Levi : Da Ulisse a Lilit

dal sito:

http://www.hakeillah.com/2_07_16.htm

Levi

Da Ulisse a Lilit

di Anna Segre

Spesso ci si ritrova, di fronte agli scrittori ebrei, a ricercare qua e là elementi della loro identità; è un compito talvolta facilissimo e più che legittimo, anzi doveroso, quando si parla di autori cresciuti in ambienti osservanti (pensiamo a un Singer, ma anche a Kafka); in altri casi bisogna arrampicarsi sugli specchi, con il dubbio di essere scorretti, e forse velatamente razzisti, come se esistesse un gene dell’ebraicità anche in scrittori che non hanno ricevuto alcuna educazione ebraica. E così talvolta ci si ritrova a costruire castelli in aria sull’umorismo di Svevo, o sulla capra di Saba, castelli estremamente affascinanti, non c’è dubbio, ma forse poco consistenti.
Qui è forse necessario aprire una parentesi per domandarsi che cosa esattamente si debba cercare quando si analizzano le influenze dell’identità ebraica su uno scrittore ebreo; a seconda della risposta che diamo a questa domanda, la ricerca risulterà più o meno agevole. Mi pare che si possano individuare tre ambiti:
1. L’ebraismo come condizione: poiché l’identità ebraica è determinata dall’esterno, e non è una scelta dell’autore che vogliamo studiare, non è necessaria da parte sua alcuna particolare conoscenza, e neppure consapevolezza. In questo ambito di analisi il lavoro, purtroppo, è facilissimo: basta che un autore abbia subito qualche persecuzione o anche solo qualche atto di ostilità e siamo a posto; se non ha subito nulla del genere si può sempre ripiegare sull’identità in bilico, sulla diversità, ecc.; e lì non si sbaglia mai: quale autore di un certo peso non pone da qualche parte nei suoi testi un problema di identità, o non propone qualche conflitto di mondi e di valori? Qualunque analisi in questo senso funzionerà benissimo per qualunque autore ebreo di un certo valore, così come funzionerebbe altrettanto bene per Euripide, Virgilio, Dante o Shakespeare.
2. L’ebraismo come ambiente: la descrizione di un mondo ebraico, le comunità, la sinagoga, le feste, i rituali, i cibi tradizionali, la kasherut; oppure semplicemente la descrizione di parenti e amici ebrei. Qui il gioco comincia a non funzionare più proprio per tutti, ma ancora ce la caviamo, perché temi di questo genere si trovano spesso in autori ebrei anche non osservanti; anzi, spesso, come accade per i torinesi che narrano gli anni ’30 e ’40, abbiamo numerosi racconti che si intersecano e personaggi che si citano reciprocamente; questo rende l’analisi ancora più affascinante.
3. (Ed è quella che interessa davvero) L’ebraismo come linguaggio: non tanto i “modi di dire” (che in fondo servono più che altro a connotare un ambiente, e quindi rientrano nell’ambito precedente); qui si tratta di ricercare riferimenti specifici alla cultura ebraica, come metafore, citazioni, chiavi di lettura della realtà, motivazioni ideali. Il lavoro diventa molto più difficile: persino in un romanzo come Il giardino dei Finzi Contini di Bassani, ambientato quasi completamente all’interno del mondo ebraico, è difficile andare oltre la descrizione di un ambiente e ritrovare temi specificamente ebraici, citazioni di testi della cultura ebraica o altro.
Cosa possiamo trovare in Primo Levi? Sull’influenza che la condizione ebraica ha avuto nella sua vita c’è poco da discutere. Non è molto difficile neppure trovare descrizioni dell’ambiente ebraico, e ancora di più di singoli ebrei, dagli antenati di Argon agli amici di Oro. Troviamo anche riferimenti alla kasherut (magari per negarla, come in Zinco: Un ebreo è uno che a Natale non fa l’albero, che non dovrebbe mangiare il salame ma lo mangia lo stesso, che ha imparato un po’ di ebraico a tredici anni e poi lo ha dimenticato), oppure a cibi tipici: il salame d’oca in Argon, la cui ricetta segreta viene svelata per vendetta, appare in qualche modo come un simbolo del legame di complicità e diffidenza verso il mondo esterno che unisce tra loro i membri della comunità; questa funzione è assunta in modo ben più esplicito dal dialetto giudaico-piemontese, che è il vero protagonista del racconto. Peraltro, per illustrare al lettore questo strano dialetto e per presentare attraverso di esso l’ambiente dei suoi antenati, Levi si è trovato “costretto” a riscoprire e illustrare citazioni bibliche, formule rituali, costumi e tradizioni. A proposito di dialetti, è interessante notare come il giudaico-romanesco di Cesare nella Tregua contribuisca a connotare il personaggio, solare, che non parla nessuna lingua, ma riesce comunque a interagire con tutti.
Si può parlare, per Primo Levi, anche di ebraismo come linguaggio, come chiave di lettura della realtà? A prima vista sembrerebbe la solita arrampicata sugli specchi, trattandosi di un autore certamente proveniente da un ambiente “assimilato”. Tuttavia non c’è bisogno di arrampicarsi sugli specchi per notare che ben due titoli di suoi libri fanno riferimento a testi della cultura ebraica (Lilit, che fa riferimento ad un midrash narrato nell’omonimo racconto, e Se non ora, quando?, citazione dai Pirke’ Avot). Né c’è bisogno di arrampicarsi sugli specchi per rilevare che sulla prima pagina del primo testo da lui pubblicato sono riportate due frasi (1), dello Shemà preghiera fondamentale della ritualità ebraica, fonte di precetti pratici (mezuzà, tefillin), la prima che si impara, e che si ripete ogni giorno coricandosi e alzandosi; è vero che all’inizio di Se questo è un uomo l’oggetto di cui è prescritto il ricordo è diametralmente diverso, quasi come se una nuova pratica dovesse sostituirsi a quella tradizionale, tuttavia è innegabile che la citazione costituisca un forte richiamo alla tradizione e che mantenga due elementi fondamentali del contesto originario: il dovere della memoria (e non è certo estraneo alla tradizione ebraica l’imperativo di ricordare cosa ci ha fatto Amalek) e il dialogo continuo con le generazioni future.
Questi elementi sono abbastanza significativi da autorizzare qualche ricerca ulteriore, e qualche riflessione, seppure aleatoria. Le citazioni bibliche (quando non occasionali, come Henri paragonato al Serpente della Genesi) non sono molto numerose, ma talvolta sono molto significative, come il riferimento alla torre di Babele in Se questo è un uomo, che sembra richiamare alcune interpretazioni midrashiche (2): La torre del Carburo, che sorge in mezzo alla Buna e la cui sommità è raramente visibile in mezzo alla nebbia, siamo noi che l’abbiamo costruita. I suoi mattoni sono stati chiamati Ziegel, briques, tegula, cegli, kamenny, bricks, téglak, e l’odio li ha cementati; l’odio e la discordia, come la Torre di Babele, e così noi la chiamiamo: Babelturm, Bobelturm; e odiamo in essa il sogno demente di grandezza dei nostri padroni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini, di noi uomini.
È anche interessante che proprio con un testo biblico (il libro di Giobbe) Levi abbia scelto di aprire La ricerca delle radici, una sorta di antologia personale: Perché incominciare da Giobbe? Perché questa storia splendida e atroce racchiude in sé le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo.
Talvolta la Bibbia è usata come metafora della condizione degli ebrei, in negativo (Se questo è un uomo: …tali sono tutte le nostre storie, centinaia di migliaia di storie, tutte diverse e tutte piene di una tragica, sorprendente necessità. Ce le raccontiamo a vicenda la sera, e sono avvenute in Norvegia, in Italia, in Algeria, in Ucraina, e sono semplici e incomprensibili come le storie della Bibbia. Ma non sono anch’esse storie di una nuova Bibbia?), ma anche in positivo, come paradigma della liberazione da ogni possibile oppressione; ciò è evidentissimo in Potassio (Il sistema periodico): Ci radunavamo nella palestra del “Talmud Torà”, della Scuola della Legge, come orgogliosamente si chiamava la vetusta scuola elementare ebraica, e ci insegnavamo a vicenda a ritrovare nella Bibbia la giustizia e l’ingiustizia e la forza che abbatte l’ingiustizia: a riconoscere in Assuero e in Nabucodonosor i nuovi oppressori. Ma dov’era Kadosh Barukhù, “il Santo, Benedetto sia Egli”, colui che spezza le catene degli schiavi e sommerge i carri degli Egizi? Colui che aveva dettato la Legge a Mosè, ed ispirato i liberatori Ezra e Neemia, non ispirava più nessuno, il cielo sopra noi era silenzioso e vuoto: lasciava sterminare i ghetti polacchi e lentamente, confusamente, si faceva strada in noi l’idea che eravamo soli, che non avevamo alleati su cui contare, né in terra né in cielo, che la forza di resistere avremmo dovuto trovarla in noi stessi.
Da Babele al Faraone, passando per Giobbe, la cultura ebraica è interrogata in una ricerca di senso, che prende le mosse dalla riflessione sulla creazione stessa dell’uomo (Il sesto giorno in Vizio di forma) e della donna (in Lilit, che propone, pur se come “racconto nel racconto”, il tema kabbalistico del nascondimento della divinità). In particolare è curioso l’atto unico Il sesto giorno, in cui un gruppo di tecnici discute sull’opportunità di creare l’uomo e sulle caratteristiche che dovrebbe avere, ma alla fine tutti scoprono di essere stati scavalcati dalla “direzione”, che ha creato arbitrariamente l’uomo dalla terra: non solo sono numerosi e puntuali i riferimenti alla Genesi (a cominciare dal titolo), ma non si può fare a meno di ricordare che la struttura stessa della vicenda ricalca un famoso midrash, in cui diversi gruppi di angeli discutono sull’opportunità di creare l’uomo e, anche in questo caso, sono poi messi di fronte al fatto compiuto.
Abbiamo analizzato più attentamente le prime opere di Levi; nelle ultime i riferimenti alla cultura ebraica si moltiplicano (in particolare in Se non ora, quando?), tanto che sarebbe impossibile catalogarli tutti. Si potrebbe ipotizzare una progressiva riscoperta e riappropriazione della cultura ebraica da parte di Primo Levi? È un’ipotesi suggestiva, ma sarebbe un po’ difficile da confermare, perché la citazione dello Shemà (che resta comunque la più importante e pregnante) si trova, come si è detto, proprio al principio della sua opera, e anche Il sesto giorno è tra i primi testi. Ammettendo anche che l’ipotesi sia sostenibile (a suffragarla potrebbero contribuire soprattutto i due titoli-citazione, che sono piuttosto tardi), non sarebbe necessariamente il sintomo di un diverso atteggiamento di Levi nei confronti della cultura ebraica: si potrebbe spiegare con la sua straordinaria curiosità, con un generale riavvicinamento alle fonti tradizionali da parte dell’ebraismo italiano (e non solo) nel corso del ventesimo secolo, con lo status di autore ebreo per eccellenza che Levi ha finito per ricoprire nel panorama letterario del nostro paese.

Tuttavia l’ipotesi resta suggestiva. Basti una considerazione: nel racconto Il cantore e il veterano (in Lilit) l’osservanza del Kippur da parte del cantore Ezra viene presentata come una sorta di barriera contro la disumanizzazione del lager; lo stesso si può dire per il midrash sulla creazione della donna in Lilit, narrato nel contesto di una discussione sull’apparente ripetizione presente nei capitoli iniziali della Genesi (in cui l’interlocutore gli fa digrignare i denti, con citazione sottintesa dell’Haggadà di Pesach); questa discussione, che avviene in un tubo durante una pioggia che ha interrotto il lavoro, ricopre la stessa funzione narrativa che aveva in Se questo è un uomo il tentativo di ricordare a memoria e insegnare al compagno Pikolo il XXVI canto dell’Inferno, il canto di Ulisse. Ipotizzare un consapevole passaggio da Dante al midrash appare azzardato e forzato, tuttavia senz’altro questo e altri passi citati in precedenza consentono una riflessione: rispetto ad altri autori Primo Levi parla relativamente poco di ebrei, di vita comunitaria, di riti e cerimonie; in compenso l’ebraismo nella sua opera non si presenta solo come condizione e come ambiente, ma talvolta anche come linguaggio.

Anna Segre

(1) Che sono anche versi biblici (Deuteronomio, VI, 6-7)
(2) Dissero: Egli non dovrebbe scegliere per sé il mondo superiore e lasciare a noi l’inferiore: andiamo, perciò, e costruiamo una torre, poniamoci in cima una divinità, e armiamola di una spada, come se volesse contendere con Lui (Bereshit Rabbà, 38; citato da Midrashim, fatti e personaggi biblici, a cura di Riccardo Pacifici, Marietti, 1986)

Publié dans : ebraismo |le 21 septembre, 2011 |Pas de Commentaires »

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