Il silenzio, o la preghiera perfetta
dal sito:
http://www.atma-o-jibon.org/italiano/standaert_preghiera7.htm
Come si fa a pregare
Alla scuola dei salmi con parole e oltre ogni parola
Titolo originale: In de school van de psalmen. Bidden met woorden en voorbij alle woorden
Traduzione di Maria Luisa Milazzo
VII. Il silenzio, o la preghiera perfetta
The rest is silence. Tutto finisce, e per tutto c’è ‘un’ultima parola’, ma in realtà solo il silenzio sigilla veramente ogni parola e ogni scrittura. È un dato di fatto degno di meraviglia. Nel mondo della preghiera, il silenzio gioca un ruolo essenziale. Ciononostante, spesso gli viene lasciata solo una funzione di accompagnamento. È utile a sottolineare la parola: ci si limita a introdurre spazi di silenzio e ad alternare parole e silenzi. Il silenzio è lo sfondo su cui la forza della parola si libra con maggior efficacia. I più grandi maestri però mirano ben oltre con le loro riflessioni.
Un giorno incontrai a Betlemme un eremita, originario di Monserrat in Catalogna. Il padre Stanislao viveva laggiù all’inizio degli anni settanta, ritirato ai margini del deserto di Giuda. Durante un colloquio nella sua cella mi disse: «Va’ al più profondo del tuo cuore, e là, proprio in fondo, non c’è che Dio».
Mi disse ancora: «Il silenzio, ecco la preghiera perfetta».
Le parole di quest’uomo di Dio scaturivano dal profondo del suo animo, e risuonava in esse tutto il peso della sua esperienza di solitudine. Al tempo stesso avevo un’impressione ben precisa: dice quello che sa, e lo sa innanzi tutto perché lo ha verificato nell’esperienza. Nelle sue parole di una semplicità spoglia e disarmante risuona un’evidenza senza pari.
Da allora ho potuto verificare quanto questo insegnamento corrisponda strettamente a ciò che tramandano i monaci, in Oriente come in Occidente, sul silenzio e sulla preghiera. È il caso di ricordare il proverbio di san Giovanni della Croce, già citato più sopra:
Il Padre non ha che una sola Parola.
Questa Parola è il suo Figlio.
Egli la pronuncia instancabilmente in un silenzio eterno,
E nel silenzio l’anima deve ascoltarla (Proverbi b 21).
Isacco il Siro, già incontrato più di una volta in queste pagine, scrive su questa interiorità segreta in cui l’uomo trova Dio: «Entra nella stanza del tesoro che è in te (cfr. Mt 6,6) e così vedrai la stanza del tesoro del cielo: sono infatti la stessa cosa e c’è un’unica entrata per tutte e due. La scala che porta al regno è nascosta in te e si trova nella tua anima. Immergiti in te stesso e troverai nella tua anima gli scalini per salire». Altrove, scrive: «Scendi nel più profondo di te, umiliati, e al di sotto del punto più basso di te vedrai la gloria di Dio» (1). Ci è ancora abbastanza familiare questa ricerca pura del Silenzio originario al di là delle parole?
Alcuni anni fa rividi un amico monaco e la conversazione cadde su John Main e sul suo metodo di meditazione. Questo benedettino inglese raccomanda la meditazione attraverso una sola parola, un mantra. Suggerisce di servirsi dell’antica parola aramaica: Maranathà, in uso nelle prime comunità cristiane (2). L’amico ascoltò con attenzione, con empatia, alla fine osservò: «E il silenzio? Perché adottare ancora un’ultima parola?». La domanda restava in sospeso: «E il silenzio?». John Main l’avrebbe senza dubbio apprezzata e riconosciuta giusta. Niente va al di là del puro silenzio.
Dove il silenzio è autentico, il tempo è salvato e non c’è nessuna ‘perdita di tempo’. E se questo silenzio continua ad abitare l’uomo che si occupa di qualche altra attività, questa ne è come riscattata.
La ‘preghiera di fuoco’
Giovanni Cassiano (v secolo), nelle sue Conferenze con alcuni Padri del deserto, descrive una forma di preghiera che egli considera come la più sublime. Non ci sono parole, e perfino la memoria sembra alla fine incapace di ripetere in forma adeguata ciò che si è sperimentato. Nulla può più essere ricordato in dettaglio, perché tutto brucia, e le forme distinte apprese un tempo (lode, supplica, azione di grazie, intercessione ecc.) perdono i loro contorni precisi, si fondono l’una all’altra in un fuoco ardente che consuma anche la traccia del ricordo. Le parole cedono per far posto al fervore di una preghiera inafferrabile: preghiamo, come Paolo ha descritto per primo, «con gemiti inesprimibili» (en stenagmois alaletois), cioè senza più suoni chiaramente articolati. Il silenzio sopraggiunge semplicemente perché le parole sono insufficienti, si frantumano, non potendo contenere tutta la ricchezza dell’esperienza, diversamente da quell’altro silenzio che è il nostro quando non troviamo le parole, sprovveduti come siamo. Al silenzio delle parole, segno della nostra povertà di linguaggio, fa contrasto il silenzio debordante in cui tutte le parole non bastano più a esprimere l’immensa ricchezza di ciò che si vive. Nella presentazione di Cassiano la scuola della preghiera conduce a questo silenzio tutto particolare, approdo estremo delle quattro tradizionali forme di preghiera insegnate da Paolo (l Tm 2,1 e Fil 4,6).
E necessario qui soffermarsi su una precisazione: la cosiddetta ‘preghiera di fuoco’ sorge, dice Cassiano, in particolare quando ci concentriamo sulla forma più alta di preghiera, l’azione di grazie. Questa può vertere non solo sui doni ricevuti in passato o al presente, ma anche su quei doni meravigliosi che ci sono promessi per l’avvenire. Nessuno li ha visti: «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (vedi l Cor 2,9). Questi doni esistono al presente ma sono inconoscibili. Chi medita su di essi e rende già grazie nella certezza della fede è condotto a quel grado di preghiera in cui le parole si rivelano incapaci di riferire o descrivere qualsiasi cosa. Un silenzio di fuoco più ricco di qualsiasi verbalizzazione viene ad abitare il cuore che prega. È una sana tendenza dell’anima orante ricercare questo livello estremo in cui la parola diventa silenzio, in contemplazione del Dio che si è rivelato nella sua sovrabbondante grazia eterna.
Raccogliamo qualche passo di questa celebre Conferenza IX di Giovanni Cassiano con abba Isacco, in cui si tratta della ‘preghiera di fuoco’ (oratio ignea), collegata ai ‘gemiti inesprimibili’ di san Paolo.
Ma può accadere che un’anima, giunta a questo stato di vera purezza e in esso già inizialmente radicata, assommi in un medesimo tempo tutte queste forme di preghiera. Allora essa vola da una all’altra forma come una fiamma viva e insaziabile ed effonde davanti a Dio preghiere purissime e vigorose, preghiere che lo Spirito Santo in persona formula – a nostra insaputa – con gemiti inenarrabili (cfr. Rm 8,26). In quel momento l’anima concepisce e diffonde ineffabilmente nella preghiera una abbondanza di sentimenti che in altro tempo non sarebbe capace di esprimere a parole e neppure di trattenere nella mente (Conferenza IX, 15).
(C’è) quello stato altissimo (…) quella preghiera di fuoco che pochissimi conoscono per scienza e per esperienza: insomma un grado di preghiera che chiameremo ineffabile. Questa sorpassa ogni sentimento umano. Non c’è più suono della voce, non più movimento della lingua, non articolazione di parole. L’anima – awolta nei profluvi della luce celeste – non usa più le piccole parole del vocabolario umano. Somigliante a fonte ricchissima, lascia uscire in gran copia i suoi sentimenti e li sospinge a Dio con impulsi potenti. In un solo istante dice tante e tante cose che poi, quando ritorna in sé, non saprebbe né ridire né ricordare.
Nostro Signore, presentandosi a noi come modello d’orante, ci ha dato anche un saggio di questo stato. Ciò fu quando si ritirò nella solitudine della montagna e quando, nella sua agonia – con un esempio inimitabile d’ardore – sparse per tutta la terra gocce di sangue (Conferenza IX, 25) (3).
Un’ultima testimonianza può bastare qui per riconoscere in questo silenzio oltre le parole il livello estremo nella pratica della preghiera. Lo stesso Isacco il Siro parla a più riprese dello stupore come mezzo per raggiungere la pura preghiera incessante. Ne parla come «di una preghiera che non può più essere chiamata preghiera». Scendendo nella propria impotenza a pregare, l’anima impara a invocare la salvezza con tutto il suo essere. Chi persevera in questa richiesta scopre l’unico appiglio sicuro di tutta la sua vita: il soccorso insostituibile e inalienabile che viene solo da Dio. Allora non può che benedire e lodare Dio nella gratitudine e nello stupore del suo cuore. Questo stupore crescerà sempre più fino a sfociare nella preghiera incessante «in gemiti inesprimibili».
Così scrive sullo Spirito che prega in noi senza voce, senza parole:
Quando lo Spirito pone la sua dimora in un uomo, costui non cessa di pregare, perché lo Spirito prega continuamente in lui. Allora la preghiera non si separerà dalla sua anima né quando dorme né quando è sveglio, ma mentre mangia o beve, mentre riposa o è al lavoro, perfino mentre è immerso nel sonno, gli aromi della preghiera si diffonderanno spontaneamente nel suo cuore. I semplici movimenti del suo spirito purificato sono altrettante voci silenziose che nel segreto fanno salire il loro canto salmodiante verso l’Invisibile.
Quando in effetti questa purezza e questo silenzio si sono realizzati in una persona, i moti più impercettibili dell’intelletto o della facoltà interiore – il nous in greco – appaiono preghiera, voci silenziose di una salmodia segreta per Colui che è ‘nel segreto’, secondo l’espressione prediletta di Gesù nel Discorso della Montagna. Isacco, l’uomo di preghiera, cerca qui di esprimere in linguaggio figurato qualcosa che sta oltre il linguaggio più puro. La preghiera prende vita grazie a ciò che resta nascosto in questo silenzio estremo e nella più grande apertura gratuita, e non è conosciuto che da Colui ‘che vive nel segreto’. Tocchiamo qui i limiti della coscienza di sé: un evento così dilagante viene a sconvolgerci interiormente al punto che ne siamo sollevati più che sommersi, e come trascinati oltre noi stessi. Si comprende meglio così il celebre apoftegma di Antonio, il patriarca dei monaci: «La preghiera non è perfetta finché il monaco ha coscienza di sé e sa di pregare».
Questa breve arringa in favore del Silenzio riceve ai nostri giorni nuovi impulsi, sia dall’esterno che dall’interno (4). Le trasformazioni culturali del mondo che ci circonda reclamano sempre più un silenzio autentico a partire dal quale si possa di nuovo ascoltare parole vere e un linguaggio puro. Il fatto che molti siano stanchi e disgustati dai troppi discorsi mostra l’altra faccia della medaglia: la rinnovata capacità di apprezzare una interiorità fatta di silenzio.
In questo contesto, citiamo una breve composizione del padre carmelitano Jan Lammens, un invito al silenzio che si richiama al primo versetto del salmo 65: «Per te il silenzio è lode».
Silentium tibi laus
Lodarti in silenzio
Fa’ silenzio e ascolta:
un canto si leva
- non parola che tu oda,
non suono che riecheggi -
l’essere si muta in canto puro.
Silenzio, ascolta:
gli alberi cantano
- né stormir di foglie né fruscio,
immobili i tronchi
essi sono: ecco il loro canto.
Silenzio, ascolta:
Dio canta da sé la sua lode
in tutto ciò che vive, tutto ciò che è.
Dio canta in me: lo sono.
Sii ancor più tacito e odi:
Dio canta da sé una lode perfetta.
Egli canta l’Essere che è.
Silenzio, ascolta:
l’essere è, l’essere canta (5).
Anche l’incontro con civiltà non cristiane e tradizioni spirituali come il buddismo o il taoismo ci sfida a esplorare più a fondo questo limite oltre le parole (6).
Da parte nostra, possiamo richiamarci ad alcuni poeti che sanno ascoltare abbastanza in silenzio per imparare il Nome di Colui che non si può nominare e che ha insegnato l’arte di santificarlo con parole umili e pure.
(seguono alcune poesie)

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