Sei anni sulla cattedra di Pietro. Un’interpretazione (Sandro Magister)
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Sei anni sulla cattedra di Pietro. Un’interpretazione
Benedetto XVI maestro della parola, ma anche uomo di governo. Autore di nuove leggi in campo liturgico, finanziario, penale, ecumenico. Con un criterio guida: « riforma nella continuità »
di Sandro Magister
ROMA, 1 luglio 2011 – La festa dei santi Pietro e Paolo, « colonne » della Chiesa, è coincisa quest’anno con il sessantesimo anniversario dell’ordinazione di Benedetto XVI al sacerdozio.
Anche questa volta papa Joseph Ratzinger, nell’omelia della messa, ha insistito sulla missione di chi è chiamato a guidare la Chiesa come successore di Pietro.
Un motivo in più per tentare una interpretazione di questo pontificato, ormai entrato nel settimo anno, da un’angolatura particolare: quella del governo.
A una prima impressione, Benedetto XVI non sembra brillare come uomo di governo. Il disordine della curia vaticana ne è prova.
D’altra parte, però, il pontificato di papa Benedetto si caratterizza per una serie importante di provvedimenti normativi, tipici di un’azione di comando:
- nel 2007 il motu proprio « Summorum pontificum » sull’uso del messale romano di rito antico;
- nel 2009 la costituzione apostolica « Anglicanorum coetibus » sul passaggio alla Chiesa cattolica di comunità anglicane;
- nel 2010 le nuove norme sui « delicta graviora » e in particolare sugli abusi sessuali;
- ancora nel 2010 la creazione di un nuovo ufficio della curia romana: il pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione;
- sempre nel 2010 il motu proprio per la prevenzione dei reati finanziari in tutti gli istituti della Santa Sede o ad essa connessi;
- nel 2011 l’istruzione « Universæ Ecclesiæ » ad integrazione delle norme sulla messa in rito antico.
Si tratta di norme con elementi fortemente innovativi, alcune accolte da vivaci resistenze, tali da smentire per l’ennesima volta che Benedetto XVI sia un papa di pura conservazione dell’esistente.
Al contrario. Il criterio che più identifica questo pontificato sotto il profilo del governo è quello della « riforma nella continuità »: lo stesso criterio che egli ha adottato per interpretare le novità Concilio Vaticano II e in genere i cambiamenti nel magistero della Chiesa nel procedere della storia.
Su Benedetto XVI come « legislatore canonico » illustri studiosi del diritto – tra i quali l’arcivescovo Francesco Coccopalmerio, presidente del pontificio consiglio per i testi legislativi – hanno recentemente tenuto un convegno nell’Università di Pavia, la città dove è sepolto sant’Agostino.
Ecco qui di seguito la relazione conclusiva, affidata a un non specialista.
Nella quale si tenta una lettura unitaria dell’azione normativa di papa Benedetto, alla luce della visione « bonaventuriana » che egli ha di se stesso come timoniere della barca di Pietro.
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BENEDETTO XVI LEGISLATORE CANONICO
L’ermeneutica della « riforma nella continuità ». Dal motu proprio “Summorum Pontificum” alla nuova evangelizzazione dell’Occidente
di Sandro Magister
Quella di « legislatore canonico » può sembrare una definizione sorprendente, applicata a Benedetto XVI. Eppure definisce un tratto essenziale del suo profilo, della sua visione su come governare la Chiesa.
Se la tempesta che da qualche decennio tormenta la Chiesa è dovuta a delle « rotture » rispetto alla sua tradizione e identità propria – come Benedetto XVI ha detto in ripetute occasioni, a partire del memorabile discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 sull’interpretazione del Concilio Vaticano II –, una di queste linee di rottura il papa la vede proprio sul terreno del diritto canonico.
L’ha scritto nella lettera aperta da lui indirizzata alla Chiesa d’Irlanda il 19 marzo 2010.
E l’ha spiegato con parole ancor più dirette nel libro-intervista « Luce del mondo » pubblicato alla fine del 2010:
« È interessante a questo proposito – ha risposto il papa a una domanda – quello che mi ha detto l’arcivescovo di Dublino. Diceva che il diritto penale canonico sino alla fine degli anni Cinquanta ha funzionato; certo, non era perfetto – in molti punti lo si potrebbe criticare – ma in ogni caso veniva applicato. A partire dagli anni Sessanta semplicemente non è stato più applicato. Dominava la convinzione che la Chiesa non dovesse essere una Chiesa del diritto, ma una Chiesa dell’amore; che non dovesse punire. [...] In quell’epoca anche persone molto valide hanno subito uno strano oscuramento del pensiero, [...] per cui è subentrato un oscuramento del diritto e della necessità della pena. E in fin dei conti anche un restringimento del concetto di amore, che non è soltanto gentilezza e cortesia, ma che è amore nella verità ».
Pochi giorni prima della lettera alla Chiesa d’Irlanda, il 10 marzo 2010, in un’udienza generale del mercoledì, Benedetto XVI ha sviluppato più a fondo la sua lettura della vicenda della Chiesa negli ultimi decenni.
Quell’udienza il papa la dedicò a san Bonaventura, uno dei tre santi da lui personalmente più amati assieme ad Agostino e a Tommaso d’Aquino: il santo sul quale da giovane pubblicò la tesi di dottorato, sulla sua teologia della storia messa a confronto con quella influentissima di Gioacchino da Fiore.
Secondo Gioacchino da Fiore, dopo le età del Padre e del Figlio, quest’ultima coincidente col tempo della Chiesa, era imminente l’alba di una terza e ultima età del mondo, quella dello Spirito Santo: un’era di piena libertà, con una nuova Chiesa spirituale senza più gerarchia né dogmi, un’era di pace definitiva tra gli uomini, di riconciliazione dei popoli e delle religioni.
Dallo spiritualismo all’anarchia il passo è breve, spiegò Benedetto XVI in quell’udienza. E san Bonaventura, nel suo tempo, faticò non poco per arginare questa deriva, molto presente nel suo ordine francescano.
Ma anche oggi, proseguì il papa, riaffiora nella Chiesa questo « utopismo spiritualista »:
« Sappiamo, infatti, come dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa preconciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente ‘altra’. Un utopismo anarchico! Ma grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, papa Paolo VI e papa Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso tempo, hanno difeso l’unicità e la continuità della Chiesa ».
Novità e continuità. Perché non è vero che la Chiesa di Dio debba essere « immobile, fissa nel passato e non possa esserci novità in essa ». Il papa citò di nuovo san Bonaventura: « Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt », le opere di Cristo non vanno a ritroso, non si consumano, ma avanzano e progrediscono. Assicurano « novità e rinnovamento in tutti i periodi della storia ».
Basta questo per capire che papa Joseph Ratzinger non è affatto un custode della tradizione e basta. La sua visione della Chiesa è dinamica. Non teme di usare la parola « riforma » per definire la sua ermeneutica del Concilio Vaticano II.
È ciò che ha fatto in quel discorso capitale che rivolse alla curia romana il 22 dicembre 2005, vigilia del suo primo Natale da papa.
“Il Concilio Vaticano II – disse in quell’occasione Benedetto XVI –, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi ».
La discontinuità solamente “apparente” di cui parla il papa si riferisce precisamente alla “intima natura” della Chiesa e alla “sua vera identità”, che sono rimaste intatte, dice, nonostante le correzioni fatte dal Vaticano II di “alcune decisioni storiche” della Chiesa stessa.
Nello stesso tempo però – disse Benedetto XVI sempre in quel discorso – accanto a questa discontinuità solamente « apparente » vi è stata anche una discontinuità vera, almeno in un caso, tra il Concilio e il magistero precedente dei papi.
Il caso che papa Ratzinger citò e analizzò è quello della libertà religiosa, affermata dalla dichiarazione « Dignitatis humanae ». Lì la discontinuità con il magistero dei papi tra l’Ottocento e il Novecento è incontestabile. La « Dignitatis humanae » afferma e proclama ciò che l’enciclica « Quanta cura » di Pio IX del 1864, con il relativo « Syllabus errorum », aveva rifiutato e condannato.
Tale discontinuità tuttavia, ha spiegato Benedetto XVI, riguarda non la natura e l’identità della Chiesa ma la concezione dello Stato e dei suoi rapporti con le religioni. Il soggetto Chiesa, anzi, esce da questo cambiamento ancora più nitido e luminoso, poiché, dice il papa, il Vaticano II, « riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa ». Si è cioè rimesso « in piena sintonia » non solo con l’insegnamento di Gesù sulla distinzione tra Dio e Cesare, ma « anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi », poiché essi sono morti proprio « per la libertà di professione della propria fede: una professione che da nessuno stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza ».
Questa innovazione del Concilio fu vista comunque da molti, durante l’assise e dopo, come una rottura rispetto alla tradizione della Chiesa. Con grande giubilo per chi vedeva nel Vaticano II un radioso « nuovo inizio » epocale ed ecclesiale. Con grande costernazione per chi vi vedeva un nefasto abbandono della retta dottrina.
E la tentazione era facile per entrambe le parti. Benedetto XVI, sempre nel discorso del 22 dicembre 2005, riconobbe che in effetti, « se la libertà di religione viene considerata come espressione dell’incapacità dell’uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo », allora essa può dar luogo all’idea – inaccettabile – che tutte le religioni hanno pari valore e che la propagazione missionaria della fede cattolica non abbia più ragione d’essere.
Idea non priva di ripercussioni gravi sulla vita della Chiesa, se Giovanni Paolo II si sentì in dovere nel 1990 di dedicare un’enciclica, la « Redemptoris missio », all’osservanza del mandato di Gesù a far discepoli e a battezzare tutti i popoli, e se nel 2000 lo stesso papa, con l’allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede, cardinale Ratzinger, si sentì in obbligo di ribadire, con la dichiarazione « Dominus Iesus », che il Signore Gesù è l’unico salvatore di tutti gli uomini.
Da successore di Pietro, Ratzinger ha proseguito con decisione su questa strada. Ha detto e argomentato senza posa che il riconoscimento da parte della Chiesa della libertà per ogni cittadino di ogni Stato del mondo di osservare la religione che considera in coscienza quella vera, e di propagarla, non è in contraddizione con la natura missionaria della Chiesa e con la fede che solo Gesù è « la via, la verità, la vita ». Questo riconoscimento della libertà religiosa stimola però i cristiani a pensare nel modo più genuino la loro stessa azione missionaria, consapevoli che la professione della fede in Cristo « da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza ».
E quindi, proseguì Benedetto XVI sempre in quello straordinario discorso del 22 dicembre 2005:
« Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano: una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l’unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli ».
La « nuova evangelizzazione » voluta da Benedetto XVI ha questo di moderno: essa definitivamente si spoglia di ogni braccio secolare, di ogni tipo di imposizione anche sofisticata e lieve, in ciò perfettamente in linea con le moderne concezioni liberali di cittadinanza, e affida la verità a ogni uomo « solo mediante il processo del convincimento ».
Ma nello stesso tempo la « nuova evangelizzazione » di papa Benedetto riprende e rinvigorisce i tratti originari del mandato di Gesù ai discepoli. Perché questa cos’è se non la pedagogia di Dio dall’Antico al Nuovo Testamento? E cos’è se non lo stile di Gesù, nella sua predicazione del Regno? E cos’è se non il dialogo degli autori biblici e poi dei Padri della Chiesa con la sapienza dei filosofi greci e le profezie delle Sibille? E cos’è se non l’innesto dell’arte cristiana sulla classicità?
La lezione di Ratisbona del 12 settembre 2006 è l’altro discorso capitale del pontificato di Benedetto XVI, in perfetta continuità con quello fin qui citato. Il meglio del pensiero greco « è parte integrante della fede cristiana », affermò il papa in quell’università dei saperi nella quale aveva insegnato. Il « logos » umano è il riflesso del « Logos » eterno. Quindi anche nell’uomo più lontano da Dio mai si spegne questo lume razionale che a Dio rimanda. Delle ragioni della fede, l’annuncio del cristianesimo non deve e non può fare a meno. Ancor più in un mondo come quello di oggi e in una regione come l’Europa, alla quale il cristianesimo ha dato l’impronta ma che dal cristianesimo si è ampiamente allontanata.
Un aspetto, non l’unico, della « nuova evangelizzazione » di Benedetto XVI è quello che egli ha chiamato il « cortile dei gentili ». L’ha annunciato alla fine del 2009 dopo aver visitato Praga, capitale di una delle regioni d’Europa più scristianizzate. E l’ha voluto per quelle « persone che conoscono Dio soltanto da lontano; che sono scontente con i loro dèi, riti, miti; che desiderano il Puro e il Grande, anche se Dio rimane per loro il ‘Dio ignoto’ ».
L’immagine del « cortile dei gentili », il cortile esterno del tempio di Gerusalemme, per i « timorati di Dio », non israeliti, che non potevano prendere parte al culto mosaico ma lo avvicinavano nella preghiera, porta a un altro grande asse del pontificato di Benedetto XVI, anch’esso in equilibrio tra novità e continuità: l’asse della liturgia.
Che il Concilio Vaticano II abbia dedicato al tema della liturgia il suo esordio e il suo primo documento « si rivelò come la cosa anche intrinsecamente più giusta », ha scritto papa Ratzinger nella prefazione al primo volume, volutamente tutto liturgico, della sua « opera omnia ». Perché Dio è la priorità assoluta. Perché l’ortodossia della fede, come dice l’etimologia della parola, è « doxa », è glorificazione di Dio. E quindi il modo giusto dell’adorazione è la vera misura della fede: « lex orandi, lex credendi ».
Per questa stessa ragione, Ratzinger ha più volte sostenuto che la crisi della Chiesa degli ultimi decenni ha origine da sbandamenti proprio nel campo della liturgia, e in particolare dall’opinione diffusa che la nuova liturgia prodotta dalle riforme conciliari abbia segnato una cesura radicale con la liturgia precedente.
In effetti, le variazioni introdotte nella liturgia a partire dalla fine degli anni Sessanta hanno qua e là marcato un’evidente rottura col passato. Alla messa intesa soprattutto come sacrificio di redenzione e celebrata « rivolti al Signore » si è sostituita una messa come pasto fraterno, su un altare a forma di tavolo avvicinato il più possibile ai fedeli. Alla liturgia come « opus Dei » si è sostituita una dinamica assembleare con la comunità come protagonista.
In alcuni luoghi e momenti queste variazioni si sono spinte all’estremo. Un caso esemplare è quello illustrato dall’opuscolo « Kerk en Ambt », Chiesa e ministero, distribuito nel 2007 nelle parrocchie olandesi a cura dei domenicani di quella nazione. Nel quale si proponeva di trasformare in regola generale ciò che in vari luoghi già si praticava e si pratica: la messa presieduta indifferentemente da un sacerdote o da un laico, « non importa se uomo o donna, omo o eterosessuale, sposato o celibe ». Con le parole dell’istituzione eucaristica pronunciate dall’uno o dall’altro dei presenti, designati « dal basso », o anche dall’insieme dell’assemblea e liberamente sostituite da « espressioni più facili da capire e più in sintonia con la moderna esperienza di fede ».
Non sorprende quindi che Benedetto XVI abbia fornito questa descrizione allarmata dello sbandamento liturgico seguito al Concilio, in una lettera indirizzata ai vescovi di tutto il mondo in quello stesso 2007:
« In molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa ».
La lettera ora citata è quella con cui Benedetto XVI ha accompagnato la promulgazione del motu proprio « Summorum Pontificum » del 7 luglio 2007, col quale ha liberalizzato la celebrazione della messa secondo il messale del 1962, quello antecedente il Vaticano II, peraltro pacificamente usato durante tutta l’assise conciliare.
Il proposito di Benedetto XVI, espresso nella lettera, è che le due forme del rito romano, l’antica e la moderna, convivendo « possono arricchirsi a vicenda ».
In particolare, l’auspicio del papa è che « nella celebrazione della messa secondo il messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso ».
Il che è precisamente ciò che avviene, sotto gli occhi di tutti, ogni volta che papa Ratzinger celebra la messa: col rito « moderno » ma con uno stile fedele alle ricchezze della tradizione.
Nell’istruzione « Universæ Ecclesiæ » diffusa lo scorso 13 maggio, a ulteriore precisazione e applicazione del motu proprio « Summorum Pontificum », è citato quest’altro passaggio della lettera di Benedetto XVI del 2007:
« Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del ‘Missale Romanum’. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso ».
E viceversa – ribadisce l’istruzione « Universæ Ecclesiæ » – i fedeli che celebrano la messa in rito antico « non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della santa messa o dei sacramenti celebrati nella forma ordinaria ».
Si capisce chiaramente, da queste citazioni, che la « riforma nella continuità » è anche in campo liturgico il criterio ermeneutico con cui Benedetto XVI vuole guidare la Chiesa fuori dall’attuale crisi.
La contrastata accoglienza che hanno registrato nella Chiesa sia il motu proprio che la successiva istruzione sono la prova di quanto sia serio e urgente il proposito di Benedetto XVI.
In campo liturgico, infatti, l’ermeneutica della rottura è pane quotidiano, tuttora, sia di quei tradizionalisti che vedono nel nuovo rito della messa l’affiorare di elementi eretici, sia dei progressisti che vedono nella liberalizzazione del rito antico il rinnegamento del « nuovo inizio » ecclesiale inaugurato dal Vaticano II.
Tra i liturgisti, quest’ultima opinione è molto presente. Per loro, la forma moderna del rito ha soppiantato l’antica e non può sopportare che questa persista. Ne è prova recente la « vis » polemica con cui Andrea Grillo, liturgista, professore alla facoltà teologica di Sant’Anselmo, ha reagito a PierAngelo Sequeri, teologo, colpevole quest’ultimo di aver difeso la « lezione di stile cattolico » impartita da Benedetto XVI col ridare « ospitalità ecclesiale » alla forma antica del rito romano.
Aveva scritto Sequeri, sulla prima pagina di « Avvenire » del 14 maggio:
« Di qui in avanti, unire le forze per restituire alla liturgia l’incanto possente della fede che sta al cospetto dell’unico Signore deve apparirci, in questi tempi difficili, l’unica cosa veramente necessaria allo splendore della tradizione della fede. E se fosse proprio questo ciò che ci fa difetto? Da dove viene – e dove ci porta – questa assuefazione all’investitura fai-da-te, che impanca chiunque a salvatore del cristianesimo, e guida sicura delle sue guide insicure? ».
Il proposito di Benedetto XVI – lo si sa e l’ha ribadito il 14 maggio il cardinale Kurt Koch, presidente del pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, in un convegno romano sul motu proprio « Summorum Pontificum » – non è infatti quello di far convivere indefinitamente le due forme del rito, la moderna e l’antica. In futuro, la Chiesa avrà di nuovo un suo rito romano unico. Ma il cammino che il papa vede davanti per integrare le due forme attuali del rito è lungo e difficoltoso. Ed esige la nascita di un nuovo movimento liturgico di qualità alta come quello che preparò il Concilio Vaticano II e al quale lo stesso Ratzinger attinse, il movimento liturgico di Guardini e di Jungmann, di Casel e di Vagaggini, di Bouyer e di Daniélou, di quei grandi che non a caso furono anche critici severi degli sviluppi liturgici postconciliari.
Come la liturgia è stata in questi decenni il campo delle più evidenti rotture tra il presente della Chiesa e la tradizione, così l’ermeneutica della « riforma nella continuità » ha nella liturgia, con Benedetto XVI, il suo più drammatico terreno di prova.
Pavia, 21 maggio 2011
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