Archive pour mai, 2011

LA MADONNA DEI MIGRANTI

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26746?l=italian

LA MADONNA DEI MIGRANTI

di padre Renato Zilio*

LONDRA, mercoledì, 18 maggio 2011 (ZENIT.org).- Avanzava barcollando non troppo sicura dei suoi passi, seppure bellissima su un cuscino di fiori bianchi e gialli. A prima vista, le luci di pizzerie e di snack bar, le lunghe scie di profumo di fish-and-chips non erano proprio terreno adatto alle sue abitudini. Questa lunga processione serale per le vie di Londra, alle nove di sera, sembrava un venerdi 13 maggio veramente originale. Tuttavia, la Madonna di Fatima avanzava con quel suo dolce e imperturbabile sorriso a fior di labbra.
Ogni tanto qualche inglese tagliava la nostra processione parlando al telefonino, mangiando un mezzo sandwich o un pezzo di pollo fritto, noncurante di tutto. Sacro e profano, mescolati insieme, si affrontano sempre in maniera aperta in questa città. Ma lei sempre materna e misericordiosa: è venerdi sera, in Inghilterra si sa, finita la settimana di lavoro ci si scatena ovunque tra birra, alcool e cibi vari… La polizia inglese con il caratteristico cappello nero ovale, faccia seria da Scotland Yard, sorvegliava la processione con simpatia e le solite radioline di servizio, mentre i bus rossi a due piani ci sfioravano di qualche millimetro. Occasione buona per osservare come tutti dall’interno strabuzzassero gli occhi, voltando la faccia verso di noi, incuriositi da una processione aux flambeaux per vie cittadine normalmente protagoniste dello shopping.
I portoghesi erano fieri di far conoscere alla loro patrona la metropoli in cui vivono dispersi. I filippini erano estasiati di poter cantare e pregare compatti sul suolo pubblico. E gli italiani compiaciuti di rivivere vecchie tradizioni ormai dimenticate, di camminare pregando come al loro paese di origine.
Ma soprattutto era lei ad essere la più felice di tutti. Nel vedersi confermata, così, Madre dei popoli, aiuto celeste di chi ha fatto della sua vita un cammino interminabile. Non le sembrava vero di avere ancora un’occasione per insegnare a tutti ad avere un cuore più grande, uno spirito più aperto. A saper vivere insieme anche se diversi gli uni dagli altri. Senza paura.
Questo popolo fatto di tre comunità differenti sono emigranti, trapiantati ormai da tempo in terra inglese. Una comunità italiana, una portoghese e una filippina con in mezzo qualche inglese avanzavano insieme come in un’unica cordata. Ogni domenica frequentano la nostra Chiesa di Brixton Road, come ritrovandosi nella stessa casa comune. La parrocchia scalabriniana nata negli anni ’60 con gli italiani si è fatta con l’andare degli anni accogliente anche per altri, imparando la regola d’oro dell’ospitalità.
“Ma che bello! – commentava Maria – dovrebbero farlo anche i nostri in Italia…”. E assaporava fino in fondo questi momenti di preghiera, dove in maniera semplice e popolare si mostra a tutti una sola fede, un solo battesimo e… una sola Madre! Si vive, così, quel senso di universalità, che anche nella preghiera sa aprirsi all’altro, ammirandone i tratti originali. “Ma senti come cantano bene queste ragazze filippine!”, ripeteva Antonio, siciliano tutto d’un pezzo, come un ritornello. “Apprezzare l’altro per le sue qualità differenti sa sempre di miracolo!”, aggiungeva saggiamente un vecchio missionario.
Lungo le strade del nostro quartiere questa iniziativa si ripresenta due volte all’anno: il tredici maggio e il tredici ottobre. Una manifestazione bella, pacifica sotto gli occhi lucidi di emozione della Madre di Dio che portiamo in processione. E quelli gradevolmente sorpresi della gente – perfino quella bloccata nelle auto in coda – che contempla la dignitosa bellezza di quest’onda lenta, luminosa che avanza nella notte. Spettacolo raro, salutare per una metropoli abituata normalmente al business.
Infine, padre Francesco, giovane missionario pugliese, dopo l’italiano, il tagalog, il portoghese concludeva in inglese: “Maria non si stanca mai di pregare insieme a noi, di camminare accanto a noi, di essere migrante con noi migranti”. Rassicurazione calda e incoraggiante che si stampa immediatamente nel cuore di ognuno; lo noti subito dal loro sguardo. E così dicendo, le mette attorno al collo un rosario d’argento e sembra un gesto di tenerezza fatto con l’affettuosità della nostra gente del sud Italia verso la propria madre… Spuntano per incanto centinaia di fazzoletti bianchi, come a Fatima, accompagnando il canto d’addio:“O Virgen Mãe, adeus!”. Perfino i bambini stanchi della lunga cerimonia sventolano contenti un loro fazzolettino: sanno che è il segnale di conclusione. “A me piace tanto pregare con i portoghesi!”, senti, infine, commentare, andandosene, Roberta ad un’altra.
Passare di mano in mano una tradizione religiosa è una pratica di questo popolo di migranti all’estero. Sì, un loro modo di vivere ormai, ma anche di unire il mondo. Per questo ti sorridono e ripetono un’ultima volta: “Madonna dei migranti, prega per noi!”.

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*Padre Renato Zilio è un missionario scalabriniano. Ha compiuto gli studi letterari presso l’Università di Padova, e gli studi teologici a Parigi, conseguendo un master in teologia delle religioni. Ha fondato e diretto il Centro interculturale di Ecoublay nella regione parigina e diretto a Ginevra la rivista « Presenza italiana ». Dopo l’esperienza al Centro Studi Migrazioni Internazionali (Ciemi) di Parigi e quella missionaria a Gibuti (Corno d’Africa), vive attualmente a Londra al Centro interculturale Scalabrini di Brixton Road. Ha scritto “Vangelo dei migranti” (Emi Edizioni, Bologna 2010) con prefazione del Card. Roger Etchegaray.

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BENEDETTO XVI INIZIA UN NUOVO PERCORSO BIBLICO SULLA PREGHIERA

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26743?l=italian

BENEDETTO XVI INIZIA UN NUOVO PERCORSO BIBLICO SULLA PREGHIERA

Intervento in occasione dell’Udienza generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 18 maggio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della catechesi che Papa Benedetto XVI ha pronunciato questo mercoledì in occasione dell’Udienza generale in Piazza San Pietro in Vaticano, iniziando un percorso biblico sulla preghiera e dedicando il primo intervento ad Abramo.
 
* * *
Cari fratelli e sorelle,
nelle due scorse catechesi abbiamo riflettuto sulla preghiera come fenomeno universale, che – pur in forme diverse – è presente nelle culture di tutti i tempi. Oggi, invece, vorrei iniziare un percorso biblico su questo tema, che ci guiderà ad approfondire il dialogo di alleanza tra Dio e l’uomo che anima la storia della salvezza, fino al culmine, alla parola definitiva che è Gesù Cristo. Questo cammino ci porterà a soffermarci su alcuni importanti testi e figure paradigmatiche dell’Antico e del Nuovo Testamento. Sarà Abramo, il grande Patriarca, padre di tutti i credenti (cfr Rm 4,11-12.16-17), ad offrirci un primo esempio di preghiera, nell’episodio dell’intercessione per le città di Sodoma e Gomorra. E vorrei anche invitarvi ad approfittare del percorso che faremo nelle prossime catechesi per imparare a conoscere di più la Bibbia, che spero abbiate nelle vostre case, e, durante la settimana, soffermarsi a leggerla e meditarla nella preghiera, per conoscere la meravigliosa storia del rapporto tra Dio e l’uomo, tra Dio che si comunica a noi e l’uomo che risponde, che prega.
Il primo testo su cui vogliamo riflettere si trova nel capitolo 18 del Libro della Genesi; si narra che la malvagità degli abitanti di Sodoma e Gomorra era giunta al culmine, tanto da rendere necessario un intervento di Dio per compiere un atto di giustizia e per fermare il male distruggendo quelle città. È qui che si inserisce Abramo con la sua preghiera di intercessione. Dio decide di rivelargli ciò che sta per accadere e gli fa conoscere la gravità del male e le sue terribili conseguenze, perché Abramo è il suo eletto, scelto per diventare un grande popolo e far giungere la benedizione divina a tutto il mondo. La sua è una missione di salvezza, che deve rispondere al peccato che ha invaso la realtà dell’uomo; attraverso di lui il Signore vuole riportare l’umanità alla fede, all’obbedienza, alla giustizia. E ora, questo amico di Dio si apre alla realtà e al bisogno del mondo, prega per coloro che stanno per essere puniti e chiede che siano salvati.
Abramo imposta subito il problema in tutta la sua gravità, e dice al Signore: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?» (vv. 23-25). Con queste parole, con grande coraggio, Abramo mette davanti a Dio la necessità di evitare una giustizia sommaria: se la città è colpevole, è giusto condannare il suo reato e infliggere la pena, ma – afferma il grande Patriarca – sarebbe ingiusto punire in modo indiscriminato tutti gli abitanti. Se nella città ci sono degli innocenti, questi non possono essere trattati come i colpevoli. Dio, che è un giudice giusto, non può agire così, dice Abramo giustamente a Dio.
Se leggiamo, però, più attentamente il testo, ci rendiamo conto che la richiesta di Abramo è ancora più seria e più profonda, perché non si limita a domandare la salvezza per gli innocenti. Abramo chiede il perdono per tutta la città e lo fa appellandosi alla giustizia di Dio; dice, infatti, al Signore: «E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?» (v. 24b). Così facendo, mette in gioco una nuova idea di giustizia: non quella che si limita a punire i colpevoli, come fanno gli uomini, ma una giustizia diversa, divina, che cerca il bene e lo crea attraverso il perdono che trasforma il peccatore, lo converte e lo salva. Con la sua preghiera, dunque, Abramo non invoca una giustizia meramente retributiva, ma un intervento di salvezza che, tenendo conto degli innocenti, liberi dalla colpa anche gli empi, perdonandoli. Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia « superiore », offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio e confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch’essi giusti, senza più necessità di essere puniti.
È questa la richiesta di giustizia che Abramo esprime nella sua intercessione, una richiesta che si basa sulla certezza che il Signore è misericordioso. Abramo non chiede a Dio una cosa contraria alla sua essenza, bussa alla porta del cuore di Dio conoscendone la vera volontà. Certo Sodoma è una grande città, cinquanta giusti sembrano poca cosa, ma la giustizia di Dio e il suo perdono non sono forse la manifestazione della forza del bene, anche se sembra più piccolo e più debole del male? La distruzione di Sodoma doveva fermare il male presente nella città, ma Abramo sa che Dio ha altri modi e altri mezzi per mettere argini alla diffusione del male. È il perdono che interrompe la spirale del peccato, e Abramo, nel suo dialogo con Dio, si appella esattamente a questo. E quando il Signore accetta di perdonare la città se vi troverà i cinquanta giusti, la sua preghiera di intercessione comincia a scendere verso gli abissi della misericordia divina. Abramo – come ricordiamo – fa diminuire progressivamente il numero degli innocenti necessari per la salvezza: se non saranno cinquanta, potrebbero bastare quarantacinque, e poi sempre più giù fino a dieci, continuando con la sua supplica, che si fa quasi ardita nell’insistenza: «forse là se ne troveranno quaranta … trenta … venti … dieci» (cfr vv. 29.30.31.32). E più piccolo diventa il numero, più grande si svela e si manifesta la misericordia di Dio, che ascolta con pazienza la preghiera, l’accoglie e ripete ad ogni supplica: «perdonerò, … non distruggerò, … non farò» (cfr vv. 26.28.29.30.31.32).
Così, per l’intercessione di Abramo, Sodoma potrà essere salva, se in essa si troveranno anche solamente dieci innocenti. È questa la potenza della preghiera. Perché attraverso l’intercessione, la preghiera a Dio per la salvezza degli altri, si manifesta e si esprime il desiderio di salvezza che Dio nutre sempre verso l’uomo peccatore. Il male, infatti, non può essere accettato, deve essere segnalato e distrutto attraverso la punizione: la distruzione di Sodoma aveva appunto questa funzione. Ma il Signore non vuole la morte del malvagio, ma che si converta e viva (cfr Ez 18,23; 33,11); il suo desiderio è sempre quello di perdonare, salvare, dare vita, trasformare il male in bene. Ebbene, è proprio questo desiderio divino che, nella preghiera, diventa desiderio dell’uomo e si esprime attraverso le parole dell’intercessione. Con la sua supplica, Abramo sta prestando la propria voce, ma anche il proprio cuore, alla volontà divina: il desiderio di Dio è misericordia, amore e volontà di salvezza, e questo desiderio di Dio ha trovato in Abramo e nella sua preghiera la possibilità di manifestarsi in modo concreto all’interno della storia degli uomini, per essere presente dove c’è bisogno di grazia. Con la voce della sua preghiera, Abramo sta dando voce al desiderio di Dio, che non è quello di distruggere, ma di salvare Sodoma, di dare vita al peccatore convertito.
E’ questo che il Signore vuole, e il suo dialogo con Abramo è una prolungata e inequivocabile manifestazione del suo amore misericordioso. La necessità di trovare uomini giusti all’interno della città diventa sempre meno esigente e alla fine ne basteranno dieci per salvare la totalità della popolazione. Per quale motivo Abramo si fermi a dieci, non è detto nel testo. Forse è un numero che indica un nucleo comunitario minimo (ancora oggi, dieci persone sono il quorum necessario per la preghiera pubblica ebraica). Comunque, si tratta di un numero esiguo, una piccola particella di bene da cui partire per salvare un grande male. Ma neppure dieci giusti si trovavano in Sodoma e Gomorra, e le città vennero distrutte. Una distruzione paradossalmente testimoniata come necessaria proprio dalla preghiera d’intercessione di Abramo. Perché proprio quella preghiera ha rivelato la volontà salvifica di Dio: il Signore era disposto a perdonare, desiderava farlo, ma le città erano chiuse in un male totalizzante e paralizzante, senza neppure pochi innocenti da cui partire per trasformare il male in bene. Perché è proprio questo il cammino della salvezza che anche Abramo chiedeva: essere salvati non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita. Non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo. Dirà il profeta Geremia al popolo ribelle: «La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio» (Ger 2,19). È da questa tristezza e amarezza che il Signore vuole salvare l’uomo liberandolo dal peccato. Ma serve dunque una trasformazione dall’interno, un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l’odio in amore, la vendetta in perdono. Per questo i giusti devono essere dentro la città, e Abramo continuamente ripete: «forse là se ne troveranno …». «Là»: è dentro la realtà malata che deve esserci quel germe di bene che può risanare e ridare la vita. E’ una parola rivolta anche a noi: che nelle nostre città si trovi il germe di bene; che facciamo di tutto perché siano non solo dieci i giusti, per far realmente vivere e sopravvivere le nostre città e per salvarci da questa amarezza interiore che è l’assenza di Dio. E nella realtà malata di Sodoma e Gomorra quel germe di bene non si trovava.
Ma la misericordia di Dio nella storia del suo popolo si allarga ulteriormente. Se per salvare Sodoma servivano dieci giusti, il profeta Geremia dirà, a nome dell’Onnipotente, che basta un solo giusto per salvare Gerusalemme: «Percorrete le vie di Gerusalemme, osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se c’è un uomo che pratichi il diritto, e cerchi la fedeltà, e io la perdonerò» (5,1). Il numero è sceso ancora, la bontà di Dio si mostra ancora più grande. Eppure questo ancora non basta, la sovrabbondante misericordia di Dio non trova la risposta di bene che cerca, e Gerusalemme cade sotto l’assedio del nemico. Bisognerà che Dio stesso diventi quel giusto. E questo è il mistero dell’Incarnazione: per garantire un giusto Egli stesso si fa uomo. Il giusto ci sarà sempre perché è Lui: bisogna però che Dio stesso diventi quel giusto. L’infinito e sorprendente amore divino sarà pienamente manifestato quando il Figlio di Dio si farà uomo, il Giusto definitivo, il perfetto Innocente, che porterà la salvezza al mondo intero morendo sulla croce, perdonando e intercedendo per coloro che «non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Allora la preghiera di ogni uomo troverà la sua risposta, allora ogni nostra intercessione sarà pienamente esaudita.
Cari fratelli e sorelle, la supplica di Abramo, nostro padre nella fede, ci insegni ad aprire sempre di più il cuore alla misericordia sovrabbondante di Dio, perché nella preghiera quotidiana sappiamo desiderare la salvezza dell’umanità e chiederla con perseveranza e con fiducia al Signore che è grande nell’amore. Grazie.

buona notte

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Polygala calcarea

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Publié dans:immagini sacre |on 18 mai, 2011 |Pas de commentaires »

Il Santo Rosario

Il Santo Rosario dans immagini sacre Misteri-Gaudiosi

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Publié dans:immagini sacre |on 17 mai, 2011 |Pas de commentaires »

I GRADI DELLA PREGHIERA NELLA SPIRITUALITA’ ORTODOSSA (I parte, la seconda sotto)

dal sito

http://www.esicasmo.it/ESICASM/Matta/gradi_preghiera.htm

MATTA EL MESKIN
I GRADI DELLA PREGHIERA NELLA SPIRITUALITA’ ORTODOSSA
 
“Se gli uomini sapessero quanto splendore ed elevazione sono rac­chiusi negli altri gradi della preghiera e come essi attirano grazia e benedizioni non esiterebbero un istante a cominciare a praticarli”.
 
“Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai!
Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori” (S. Agostino).
 
« La grandezza della contemplazione non può essere concessa se non a quelli che amano ».
“La preghiera pura è semplice presenza silenziosa e calma davanti a Dio”
È evidente, dunque, come la contemplazione, nella sua forma pura e perfetta, non si fonda sull’attività cerebrale bensì, al con­trario, sulla rinuncia a essa, accompagnata da calma e da silenzio interiore. E anche di estrema semplicità e di grande facilità.
“Di tutto ciò che l’uomo sperimenta nel corso della sua vita spiritua­le non c’è niente di più tranquillizzante e di più rallegrante della contemplazione, tanto che alcuni padri ne hanno parlato come del regno”
In pace nella sua contemplazione, i minuti e a volte le ore possono trascorrere senza che egli se ne renda conto” 
Indice
CAP. I:  La preghiera
1. La meditazione
2. La contemplazione
CAP. II: Al di là della preghiera
3. L’estasi
4. La visione di Dio
5. L’unione a Dio 
Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa;
ma allora vedremo a faccia a faccia.
Ora conosco in modo imperfetto,
ma allora conoscerò perfettamente,
come anch’io sono conosciuto. (1Cor 13,12)
E noi tutti, a viso scoperto,
riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore,
veniamo trasformati in quella medesima immagine,
di gloria in gloria,
secondo l’azione dello Spirito del Signore. (2Cor 3,18)
E a ogni grado che li elevava verso la gloria
pensavano di aver raggiunto la fine;
e se si elevano ancora e si rischiarano a una luce più grande
dimenticano il livello precedente e pensano, una volta di più,
di essere giunti alla fine del cammino!
Ciò accade perché non sono loro,
ma l’azione dello Spirito santo in essi
che li eleva verso la gloria.
(Giovanni di Dalyatha: Omelia sulla grandezza degli esseri spirituali)
 
CAP. I: La preghiera
La maggior parte tra noi conosce della preghiera soltanto la sua forma più semplice, quella che consiste nel recitare davanti a Dio qualche parola, sia essa improvvisata in base alle circostanze o composta dai santi, oppure costituita da brani scelti dalla Bibbia, dai salmi, dagli evangeli. In realtà, tutto ciò non è altro che un preliminare alla preghiera in Spirito e verità. E’ certo che se gli uomini sapessero quanto splendore ed elevazione sono rac­chiusi negli altri gradi della preghiera e come essi attirano grazia e benedizioni non esiterebbero un istante a cominciare a praticarli.
Sebbene nella preghiera non sia facile distinguere tappe ben separate – a causa della loro unità e degli stretti legami che le uniscono -, possiamo comunque fornire alcune indicazioni sui diversi generi di preghiera. 
La preghiera vocale
Nella preghiera vocale, come abbiamo già detto, recitiamo pa­role e frasi che possono essere improvvisate o selezionate dalla Bibbia o dalle opere dei santi; questo genere di preghiera si ritie­ne sia la base di altre, oppure una sorta di preliminare all’entrata in dialogo con Dio… Ma è necessario che sia accompagnata da uno sforzo mentale che permetta di seguire il senso delle parole recitate e da una motivazione interiore concernente tale senso, affinché le parole non siano declamate come se provenissero da qualcun altro, ma che siano assimilate e restituite come prove­nienti da noi stessi e rivolte direttamente a Dio…
Dobbiamo tuttavia notare che la preghiera, sia essa recitazio­ne personale o all’interno di una chiesa, salmodia individuale o in coro, può sfociare d’improvviso in uno stato contemplativo di rapimento dello spirito e di coscienza della presenza di Dio; per­ché lo stato di preghiera in quanto tale, nella propria stanza o in chiesa, è, in realtà, apparizione davanti a Dio ed entrata effetti­va nello spazio delle potenze spirituali che non cessano di lodare Dio e di servirlo.
Se l’uomo si dispone alla preghiera vocale con cuore contrito, umile nell’adorazione e con il sentimento vivo di celebrare davanti alla santa Trinità, fin dal momento in cui apre la bocca egli è idoneo a entrare nella conoscenza e nella contemplazione dei divini misteri; allora la sua preghiera e la sua lode sono impre­gnate di calore e di purezza in un’indicibile felicità.
Ma ciò non significa che ogni preghiera vocale debba trasfor­marsi in preghiera contemplativa; la preghiera vocale, in quanto tale, costituisce un grado particolare che ha la propria importan­za come servizio divino e che possiede la propria efficacia nella vita spirituale dell’uomo; non è meno importante della preghie­ra contemplativa.
La preghiera mentale
La preghiera mentale, detta a volte preghiera interiore per­ché viene dal profondo del cuore, è una preghiera nella quale l’intelletto si associa al cuore unendo pensiero e sentimento. Seppure di tanto in tanto la si esteriorizza con alcune parole, per la maggior parte del tempo essa è offerta nella calma e nel silenzio.
La prima tappa della preghiera mentale è la meditazione; pos­siamo definirla come un intrattenimento con Dio nel corso del quale l’uomo fa memoria delle opere di Dio verso le sue creature e constata davanti a lui lo stato della propria anima; egli si pente, in questa circostanza, delle sue mancanze e dei suoi peccati, pre­senta lode e rendimento di grazie per testimoniare la propria gratitudine e decide di orientare la propria condotta in base alla volontà di Dio.
Questa tappa è quella della « preghiera eterogenea », che co­pre soggetti numerosi e diversi a volte senza alcun legame tra loro. I salmi ne costituiscono l’esempio più sostanzioso. Brani scelti della meditazione di David con Dio trattano tanto della creazione materiale, quanto della creazione dotata di ragione, una volta della legge, un’altra volta dell’anima e talvolta questa differenza è riscontrabile nel medesimo salmo; è sempre co­munque all’interno di un dialogo vivo e commovente dell’anima con Dio.
La seconda tappa della preghiera mentale è la contempla­zione; qui la preghiera entra in uno stato di concentrazione non soltanto in rapporto al soggetto meditato (consistente per esempio, nel concentrare la preghiera su uno dei comandamen­ti o su una delle opere di Cristo evangeliche o redentrici), ma anche in rapporto all’uomo stesso: sotto la potente influenza dell’amore egli si trova in uno stato di veglia cerebrale perfetta, i sensi controllati, la volontà centrata sulla preghiera e il cuore spiritualmente pronto ad accettare qualsiasi orientamento dello Spirito santo.
Ancora, la preghiera contemplativa è necessariamente divisa in due gradi legati tra loro. 
Primo grado: la contemplazione volontaria
Il suo successo dipende dall’amore che l’uomo, nel proprio cuore, nutre per Cristo e dalla sua disponibilità a concentrarsi su un determinato soggetto per contemplarlo nel profondo del pro­prio cuore e del proprio pensiero, pur restando pronto a ricevere ogni orientamento spirituale.
Questo grado non esiste senza l’aiuto intimo della grazia che accompagna la volontà dell’uomo e gli offre la possibilità di per­severare, di proseguire e di approfondire la sua preghiera, facen­dogli strada con la sua luce e permettendogli così di ottenerne un grande tesoro spirituale. 
Secondo grado: la contemplazione in spirito
È apertura d’amore del cuore di Dio all’uomo in risposta all’amore dell’uomo in preghiera davanti a lui. Qui la preghiera è penetrata da un elemento divino che la fa uscire dall’ambito delle possibilità umane e volontarie; è il motivo per cui, a questo li­vello, è difficile parlare di preghiera, sarebbe meglio parlare di “grazia della preghiera”.
All’inizio, questo grado può sembrare particolarmente elevato da raggiungere, ma fin dal momento in cui l’uomo riceve la gra­zia di accedervi, vi si abitua, se così si può dire; e tale stato gli diventa facile, naturale e accessibile a motivo della semplicità dello Spirito santo e della sua stupefacente disponibilità a ri­spondere a ogni richiesta che un cuore amante gli presenta. Per­ché si mantenga a questo livello, all’uomo viene chiesto soltanto di restare costantemente in accordo con il volere dello Spirito santo nell’amore, nella semplicità e nella purezza del cuore, nel distacco dalle preoccupazioni e dai pensieri terreni e nella capacità di osservare i comandamenti e l’insegnamento spirituale. E’ necessario però che comprenda che non esistono predisposizioni che possano conferirgli il diritto a raggiungere questo grado di contemplazione nella grazia e l’apertura del cuore di Dio, per­ché ciò è puro dono.
Sta all’uomo domandare con lacrime e suppliche, senza crede­re di esserne degno, come dice Giovanni di Dalyatha: « Padre buono, donami il tuo amore, anche se non ne sono degno! » anche se vi accede ogni giorno, anche se è ritenuto degno di tut­te le altre virtù: purezza, ascesi, umiltà e preghiera continua; il dono della contemplazione in spirito e dell’apertura del cuore di Dio all’amma umana è al di sopra di tutte le virtù.
Ciò non significa che il grado della contemplazione in spirito sia un miracolo; è però una grazia: prova ne è il fatto che essa è accompagnata generalmente dal dono del discernimento e da quello della sapienza; il grado della contemplazione spirituale è infatti la perfezione della preghiera, la perfezione di tutte le gra­zie e di tutti i doni.
A coloro che sono ritenuti degni di perseverare in questa via saranno affidati anche altri doni e carismi che si trovano al di là dei confini della preghiera, come l’estasi o il rapimento nella contemplazione di Dio in uno stato spirituale prossimo alla per­dita di coscienza che permette di intravedere indicibili verità di­vine. A tali doni dedicheremo un capitolo a parte.
Se volessimo illustrarli potremmo rappresentare i tre diversi generi della preghiera con tre atteggiamenti concreti: la preghie­ra vocale sarebbe rappresentata da colui che con timore sta da­vanti a Dio, la meditazione da colui che con lena si dirige verso Dio e la contemplazione da colui che con amore dimora nel seno di Dio.
Semplificando ancora potremmo scoprire gli stessi tre generi nelle parole di Cristo: « Chiedete e vi sarà dato » è la preghiera vocale; « Cercate e troverete » è la meditazione; « Bussate e vi sa­rà aperto » è la contemplazione o il punto d’arrivo.
Avendo trattato altrove della preghiera vocale sotto le sue molteplici forme, ci soffermiamo in questo capitolo sulla preghiera mentale, i suoi livelli e i suoi esercizi. 
1. La meditazione
Ti siano gradite le parole della mia bocca,
il meditare del mio cuore
davanti al tuo volto, Signore
mia roccia e mio redentore!
Beato l’uomo
che… si compiace nella legge del Signore
e medita la sua legge giorno e notte.
Parlerò dei tuoi consigli…
Io trovo la mia gioia nei tuoi comandi
Sì, li amo molto
tendo le mani ai tuoi comandi che amo
e medito sulle tue volontà.  (Sal 119 46-48)
Il cuore mi bruciava nel petto
al ripensarci si infiammava ancor di più.  (Sal 39,4)
Medi/a (meléta) queste cose,
dedicati a esse interamente
perché tutti vedano il tuo progresso.  (1Tm 4,15)
Il termine « meditazione », in greco meléte, è un termine con­venzionale tradizionale strettamente legato a una lettura appro­fondita delle Scritture che tocca il cuore e che lascia un segno indelebile nella memoria, nel sentimento e nel linguaggio.
Secondo la tradizione patristica, la meditazione è la chiave di tutte le grazie; a colui che la pratica con fervore conferisce pen­siero, linguaggio e sentimenti evangelici; comprende le realtà al­la maniera di Dio e può progredire in tutti i doni e i carismi. Se apre la bocca, le parole della Scrittura ne escono senza artifici, né affettazione e, insieme a esse, i pensieri divini fluiscono co­me onde di luce che attraverso la conoscenza divina rischiarano lo spirito di colui che ascolta toccandone il cuore e infiamman­done i sentimenti.
Il termine « meditazione », in ebraico haghig e in greco meléte, dal verbo meletào, veicola un senso di studio, di approfondi­mento della comprensione attraverso l’esercizio del pensiero e del cuore. Così la meditazione della sapienza, meléte sophìas, si­gnifica studio della sapienza con applicazione, approfondimento ed esercizio pratico.
Secondo la tradizione patristica, questo termine tendeva all’assidua applicazione del cuore e dell’intelletto alla Parola di Dio, affinché, grazie alla Parola, i monaci fossero trasformati. I padri, infatti, ritenevano che fosse opportuno dedicarsi alla me­ditazione solo attraverso la lettura della Parola di Dio; perché la meditazione del cuore ha il potere di modellare la coscienza e il pensiero dell’uomo, il quale non deve lasciarsi modellare se non dalla benedetta Parola di Dio, secondo la sua volontà e il suo pensiero.
E’ per questo motivo che il termine « meditazione » si riferisce in modo particolare alla lettura della Bibbia e ll suo uso si limita allo studio della Parola di Dio unito alla concentrazione interio­re per esserne impregnati e reagirvi spiritualmente. 
Lettura nella calma
Sempre secondo la tradizione patristica, il primo dei gradi della meditazione è la lettura nella calma, con lentezza e a voce alta, « gustando » le parole; segue poi la ripetizione reiterata della stessa lettura. Presso i padri questo genere di lettura veniva sem­pre fatto a voce alta ed era detto « recitazione ripetitiva ». Di fat­to, la meditazione attraverso la ripetizione della Parola di Dio, a voce alta, con il cuore desto e come « gustandola » è in grado di radicare questa Parola nelle profondità dell’uomo che potrà ripeterla in seguito come se la « ruminasse », fino a che essa di­venti sua parola; al tempo stesso egli sarà diventato il depositario fedele della Parola di Dio e il suo cuore il tempio del tesoro divino: « … che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche » (Mt 13,52). E’ proprio di questo che si tratta quando è detto di « custodire la Parola » (cf. Gv 8,51-52; 14,23; 17,6). L’evangelo o la Parola sono ormai custodite in un luogo sicuro all’interno del cuore come un tesoro di grande valore; il profeta David dice: « Custodisco la tua promessa nel mio cuore » (Sal 119,11). E’ co­me se l’uomo aderisse alla Parola e la cingesse, come un forziere, per metterla al riparo dai ladri.
È per questa ragione che, nella tradizione patristica, le pre­ghiere improvvisate avevano un puro sapore evangelico, perché provenivano da un cuore traboccante della Parola di Dio. Simili preghiere improvvisate, o – per usare l’espressione di Isacco il Siro -, “che l’uomo compone da sé”, erano recitazioni ripetitive della Parola di Dio studiata a memoria che si completavano ar­monicamente fra loro; testimoniavano il grado al quale l’anima era stata toccata e modellata dalla Parola e dalla volontà di Dio.
Di conseguenza, la meditazione è stata strettamente legata al­la preghiera come il primo dei suoi gradi, quello che permette all’uomo di viverne e di crescere davanti a Dio in piena fiducia e sicurezza; perché è una preghiera presa al cuore dell’evangelo e capace quindi di provocare una profonda trasformazione, un grande rinnovamento nella sensibilità, nel pensiero e nel lin­guaggio dell’uomo. Per questo motivo nella tradizione cristiana autentica non è possibile attribuire alcun valore alla preghiera improvvisata, se colui che prega non è ripieno della Parola di Dio, esercitato nella vera meditazione: la sua parola rischierebbe di essere non evangelica e i suoi pensieri potrebbero non tradur­re la volontà e il pensiero di Dio. 
Ripetizione silenziosa della Parola
La meditazione non è unicamente lettura vocale in profondità; comprende anche la ripetizione silenziosa della Parola eseguita molte volte, con un approfondimento sempre crescente, fi­no a che il cuore viene infiammato dal fuoco divino. Ciò è ben illustrato dalle parole di David: « Il mio cuore mi bruciava nel petto, al ripensarci s’infiammava ancor di più » (Sal 39,4).
Appare qui il filo sottile e segreto che lega la pratica e lo sfor­zo alla grazia e al fuoco divino.
Il solo fatto di meditare più volte la Parola di Dio, lentamente e nella calma, conduce, mediante la misericordia di Dio e la sua grazia, all’incendio del cuore! Così la meditazione diventa il pri­mo legame normale tra lo sforzo sincero della preghiera e i doni di Dio e la sua grazia ineffabile. Questa è la ragione per cui la meditazione è stata considerata come il primo e il più importan­te grado della preghiera del cuore, a partire dal quale l’uomo può elevarsi al fervore dello spirito e viverne tutta la vita.
Rammentiamo che in ebraico il termine “meditare” e reso con hagah, che ha il significato originario di “balbettare” – cioè il primo apprendimento della pronuncia e della comprensione -; esprime poi il tentativo di uno sforzo sostenuto per comprende­re e imparare ciò che deriva dalla volontà di Dio e dai misteri nascosti della sua Parola e dei suoi comandamenti; per questo, nel suo primo salmo, sentiamo David dire: « Beato l’uomo … che si compiace nella legge del Signore e medita (jehgheh) la sua legge giorno e notte »; diventerà di certo un uomo secondo la volontà di Dio, come lo era divenuto David stesso!
Il risultato di questa meditazione, di questa pia ripetizione della legge del Signore, è annunciato da David: l’uomo riesce ormai in tutto ciò che intraprende (Sal 1,3), come se la medita­zione fosse il grado dei perfetti. Dall’origine del termine ebraico hagah (apprendimento elementare della pronuncia e della com­prensione della Legge) risulta tuttavia che la meditazione è an­che il grado adeguato ai debuttanti desiderosi di stabilire con Dio una relazione intima e sincera.
La meditazione in quanto tale può essere quindi sia inizio che fine, perché la stessa Parola di Dio è inizio e fine: per mezzo suo l’uomo entra nella verità e, in essa, giunge alla verità intera.
Per questa ragione, la meditazione era per i padri una pratica di grande profitto. L’hanno vissuta e praticata fino all’ultimo giorno della loro vita. Così Palladio, l’autore della Historia Lau­siaca, dice che Marco il Monaco conosceva a memoria l’Antico e il Nuovo Testamento (18,25), che Heron recitava a memoria, da­vanti a lui, i Salmi, la Lettera di Paolo agli Ebrei, il libro di Isaia per intero e una parte del libro di Geremia, dell’evangelo di Lu­ca e del libro dei Proverbi (26,3). Analogamente Rufino, nel corso dei suoi viaggi ha visto e testimoniato esempi simili.
Non bisogna dedurne che presso i padri la meditazione consi­stesse soltanto nell’apprendere « a memoria », piuttosto che que­sta ne era una conseguenza ineluttabile, giacché la « dilettazio­ne » costante delle sante Scritture nella recitazione ripresa quoti­dianamente, non può che imprimerle nella memoria e lasciarle correre sulle labbra con spigliatezza.
Constatiamo che la perseveranza del cuore nella meditazione delle Scritture si traduce sempre in un’infusione nel cuore di vi­ta vera; perché la Parola di Dio, come il Signore l’ha definita, è Spirito e Vita. La perseveranza nella meditazione della Parola manifesta necessariamente un legame segreto con il Signore e, di conseguenza, un flusso di vita vera che irriga il cuore.
Il cuore che invece si distoglie dalla meditazione della Parola manifesta di essere preda della stagnazione e dell’aridità. Il pro­feta David ci mostra la differenza tra il cuore che medita la legge di Dio e quello che se ne è allontanato: « Il loro cuore è ottuso come lardo, ma io medito la tua legge » (Sal 119,70). Intende di­re che la meditazione della legge di Dio mantiene il cuore vivo, lo riscalda al fuoco che scaturisce dalla Parola diVina; perché la meditazione implica in modo fondamentale l’approfondimento costante dello spirito delle Scritture e la ricerca delle verità na­scoste dietro il comandamento, il che ha per risultato di rinnova­re ogni volta il pensiero dell’uomo, di affinare la sua sensibilità rendendola più evangelica e di conferirgli un comportamento docile e pronto, aperto positivamente a ogni eventualità. 

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I GRADI DELLA PREGHIERA NELLA SPIRITUALITA’ ORTODOSSA (II parte)

Verso la contemplazione
Constatiamo così che, nei suoi stadi avanzati, la meditazione si stacca a poco a poco dalla lettura per dedicarsi alla considera­zione delle verità divine e di tutto ciò che i comandamenti e l’e­conomia divina comportano. La meditazione comincia allora a sfociare nei primi gradi della contemplazione, passando dall’ap­profondimento della Parola all’approfondimento della verità che la Parola cela.
La perseveranza nella meditazione della Parola viva di Dio riempie il cuore e lo spirito di sante considerazioni, le quali, a loro volta, messe a profitto attraverso la contemplazione, diver­ranno le ali leggere che permetteranno di volare nel cielo dello spirito senza la mediazione della lettura.
Senza la meditazione costante della Parola divina, dei coman­damenti del Signore e delle sue promesse è tuttavia impossibile che nascano in noi i pensieri e le sante considerazioni che riem­piono il cuore e lo spirito fino a farli traboccare.
Oltre alla felicità che questo già di per sé comporta, l’immen­so tesoro dei pensieri e delle considerazioni che otteniamo grazie alla meditazione costante dei libri santi, procura all’uomo anche la ricchezza dello Spirito. Oltre all’eliminazione di tutti i pensieri malvagi, costituisce per l’uomo un’offerta capace di soddisfare e sempre gradita a Dio: « Ti siano gradite le parole della mia bocca, il meditare del mio cuore davanti al tuo volto, Signore, mia roccia e mio redentore » (Sal 19,15).
Si racconta di un monaco che, dopo una lunga notte trascor­sa nella meditazione delle virtù di uno dei suoi fratelli monaci, avviandosi tristemente verso i suoi avi, dice all’anziano: « Padre, ho perso inutilmente la notte a elencare le virtù di mio fratello Untel, ne ho contate trenta e mi sono molto rattristato riscon­trando che io non ne possiedo nessuna ». L’anziano gli risponde: « La tua tristezza per esserti trovato sprovvisto di ogni virtù e la tua meditazione delle virtù di un altro valgono più di trenta vir­tù ». Questo esempio illustra come i comandamenti del Signore s’imprimano nell’intelletto e nella coscienza per esortare l’uomo a cercare nello spirito dove si trovano le virtù o dove non si tro­vano. Ciò mostra infatti come la meditazione della Parola di Dio generi la meditazione delle virtù e lo sforzo per acquisirle; inol­tre essa spinge l’anima, vigorosamente e costantemente, a esa­minarsi e a misurarsi in base all’evangelo, senza trovare riposo se non nella verità che essa medita, né felicità se non nell’appli­cazione del precetto divino. La meditazione è il pedagogo che conduce l’uomo per mano per elevarlo al di sopra di se stesso, la lampada che ne illumina il discernimento e, a grandi falcate, guida i suoi passi verso l’eternità. 
La meditazione dei misteri
Il grado più alto della meditazione è però senza dubbio la meditazione dell’”economia” dell’incarnazione divina, della redenzione compiuta sulla croce e della resurrezione che ci ha do­nato la potenza di vita. È la meditazione del mistero del disegno di Dio che l’evangelo descrive con parole semplici e chiare, le quali, se l’uomo vi si sofferma a sufficienza, svelano al suo cuore il loro senso misterioso e vi riversano una forza ardente capace di offrirgli una nuova vita: « Conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte » (Fil 3,10); « Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cri­sto che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio » (Ef 3,17-19).
La meditazione si lega qui alle parole stesse, alle stesse espres­sioni; si concentra sul senso manifesto del testo ispirato, distin­guendosi così dalla contemplazione di quegli stessi misteri, giac­ché procede liberamente senza limitarsi alla letteralità del testo, ma affidandosi all’insieme delle percezioni personali e all’allar­gamento degli orizzonti del discernimento e della conoscenza.
Così, la meditazione dei misteri del disegno divino, esatta­mente come vengono presentati nella Scrittura, è la base imperativa della vera contemplazione, quella che permette di accede­re alla forza e alla luce di quegli stessi misteri. E’ la meditazione costante, felice e riuscita che permette alla contemplazione di progredire e di svilupparsi.
La meditazione, questo lavoro spirituale avvincente e attraen­te, parte integrante dell’orazione, è un dovere che s’impone a tutti senza esclusioni; perché l’uomo non può nutrirsi della pa­rola della Scrittura se non la ripete nel proprio cuore e nella pro­pria mente: proprio questa è la meditazione. Così pure è diffici­le entrare in una preghiera a Dio che sia ardente e vera senza ri­petere davanti a lui le parole delle sue promesse, senza aggrap­parvisi e senza situarsi in rapporto a esse; anche questo dipende dalla meditazione.
La meditazione è quindi una preghiera che si fonda sulla ripe­tizione delle parole di Dio e delle sue promesse nel cuore e nella mente, finché non siano integrate nella fede e nella speranza dell’uomo e divengano un’autentica forza sulla quale egli possa fare affidamento nel momento del bisogno: « Custodisco la tua promessa nel mio cuore per non peccare contro di te » (Sal 119,11). 
Guidata dal fervore o in lotta contro l’inerzia
Quando l’uomo è fervente, infiammato dallo Spirito, la pre­ghiera di meditazione gli diventa facile, spontanea, senza biso­gno di sforzo di concentrazione o di sentimenti forzati; si parla, in questo caso, di preghiera semplice o spontanea; essa è intima, calorosa e amante fiducia dell’anima verso il suo creatore, è ciò che nutre interiormente: il desiderio di rendergli gloria per le sue opere, le sue qualità, la sua sapienza, o di rendergli grazie per la sua misericordia e la sua immensa e discreta sollecitudine. L’anima può allora infiammarsi nel corso della meditazione si­lenziosa, non sopportare più di tacere e cominciare a pregare con parole che, scorrendo senza freni, esprimono l’amore, l’adora­zione e la sottomissione, come un bambino che con deboli paro­le esprime i suoi immensi sentimenti. Il cuore è aperto davanti a Dio e sente tutto ciò che l’indicibile tocco della mano divina agita in lui.
Ma se l’uomo vuole entrare nella meditazione senza possede­re quest’ardore preliminare che immediatamente lo esorta alla preghiera del cuore, ha bisogno di un certo sforzo interiore e di una concentrazione mentale che permettano all’anima di vince­re la propria inerzia e all’intelletto di liberarsi delle preoccupa­zioni esteriori per entrare in una lettura spirituale cosciente che l’elevi al livello della preghiera. Egli è allora chiamato a scuotersi interiormente, la coscienza deve opporsi volontariamente a tut­te le preoccupazioni psicologiche e mentali che l’hanno portata a disseccarsi e a trascurare l’adorazione, la preghiera e il contatto con Dio.
Lo sforzo della coscienza verte sull’amore per vincere l’iner­zia e le preoccupazioni esteriori. L’uomo che, volontariamente e con tutto il cuore, avanza verso l’amore di Dio, anche se all’ini­zio è impacciato, si sente subito invaso dell’amore divino, perché l’azione divina sostiene sempre lo sforzo umano e alla fine vi si unisce.
La volontà deve quindi restare attiva e paziente, in attesa dell’arrivo della forza divina che l’invaderà di calore spirituale, affinché la persona possa infine lanciarsi verso le profondità e cominciare la propria preghiera e la propria meditazione con fa­cilità e nella gioia.
Questo cammino dello spirito nel corso della lettura spirituale fa passare l’uomo dall’aridità interiore e dalla preoccupazione mentale per le cose di questo mondo, alla concentrazione inte­riore, all’ardore spirituale e alla preghiera. In realtà, si ritiene che essa costituisca il cammino spirituale più importante e più delicato di tutta la vita di preghiera, la sola porta che apre sui se­greti della vita spirituale, il primo gradino della scala celeste che unisce l’anima al suo creatore.
In quegli istanti l’uomo può incontrare una certa resistenza dell’anima, al momento dispersa in affanni e preoccupazioni molteplici che non hanno alcun valore né senso; può dover an­che affrontare l’astuzia di una mente che passa da una rappresentazione all’altra, da un pensiero all’altro, distratta da soggetti del tutto insignificanti. Tocca allora alla volontà, armata di un sincero proposito interiore, mantenersi con tenacia saldamente afferrata all’amore, polarizzata sul volto di Cristo, nell’attesa e nella supplica, finché la grazia divina la ritrovi, la liberi e le ren­da amore per amore. 
La Scrittura, scuola di meditazione
È la Scrittura la fonte feconda, a partire dalla quale lo Spirito santo insegna ai suoi discepoli la meditazione; si tratta in realtà della grande scuola le cui lezioni non hanno mai fine, perché, quali che siano le ricchezze che possiamo trarne, in definitiva non ne avremo tratto che un’infima parte. La ricchezza delle Scritture è suddivisibile in tre livelli: il livello storico, che va dall’inizio della creazione alla fine dei tempi e concerne la crea­zione muta e quella dotata di ragione; il livello etico o legale, che comprende i comandamenti, i precetti e le leggi che Dio ha sta­bilito per gli uomini; il terzo livello che comprende i rapporti di Dio con coloro che egli ama, ciò che egli ha detto loro e ciò che essi hanno detto a lui. Questi tre livelli rispondono a tutti i biso­gni della nostra meditazione con Dio, non tanto come eventi del passato o realtà considerate in se stesse, quanto come proposte che mantengono tutta la loro attualità in noi e che costituiscono la nostra realtà interiore.
Il più bell’esempio di meditazione eterogenea e libera, inte­grante i tre livelli, è l’ammirabile raccolta di salmi inaugurata dal profeta David. Veramente, attraverso il lungo e toccante intratte­nersi del salmista con Dio, troviamo capolavori di meditazione.
Per quanto concerne la creazione non c’è creatura ch’egli non citi lodando il creatore per averla fatta. Egli parla con Dio della creazione del cielo e della terra e di ciò che è sotto la terra, delle montagne e le colline, dei mari e le sorgenti, delle valli, le cam­pagne e i prati, degli alberi, i boschi, le erbe e i frutti; canta il sole, la luna, gli astri e le stelle, le nubi e la nebbia, la neve e il gelo, il caldo e il freddo, la pioggia e la tempesta; parla dei rettili e dei pesci, degli uccelli del cielo e degli animali della terra; del­le bestie selvatiche e delle bestie dei campi e di tutto ciò che si muove sulla faccia della terra; parla dei popoli e delle nazioni, delle loro lingue e di tutte le creature della terra; e nella sua esal­tazione spirituale le interpella una dopo l’altra perché acclamino il creatore, invitandole a benedirlo e a cantarlo con lui.
Poi il salmista in diversi passi dei salmi, soprattutto nel cele­bre Salmo 119, giunge a intrattenere Dio sulle sue leggi e i suoi comandamenti: ne descrive la loro entità, la loro bellezza, la loro dolcezza; testimonia davanti al creatore che esse sono per lui più dolci del miele, danno luce ai suoi occhi, sono la gioia del suo cuore, la ricchezza della sua anima, la meditazione delle sue not­ti e dei suoi giorni, tanto da diventare la lampada che guida i suoi passi e illumina il suo cammino; assicura i giovani che esse sono luce e rettitudine per le loro vie, e i bambini che vi trove­ranno la sapienza; poi confida a Dio la grande tristezza che l’in­vade alla vista dei peccatori che trasgrediscono i suoi precetti, degli orgogliosi che ignorano la legge; se la prende con quelli che la violano e li maledice; infine rende grazie a Dio per averlo istruito nei suoi comandamenti meglio dei suoi nemici e per avergli dato di comprenderli meglio degli anziani.
Altrove il salmista si rivolge al suo creatore parlandogli del proprio stato: si considera verme della terra e non uomo, miserabile e senza più valore di qualsiasi altro; ricordando la propria giovinezza e i suoi traviamenti, chiede misericordia, vede gli at­tuali sbagli davanti ai propri occhi, la sua anima si affligge; egli grida, implorando clemenza, gli occhi infiammati per le lacrime, l’anima contrita per la tristezza, le ossa consumate per i rimorsi e i sospiri, tanto che con gli occhi stralunati, la pelle che ade­risce alle ossa, è come il gufo e l’uccello abbandonato solitario su un tetto (Sal 102,6)! Egli prega poi il suo creatore di non ca­stigarlo nella sua collera, perché è pronto a subire la correzione ma secondo l’amore e la misericordia di un padre clemente; lo supplica di non farlo morire « alla metà dei suoi giorni  (Sal 102,25), ma di lasciarlo vivere ancora, affinché possa offrirgli quanto gli spetta in lode, glorificazione e azione di grazie. Così David avrà assimilato integralmente l’insegnamento dello Spiri­to santo al punto da meritare la testimonianza del Signore: « Dio ha trovato un uomo [David] secondo il suo cuore » (1Sam 13,14) e ancora: « David ha parlato sotto l’ispirazione dello Spirito » (cf. Mt 22,43).
Così David ci ha offerto, nello Spirito, un modello permanen­te e sempre attuale di meditazione perfetta secondo il desiderio di Dio. Ogni salmo è in sé una notevole opera di meditazione che già basta per iniziarci a questa forma di preghiera e che, in­sieme al resto dei salmi, ci offre una stupefacente immagine dell’intimità vissuta da David nel suo intrattenersi con il Signore.
Il segreto dello straordinario avanzare di David risiede nella sua approfondita conoscenza della legge del Signore da lui medi­tata senza sosta.
Sappiamo bene che la meditazione è un’arte che necessita di tempo per raggiungere la perfezione, ma il cui progredire è facile e rapido, anche se non lo si percepisce chiaramente; è ciò che ac­cade per tutte le virtù spirituali. Così, man mano che avanzia­mo, sentiamo le nostre mancanze e le nostre impotenze, tanto che quando giungiamo a un grado elevato, pensiamo di non do­ver avanzare più di un solo passo, ma è l’effetto della grazia che maschera i progressi ai nostri occhi per impedirci di cadere nella vanità e nell’orgoglio. Ogni volta che questo sentimento di im­potenza c’invade, sarà indizio – come i padri ispirati dallo Spiri­to ci hanno insegnato – che abbiamo raggiunto una tappa im­portante e che davanti a noi si staglia un’altura che necessita di un grande slancio per essere meglio superata.
 
Vedi anche: ADOLFO TANQUEREY
I GRADI DELLA PREGHIERA NELLA MISTICA CATTOLICA
 
 Tratto da Matta El Meskin, L’ESPERIENZA DI DIO NELLA PREGHIERA – ed. Qiqajon  COMUNITA’ DI BOSE, a cui rimandiamo vivamente per un proficuo approfondimento

Publié dans:Ortodossia, preghiera (sulla) |on 17 mai, 2011 |Pas de commentaires »

avete fatto le preghiere questa sera?

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Publié dans:immagini sacre |on 16 mai, 2011 |Pas de commentaires »

Chi cercate? Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato!

Chi cercate? Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato! dans immagini sacre 58b7fd16c6cc7c3663bb14358be38c37

http://cuoresacro1.splinder.com/post/20303125/quem-queritis-chi-cercate

Publié dans:immagini sacre |on 16 mai, 2011 |Pas de commentaires »

« Discese agli inferi ». La sorpresa di Pasqua (di Sandro Magister)

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347627

« Discese agli inferi ». La sorpresa di Pasqua

Nel cuore della Settimana Santa, il fuori programma di Benedetto XVI in tv. Con due risposte insolite su Gesù risorto. I brani salienti delle sue omelie del triduo sacro

di Sandro Magister

ROMA, 24 aprile 2011 – Nel mezzo delle celebrazioni della Settimana Santa, quest’anno Benedetto XVI ha inserito un fuori programma. Proprio nel primo pomeriggio del Venerdì, nell’ora della morte di Gesù.
A quell’ora, sul primo canale della tv di stato italiana, all’interno di una trasmissione dal titolo « A sua immagine », con un milione e mezzo di ascoltatori, papa Joseph Ratzinger ha risposto a sette domande che gli sono state rivolte da persone di paesi diversi, su temi tutti cruciali.
Una bambina gli ha chiesto dal Giappone il perché del terremoto.
Una madre gli ha chiesto dall’Italia se l’anima ha già abbandonato il corpo di suo figlio da due anni in stato vegetativo.
Tre giovani di Baghdad hanno chiesto al papa che fare, con le aggressioni che colpiscono i cristiani.
Una musulmana gli ha chiesto dalla Costa d’Avorio come riportare la pace e l’armonia tra cristiani e islamici.
Le risposte del papa a queste prime quattro domande sono state le più rilanciate dai media.
Ma anche le tre sue successive risposte meritano attenzione. Le prime due – riprodotte integralmente più sotto – toccano temi che stanno particolarmente a cuore a Benedetto XVI, anche perché troppo trascurati dalla predicazione corrente, negli ultimi decenni.
Sono i temi delle realtà ultime della vita di ogni uomo – i cosiddetti « novissimi » – avvicinate e spiegate alla luce di Gesù morto e risorto.
A questi stessi temi Benedetto XVI ha dedicato un’ampia parte della « Spe salvi », la più originale delle sue encicliche, interamente scritta di suo pugno. Ma non solo. Vi è tornato sopra in ripetute occasioni. Ad esempio in un’udienza generale, quella di mercoledì 12 gennaio 2011, dedicata al purgatorio.
Questa volta, nelle sue risposte televisive di questo Venerdì Santo, il papa ha focalizzato l’attenzione su Gesù « disceso agli inferi » – che per le Chiese d’oriente è il modo di raffigurare la sua risurrezione, come mostra l’icona russa riprodotta in questa pagina – e sul suo corpo risorto e « glorioso ».
Nello stesso tempo, però, il papa ha evidenziato gli effetti che la risurrezione di Gesù ha sugli uomini. Sui loro destini ultimi come sul loro cammino terreno.
Su questa terra – spiega Benedetto XVI – è l’eucaristia che mette i cristiani in contatto vitale col corpo glorioso di Gesù. Lì il mondo nuovo della risurrezione è già cominciato.

*
Con quest’ultima intervista televisiva, Benedetto XVI ha ulteriormente ampliato i suoi stili comunicativi. Che comprendono pronunciamenti magisteriali, discorsi ufficiali, encicliche, esortazioni, lettere aperte, saggi di teologia, lezioni sui Padri della Chiesa, vite di santi, commenti alle Sacre Scritture…
E poi: un libro su Gesù in tre tomi e un altro libro in forma di intervista.
E ancora: incontri a domande e risposte con i preti, con i giovani, con i bambini, conferenze stampa, interviste, filmati, e ora anche questo primo botta e risposta televisivo.
Benedetto XVI è il papa della parola. È quindi naturale che il suo parlare e scrivere assuma queste forme molteplici. Comprese quelle che gli consentono di raggiungere i suoi ascoltatori e lettori in modo diretto, senza intermediazioni.
Se c’è però una parola che svetta sopra tutte, per lui, è quella delle omelie. Perché nella liturgia la parola si fa realtà e « il Verbo si fa carne ».
Non deve quindi stupire che Benedetto XVI dedichi alle omelie una cura senza pari.
Come si è potuto notare anche in quest’ultima Settimana Santa. Di cui
www.chiesa ha già anticipato alcuni spunti. E altri ne dà in questa stessa pagina, più sotto.

__________

DALL’INTERVISTA DI BENEDETTO XVI ALLA TV ITALIANA

Venerdì 22 aprile 2011

D. – Santità, che cosa fa Gesù nel lasso di tempo tra la morte e la risurrezione? E visto che nella recita del Credo si dice che Gesù, dopo la morte, « discese agli inferi », possiamo pensare che sarà una cosa che accadrà anche a noi, dopo la morte, prima di salire al Cielo?

R. – Innanzitutto, questa discesa dell’anima di Gesù non si deve immaginare come un viaggio geografico, locale, da un continente all’altro. È un viaggio dell’anima. Dobbiamo tener presente che l’anima di Gesù tocca sempre il Padre, è sempre in contatto con il Padre, ma nello stesso tempo quest’anima umana si estende fino agli ultimi confini dell’essere umano. In questo senso va in profondità, va ai perduti, va a tutti quanti non sono arrivati alla meta della loro vita, e trascende così i continenti del passato.
Questa parola della discesa del Signore agli inferi vuol soprattutto dire che anche il passato è raggiunto da Gesù, che l’efficacia della redenzione non comincia nell’anno zero o trenta, ma va anche al passato, abbraccia il passato, tutti gli uomini di tutti i tempi.
I Padri dicono, con un’immagine molto bella, che Gesù prende per mano Adamo ed Eva, cioè l’umanità, e la guida avanti, la guida in alto. E crea così l’accesso a Dio, perché l’uomo, di per sé, non può arrivare fino all’altezza di Dio. Lui stesso, essendo uomo, prendendo in mano l’uomo, apre l’accesso, apre cosa?, la realtà che noi chiamiamo « cielo ». Quindi questa discesa agli inferi, cioè nelle profondità dell’essere umano, nelle profondità del passato dell’umanità, è una parte essenziale della missione di Gesù, della sua missione di redentore, e non si applica a noi. La nostra vita è diversa, noi siamo già redenti dal Signore e noi arriviamo davanti al volto del Giudice, dopo la nostra morte, sotto lo sguardo di Gesù, e questo sguardo da una parte sarà purificante. Penso che tutti noi, in maggiore o minore misura, avremo bisogno di purificazione. Lo sguardo di Gesù ci purifica e poi ci rende capaci di vivere con Dio, di vivere con i santi, di vivere soprattutto in comunione con i nostri cari che ci hanno preceduto.
D. – Santità, quando le donne giungono al sepolcro, la domenica dopo la morte di Gesù, non riconoscono il Maestro, lo confondono con un altro. Succede anche agli apostoli: Gesù deve mostrare le ferite, spezzare il pane per essere riconosciuto, appunto, dai gesti. È un corpo vero, di carne, ma anche un corpo glorioso. Il fatto che il suo corpo risorto non abbia le stesse fattezze di quello di prima, che cosa vuol dire? Cosa significa, esattamente, corpo glorioso? E la risurrezione sarà per noi così?
R. – Naturalmente, non possiamo definire il corpo glorioso, perché sta oltre le nostre esperienze. Possiamo solo registrare i segni che Gesù ci ha dato per capire almeno un po’ in quale direzione dobbiamo cercare questa realtà.
Primo segno: la tomba è vuota. Cioè, Gesù non ha lasciato il suo corpo alla corruzione, ci ha mostrato che anche la materia è destinata all’eternità, che realmente è risorto, che non rimane una cosa perduta. Gesù ha preso anche la materia con sé, e così la materia ha anche la promessa dell’eternità.
Ma poi ha assunto questa materia in una nuova condizione di vita, questo è il secondo punto: Gesù non muore più, cioè sta sopra le leggi della biologia, della fisica, perché sottomesso a queste uno muore. Quindi c’è una condizione nuova, diversa, che noi non conosciamo, ma che si mostra nel fatto di Gesù, ed è la grande promessa per noi tutti che c’è un mondo nuovo, una vita nuova, verso la quale noi siamo in cammino. E, essendo in queste condizioni, Gesù ha la possibilità di farsi palpare, di dare la mano ai suoi, di mangiare con i suoi, ma tuttavia sta sopra le condizioni della vita biologica, come noi la viviamo. E sappiamo che, da una parte, è un vero uomo, non un fantasma, che vive una vera vita, ma una vita nuova che non è più sottomessa alla morte e che è la nostra grande promessa.
È importante capire questo, almeno quanto si può, per l’eucaristia. Nell’eucaristia il Signore ci dona il suo corpo glorioso, non ci dona carne da mangiare nel senso della biologia, ci dà se stesso. Questa novità che lui è entra nel nostro essere uomini, nel nostro, nel mio essere persona, come persona, e ci tocca interiormente con il suo essere, così che possiamo lasciarci penetrare dalla sua presenza, trasformare nella sua presenza. È un punto importante, perché così siamo già in contatto con questa nuova vita, questo nuovo tipo di vita, essendo lui entrato in me, e io sono uscito da me e mi estendo verso una nuova dimensione di vita.
Io penso che questo aspetto della promessa, della realtà che lui si dà a me e mi tira fuori da me, in alto, è il punto più importante: non si tratta di registrare cose che non possiamo capire, ma di essere in cammino verso la novità che comincia, sempre, di nuovo, nell’eucaristia.

Publié dans:Sandro Magister |on 16 mai, 2011 |Pas de commentaires »

buona notte

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Darlingtonia californica

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