San Benedetto – La Regola
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San Benedetto – La Regola
San Benedetto da Norcia (Norcia, 480 circa – monastero di Montecassino, 547 circa) è stato un monaco e santo italiano, fondatore dell’ordine dei Benedettini.
San Benedetto non è stato un legislatore rivoluzionario: ma l’accorto e sapiente erede, insieme rigoroso e moderato, della tradizione monastica occidentale. Egli aveva davanti agli occhi un modello antico e meraviglioso: gli eremiti orientali come sant’Antonio, che da soli lottavano con il diavolo nel deserto. Ma egli credeva che questo miracolo fosse ormai irraggiungibile. Voleva fondare qualcosa di più modesto: la vita dei monaci chiusi in una collettività guidata da un superiore; vita che doveva tenere lontana ogni influenza del mondo esterno, ogni viaggio, ogni rapporto con i congiunti. « Nessuno osi riferire ad un altro qualcosa di ciò che ha visto o sentito fuori del monastero, perchè sarebbe un’enorme rovina. » Tutto era calcolato e previsto dalla regola e dalla sapienza del superiore: ma ogni gesto della vita comune doveva essere impregnato dalle parole della Scrittura, imbevuto dallo sguardo luminoso di Dio, che contemplava i suoi fedeli dall’alto dei cieli.
Con i suoi minuziosi suggerimenti, la Regola di san Benedetto ci informa con straordinaria efficacia sulla vita quotidiana dei monaci nel Medioevo, rievocando le mense, i lavori, i sonni, le preghiere, le letture comuni, e l’esempio di un amore reciproco senza limiti. « Se un monaco ha la sensazione che un anziano abbia verso di lui sentimenti d’ira o anche una lieve irritazione, subito, senza indugio, si prostri a terra davanti ai suoi piedi e rimanga disteso a far penitenza fino a quando questa irritazione sia placata e si risolva in una benedizione. »
Il Prologo ed i Settantatre Capitoli
Il Prologo definisce i principi della vita religiosa (soprattutto la rinuncia alla propria volontà ed il proprio affidamento a Cristo) e paragona il monastero ad una « scuola » che insegna la scienza della salvezza, cosicché perseverando nel monastero fino alla morte, i discepoli possono « meritare di divenire parte del regno di Cristo ».
Dei settantatre capitoli che seguono il prologo, nove trattano i doveri dell’Abate, tredici regolano l’adorazione di Dio, ventinove sono relative alla disciplina ed al codice penale, dieci regolano l’amministrazione interna del monastero, i rimanenti dodici riguardano provvedimenti diversi.
Il Capitolo I definisce i quattro tipi principali di monachesimo: (1) Cenobiti, cioè coloro che vivono in un monastero sotto la guida di un Abate; (2) Anacoreti, o eremiti, che vivono in solitudine dopo essersi messi alla prova in un monastero; (3) Sarabiti, che vivono in gruppi di due o tre, senza regole prestabilite o un superiore; (4) Girovaghi, monaci viandanti che vivono andando da un monastero all’altro portando discredito alla professione monastica. La regola si rivolge solo ai primi.
Il Capitolo II descrive le qualità che devono caratterizzare l’Abate, raccomandandogli di non dimostrare preferenze verso i suoi monaci, fatti salvi meriti particolari, avvertendolo allo stesso momento che è responsabile della salvezza delle anime che gli sono affidate.
Il Capitolo III decreta l’obbligo da parte dell’Abate di convocare i confratelli per consultarli sugli affari importanti per la comunità.
Il Capitolo IV elenca i doveri di un Cristiano in settantadue precetti che chiama « strumenti per il buon lavoro ». Per la gran parte fanno riferimento (o nello spirito o nella lettera) alle Sacre Scritture.
Il Capitolo V prescrive una obbedienza pronta, gioiosa e assoluta al superiore e definisce l’obbedienza come il primo grado dell’umiltà.
Il Capitolo VI tratta del silenzio, raccomandando moderazione nell’uso della parola, ma non proibisce la conversazione quando è utile o necessaria.
Il Capitolo VII tratta dell’umiltà, individuandone dodici gradi che, come gradini di una scala, portano al paradiso: (1) avere timore di Dio; (2) reprimere la propria volontà; (3) sottomettersi alla volontà dei superiori; (4) obbedire anche nelle cose più dure e difficili; (5) confessare i propri errori; (6) riconoscere la propria pochezza; (7) preferire gli altri a sé stessi; (8) evitare la solitudine; (9) parlare solo nei momenti prestabiliti; (10) soffocare il riso scomposto; (11) reprimere l’orgoglio; (12) dimostrarsi umili verso gli altri.
I Capitoli dal IX al XVIII si occupano di regolare l’Ufficio Divino scandite dalle Ore Canoniche, sette del giorno e una di notte. Le orazioni sono stabilite in dettaglio specificando cosa recitare in inverno o in estate, di domenica, nei giorni festivi,…
Il Capitolo XIX sottolinea la reverenza che si deve tenere in presenza di Dio.
Il Capitolo XX stabilisce che le preghiere in comune siano brevi.
Il Capitolo XXI impone la nomina di un decano ogni dieci monaci e prescrive anche come devono essere scelti.
Il Capitolo XXII regola tutto quanto concerne il dormitorio. Stabilisce, ad esempio, che ciascun monaco abbia un proprio letto, che dorma nel proprio abito così da essere pronto ad alzarsi senza ritardo e che una luce debba essere tenuta accesa nel dormitorio per tutta la notte.
I Capitoli dal XXIII al XXX trattano delle violazioni alla Regola e stabilisce una scala graduale di pene: ammonizione privata; reprimenda pubblica; separazione dai confratelli durante i pasti ed in ogni altra occasione; flagellazione; espulsione da adottare solo come ultima risorsa, quando ogni altro mezzo per richiamare il monaco è risultato vano. In ogni caso l’espulso deve essere nuovamente accettato su sua richiesta. Se però è espulso per tre volte, allora ogni sua richiesta può essere ignorata.
I Capitoli XXXI e XXXII stabiliscono le qualità del monaco Cellario e di altri responsabili per curare i beni del monastero, da trattare con la stessa cura dei vasi sacri dell’altare.
Il Capitolo XXXIII proibisce ai monaci il possesso privato di qualsiasi bene senza il permesso dell’Abate. Quest’ultimo, inoltre, deve impegnarsi a fornire il necessario.
Il Capitolo XXXIV prescrive la giusta distribuzione di quanto necessario alla vita del monaco.
Il Capitolo XXXV stabilisce che i monaci servano a turno nella cucina.
I Capitoli XXXVI e XXXVII ordina che la comunità monastica si deve prendere cura dei più deboli (malati, vecchi e giovani) che possono godere di dispense speciali dalla Regola, soprattutto per quanto concerne il cibo.
Il Capitolo XXXVIII prescrive l’ascolto delle Sacre Scritture durante i pasti. Della lettura ad alta voce è incaricato un monaco a rotazione con turni settimanali. Per non disturbare la lettura, durante i pasti vige la regola del silenzio per cui ci si può esprimere solo a gesti. Il lettore, dal canto suo, mangia insieme agli inservienti dopo che gli altri hanno finito, ma può mangiare un po’ anche prima, se questo può aiutarlo a sopportare la fatica.
I Capitoli XXXIX e XL regolano la quantità e qualità del cibo: due pasti al giorno durante i quali si consumano due piatti di cibo cotto ciascuno. Una libbra (circa 450g) di pane ed una hemina (un’antica unità di misura romana pari a circa un quarto di litro) di vino per ciascun monaco. La carne è proibita a tutti eccetto che ai malati e a chi era debilitato fisicamente. Tra le facoltà dell’Abate, inoltre, c’è anche la possibilità di aumentare le porzioni quotidiane, se lo reputa necessario.
Il Capitolo XLI prescrive l’orario per i pasti, che variano in funzione delle stagioni.
Il Capitolo XLII ordina per la sera, prima della Compieta, la meditazione comune di Conferenze, Vite dei Padri o di qualche altra opera di edificazione morale, dopodicché deve essere rispettato il più stretto silenzio fino la mattino.
I Capitoli dal XLIII al XLVI trattano degli errori veniali (ad esempio arrivare in ritardo alle preghiere o ai pasti) e stabilisce le relative penitenze per i trasgressori.
Il Capitolo XLVII affida all’Abate il dovere di chiamare i fratelli al « Mondo di Dio » e di scegliere chi deve cantare o leggere.
Il Capitolo XLVIII sottolinea l’importanza del lavoro manuale e stabilisce quanto tempo dedicargli quotidianamente. Questo varia in funzione delle stagioni ma non deve essere inferiore alle cinque ore. Compito dell’Abate è di verificare non solo che tutti lavorino, ma anche di assicurarsi che il compito assegnato a ciascuno sia commisurato alle sue capacità.
Il Capitolo XLIX stabilisce gli adempimenti per la Quaresima e raccomanda qualche rinuncia volontaria in quel periodo, con il permesso dell’Abate.
I Capitoli L e LI contengono regole per i monaci che lavorano nei campi o sono in viaggio. A loro viene chiesto, nei limiti del possibile, di unirsi in spirito con i confratelli del monastero nelle ore stabilite per la preghiera.
Il Capitolo LII stabilisce che l’oratorio sia usato solo per le orazioni.
Il Capitolo LIII parla degli ospiti che devono essere ricevuti « come lo stesso Cristo » originando quella tradizione di ospitalità che ha caratterizzato i Benedettini di ogni epoca. In particolare, gli ospiti devono essere trattati dall’Abate o dai suoi incaricati con cortesia e durante la loro permanenza devono essere posti sotto la protezione del monaco, ma non hanno il diritto ad unirsi con il resto della comunità monastica senza un permesso speciale.
Il Capitolo LIV vieta ai monaci di ricevere lettere o regali senza il permesso dell’Abate.
Il Capitolo LV regola l’abbigliamento dei monaci che deve essere sufficiente sia in quantità e qualità, semplice ed economico, adatto al clima ed alla località secondo quanto stabilito dall’Abate. Ogni monaco, inoltre, deve avere abiti di ricambio per permettere che siano lavati. In occasione di un viaggio al monaco devono essere messi a disposizione abiti di migliore qualità. Gli abiti vecchi, infine, devono essere messi da parte per i poveri.
Il Capitolo LVI stabilisce che l’Abate mangi con gli ospiti.
Il Capitolo LVII ordina l’umiltà degli artigiani del monastero ed impone che quando i loro prodotti sono venduti, lo devono essere a prezzi inferiori a quelli di mercato.
Il Capitolo LVIII stabilisce le regole per l’ammissione dei postulanti la cui volontà deve essere posta a dura prova. Questa materia era stata precedentemente regolata dalla Chiesa ai cui insegnamenti si adegua anche San Benedetto; innanzitutto il postulante deve trascorrere un breve periodo come ospite; quindi è ammesso nel noviziato dove, sotto la guida di un maestro, la sua vocazione è messa alla prova con severità ed è libero di rinunciare in ogni momento; se dopo dodici mesi persevera ancora nelle sue intenzioni, allora può essere ammesso a pronunciare i voti che lo legano per sempre al monastero.
Il Capitolo LIX stabilisce le condizioni per l’ammissione dei ragazzi nel monastero.
Il Capitolo LX regola la posizione dei sacerdoti che desiderano unirsi ad una comunità monastica. Li esorta, inoltre, ad essere un esempio di umiltà per tutti e stabilisce che esercitino il loro ministero solo con il permesso dell’Abate.
Il Capitolo LXI consente l’accoglienza di monaci esterni come ospiti e il loro incorporamento nella comunità su richiesta.
Il Capitolo LXII stabilisce che i privilegi nella comunità siano determinati per la data di ammissione, meriti personali o compiti assegnati dall’Abate.
Il Capitolo LXIV stabilisce che l’Abate sia eletto dai suoi monaci che lo devono scegliere per la sua carità, zelo e discrezione.
Il Capitolo LXV permette, se necessario, la nomina di un Priore (il vice dell’Abate) ma avverte che sia completamente sottomesso all’Abate che può ammonirlo, deporlo dall’incarico o espellerlo in caso di cattiva condotta.
Il Capitolo LXVI prevede la nomina di un portinaio, un monaco anziano ed assennato, e raccomanda che ciascun monastero debba essere, nei limiti del possibile, autonomo così da limitare le relazioni con il mondo esterno.
Il Capitolo LXVII istruisce i monaci in viaggio.
Il Capitolo LXVIII ordina che tutti eseguano gioiosamente quanto viene loro comandato, per quanto difficile possa essere il compito affidato
Il Capitolo LXIX vieta ai monaci di prendere le difese di un altro monaco.
Il Capitolo LXX proibisce che lottino tra loro.
Il Capitolo LXXI incoraggia i monaci ad essere obbedienti non solo verso l’Abate ed i superiori ma anche reciprocamente.
Il Capitolo LXXII è una breve esortazione allo zelo ed alla carità fraterna
Il Capitolo LXXIII è l’epilogo dove si dichiara che la Regola non è proposta come un ideale di perfezione, ma solo come uno strumento per avvicinarsi a Dio ed è intesa principalmente come una guida per chi comincia il suo cammino spirituale.
Le regole monastiche antiche
L’immagine di un Medioevo monastico interamente benedettino è un luogo comune, tanto inveterato quanto storicamente falso. Essa ha lusingato in particolare la storiografia italiana, che ha alimentato a lungo il mito di san Benedetto padre del monachesimo occidentale, della civiltà religiosa medievale, dell’Europa tout court. In realtà, l’osservanza benedettina trovò diffusione largamente europea solo a partire dall’età carolingia, per l’opera riformatrice di un patrizio visigoto, Benedetto abate di Aniane, che ridusse i monasteri dell’Impero a unità legislativa applicando le direttive politiche di Carlo Magno e Ludovico il Pio. Prima di allora, tra il V e l’VIII secolo, numerose regole circolarono nell’Occidente. Una trentina di esse sono pervenute sino a noi.
Non vanno catalogati tra le regole, anche se talvolta ne portano il nome, scritti di carattere parenetico o didattico o descrittivo. Per esempio non sono regole, com’è evidente, il de laude eremi o il de contemptu munii, due opuscoli scritti tra il 418 e il 430 da Eucherio, monaco di L?rins e poi vescovo di Lione, sebbene contengano non pochi spunti sulla spiritualità e la condotta degli asceti; ma non lo sono neanche talune lettere di Girolamo, come la 2.2., la 58, la 12.5 e altre ancora, che sono dei veri e propri manuali di direzione spirituale, o la lettera di Leandro di Siviglia alla sorella Fiorentina, ne lo sono i libri de institutis coenobiorum di Cassiano, che descrivono i vizi contro i quali il monaco deve lottare e gli indicano i rimedi da adottare.
Tra lo scadere del IV secolo e i primi anni del V si colloca la prima generazione di regole latine. Più precisamente, si tratta in un caso di due testi originali, composti uno, l’Ordo monasterii, intorno al 395 nella cerchia di Sant’Agostino (forse dall’amico Alipio per i monaci di Tagaste), l’altro, il Praeceptum, dallo stesso
Agostino, verso il 397, per il monastero di Ippona, e dalla tradizione trasmessi insieme come « Regula Augustini »; in altri due casi si tratta, invece, di versioni di un testo greco, la Regola di Basilio, e di uno copto, la Regola di Pacomio. La prima fu tradotta da Rufino, che nel 397, su richiesta dell’abate del monastero di Pinete, vicino a Roma, volse in latino una redazione della quale non c’è rimasto l’originale greco, più breve rispetto all’altra, conservataci in greco. La seconda è costituita da quattro gruppi di precetti monastici dettati dal grande fondatore del cenobitismo egiziano, che Girolamo tradusse in latino, nel 404, da una precedente traduzione greca, assieme ad alcune lettere dello stesso Pacomio e del suo primo successore, Teodoro, e assieme al testamento spirituale di Orsiesi, successore di Teodoro.
Direttamente o per il tramite di testi intermedi, queste regole della prima generazione influenzarono le successive, con un fitto intrecciarsi di rapporti, che oggi, grazie soprattutto alle indagini di dom Adalbert de Vog??, riusciamo a ricostruire abbastanza compiutamente. Tracce delle regole di Agostino e di Pacomio si rinvengono largamente sia nell’area gallo-iberica che in quella italiana e nel monachesimo iro-franco di Colombano; la Regola di Basilio sembra essere stata più presente nelle regole italiane, meno in quelle iberiche e provenzali.
Una seconda fioritura di grandi regole si ebbe a circa un secolo e mezzo dalle prime. Tra le due generazioni stanno – ma ne parleremo partitamente in seguito – le cosiddette Regole dei Santi Padri. I centri creativi di questa seconda stagione legislativa furono la Gallia meridionale e l’Italia centro-meridionale.
In Gallia, lungo la prima metà del VI secolo, svolse un’opera costante di sostegno e di regolamentazione della prassi monastica Cesario, prima monaco a L?rins e poi vescovo di Arse. Il testo più importante è la « Regula ad virgines », la prima regola femminile dell’Occidente, che Cesario compilò per il monastero di san Giovanni in Arles, retto dalla sorella Cesaria, ma che trascese subito l’ambito locale ed esercitò duratura influenza sul monachesimo sia provenzale che italiano, e non solamente femminile. Cesario vi si dedicò a più riprese, tra il 511 e il 534, e vi trasferì, con le opportune correzioni, le norme dell’ascesi e della vita comunitaria maschile, mettendo a profitto non solo i testi monastici più illustri, da Pacomio a Cassiano, ma anche l’esperienza personale, maturata negli anni del soggiorno monastico a L?rins e nella pratica pastorale. Successivamente (e non prima, come si è creduto a lungo), tra il 534 e il 541, Cesario stilò una « Regula monachorum », che di fatto non è che un compendio della regola femminile.
In Italia, tra Roma e Cassino, nella prima metà del VI secolo, a distanza di qualche decennio l’una dall’altra, vedono la luce le due maggiori regole dell’Occidente, quella del Maestro e quella di Benedetto. La questione dei loro rapporti ha dato origine negli ultimi cinquant’anni a una controversia serratissima e feconda di proposte storiografiche rinnovatrici. Oggi è largamente prevalente l’opinione che ammette la priorit? e riconosce il valore e l’originalità dell’anonima « Regula Magistri », la più ampia delle Regole latine e la più sistematica.
Un nutrito gruppo di regole – più della metà di quelle che complessivamente ci sono rimaste – furono redatte nell’età successiva, tra la metà del VI secolo e gli ultimi decenni del VII. Sono scritti di modeste dimensioni e quasi sempre di scarsa originalità, che non superarono se non raramente i confini del monastero per il quale furono composti o, al più, i limiti regionali. Unica personalità di statura europea fu Colombano (+ 615), il fondatore di Luxeuil e di Bobbio, al quale, tuttavia, si devono regole di carattere limitato: una « Regula monachorum », contenente una serie di precetti spirituali e una descrizione dell’ufficio liturgico, e una « Regula coenobialis », che è sostanzialmente un codice disciplinare con norme punitive di tipo irlandese, comprendenti anche le percosse. Gli altri legislatori furono vescovi o abati galli, iberici, italici; alcuni testi sono anonimi e talvolta solo il confronto con altre regole meglio note ne lascia sospettare il luogo di provenienza.

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