Archive pour le 6 septembre, 2011

Estudo sobre os anjos (Studio sugli angeli)

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Canti meditativi (Taizè)

dal sito:

http://www.taize.fr/it_article961.html

Canti meditativi

Il canto è uno degli elementi più essenziali della lode. I canti brevi, ripetuti più e più volte, hanno un carattere meditativo. Si usano solo poche parole che esprimono una realtà fondamentale della fede, compresa velocemente dalla mente. Nel momento in cui le parole sono cantate molte volte, questa realtà pervade velocemente l’intera esistenza. Il canto meditativo diventa così un modo per ascoltare Dio. Permette a ciascuno di prendere parte ad un tempo di preghiera comune, e di rimanere insieme in una attenta attesa di Dio, senza doverne fissare esattamente la durata.
Per aprire le porte della fiducia in Dio, nulla può sostituire la bellezza delle voci umane unite nel canto. Questa bellezza ci può far intravedere la “gioia del paradiso sulla terra” come dicono i Cristiani dell’Est. E una vita interiore inizia a fiorire in noi.
Questi canti sostengono anche la preghiera personale. A poco a poco costruiscono un’unità della persona in Dio. Questo canto che non finisce, rimane nel lavoro, nelle conversazioni, al riposo, legando così preghiera e vita quotidiana.. Ci permette di rimanere in un clima di preghiera anche quando non ne siamo consapevoli, nel silenzio dei nostri cuori.
I “canti di Taizé”, pubblicati in diverse lingue, sono semplici, ma è richiesta una certa preparazione per usarli nella preghiera. Questa preparazione va fatta prima che la preghiera inizi, così che, quando essa ha inizio, l’atmosfera rimanga meditativa.
È bene che nessuno diriga la musica durante la preghiera; in questo modo ciascuno può rimanere rivolto verso la croce, le icone o l’altare. (In una grande assemblea, tuttavia, può essere necessario che qualcuno diriga, nel modo più discreto possibile, un piccolo coro e alcuni strumenti perché siano di supporto agli altri, ricordando pur sempre che essi non si tratta di un’esibizione per gli altri). Chi inizia i canti è di solito in prima fila, insieme con chi leggerà il salmo, la lettura e le intenzioni, non rivolto verso i partecipanti ma, come tutti, verso l’altare e le icone. Se un canto è iniziato spontaneamente, si rischia che la tonalità sia troppo bassa. Può essere quindi di aiuto un diapason, o uno strumento musicale che dia la prima nota o accompagni la melodia. E’ inoltre necessario preoccuparsi che il tempo non rallenti troppo, come può facilmente succedere quando un canto è ripetuto a lungo. Se il numero dei partecipanti è grande, può essere necessario usare un microfono per iniziare e terminare i canti (che possono essere terminati con un “Amen” sull’ultima nota). Chi inizia i canti può essere di supporto agli altri cantando ad un microfono, stando sempre attento a non coprire le altre voci. Se l’assemblea è numerosa può essere necessario un buon sistema di diffusione: è bene provare il suo corretto funzionamento prima della preghiera, anche con chi userà poi i microfoni.
I canti in diverse lingue sono appropriati per un incontro internazionale. In una preghiera parrocchiale, con persone di diverse età, la maggior parte dei canti dovrebbe essere nella lingua dei partecipanti o in Latino. È bene dare a ciascuno, se possibile, un foglio o il libretto con i canti. Si possono inserire anche alcuni canti del repertorio locale.
Strumenti: una chitarra o una tastiera possono sostenere la struttura armonica del canto. Sono particolarmente utili per mantenere la tonalità e il tempo. La chitarra dovrebbe essere suonata in modo “classico”. Può essere necessario un microfono affinché tali strumenti si sentano meglio. In aggiunta all’accompagnamento di base, esistono parti per altri strumenti.

Taizè – Instrumental
Questa registrazione é stata ideata per sostenere il canto dei gruppi che si incontrano per pregare insieme. Contiene l’accompagnamento con la chitarra per 19 canti di Taizè, con la melodia suonata dal flauto, dall’oboe o dal clarinetto.

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I GIUSTI, “L’UNICO RAGGIO DI LUCE NEL BUIO ABISSALE DELLA SHOAH”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-3172?l=italian

I GIUSTI, “L’UNICO RAGGIO DI LUCE NEL BUIO ABISSALE DELLA SHOAH”

Intervista esclusiva ad un membro della Commissione per i “Giusti tra le Nazioni” di Yad Vashem

ROMA, giovedì, 2 febbraio 2006 (ZENIT.org).- Il 27 gennaio di quest’anno, “Giornata europea della memoria”, è stato dedicato al ricordo dei “Giusti tra le Nazioni”, di coloro cioè che hanno salvato la vita a uno o più ebrei destinati ai campi di sterminio.
Per conoscere il perché di questo riconoscimento – la più alta onorificenza attribuita a cittadini non ebrei –, il suo significato storico e morale, così come la sua attualità, ZENIT ha intervistato Nathan Ben Horin, dal 1994 membro della Commissione per la designazione dei “Giusti tra le Nazioni” dell’Istituto Yad Vashem, incaricato in particolare delle pratiche che riguardano l’Italia.
Nathan Ben Horin, nato in Germania da famiglia polacca, è giunto a Roma in questi giorni per presentare il libro pubblicato dalla Mondatori “I Giusti d’Italia. I non Ebrei che salvarono gli Ebrei, 1943-1945”.
Ben Horin ha vissuto in Francia dove ha partecipato alla resistenza contro i nazisti. Ha svolto attività diplomatica per Israele. In Italia dal 1980 al 1986 si è occupato dei rapporti diplomatici con la Santa Sede, quando le relazioni diplomatiche con Israele non erano ancora state regolate.
Che senso ha ricordare i Giusti per storie che sono accadute più di sessanta anni fa?
Ben Horin: È un segno di grande speranza e di grande fede nella natura umana aver messo al centro della Giornata europea della memoria e dell’Olocausto di quest’anno, la vicenda dei Giusti tra le nazioni. Infatti l’operato dei Giusti e rappresenta l’unico raggio di luce nel buio abissale degli anni della Shoah. Con la loro scelta, essi hanno testimoniato che l’uomo non era tutto malvagità, sadismo, bestialità, ma che era anche capace di amore del prossimo, di solidarietà umana, di abnegazione, a volte fino al sacrificio della propria vita.
Nelle testimonianze dei salvati ricorre spesso la riflessione che i soccorritori non solo li avevano salvati fisicamente, ma che avevano anche ridato loro la fede nell’uomo; una fede tanto scossa dai tormenti e dagli orrori della guerra.
Lo scrittore, reduce da Auschwitz, Primo Levi nel famoso libro “Se questo è un uomo”, racconta come nel lager un operaio civile italiano gli portò ogni giorno per sei mesi un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio, gli donò una sua maglia piena di toppe, e scrisse per lui una cartolina e gli fece avere anche la risposta. “Per tutto questo – ha scritto Primo Levi –, non chiese, nè accettò alcun compenso, perché era buono e semplice e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso”.
“Io credo – prosegue Levi – che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto il suo aiuto materiale quanto per avermi costantemente rammentato con la sua presenza, il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esiste un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro ed intero, di non corrotto, non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo”.
Lorenzo Perone questo è il nome dell’uomo, che è stato riconosciuto nel 1998 come Giusto da Yad Vashem su richiesta di Renzo, figlio di Primo Levi.
Da dove nasce la definizione di “Giusto tra le Nazioni”?
Ben Horin: Nella tradizione ebraica il concetto del giusto occupa un posto centrale. Uno dei trattati talmudici insegna che il mondo esiste grazie al merito dei Giusti. Un altro testo sostiene che Dio non distruggerà il mondo, finche ci vivranno 50 Giusti. Nel Medio Evo, un popolo crudelmente perseguitato in tutto l’Europa, allargò il termine a “Giusti tra le nazioni”, nei confronti dei non ebrei che che si comportavano in modo equo.
Infine, dopo l’esperienza della Shoah questo appellativo fu scelto come titolo d’onore per designare quei non ebrei che rischiarono la propria vita e quella dei loro familiari, per salvare i loro fratelli ebrei.
Qual è la relazione tra la “memoria” e i Giusti?
Ben Horin: Il popolo ebraico viene spesso descritto come il popolo della memoria. L’imperativo “ricordati” e “non dimenticare” ricorre numerose volte nella Bibbia. È perlopiù un comandamento che si riferisce all’osservanza dei precetti di Dio e del Suo agire nella storia.
Dedicato alla storia recente, questo imperativo deve riguardare non solo il male subito, ma non meno il bene ricevuto. Quando il Parlamento di Israele, la Knesset, istituì con una legge del 1953 il memoriale di Yad Vashem per perpetuare la memoria dei 6 milioni di ebrei vittime della ferocia dei nazisti, essa gli affidò anche il compito di rendere omaggio ai “Giusti delle Nazioni”. Ciò facendo, la Knesset intendeva affermare che non solo i salvati ma il popolo ebraico intero ha nei confronti dei Giusti un debito di riconoscenza e di onore.
Quali sono i criteri e le procedure per riconoscere un Giusto?
Ben Horin: Nel 1962 Yad Vashem istitutì una commissione pubblica indipendente per designare i Giusti tra le Nazioni in base a tre criteri principali: 1) Il soccorritore era a conoscenza dell’identità ebraica del perseguitato; 2) la sua azione lo esponeva a rischio della propria vita, della propria sicurezza e libertà; 3) l’aiuto dato non era legato a nessun vantaggio materiale.
La commissione per la designazione dei Giusti sotto la presidenza di un giudice di corte suprema è composta di personalità qualificate fra cui giuristi e storici, che operano a titolo di volontariato. Originariamente erano superstiti della Shoah. Oggi con il passare degli anni sta subentrando una nuova generazione. La commissione è suddivisa in tre sottocommissioni regionali e le decisioni sono prese a maggioranza dei voti. Quando la maggioranza è esigua o quando si tratta di un caso particolarmente complesso, esso viene deferito alla plenaria.
I dossier di richiesta di riconoscimento vengono raccolti dal dipartimento dei Giusti di Yad Vashem, che incarica un membro della commissione, competente per la storia e la lingua del rispettivo paese, di condurre l’istruttoria e di fungere da relatore.
Spetta a lui di raccogliere le testimonianze dirette dei salvati o, se non sono più in vita, quelle di familiari di altre persone in grado di fornire dei dati attendibili. Come documentazione ausiliarie è auspicabile anche una deposizione da parte del salvatore o, in mancanza, dei suoi familiari o di chi altro era a conoscenza dei fatti all’epoca in questione.
Questo lavoro di ricerca diventa naturalmente sempre più arduo a distanza di decenni dagli eventi.
Ma ancora oggi arrivano costantemente nuove segnalazioni. C’è da notare che il riconoscimento come Giusto viene dato solo a titolo personale, cioè solo a singole persone direttamente coinvolte nell’azione di salvataggio, e mai a collettività istituzioni o associazioni.
Al soccorritore riconosciuto spetta un’apposita medaglia e un attestato d’onore. La medaglia porta l’iscrizione del detto Talmudico “chi salva una vita salva il mondo intero”. Questo antico insegnamento intende affermare che ogni uomo è insieme un mondo. La cerimonia della consegna dell’onorificenza, che è l’unica conferita dallo Stato di Israele a titolo civile, avviene a Gerusalemme al memoriale di Yad Vashem o nel paese dell’insignito a cura della missione diplomatica israeliana locale.
Fino a poco tempo fa il riconoscimento comportava anche il diritto di piantare un albero nel viale dei Giusti di Yad Vashem. Purtroppo per mancanza di spazio questa pratica è sostituita oggi dall’apposizione di una targa col nome del Giusto sul muro d’onore del memoriale. Fino ad oggi circa 21.000 persone sono state riconosciute come Giusti tra le Nazioni. Purtroppo molti Giusti rimarranno per sempre ignoti. E sono ricordati insieme con quelli di altri paesi in una stele dedicata da Yad Vashem alla memoria del Giusto ignoto.
Altri conosciuti per avere svolto delle azione di salvataggio a volte straordinarie non poterono essere insignite del titolo per la sola ragione che il rischio inerente al loro adoperato non rispondeva al criterio
Quanti e chi sono i Giusti italiani?
Ben Horin: Attualmente i Giusti italiani sono 400, un numero relativamente basso se si considera che una grande parte di ebrei sopravvissuti in Italia debbono la loro salvezza all’aiuto dato in un momento o nell’altro dal loro prossimo non ebreo.
Quando giunsi in Italia in missione diplomatica, nei miei contatti con gli ebrei locali sentii spesso i racconti del loro salvataggio da parte di connazionali cristiani. L’incontro poi con Mirjam Viterbi che in seguito è diventata mia moglie, mi confermò ulteriormente l’immagine che mi ero fatto sul comportamento degli italiani durante la Shoah.
Infatti lei, i genitori e la sorella furono nascosti e salvati ad Assisi grazie all’aiuto generoso e coraggioso della rete di salvataggio organizzata dal clero locale. E’ vero che tra gli italiani ci furono anche delle persone che collaborarono con gli aguzzini nazisti, ma questi furono una minoranza in mezzo a una popolazione che in genere si era dimostrata una delle più umane d’Europa.
Per quanto riguarda la ripartizione socio-economica dei soccorritori, essi provenivano praticamente da tutti gli strati sociali della popolazione e da tutte le professioni. Tuttavia spiccano alcune categorie ed in particolare gente semplice di modesto stato sociale, contadini, operai, artigiani.
Un ruolo particolare nell’opera di soccorso è stato svolto dalle chiese in primo luogo da quella cattolica ma anche da appartenenti a denominazioni minoritarie come valdesi, avventisti ed altri. In Italia più che in qualsiasi altro Paese cattolico occupato dai nazisti, monasteri, conventi, perfino case di clausura, istituzioni educative, case parrocchiali, aprirono le loro porte ai perseguitati con generosa spontaneità.
Pochi i casi segnalati in cui fuggitivi furono respinti o la loro accoglienza condizionata dall’impegno di conversione. Invece in molte testimonianze viene rilevato il grande rispetto dei soccorritori per le usanze religiose dei loro ospiti ebrei. Queste manifestazioni di profonda carità non possono non farci riflettere oggi, quando troppo spesso la religione viene invocata e manipolata per alimentare e giustificare un terrorismo omicida, efferato, una cultura di morte.
Quale insegnamento si può trarre dalla storia dei Giusti?
Ben Horin: I Giusti ai quali rendiamo omaggio erano, in genere persone la cui vita interiore non sembrava averli predisposti ad assumere un ruolo di eroi, a prendere decisioni cruciali di vita o di morte. Nella maggior parte dei casi la loro decisione fu spontanea, scaturita come risposta ad una realtà perversa, inaccettabile dal codice morale ancorato nella loro coscienza.
Ciò facendo sapevano di violare la legge e di mettersi in una situazione di illegalità, alla quale non erano abituati, con tutto il rischio che la loro scelta comportava per se stessi e anche per le loro famiglie. In molti episodi di salvataggio colpisce l’ingegnosità degli stratagemmi di cui queste persone, fondamentalmente oneste, sapevano servirsi, in tempi di crisi, per contrastare i disegni nazisti. Innumerevoli sono i casi in cui l’aiuto ai perseguitati fu offerto spontaneamente senza essere stato sollecitato.
Dove altri fecero finta di non vedere o peggio accettarono consenzienti le norme inumane dell’ordine nuovo nazista o addirittura collaborarono con il persecutore, essi trovarono la forza morale di affrontare i pericoli della ritorsione. Alcuni ne pagarono il prezzo con il sacrificio supremo della vita. Sia benedetta la loro memoria!
Oggi, sessant’anni dopo la fine di Auschwitz, le manifestazioni di antisemitismo spesso mascherate da antisionismo o da sentimenti anti-Israele, divampano di nuovo in molti paesi del mondo, accanto ad altri fenomeni di razzismo e di intolleranza. Per questo l’esempio dei Giusti si erige come un monito eloquente che non deve cadere nel vuoto.

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