – Ez 18,25). In realtà, se la forza profetica del suo messaggio ha convinto il mondo intero, è stato proprio per la testimonianza mondiale dello spogliamento di tutto, così eroicamente accettato dal beato Giovanni Paolo II. E il messaggio è: non dobbiamo avere paura di accettare la volontà di Dio, (come si teme l’estraneo cui non si apre la porta di casa), ma spalancare ad essa il cuore, riponendo una fiducia totale nella misericordia del Padre.
Esortazione certamente non facile a mettersi in pratica! Sappiamo, infatti, che Gesù stesso “con forti grida e lacrime” (Eb 5,7) ha dovuto lottare fino al sangue per bere il calice amaro della Passione; e sappiamo come ha superato la prova: avendo intensamente pregato, non solo ha potuto vincere il suo combattimento, ma anche il nostro, dal momento che ha ottenuto anche per noi quella “fortificazione” spirituale, definitiva e perfetta della natura umana che ci permette di perseverare vittoriosamente nella prova.
Anche per noi, come per Gesù, è dunque necessario accettare con fede ogni doloroso spogliamento operato dalla mano misteriosa e misericordiosa del Padre. E accettare è sempre possibile, dal momento che non ci è chiesto un atto morale eroico, ma un semplice assenso della ragione sostenuta dalla fiducia in Dio; fiducia spesso non sentita, ma che è necessario e sufficiente voler avere. E come i bambini posseggono tale fiducia per natura, così i grandi possono riacquistarla stabilmente in virtù dello Spirito e della Parola (cfr Gv 3,3).
Esortandoci ad avere “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5), e narrandone poi l’obbediente spogliamentototale, Paolo ci fa capire che la coscienza del Signore sin dall’infanzia (Lc 2,49) aveva un unico “sentire”: fare la volontà del Padre.
Tutto ciò riguarda profondamente anche la nostra vita, che si trova nella prova per ciò stesso che esistiamo.
Ascoltiamo, allora, un’altra grande testimone della fede, la carmelitana Edith Stein, ebrea, filosofa, martire ad Auschwitz e patrona d’Europa: “Essere figlio di Dio significa camminare dando la mano a Dio, fare la volontà di Dio, non la propria, riporre nelle sue mani ogni preoccupazione e speranza, non affannarsi più per sé e per il proprio futuro. Questa è la base della gioia e della libertà del figlio di Dio. Quanti pochi, anche di coloro che sono veramente devoti, anche di coloro che hanno fatto eroicamente l’offerta di se stessi, la possiedono! Essi camminano sempre chini sotto il grave peso delle loro preoccupazioni e dei loro doveri. Tutti conoscono la parabola degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. Ma quando incontrano una persona che non possiede alcun bene, non ha alcuna pensione e alcuna assicurazione e tuttavia va incontro serena al proprio futuro, scuotono il capo come se si trovassero di fronte a un tipo strano. Certo, chi si aspetta che il Padre celeste provvederà sempre al benessere e alle entrate che egli ritiene desiderabili, potrebbe sbagliare gravemente. La fiducia in Dio rimane incrollabile solo se essa include la disponibilità ad accogliere qualunque cosa dalla sua mano. Dio solo infatti sa quel che è bene per noi. Il “sia fatta la tua volontà”, in tutta la sua estensione, deve essere il criterio della vita cristiana. E deve quindi essere l’unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre il Signore le prende su di sé. Nell’età infantile della vita spirituale, quando abbiamo appena incominciato ad affidarci alla guida di Dio, sentiamo la sua mano forte e robusta che ci conduce; vediamo con estrema chiarezza quanto dobbiamo fare e tralasciare. Ma la situazione non rimane sempre così. Chi appartiene a Cristo deve maturare fino all’età adulta di Cristo, imboccare un giorno la via della croce, dirigersi al Getsemani e al Golgota. E tutte le sofferenze che provengono dall’esterno sono un nulla a paragone della notte oscura dell’anima, allorché la luce divina non brilla più e la voce del Signore tace. Dio è presente, ma è nascosto e tace. Perché fa così? Siamo qui di fronte ai suoi misteri, misteri che non possiamo penetrare fino in fondo. Un po’ però li possiamo già perscrutare. Dio è divenuto uomo per farci di nuovo partecipare alla sua vita. Partecipazione che era al principio e che è l’ultimo fine. La passione e la morte di Cristo continuano nel suo corpo mistico e in ognuna delle sue membra. Ogni uomo deve soffrire e morire. Ma se egli è un membro vivo del corpo di Cristo, la sua sofferenza e la sua morte diventano, grazie alla divinità del capo, redentrici. Diciamo pertanto: “Sia fatta la tua volontà!” anche e proprio per questo, nella notte più oscura” (S. Teresa Benedetta della Croce, Il mistero del Natale, 1931).
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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

DISCORSO DI BENEDETTO XVI AL BUNDESTAG

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28042?l=italian

DISCORSO DI BENEDETTO XVI AL BUNDESTAG

La ragione positivista, presa come valore assoluto, riduce l’uomo

BERLINO, giovedì, 22 settembre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo giovedì pomeriggio da Benedetto XVI durante la visita al Parlamento Federale nel Reichstag di Berlino.

* * *
Illustre Signor Presidente Federale!
Signor Presidente del Bundestag!
Signora Cancelliere Federale!
Signor Presidente del Bundesrat!
Signore e Signori Deputati!
È per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta – davanti al Parlamento della mia Patria tedesca, che si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente, per lavorare per il bene della Repubblica Federale della Germania. Vorrei ringraziare il Signor Presidente del Bundestag per il suo invito a tenere questo discorso, così come per le gentili parole di benvenuto e di apprezzamento con cui mi ha accolto. In questa ora mi rivolgo a Voi, stimati Signori e Signore – certamente anche come connazionale che si sa legato per tutta la vita alle sue origini e segue con partecipazione le vicende della Patria tedesca. Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato liberale di diritto.
Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento importante? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: « Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male » (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo che di per sé gli apre la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. « Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti? » ha sentenziato una volta sant’Agostino.1 Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente? La richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica si trovano anche oggi.
In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: « Se qualcuno si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro … questi senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l’ordinamento in vigore… »2
In base a questa convinzione, i combattenti della resistenza hanno agito contro il regime nazista e contro altri regimi totalitari, rendendo così un servizio al diritto e all’intera umanità. Per queste persone era evidente in modo incontestabile che il diritto vigente, in realtà, era ingiustizia. Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente. Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella legislazione, non è mai stato facile trovare la risposta e oggi, nell’abbondanza delle nostre conoscenze e delle nostre capacità, tale questione è diventata ancora molto più difficile.
Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a.C. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano.3 In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il nostro popolo, nel 1949, ha riconosciuto « gli inviolabili e inalienabili diritti dell’uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo ».
Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma: « Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi … sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza… » (Rm 2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza, in cui « coscienza » non è altro che il « cuore docile » di Salomone, la ragione aperta al linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura e ragione. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – « un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti », allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico.4 Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la spiegano, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso.
Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, mentre tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura vengono ridotti allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali. La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle « risorse » di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto.
Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità, nell’insieme? Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale? Come può la natura apparire nuovamente nella sua vera profondità, nelle sue esigenze e con le sue indicazioni? Richiamo alla memoria un processo della recente storia politica, nella speranza di non essere troppo frainteso né di suscitare troppe polemiche unilaterali. Direi che la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare, perché vi si intravede troppa irrazionalità. Persone giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni. È chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito politico – nulla mi è più estraneo di questo. Quando nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va, allora dobbiamo tutti riflettere seriamente sull’insieme e tutti siamo rinviati alla questione circa i fondamenti della nostra stessa cultura. Mi sia concesso di soffermarmi ancora un momento su questo punto. L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza ancora un punto che oggi come ieri viene largamente trascurato: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli ascolta la natura, la rispetta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana.
Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti. Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di 84 anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. Aveva detto che le norme possono derivare solo dalla volontà. Di conseguenza, la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte, presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella natura. « Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente vana », egli nota a proposito.5 Lo è veramente? – vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus?
A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico.
Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace. Grazie per la vostra attenzione.
_______________________
1 De civitate Dei IV, 4, 1.
2 Contra Celsum GCS Orig. 428 (Koetschau); cfr A. Fürst, Monotheismus und Monarchie. Zum Zusammenhang von Heil und Herrschaft in der Antike. In: Theol.Phil. 81 (2006) 321 – 338; citazione p. 336; cfr anche J. Ratzinger, Die Einheit der Nationen. Eine Vision der Kirchenväter (Salzburg – München 1971) 60.
3 Cfr W. Waldstein, Ins Herz geschrieben. Das Naturrecht als Fundament einer menschlichen Gesellschaft (Augsburg 2010) 11ss; 31 – 61.
4 Waldstein, op. cit. 15 – 21.
5 Citato secondo Waldstein, op. cit. 19.
[© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana]

Publié dans:Papa Benedetto - viaggi |on 23 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

The crossing of the red sea & the hymn of Myriam

The crossing of the red sea & the hymn of Myriam  dans immagini sacre 16%20DALLE%20PALLE%20CROSSING%20OF%20THE%20RED%20SEA

http://www.artbible.net/1T/Exo1401_Redsea_myriampsong/index_6.htm

Publié dans:immagini sacre |on 22 septembre, 2011 |Pas de commentaires »
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