Christ Not Made by Hands

dal sito:
http://www.zenit.org/article-27983?l=italian
LA FAVOLA DEL PIFFERAIO
LONDRA, domenica, 18 settembre 2011 (ZENIT.org).- La comunità italiana a Londra, nella nostra parrocchia di Brixton Road, canta a vele spiegate. All’organo, un giovane missionario, un compositore pieno di entusiasmo e dinamismo musicale. Venuto dal profondo Sud, da una città di mare e di vento come Otranto, le sue radici sono poi cresciute a Roma, in Brasile e nella città internazionale di Ginevra, come missionario per gli emigranti. Molte comunità parrocchiali in patria cantano i suoi canti dal sapore tra il classico e il melodico: il suo segreto è interpretare l’anima di un popolo.
Dopo la messa italiana segue quella in portoghese: una nutrita comunità riempie, allora, completamente la chiesa e si cambia registro, timbro e lingua. L’entusiasmo, però, resta il medesimo. Francesco Buttazzo, il giovane missionario, accompagna, allora, alla chitarra il loro canto tradizionale mescolato alle arie dell’Atlantico, che ritrovano con lui una forza e uno splendore rinnovati.
Alle cinque del pomeriggio èuno tsunami di filippini che invadono la nostra Chiesa degli italiani. Alla pianola musicale è sempre il nostro giovane pugliese, che sa adattarsi alle melodie lontane di un’altra cultura dai ritmi lunghi e cadenzati di un altro oceano, l’Indiano. Ancora una volta il suo apporto musicale illumina una tradizione antica di migranti.
Una riflessione viene spontanea. Si ammira la capacità di entrare e di sollevare dal basso una cultura musicale, di innervare una tradizione differente, esaltandola con tutte le proprie energie. Qualità di adattamento e genialità popolare sono come riprese in mano e proposte con potenza: un’arte rara. In fondo, è l’arte di farsi uno di loro, di diventare qualcuno per loro. Ritrovi, così, un soffio possente di vita degno di un leader. Dal campo musicale si potrà, poi, spaziare in qualsiasi altro campo…
Esiste, è vero, un altro stile, un altro dinamismo. Lo si coglie, paradossalmente, proprio sul sagrato della nostra chiesa, ascoltando i nostri emigranti. Avverti che questi italiani – da tanti anni in terra inglese da sentirsi veramente a loro agio – seguono le sorti della nostra patria con vera passione. Nel suo duplice senso. Si fanno interrogativi sulla “musica” che viene eseguita nella nostra società italiana.
Di fronte a un leader che interpreta ed esalta l’anima di un popolo come il nostro compositore, sembra invece di assistere da noi in patria al caso contrario. Pare non si accompagni la musica intessuta da una tradizione, dai valori di una comunità, dalle conquiste e la dignità di un popolo, ma all’inverso, si impone un proprio motivo. Sembra di sentire la melodia effimera di chi si rinchiude nel proprio mondo, che ripete il leitmotif dell’ognuno-per-sè o “dà il la” nel seguire i propri interessi… Non si incoraggiano le energie migliori, le potenzialità di un popolo, le sue forze giovani, le straordinarie capacità, il senso di solidarietà di una comunità intera. Ma si istigano spesso le forze oscure: il senso di divisione, la forza della contrapposizione, la marginalizzazione dell’altro. E tutto finisce per impoverirci dei nostri valori oltre che delle nostre economie.
Così, tra una chiacchiera e l’altra sul nostro sagrato, senti perfino ricordare da qualcuno la favola del pifferaio magico. Quella famosa favola tedesca, in cui l’incanto della musica di un flauto finì per portare tutti i topi del villaggio ad annegare nel fiume vicino. “Ma dove sono i leader che sanno far rivivere i sentimenti migliori della nostra terra – senti, allora, qualcuno interrogarsi – il senso forte di comunità, la fiducia nell’avvenire, il dinamismo e il coraggio senza limiti di noi migranti in un’esperienza di emigrazione che ci ha scossi, travolti e trasformati?”.
Interrogativo che in una luminosa domenica di settembre rimane sospeso nell’aria, assieme alle nostre speranze.
[La Voce degli Italiani - Londra]
dal sito:
http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/10a-Inno_Cristologico_Filippesi.html
LA CATECHESI DI BENEDETTO XVI:
CRISTO SERVO DI DIO (Fil. 2,6-11)
In ogni celebrazione domenicale dei Vespri la liturgia ci ripropone il breve ma denso inno cristologico della Lettera ai Filippesi (cf 2,6-11). Quello che qui consideriamo è la prima sezione (cf vv. 6-8), ove si delinea la paradossale «spogliazione» del Verbo divino, che depone la sua gloria e assume la condizione umana. Questa parte viene pregata ai Primi Vespri della domenica della terza settimana.
Cristo incarnato e umiliato nella morte più infame, quella della crocifissione, è proposto come un modello vitale per il cristiano. Questi, infatti, – come si afferma nel contesto – deve avere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (v. 5), sentimenti di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità.
Una scelta di umiltà
Egli, certo, possiede la natura divina con tutte le sue prerogative. Ma questa realtà trascendente non è interpretata e vissuta all’insegna del potere, della grandezza, del dominio. Cristo non usa il suo essere pari a Dio, la sua dignità gloriosa e la sua potenza come strumento di trionfo, segno di distanza, espressione di schiacciante supremazia (cf v. 6). Anzi, egli «spogliò», svuotò se stesso, immergendosi senza riserve nella misera e debole condizione umana. La «forma» (morphe) divina si nasconde in Cristo sotto la «forma» (morphe) umana, ossia sotto la nostra realtà segnata dalla sofferenza, dalla povertà, dal limite e dalla morte (cf v. 7).
Non si tratta quindi di un semplice rivestimento, di un’apparenza mutevole, come si riteneva accadesse alle divinità della cultura greco-romana: quella di Cristo è la realtà divina in un’esperienza autenticamente umana. Dio non appare soltanto come uomo, ma si fa uomo e diventa realmente uno di noi, diventa realmente «Dio-con-noi», che non si accontenta di guardarci con occhio benigno dal trono della sua gloria, ma si immerge personalmente nella storia umana, divenendo «carne», ossia realtà fragile, condizionata dal tempo e dallo spazio (cf Gv 1,14).
Fratello di ogni uomo
Questa condivisione radicale e vera della condizione umana, escluso il peccato (cf Eb 4,15), conduce Gesù fino a quella frontiera che è il segno della nostra finitezza e caducità, la morte. Questa non è, però, frutto di un meccanismo oscuro o di una cieca fatalità: essa nasce dalla sua libera scelta di obbedienza al disegno di salvezza del Padre (cf Fil 2,8).
L’Apostolo aggiunge che la morte a cui Gesù va incontro è quella di croce, ossia la più degradante, volendo in questo modo essere veramente fratello di ogni uomo e di ogni donna, anche di quelli costretti a una fine atroce e ignominiosa.
Ma proprio nella sua passione e morte Cristo testimonia la sua adesione libera, totale e cosciente al volere del Padre, come si legge nella Lettera agli Ebrei:
«Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8).
Fermiamoci qui nella nostra riflessione sulla prima parte dell’inno cristologico, concentrato sull’Incarnazione e sulla passione redentrice. Avremo occasione in seguito di approfondire l’itinerario successivo, quello pasquale, che conduce dalla croce alla gloria. L’elemento fondamentale di questa prima parte dell’Inno mi sembra essere l’invito ad entrare nei sentimenti di Gesù.
Entrare nei sentimenti di Gesù vuol dire non considerare il potere, la ricchezza, il prestigio come i valori supremi della nostra vita, perché in fondo non rispondono alla più profonda sete del nostro spirito, ma aprire il nostro cuore all’Altro, portare con l’Altro il peso della nostra vita e aprirci al Padre dei Cieli con senso di obbedienza e fiducia, sapendo che proprio in quanto obbedienti al Padre saremo liberi. Entrare nei sentimenti di Gesù: questo sarebbe l’esercizio quotidiano da vivere come cristiani.
Carico delle nostre infermità
Concludiamo la nostra riflessione con un grande testimone della tradizione orientale, Teodoreto che fu Vescovo di Ciro, in Siria, nel V secolo:
«L’Incarnazione del nostro Salvatore rappresenta il più alto compimento della sollecitudine divina per gli uomini. Infatti, né il cielo né la terra né il mare né l’aria né il sole né la luna né gli astri né tutto l’universo visibile e invisibile, creato dalla sua sola parola o piuttosto portato alla luce dalla sua parola conformemente alla sua volontà, indicano la sua incommensurabile bontà quanto il fatto che il Figlio unigenito di Dio, colui che sussisteva in natura di Dio (cf Fil 2,6), riflesso della sua gloria, impronta della sua sostanza (cf Eb 1,3), che era in principio, era presso Dio ed era Dio, attraverso cui sono state fatte tutte le cose (cf Gv 1,1-3), dopo aver assunto la natura di servo, apparve in forma di uomo, per la sua figura umana fu considerato come uomo, fu visto sulla terra, con gli uomini ebbe rapporti, si caricò delle nostre infermità e prese su di sé le nostre malattie» (Discorsi sulla provvidenza divina, 10: Collana di testi patristici, LXXV, Roma 1988, pp. 250-251).
Teodoreto di Ciro prosegue la sua riflessione, mettendo in luce proprio lo stretto legame sottolineato dall’inno della Lettera ai Filippesi fra l’Incarnazione di Gesù e la Redenzione degli uomini.
«Il Creatore con saggezza e giustizia lavorò per la nostra salvezza. Poiché egli non ha voluto né servirsi soltanto della sua potenza per elargirci il dono della libertà né armare unicamente la misericordia contro colui che ha assoggettato il genere umano, affinché quegli non accusasse la misericordia d’ingiustizia, bensì ha escogitato una via carica di amore per gli uomini e al contempo adorna di giustizia.
Egli infatti, dopo aver unito a sé la natura dell’uomo ormai vinta, la conduce alla lotta e la dispone a riparare alla sconfitta, a sbaragliare colui che un tempo aveva iniquamente riportato la vittoria, a liberarsi dalla tirannide di chi l’aveva crudelmente fatta schiava e a recuperare la primitiva libertà» (ibidem, pp. 251-252).
Benedetto XVI
L’Osservatore Romano, 14-06-2005