Archive pour mai, 2011

20 MAGGIO: S. BERNARDINO DA SIENA (1380-1444)

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/27300

San Bernardino da Siena Sacerdote

20 maggio – Memoria Facoltativa

Massa Marittima, Grosseto, 8 settembre – L’Aquila, 20 maggio 1444

Canonizzato nel 1450, cioè a soli sei anni dalla morte, era nato nel 1380 a Massa Marittima, dalla nobile famiglia senese degli Albizzeschi. Rimasto orfano dei genitori in giovane età fu allevato a Siena da due zie. Frequentò lo Studio senese fino a ventidue anni, quando vestì l’abito francescano. In seno all’ordine divenne uno dei principali propugnatori della riforma dei francescani osservanti. Banditore della devozione al santo nome di Gesù, ne faceva incidere il monogramma «YHS» su tavolette di legno, che dava a baciare al pubblico al termine delle prediche. Stenografati con un metodo di sua invenzione da un discepolo, i discorsi in volgare di Bernardino sono giunte fino a noi. Aveva parole durissime per quanti «rinnegano Iddio per un capo d’aglio» e per «le belve dalle zanne lunghe che rodono le ossa del povero». Anche dopo la sua morte, avvenuta alla città dell’Aquila, nel 1444, Bernardino continuò la sua opera di pacificazione. Era infatti giunto morente in questa città e non poté tenervi il corso di prediche che si era prefisso. Persistendo le lotte tra le opposte fazioni, il suo corpo dentro la bara cominciò a versare sangue e il flusso si arrestò soltanto quando i cittadini dell’Aquila si rappacificarono. (Avvenire)

Patronato: Pubblicitari, Preghiere

Etimologia: Bernardino = ardito come orso, dal tedesco

Emblema: IHS (monogramma di Cristo)
Martirologio Romano: San Bernardino da Siena, sacerdote dell’Ordine dei Minori, che per i paesi e le città d’Italia evangelizzò le folle con la parola e con l’esempio e diffuse la devozione al santissimo nome di Gesù, esercitando instancabilmente il ministero della predicazione con grande frutto per le anime fino alla morte avvenuta all’Aquila in Abruzzo.    

Per ascoltare le prediche efficacissime di questo frate francescano di fine Medioevo, si radunavano folle di fedeli nelle piazze delle città, non potendoli contenere le chiese; e mancando allora mezzi tecnici di amplificazione della voce, venivano issati i palchi da cui parlava, studiando con banderuole la direzione del vento, per poterli così posizionare in modo favorevole all’ascolto dalle folle attente e silenziose.

Origini e formazione
San Bernardino nacque l’8 settembre 1380 a Massa Marittima (Grosseto) da Albertollo degli Albizzeschi e da Raniera degli Avveduti; il padre nobile senese era governatore della città fortificata posta sulle colline della Maremma.
A sei anni divenne orfano dei genitori, per cui crebbe allevato da parenti, prima dalla zia materna che lo tenne con sé fino agli undici anni, poi a Siena a casa dello zio paterno, ma fino all’età adulta furono soprattutto le donne della famiglia ad educarlo, come la cugina Tobia terziaria francescana e la zia Bartolomea terziaria domenicana.
Ricevette un’ottima educazione cristiana ma senza bigottismo, crebbe sano, con un carattere schietto e deciso, amante della libertà ma altrettanto conscio della propria responsabilità.
Studiò grammatica, retorica e lettura di Dante, dal 1396 al 1399 si applicò allo studio della Giurisprudenza nella Università di Siena, dove conseguì il dottorato in filosofia e diritto; non era propenso alla vita religiosa, tanto che alle letture bibliche preferiva la poesia profana.
Verso i 18 anni, pur seguitando a vivere come i coetanei, entrò nella Confraternita dei Disciplinati di Santa Maria della Scala, una compagnia di giovani flagellanti, che teneva riunioni a mezzanotte nei sotterranei del grande ospedale posto di fronte al celebre Duomo di Siena.
Aveva 20 anni quando Siena nel 1400 fu colpita dalla peste; e anche molti medici e infermieri dell’Ospedale di Santa Maria della Scala, morirono contagiati, per cui il priore chiese pubblicamente aiuto.
Bernardino insieme ai compagni della Confraternita si offrì volontario, la sua opera nell’assistenza agli appestati durò per quattro mesi, fino all’inizio dell’inverno, quando la pestilenza cominciò a scemare.
Trascorsero poi altri quattro mesi, tra la vita e la morte, essendosi anch’egli contagiato; guarito assisté poi per un anno la zia Bartolomea diventata cieca e sorda.

La scelta Francescana
In quel periodo cominciò a pensare seriamente di scegliere per la sua vita un Ordine religioso, colpito anche dall’ispirata parola di s. Vincenzo Ferrer, domenicano, incontrato ad Alessandria.
Alla fine scelse di entrare nell’Ordine Francescano e liberatosi di quanto possedeva, l’8 settembre 1402 entrò come novizio nel Convento di San Francesco a Siena; per completare il noviziato, fu mandato sulle pendici meridionali del Monte Amiata, al convento sopra Seggiano, un villaggio di poche capanne intorno ad una chiesetta, detto il Colombaio.
Il convento apparteneva alla Regola dell’Osservanza, sorta in seno al francescanesimo 33 anni prima, osservando appunto assoluta povertà e austerità, prescritte dal fondatore san Francesco; e con la loro moderazione, che li distingueva dagli Spirituali più combattivi nei decenni precedenti, gli Osservanti si opponevano al rilassamento dei Conventuali, con discrezione e senza eccessi.
Frate Bernardino visse al Colombaio per tre anni, facendo la professione religiosa nel 1403 e diventando sacerdote nel 1404, celebrò la prima Messa e tenne la prima predica nella vicina Seggiano e come gli altri frati del piccolo convento, prese a girare scalzo per la questua nei dintorni. Nel 1405 fu nominato predicatore dal Vicario dell’Ordine e tornò a Siena.

La sua formazione, studi, prime predicazioni
Dopo un po’, da Siena andò con qualche compagno nel piccolo romitorio di Sant’Onofrio sul colle della Capriola di fronte alla città; da tempo questo conventino era abitato da frati dell’Osservanza, qui fra’ Bernardino volle costruire un nuovo convento più grande, esso apparteneva all’Ospedale della Scala ed egli riuscì ad ottenerlo in dono, ma giacché i Frati Minori non potevano accettare donazioni, si impegnò a versare in cambio una libbra di cera all’anno.
Aveva circa 25 anni e restò alla Capriola per 12 anni, dedicandosi allo studio dei grandi dottori e teologi specie francescani; raccogliendo e studiando materiale ascetico, mistico e teologico.
In quel periodo, fu a contatto col mondo contadino ed artigiano delle cittadine dei dintorni, imparando a predicare per farsi comprendere da loro, con espressioni, immagini vivaci e aneddoti che colpissero l’attenzione di quella gente semplice, a cui affibbiava soprannomi nelle loro attività e stile popolano di vivere, per farli divertire; così la massaia disordinata era “madama Arrufola” e la giovane che ‘balestrava’ con occhiate languide i giovani dalla sua finestra, era “monna Finestraiola”.
Per una malattia alle corde vocali che per qualche anno lo colpì, rendendo la sua voce molto fioca, Bernardino da Siena, stava per chiedere di essere esonerato dalla predicazione. Ma inaspettatamente un giorno la voce ritornò non soltanto limpida, ma anche musicale e penetrante, ricca di modulazioni.
Sul colle della Capriola tornava spesso dopo i suoi lunghi viaggi di predicatore, per ritrovare li spirito di meditazione e per scrivere i “Sermoni latini”; formò molti discepoli fra i quali san Giacomo della Marca, san Giovanni da Capestrano, i beati Matteo da Agrigento, Michele Cercano, Bernardino da Feltre e Bernardino da l’Aquila.

Il grande predicatore popolare
Nel 1417 padre Bernardino da Siena fu nominato Vicario della provincia di Toscana e si trasferì a Fiesole, dando un forte impulso alla riforma in atto nell’Ordine Francescano.
Contemporaneamente iniziò la sua straordinaria predicazione per le città italiane, dove si verificava un grande afflusso di fedeli che faceva riempire le piazze; tutta la cittadinanza partecipava con le autorità in testa, e i fedeli affluivano anche dai paesi vicini per ascoltarlo.
Dal 1417 iniziò a Genova la sua prodigiosa predicazione apostolica, allargandola dopo i primi strepitosi successi, a tutta l’Italia del Nord e del Centro.
A Milano espose per la prima volta alla venerazione dei fedeli, la tavoletta con il trigramma; da Venezia a Belluno, a Ferrara, girando sempre a piedi, e per tutta la sua Toscana, dove ritornava spesso, predicò incessantemente; nel 1427 tenne nella sua Siena un ciclo di sermoni che ci sono pervenuti grazie alla fedele trascrizione di un ascoltatore, che li annotava a modo suo con velocità, senza perdere nemmeno una parola.
Da queste trascrizioni, si conosce il motivo dello straordinario successo che otteneva Bernardino; sceglieva argomenti che potevano interessare i fedeli di una città ed evitava le formulazioni astruse o troppo elaborate, tipiche dei predicatori scolastici dell’epoca. Per lui il “dire chiaro e breve” non andava disgiunto dal “dire bello”, e per farsi comprendere usava racconti, parabole, aneddoti; canzonando superstizioni, mode, vizi.
Sapeva comprendere le debolezze umane, ma era intransigente con gli usurai, considerati da lui le creature più abbiette della terra. Le conversioni spesso clamorose, le riconciliazioni ai Sacramenti di peccatori incalliti, erano così numerosi, che spesso i sacerdoti erano insufficienti per le confessioni e per distribuire l’Eucaristia.
Quando le leggi che reggevano un Comune, una Signoria, una Repubblica, erano ingiuste e osservarle significava continuare l’ingiustizia, Bernardino da Siena, in questi casi dichiarava sciolti dal giuramento i pubblici ufficiali e invitava la città a darsi nuove leggi ispirate al vangelo; e le città facevano a gara per ascoltarlo e ne accettavano le direttive.

Il trigramma del Nome di Gesù
Affinché la sua predicazione non fosse dimenticata facilmente, Bernardino con profondo intuito psicologico, la riassumeva nella devozione al Nome di Gesù e per questo inventò un simbolo dai colori vivaci che veniva posto in tutti i locali pubblici e privati, sostituendo blasoni e stemmi delle famiglie e delle varie corporazioni spesso in lotta tra loro.
Il trigramma del nome di Gesù, divenne un emblema celebre e diffuso in ogni luogo, sulla facciata del Palazzo Pubblico di Siena campeggia enorme e solenne, opera dell’orafo senese Tuccio di Sano e di suo figlio Pietro, ma lo si ritrova in ogni posto dove Bernardino e i suoi discepoli abbiano predicato o soggiornato.
Qualche volta il trigramma figurava sugli stendardi che precedevano Bernardino, quando arrivava in una nuova città per predicare e sulle tavolette di legno che il santo francescano poggiava sull’altare, dove celebrava la Messa prima dell’attesa omelia, e con la tavoletta al termine benediceva i fedeli.
Il trigramma fu disegnato da Bernardino stesso, per questo è considerato patrono dei pubblicitari; il simbolo consiste in un sole raggiante in campo azzurro, sopra vi sono le lettere IHS che sono le prime tre del nome Gesù in greco (ma si sono date anche altre spiegazioni, come l’abbreviazione di “In Hoc Signo (vinces)”, il motto costantiniano, oppure di “Iesus Hominum Salvator”.
Ad ogni elemento del simbolo, Bernardino applicò un significato; il sole centrale è chiara allusione a Cristo che dà la vita come fa il sole, e suggerisce l’idea dell’irradiarsi della Carità.
Il calore del sole è diffuso dai raggi, ed ecco allora i dodici raggi serpeggianti cioè i dodici Apostoli e poi da otto raggi diretti che rappresentano le beatitudini; la fascia che circonda il sole rappresenta la felicità dei beati che non ha termine, il celeste dello sfondo è simbolo della fede; l’oro dell’amore.
Bernardino allungò anche l’asta sinistra dell’H, tagliandola in alto per farne una croce, in alcuni casi la croce è poggiata sulla linea mediana dell’H.
Il significato mistico dei raggi serpeggianti era espresso in una litania: 1° rifugio dei penitenti; 2° vessillo dei combattenti; 3° rimedio degli infermi; 4° conforto dei sofferenti; 5° onore dei credenti; 6° gioia dei predicanti; 7° merito degli operanti; 8° aiuto dei deficienti; 9° sospiro dei meditanti; 10° suffragio degli oranti; 11° gusto dei contemplanti; 12° gloria dei trionfanti.
Tutto il simbolo è circondato da una cerchia esterna con le parole in latino tratte dalla Lettera ai Filippesi di San Paolo: “Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, sia degli esseri celesti, che dei terrestri e degli inferi”.
Il trigramma bernardiniano ebbe un gran successo, diffondendosi in tutta Europa, anche s. Giovanna d’Arco volle ricamarlo sul suo stendardo e più tardi fu adottato anche dai Gesuiti.
Diceva s. Bernardino: “Questa è mia intenzione, di rinnovare e chiarificare il nome di Gesù, come fu nella primitiva Chiesa”, spiegando che, mentre la croce evocava la Passione di Cristo, il suo nome rammentava ogni aspetto della sua vita, la povertà del presepio, la modesta bottega di falegname, la penitenza nel deserto, i miracoli della carità divina, la sofferenza sul Calvario, il trionfo della Resurrezione e dell’Ascensione.
In effetti ribadiva la devozione già presente in san Paolo e durante il Medioevo in alcuni Dottori della Chiesa e in s. Francesco d’Assisi, inoltre tale devozione era praticata in tutto il Senese, pochi decenni prima dai Gesuati, congregazione religiosa fondata nel 1360 dal senese beato Giovanni Colombini, dedita all’assistenza degli infermi e così detti per il loro ripetere frequente del nome di Gesù.
Quindi la novità di s. Bernardino fu di offrire come oggetto di devozione le iniziali del nome di Gesù, attorniato da efficaci simbolismi, secondo il gusto dell’epoca, amante di stemmi, armi, simboli.
L’uso del trigramma, comunque gli procurò accuse di eresie e idolatria, specie dagli Agostiniani e Domenicani, e Bernardino da Siena subì ben tre processi, nel 1426, 1431, e 1438, dove il francescano poté dimostrare la sua limpida ortodossia, venendo ogni volta assolto con il favore speciale di papa Eugenio IV, che lo definì “il più illustre predicatore e il più irreprensibile maestro, fra tutti quelli che al presente evangelizzano i popoli in Italia e fuori”.

Riformatore dell’Ordine Francescano
Bernardino, che fin dal 1421 era Vicario dei Frati Osservanti di Toscana e Umbria, nel 1438 venne nominato dal Ministro Generale dell’Ordine Francescano, Vicario Generale di tutti i conventi dell’Osservanza in Italia.
Nella sua opera di riforma, portò il numero dei conventi da 20 a 200; proibì ai frati analfabeti o poco istruiti, di confessare e assolvere i penitenti; istituì nel convento di Monteripido presso Perugia, corsi di teologia scolastica e di diritto canonico; s’impegnò a fare rinascere lo spirito della Regola di s. Francesco, adattandola alle esigenze dei nuovi tempi.
Rifiutò per tre volte di essere vescovo di diocesi, che gli furono offerte.

Gli ultimi anni, la morte
Nel 1442, sentendosi oltremodo stanco, soffriva di renella, infiammazione ai reni, emorroidi e dissenteria, rassegnò le sue dimissioni dalla carica, che aveva accettato per spirito di servizio verso l’Ordine.
Nel fisico sembrava più vecchio dei suoi 62 anni, aveva perso tutti i denti, tranne uno e quindi le gote gli si erano incavate, ma quell’aspetto emaciato l’aveva già a 46 anni, quando posò per un quadro dal vivo, oggi conservato alla Pinacoteca di Siena.
Libero da responsabilità riprese a predicare, nonostante il cattivo stato di salute; i senesi gli chiesero di recarsi a Milano per rinsaldare l’alleanza con il duca Filippo Maria Visconti contro i fiorentini; da lì proseguì poi per il Veneto, predicando a Vicenza, Verona, Padova, Venezia, scendendo poi a Bologna e Firenze, nella natia Massa Marittima predicò nel 1444 per 40 giorni.
Ritornato a Siena si trattenne per poco tempo, perché voleva ancora compiere una missione di predicazione nel Regno di Napoli, dove non si era mai recato, con l’intenzione di predicare anche lungo il percorso; accompagnato da alcuni frati senesi, toccò il Trasimeno, Perugia, Assisi, Foligno, Spoleto, Rieti, ma già in prossimità de L’Aquila, il suo fisico cedette allo sforzo e il 20 maggio 1444 fu portato in lettiga al convento di San Francesco, dentro la città, dove morì quel giorno stesso a 64 anni, posto sulla nuda terra come s. Francesco, dietro sua richiesta.
Dopo morto, il suo corpo esposto alla venerazione degli aquilani, grondò di sangue prodigiosamente e a tale fenomeno i rissosi abitanti in lotta fra loro, ritrovarono la via della pace.
I frati che l’accompagnavano, volevano riportare la salma a Siena, ma gli aquilani, accorsi in massa lo impedirono, concedendo solo gli indumenti indossati dal frate, oggi conservati nel convento della Capriola a Siena.
Nelle città dov’era vissuto, furono costruiti celebri oratori, chiese, mausolei, come quello di S. Bernardino nella omonima chiesa dell’Aquila, dove riposa.
Sei anni dopo la morte, il 24 maggio 1450, festa di Pentecoste, papa Niccolò V lo proclamò santo nella Basilica di S. Pietro a Roma. San Bernardino è compatrono di Siena, della nativa Massa Marittima, di Perugia e dell’Aquila.
Una città in California porta il suo nome. È invocato contro le emorragie, la raucedine, le malattie polmonari. La sua festa si celebra il 20 maggio.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 20 mai, 2011 |Pas de commentaires »

SAN BERNARDINO, UN SIMBOLO DELLA RICOSTRUZIONE DE L’AQUILA

 dal sito:

http://www.zenit.org/article-26766?l=italian
 
SAN BERNARDINO, UN SIMBOLO DELLA RICOSTRUZIONE DE L’AQUILA

ROMA, giovedì, 19 maggio 2011 (ZENIT.org).-Venerdì 20 maggio si celebra la solennità di san Bernardino da Siena, compatrono di L’Aquila: un avvenimento importante perché i lavori di consolidamento e restauro della Basilica di San Bernardino – già in corso – sono un segno e stimolo dell’opera di ricostruzione in corso nella città abruzzese dopo il terremoto del 2009.
Il programma delle celebrazioni prevede alle ore 10:00 presso la Sala dei Padri Conventuali la conferenza Bernardino e l’etica economica del suo tempo tenuta da padre Nicola Riccardi, professore di etica sociale alla Pontificia Università Antonianum. Successivamente alle ore 11:30 davanti alla Basilica di San Bernardino, solenne concelebrazione eucaristica presieduta da mons. Giuseppe Molinari, Arcivescovo metropolita de L’Aquila, e concelebrata da mons. Giovanni D’Ercole, Vescovo ausiliare. Alla sera alle ore 19:00 vi sarà la processione con il trigramma del Nome di Gesù diffuso da san Bernardino.
Accanto all’opera di ricostruzione della Basilica in cui si venera il suo corpo, la vita e le opere di san Bernardino sono al centro di un lavoro di ricerca volto ad evidenziarne la santità e soprattutto il suo insegnamento circa l’etica economica, che da molti è riconosciuto come un possibile riferimento per affrontare e superare l’attuale crisi economica.
In quest’ottica presso la Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum, si è svolto un seminario di studio inerenteIl Processo di canonizzazione di san Bernardino da Siena (pubblicato a cura di Letizia Pellegrini Ed. Quaracchi, Roma 2010).
In un intervento scritto per l’occasione il prof. Roberto Rusconi, dell’Università degli Studi di Roma Tre, ha detto che nella percezione dei contemporanei di san Bernardino da Siena “oltre ai numerosi episodi taumaturgici immediatamente e con continuità registrati presso la sepoltura aquilana, era soprattutto la santità del predicatore ad assumere un ruolo centrale”.
“In un’iconografia devozionale largamente attestata anche dagli atti del processo di canonizzazione – ha scritto –, a riprova non soltanto della capacità dei frati di diffondere il culto del nuovo santo tra i fedeli, ma anche della ricezione della sua figura agiografica, appariva immediata l’identificazione della santità con la parola”.
Inoltre, aggiungeva, “anche nelle immagini singole di Bernardino, inserite nelle teorie di santi dei polittici ovvero isolate in affreschi devozionali, l’attributo che lo identificava, il trigramma del Nome di Gesù, rimandava appunto alla sua predicazione”.
“Non a caso i maggiori propugnatori della sua santità – in primis Giovanni da Capestrano – raccoglievano accuratamente i miracoli operati in virtù dell’invocazione del Nome di Gesù, la cui potenza era per essi assai più efficace di qualsiasi reliquia tangibile, persino del nuovo santo”.
“D’altra parte – affermava il prof. Rusconi –, i miracoli attribuiti a Bernardino e verificatisi durante la sua vita erano strettamente connessi con la potenza taumaturgica di un’attività di predicazione”.
Nel caso di Bernardino, quindi, le manifestazioni di culto di cui il predicatore venne fatto oggetto portarono all’avvio della procedura canonica immediatamente dopo la sua morte avvenuta all’Aquila nel 1444, mentre la sua canonizzazione giubilare verrà celebrata a Roma nel 1450.
Questo grazie anche alla registrazione – talvolta direttamente notarile – dei prodigi a lui attribuiti, a conferma del carattere sostanzialmente taumaturgico che all’epoca era conferito alla santità, ancor prima del suo riconoscimento ufficiale da parte dell’autorità ecclesiastica e dell’apertura delle indagini processuali.
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Publié dans:Papa Benedetto XVI, Santi |on 20 mai, 2011 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini sacre rumex_acetosa_12f7

Rumex acetosa subsp. acetosa

http://www.floralimages.co.uk/index_1.htm

Publié dans:immagini sacre |on 20 mai, 2011 |Pas de commentaires »

Abraham Covenant

Abraham Covenant dans immagini sacre 20%20DE%20SAUSSURE%20LA%20VISITE%2001
http://www.artbible.net/1T/Gen1501_AbrahamCovenant_18/pages/20%20DE%20SAUSSURE%20LA%20VISITE%2001.htm

Publié dans:immagini sacre |on 19 mai, 2011 |Pas de commentaires »

CRISTO GESU’, SEI QUI, SEI QUI CON NOI E PER NOI (Card. Tettamanzi)

dal sito:

http://www.piccolifiglidellaluce.it/preghiereucaristiche.htm

CRISTO GESU’, SEI QUI, SEI QUI CON NOI E PER NOI

(Dionigi card. Tettamanzi)
 
Cristo Gesù,
sei qui,
sei qui con noi e per noi.
 
Noi ti adoriamo e ti benediciamo
nel Sacramento del tuo amore:
Tu, pane di vita eterna,
Tu, luce e salvezza del mondo,
Tu, gioia di ogni cuore umano!
 
Sei qui!
I miei occhi non ti vedono,
le mie orecchie non ti sentono,
le mie mani non ti possono toccare.
Ma la fede che mi doni
è luce al mio cuore
che ti dice con invincibile certezza:
« Sei qui, sei qui, Cristo Gesù! ».
 
Sei qui con noi
perché Tu ci appartieni, Cristo Gesù!
Sei con noi
con la carne santa e adorabile
che Maria nel suo amore verginale ti ha dato.
La tua carne, o Figlio eterno di Dio, è carne umana,
fragile e debole come la mia,
provata, sofferente e mortale come quella d’ogni uomo.
La tua carne ti fa fratello, compagno e amico di tutti,
mio fratello, mio compagno, mio amico.
Sei con noi, Cristo Gesù!
L’umanità intera, frantumata e lacerata,
in te diviene un’unica grande famiglia.
Sei Tu la fonte dell’unità contro ogni divisione,
la forza della solidarietà contro ogni egoismo,
il principio dell’amore contro ogni odio e ogni vendetta.
Tu sei con noi, Cristo Gesù!
 
Sei qui per noi,
per noi bisognosi di salvezza e di vita piena,
di verità e di libertà autentica;
per noi bisognosi di amore e di conforto,
di perdono e di pace giusta e duratura;
per noi bisognosi di te, Cristo Gesù.
Tu ci sei necessario!
Perché sei “la via, la verità e la vita” (Gv. 14, 6).
Senza di te non possiamo vivere, Cristo Gesù!
 
Sei qui, con noi e per noi!
Ma anche noi siamo qui, con te e per te, Cristo Gesù!
 
Siamo qui,
prostrati ti adoriamo
e ti confessiamo nostro Signore e nostro Dio,
nostro Servo e Pastore.
Siamo qui,
con il peso delle nostre miserie d’ogni giorno,
con il peso grande di tutti i peccati del mondo.
Con umiltà e fiducia ti imploriamo:
il sangue della tua croce ci doni la misericordia del Padre,
purifichi il nostro cuore,
rinnovi la nostra vita.
 
Siamo qui con Te.
La tua voce implorante giunge al nostro cuore:
“Rimanete nel mio amore » (Gv. 15, 9).
Sì, o Signore, noi vogliamo rimanere nel tuo amore
per accogliere da te la Parola
che ci rivela il senso della vita, della sofferenza e della morte,
per ricevere da te la Grazia che ci fa uomini nuovi
e veri figli di Dio,
per accogliere da te il Comandamento della carità
che ci fa vivere come fratelli e sorelle
che si stimano e si rispettano,
si comprendono e si aiutano,
si amano e si perdonano,
vivono nella concordia e nella pace.
Siamo qui con te, Cristo Gesù,
perché solo con te c’è la felicità vera di cui ha fame e sete la nostra anima.
 
Siamo qui con Te e per Te,
Cristo Gesù,
per partecipare alla vita del tuo Regno,
per condividere la tua missione di salvezza.
Riconosciamo di essere deboli e incerti,
chiusi in noi stessi e paurosi,
ma tu, o Signore, non lasciarci mancare mai
il vento e il fuoco del tuo Spirito.
Rialzaci, dunque,
e fa’ che percorriamo con entusiasmo
i sentieri del mondo
portando in ogni ambiente di vita
la luce del tuo Vangelo,
il sale della tua sapienza,
il lievito del tuo rinnovamento,
il profumo della tua grazia.
Così la tua Chiesa, o Signore, potrà risplendere
di bontà e di santità
anche con le piccole e umili azioni della giornata,
e la nostra Città e i nostri paesi potranno diventare
terreno fecondo di virtù umane:
di onestà e laboriosità,
di giustizia, sincerità e fedeltà,
di solidarietà con tutti,
di servizio verso i più deboli e poveri e bisognosi.
 
In Te, o Signore, riponiamo tutta la nostra fiducia!
Sei qui,
sei qui con noi e per noi,
Cristo Gesù!

Publié dans:Cardinali, preghiere |on 19 mai, 2011 |Pas de commentaires »

Parole e numeri dell’amore (Di mons. Gianfranco Ravasi)

 dal sito:


http://www.templarisanbernardo.org/mons.%20Ravasi,%20Parole%20e%20numeri%20dell’amore%20per%20il%20prossimo.htm

Parole e numeri dell’amore

per il PROSSIMO

La giustizia deve avere un suo rigore e una sua pienezza, espressa attraverso il 3 e 4, numeri che nel computo simbolico vengono idealmente sommati così da raggiungere il 7. Ma, d’altro lato, a imporsi in tutta la sua grandezza è in ebraico il «hesed», ossia l’amore generoso e fedele che non conosce confini ed è infinito, perché tale è il valore del numero 1000
 
Di mons. Gianfranco Ravasi

Nihil caritate dulcius,
«nulla è più dolce dell’amore», scriveva sant’Ambrogio nella sua opera dal titolo ciceroniano De officiis. Ma nulla è anche più difficile da comprimere in una trattazione come l’amore. Noi, allora, ci accontenteremo di illustrare in forma essenziale e simbolica i vari « nomi », ossia le diverse iridescenze del tema dell’amore, l’entolé megále, come diceva Gesù, ossia il «comandamento massimo, cardinale, principe» dell’impegno morale e spirituale cristiano (vedi Mt 22, 34-40). Cercheremo anche di identificare alcuni « numeri » simbolici che esaltano l’autentica carità.

Iniziamo col lessico biblico dell’amore.

LE PAROLE DELL’AMORE
1. Il primo termine fondamentale è prossimo. Esso è centrale nel nostro discorso e si è consapevoli che la sua accezione è variegata nelle Scritture.
Abbraccia innanzitutto il fratello, la famiglia, il clan, la tribù, il popolo eletto, escludendo le altre nazioni (gojim) e i nemici. Tuttavia già nel Primo Testamento si segnalano aperture universalistiche e il perdono del nemico già si presenta non solo con Giuseppe e i suoi fratelli ma anche con la norma sull’asino del nemico (Es 23, 4-5) e sull’ospitalità per lo straniero che si deve «amare come se stessi» (Lv 19, 34).
Certo è che Cristo tende all’estremo questo precetto nel suo Discorso della Montagna, proponendo il superamento della giustizia del taglione e l’amore per il nemico, sempre sulla base dell’esemplarità di Dio, generoso con malvagi e ingiusti (Mt 5, 38-48).
Suggestiva rimane la parabola del Buon Samaritano, già significativa per il soggetto assunto come modello, una figura legata a una comunità detestata da Israele (Lc 10, 25-37). Nel contesto del racconto parabolico, lo scriba rivolge a Gesù il quesito oggettivo su «chi sia il prossimo»; Gesù, invece, alla fine rilancia la domanda modificandola in senso soggettivo e dinamico: «Chi ha agito da prossimo?». Più che definire la categoria esterna «prossimo», è necessario «farsi, essere prossimo» dell’altro in senso efficace; più che una ricerca sul prossimo, la nostra dev’essere un’azione da prossimo, con una ricerca del prossimo per aiutarlo.
2. Il secondo vocabolo è amicizia, una qualità vissuta da Dio stesso che considera «Abramo mio amico» al quale «non tiene nascosto quello che sta per fare», discutendone con lui il merito e l’opportunità. Similmente con Mosè «il Signore parlava a faccia a faccia, come un uomo parla con un altro» (Es 33, 11). Il Cristo stesso sperimenta gioie e dolori dell’amicizia con Lazzaro e coi discepoli.
C’è, però, soprattutto l’amicizia umana, celebrata dal Siracide in un vero e proprio « elogio » (6, 5-17), che contiene anche il celebre detto secondo il quale «chi trova un amico, trova un tesoro». Esemplare è la figura amicale incarnata da Davide e Gionata, anche se da taluni il linguaggio biblico « amoroso » adottato in questo caso è interpretato in chiave politica: «L’anima di Gionata s’era talmente legata all’anima di Davide che Gionata lo amò come se stesso… Lo amava come l’anima sua, come se stesso» (1 Sam 18, 1; 20, 17).
3. Un terzo termine è la misericordia che potrebbe rimandare alla più ricca radice ebraica rhm, destinata a mettere in luce la passione e la tenerezza « viscerale » della madre o anche del padre. La benedizione iniziale della Seconda Lettera ai Corinzi (1, 3-4) ben illustra la dimensione teologica di questo amore fatto di partecipazione appassionata che, per altro, è presente in quasi tutte le religioni (la maitri buddhista, la karuna hindu, la zakat musulmana e così via): «Sia benedetto Dio…, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione,
il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio».
La figura che incarna idealmente questa misericordia generosa e operosa è il citato Buon Samaritano, a differenza del sacerdote e del levita, gelidi osservanti di norme sacrali di purità. Nella parabola Gesù descrive con accuratezza tutti i gesti di premura e di compassione di quell’uomo nei confronti della vittima di
un’aggressione: gli si accosta, gli fascia le ferite, vi versa olio e vino, lo carica sulla sua cavalcatura, lo porta in una locanda, si prende cura di lui, ne paga i costi di assistenza anche per il decorso delle ferite (Lc 10, 34-35). Ma alla radice di tutto c’è proprio la «misericordia»: «passando accanto [allo sventurato] lo vide ed esplanchnísthe», col verbo greco della tenerezza, della compassione autentica e « viscerale », con la misericordia nel senso etimologico del nostro vocabolo.
4. Intrecciamo qui sotto un’unica voce un trittico lessicale neotestamentario (ma anche classico): philanthropía – philadelphía – philoxenía. Pur con caratteristiche specifiche, esse s’inanellano tra loro ed esprimono una
vicinanza amorosa al prossimo sulla base della nostra comune « adamicità »: tutti apparteniamo alla stessa umanità.
Naturalmente le motivazioni religiose possono essere più alte. La paternità divina e la redenzione ci rendono tutti fratelli: «Con sincera philadelphía – cioè amore fraterno – amatevi intensamente con cuore puro reciprocamente, essendo stati rigenerati non da seme corruttibile ma incorruttibile, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna» (1 Pt 1, 22-23).
L’orizzonte si allarga e dalla philanthropía e dalla philadelphía si giunge all’amore per il diverso e per lo straniero: «Perseverate nell’amore fraterno (philadelphía). Non dimenticate l’amore per lo straniero (philoxenía)» e, quindi, l’ospitalità (Eb 13, 1-2). L’accoglienza dello straniero è una virtù specifica
all’interno dell’amore del prossimo e scandisce la vera appartenenza al cristianesimo: «ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt 25, 35), come era un precetto per lo stesso ebraismo (Lv 19, 33-34: «…Il forestiero dimorante in mezzo a voi lo tratterete come chi è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso…»).
5. Eccoci, così, alla koinonía, a quella «comunione fraterna» tanto cara a livello programmatico alla comunità giudeocristiana di Gerusalemme. Si tratta di un incontro tra due virtù fondamentali delle relazioni sociali, la giustizia e la solidarietà. La formulazione essenziale è già nel Deuteronomio: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello bisognoso, non indurire il tuo cuore e non chiudere la tua mano» (15, 7). La sua attuazione esemplare potrebbe essere il progetto di colletta che Paolo sostiene tra le varie chiese in favore dei poveri di Gerusalemme. Il modello cristiano più alto potrebbe essere la koinonía esaltata come una delle quattro colonne che reggono la Chiesa delle origini: «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli, nella koinonía, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2, 42).
La stessa solidarietà nella sua formulazione concreta: «Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno… Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 2, 44-45; 4, 34-35). La grande tradizione cristiana raccoglierà questo modello ideale, a partire dal famoso simbolo del mantello tagliato di san Martino per attraversare tutti i secoli con una folla di testimoni di carità, di comunione fraterna, di giustizia e solidarietà.
6. Una considerazione merita anche l’eros, una categoria dell’amore particolarmente esaltata e analizzata dalla cultura greca e dalla moderna psicanalisi. L’ormai classico saggio di Anders Nygren, Eros e agape (1930), ha attentamente vagliato sia nella Bibbia sia nella tradizione cristiana la tensione ma anche gli incroci tra eros e agape, l’altro vocabolo greco dell’amore. L’eros è desiderio, aspirazione e tensione verso l’altro; l’agape è sacrificio, donazione verso l’altro. L’eros è via dell’uomo a Dio; l’agape è innanzitutto via di Dio verso l’uomo. L’eros è conquista dell’uomo; l’agape è grazia. L’eros è utoaffermazione nobile e gloriosa; l’agape è amore disinteressato e dono di sé. L’eros è determinato dalla bellezza della persona amata; l’agape ama e crea il valore dell’amato. Ciò non toglie – come ha ribadito Benedetto XVI nella Deus caritas est – che l’eros, componente tipica dell’umanità che con esso trasfigura la mera sessualità, s’intrecci con l’amore. La dimostrazione più alta e affascinante è indubbiamente offerta dal Cantico dei cantici (che pure non conosce un
vocabolo ebraico analogo all’eros greco, per altro assente nel Nuovo Testamento): questo poemetto biblico di 1250 parole è innanzitutto celebrazione di un’esperienza umana personale e totale. Essa comprende anche una riconciliazione con l’eros e col linguaggio del corpo, senza falsi pudori e senza sbavature pornografiche (la pornografia è, infatti, non solo negazione dell’amore ma anche dell’eros), senza spiritualismi puritani ed evanescenti e senza carnalità esasperate e pesanti. Si leggano i tre canti del corpo della donna e dell’uomo nei cc. 4; 5 e 7 per scoprire non solo che «tanto il punto di partenza quanto il punto d’arrivo del fascino – reciproco stupore e ammirazione – sono la femminilità della sposa e la mascolinità dello sposo nell’esperienza diretta della loro visibilità» (come diceva Giovanni Paolo II in una sua catechesi sul Cantico del 1984), ma anche per comprendere il rilievo della corporeità nella vicenda d’amore: noi non « abbiamo » un corpo ma « siamo » un corpo e nell’eros questa differenza emerge nitidamente. Certo, sull’eros nel Cantico si accende la fiaccola dell’amore che lo supera e lo invera in una dimensione ulteriore e trascendente.
7. Eccoci giunti, così, al termine neotestamentario specifico per indicare l’amore, agápe, presente 116 volte come sostantivo, 143 volte come verbo (agapáo) e 61 volte nella forma aggettivale agapetós, « amato ». È il vertice del lessico dell’amore, l’agápe teteleioméne, « l’amore perfetto » (1 Gv 4, 12). Esso ha la sua celebrazione innica nella stupenda pagina paolina di 1 Cor 13: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’agape, sarei un bronzo echeggiante o un cembalo tintinnante…» e così via fino alla proclamazione finale: «Sono tre le realtà che permangono: la fede, la speranza e l’agape. Ma di tutte più grande è l’agape!» Questo canto illumina il corteo di virtù che accompagnano l’agape: magnanimità, bontà, umiltà, disinteresse, generosità, rispetto, benignità, perdono, giustizia, verità, tolleranza, costanza…
Di fronte ad essa anche doni altissimi come la profezia, la conoscenza teologica e la fede capace di «trasportare le montagne» impallidiscono. Lo stesso dono delle « lingue », segno di esperienze estatico-mistiche, diventa – se privo di agape – il rimbombo di un gong o il frastuono dei cembali dei riti orgiastici della dea Cibele. In agguato c’è, comunque, sempre il tradimento di questa virtù teologale e sociale. Curioso, ad esempio, è lo stravolgimento operato da George Orwell nel suo romanzo Fiorirà l’aspidistra attraverso la sostituzione della parola « denaro » ad agape: «Anche se parlassi tutte le lingue, se non ho denaro, divengo un bronzo risonante… Se non ho denaro, sono nulla… Il denaro tutto crede, tutto spera, tutto sopporta…».

I NUMERI DELL’AMORE PER IL PROSSIMO
A tutti è noto quanto rilevante sia per le Scritture la simbologia numerica; si pensi che solo l’Apocalisse incastona nelle sue pagine ben 283 numeri cardinali, ordinali e frazionali! Vorremmo anche noi in forma piuttosto libera, sulla scia della tradizione giudaica e cristiana, identificare alcuni numeri significativi
dell’amore. Si tratta in verità di curiose equazioni che si richiamano tra loro. Ne indicheremo quattro che si combinano idealmente a coppia.
1. Prima equazione: 7 a 77. Ci troviamo qui nel polo antitetico dell’ideale spettro cromatico dell’amore: si tratta, infatti, dei numeri dell’odio, esaltati con veemenza da Lamek nel suo terribile canto della violenza a spirale, della spada sempre insanguinata: «Io uccido un uomo per una mia ferita e un ragazzo per un mio livido! Se Caino è vendicato 7 volte, Lamek lo sarà 77 volte!» (Gn 4, 23-24).
Siamo di fronte alla vendetta senza limiti e senza la parità offesa-pena che, come vedremo, introdurrà la legge del taglione.
È la frattura di ogni equilibrio sociale. Al giudizio pieno e severo sul delitto di Caino (7 volte) si oppone – sempre attraverso il ricorso al numero della pienezza, ma in una forma esasperata – l’eccesso vendicativo (77 volte).
2. Seconda equazione: 7 a 70 x 7. Ora ci spostiamo all’estremo opposto dello spettro, quello positivo dell’amore totale, incarnato nel perdono cristiano. Di fronte a Pietro che ripropone per il perdono il 7 della pienezza («Quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a 7 volte?»), Gesù replica introducendo un numero tendente verso l’infinito, sempre nella linea del settenario: «Non ti dico fino a 7, ma fino a 70 volte 7» (Mt 18, 21-22). È evidente l’ammiccamento, sia pure per contrasto, all’equazione di Lamek: nell’amore, al 7 volte di Pietro, si oppone il 70 volte 7 di Cristo, illustrato poi dalla parabola dei
due debitori, ove un’altra equazione numerica illustra quella formulata nel principio generale: ai 100 denari si confrontano i 10.000 talenti (Mt 18, 23-35).
3. Terza equazione: 1 a 1. Essa non è esplicita ma sottesa alla cosiddetta legge del taglione, vocabolo modellato sul latino talis: tale la colpa, tale la pena. Si legge, infatti, nell’Esodo: «Vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido» (21, 23). La durezza della formulazione esemplificativa può celare l’evidente progresso che si registra rispetto all’equazione di Lamek. In realtà ora abbiamo la codificazione della giustizia distributiva ed è un passo
rilevante verso una migliore normativa giuridica. In positivo si potrebbe trascrivere questa legge pensando proprio al precetto dell’amare il prossimo come se stessi (1 a 1 anche in questo caso).
Oppure alla cosiddetta « regola d’oro » presente nel libro di Tobia (4, 15): «Non fare a nessuno ciò che non piace a te».
Essa nel Talmud appare in questa frase appassionata: «Non fare al prossimo tuo ciò che è odioso a te: questa è tutta la Legge, il resto è solo spiegazione» (Shabbat 31a). Gesù la trasformerà in chiave esplicitamente positiva: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fate a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7, 12).
4. Quarta equazione: 3 / 4 a 1000. Per certi versi è il superamento dell’equazione del taglione il cui valore di giustizia permane ma è travalicato nella logica superiore dell’amore. È ciò che è applicato all’agire di Dio sia nel primo comandamento del Decalogo (Es 20, 5-6), sia nell’auto-rivelazione dei Sinai, «la carta d’identità biblica di Dio», come l’ha definita Albert Gelin (Es 34, 6-7). Noi ora citiamo integralmente solo la formula decalogica più schematica: «Io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla 3a e 4a generazione, per coloro che mi odiano ma che dimostra il suo amore fedele fino a 1000 generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi». Nell’altro passo l’amore misericordioso divino è ancor più marcato: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e grazioso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà, che conserva il suo amore per 1000 generazioni e perdona la colpa, la ribellione e il peccato».
Attraverso il linguaggio « generazionale » (destinato a sottolineare l’aspetto sociale e non esclusivamente personale del peccato) si esalta, da un lato, la giustizia: essa deve avere un suo rigore e una sua pienezza, espressa attraverso il 3 e 4, numeri che nel computo simbolico vengono idealmente sommati così da raggiungere il 7. Ma, d’altro lato, a imporsi in tutta la sua grandezza è in ebraico il hesed, ossia l’amore generoso e fedele che non conosce confini ed è infinito, perché tale è il valore del numero 1000. Dal numero freddo e implacabile dell’odio giungiamo, così, al vertice caloroso e gioioso dell’amore che non conosce numeri ma tende all’infinito come il Dio che è amore (1 Gv, 4, 8.16). A chi seguirà questa equazione piena dell’amore potrebbe essere riservata la beatitudine del Siracide: «Beati coloro che si sono addormentati nell’amor» (48,11).
 
Da Avvenire del 9 novenbre 2008
 

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 19 mai, 2011 |Pas de commentaires »

LA FRUTTUOSA GRANDEZZA DELLA PREGHIERA

dal sito:

http://www.certosini.info/preghiera/medit/guillerand/guillerand_03.htm

Dinanzi a Dio: La Preghiera

Di A. Guillerand, monaco certosino

CAPITOLO III

LA FRUTTUOSA GRANDEZZA DELLA PREGHIERA

I santi hanno scritto su questo tema delle pagine splendide:  » Quale dignità e quale gloria! – dice san Giovanni Crisostomo. – Il Dio onnipotente continuamente pronto ad ascoltarci « . Deboli creature, poveri esseri di un giorno, piccoli fiori nati al mattino, già appassiti alla sera, che però possiamo volgerci verso di Lui e subito ci dà udienza, ci parla, ci accarezza, si apre a noi; si china verso la nostra miseria e l’innalza fino al suo trono; ci fa entrare nella sua dimora, e questa dimora è il suo Amore, è il movimento stesso del suo Essere e della sua Vita!
lo stancherei il migliore degli uomini e il meno occupato presentandomi così a lui ad ogni momento con, purtroppo, una disinvoltura e una sfacciataggine che offenderebbero anche i più indulgenti; Dio mi riceve sempre, perdona e scusa tutte le mie sfrontatezze. Egli mi riceve e mi coccola. Mi mostra gli splendori del suo palazzo; ha sempre qualche luce nuova da offrire alla mia intelligenza, qualche delizia per il mio cuore. E se la luce è antica, la riveste di freschezza come un fiore di una nuova primavera; e se crede utile di lasciarmi nella notte, questa stessa notte si illumina di chiarezza e le più spesse tenebre si cambiano in vive luci. E se mi rifiuta le delizie sensibili, mi fa trovare nella preghiera del deserto dolcezze superiori che rapiscono la mia fede di bimbo che confida in suo Padre.
Questi divini rapporti mi basterebbero mille volte, se Dio si presentasse da solo, poiché Dio è tutto ed è tutto per me. Ma Dio si circonda di una compagnia innumerevole e affascinante. Le più belle anime di tutti i tempi, innalzate e raggianti per la Luce che le circonda, sono lì con Lui, amanti e buone come Lui; esse mi testimoniano la stessa tenerezza e mi offrono di condividere la loro felicità e la gioia dei loro rapporti con Colui che è e si dona; esse prendono le mie preghiere già prima che siano salite dal mio cuore alle mie labbra; le presentano a Dio; le arricchiscono della loro fraterna supplica; le profumano del loro sorriso; vi aggiungono i loro propri meriti. In tale società si dimentica la terra, gli uomini, le loro piccolezze e le nostre, tutto ciò che deprime o rattrista; si rende l’anima serena e come celeste; ci si sente grandi, forti e consolati.
Gli avversari della nostra salvezza come appaiono disprezzabili… e in realtà lo sono! Dio, la sua grazia, le virtù con cui ci fortifica e ci adorna, l’eterna felicità che promette, di cui talvolta dona come le primizie, i cieli che si avvicinano, che sembrano aprirsi, tutto ciò ci fa dimenticare i pericoli e le ore desolate del cammino. La preghiera pone l’anima dinanzi a queste realtà, e più che dinanzi: essa fa penetrare nel dolce soggiorno.
 » La preghiera – dice san Giovanni Climaco – unisce a Dio, sostiene il mondo, abbellisce le anime, cancella le colpe, preserva dalle tentazioni, difende nella lotta; la preghiera consola nelle pene, è la madre delle lacrime feconde, delle lacrime d’amore, dopo essere nata da quelle del pentimento; essa alimenta le gioie spirituali e le delizie dei cuori trasformati e uniti, le profonde luci, le sicurezze tranquille, le speranze fondate, i grandi progressi delle anime e i grandi interventi divini dipendono da essa « .
Tra lo sviluppo della preghiera e l’ascesa delle anime esiste un rapporto che è unanimemente constatato e che si impone. Elevandosi, le anime raggiungono delle regioni dove l’agitazione delle cose passeggere non arriva; il movimento cessa o diminuisce, le passioni si affievoliscono, il rumore del mondo, le sue preoccupazioni, i nostri stessi pensieri si fanno come lontani, l’attenzione si concentra su Colui che è Silenzio, Riposo, Dio di pace; ci si sente invasi di calma e come rivestiti dell’Immutabilità divina, che sembra comunicarsi a tutto l’essere. È il terreno della preghiera, del pio impeto d’amore che ci slancia verso Dio, incessantemente slanciato Egli stesso verso di noi. Il suo Spirito ci avvolge, ci penetra, discende in noi e dice:  » Figlio mio « , e ripartendo dalle profondità del nostro essere, che fa rivolgere verso il suo Principio, risponde:  » Padre! « .
Nessuna ora più grande e feconda, nessuna attività più alta sono possibili.
Ma nell’anima che prega così sono richieste delle disposizioni che reclamano dei lunghi esercizi e delle dure fatiche. La sensibilità turbata dalla colpa si ribella, si sbizzarrisce in slanci pazzeschi, in scoraggiamenti; essa non vuole riprendere il suo ruolo di serva; vuole dirigersi da sé, seguire i suoi capricci; resiste; le battaglie l’esasperano. Più la si vuole disciplinare, più si sbriglia e s’impenna. Bisogna riordinarla; bisogna rimetterla al suo posto che è quello di serva molto utile, ma sottomessa. Bisogna ristabilire l’armonia distrutta del bell’edificio umano che Dio aveva costruito. Dio solo può ricostruirlo… e noi non riusciamo a convincercene del tutto. La necessità assoluta del suo aiuto è l’ultima idea che entra nelle anime e che comanda il loro movimento verso di Lui. Noi passiamo la nostra vita a pretendere di santificarci senza questo aiuto e a credere nella nostra autonomia.
La preghiera ben compresa e fatta bene ci ripone nel nostro ruolo di creatura che riceve tutto dal Creatore, e che, senza di Lui, non è soltanto debole, ma completamente impotente. Allora noi ridiveniamo illuminati e forti; vediamo la verità e possiamo farla, poiché essa è in noi e si dona. Fino a quel momento noi eravamo nel nostro nulla e non volevamo uscirne.’anima che prega può essere ancora ben lontana dalla perfezione, essa è per via e arriverà. Essa è unita al principio che gliela comunicherà; accoglierà ciò che lui vorrà compiere in lei ad ogni istante. Essa segue un cammino infallibile, poiché tale cammino è il traguardo. È, al tempo stesso, in viaggio e al traguardo. Dio stesso prega in lei, la conduce a Sé, e già le si dona.
La preghiera procede dall’unione e la cerca e la completa. Dio fa incessantemente domandare ciò che vuole donare, e dona ciò che ha fatto domandare. Poi iscrive questo movimento dell’anima sul suo libro di vita; gli angeli lo mettono in conto, rapiti; essi ne raccolgono tutte le briciole, le colgono sulle labbra, appena abbozzate, così informi e talvolta così deformi, non vedendo che l’intenzione che è retta o l’infermità che scusa.
 » La preghiera ? dice sant’Agostino ? viene incontro ai bisogni delle anime, attira i soccorsi che sono loro necessari; rallegra gli angeli, tormenta l’inferno, è per Dio un sacrificio che non può non essergli accetto; essa è il coronamento della religione, è la lode totale, la gloria perfetta, la sorgente delle più solide speranze « .
Come, a un tale tesoro, a tali dolcezze, a un così grande onore, possiamo preferire dei vani discorsi, delle ore di ozio, dei divertimenti stupidi, delle fantasticherie senza oggetto? Dio è là, ci attende, ci chiama, ci offre chiarezze per lo spirito, energie per la volontà, ineffabili delizie per la sensibilità, beni inestimabili per noi stessi e per gli altri… e noi gli volgiamo le spalle.
Noi abbiamo, è vero, una scusa: è questo amore che si offre incessantemente e che sembra avvilirsi per donarsi. Ma il dono di sé non appare vile che alle anime vili. 1 cuori nobili sanno che è la verità e la vita, ed essi amano mantenersi in contatto con questo amore che si mostra e si comunica mostrandosi.

Publié dans:preghiera (sulla) |on 19 mai, 2011 |Pas de commentaires »

buona notte

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Angel’s Fishing Rod Wandflower

http://www.floralimages.co.uk/

Omelia per il 19 maggio 2011

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/12336.html

Omelia (17-04-2008) 

Messa Meditazione

La beatitudine dell’apostolo

Lettura
Il brano contiene, in primo luogo, la conclusione della spiegazione della lavanda dei piedi, con le parole di Gesù sul rapporto signore-servo e con quelle circa la relazione tra l’inviato e colui che lo manda. La beatitudine dei discepoli starà nel fare «queste cose», nel fare cioè quello che Gesù ha fatto. In secondo luogo, il testo rimanda al tradimento di Giuda e all’elezione divina, nei confronti dei discepoli che Gesù ha amato e scelto. Infine, pone l’esortazione ad accogliere ogni inviato come il Signore stesso.

Meditazione
Lavare i piedi è gesto di ospitalità e di accoglienza, riservato allo schiavo non giudeo. Ma è anche gesto di intimità della sposa verso lo sposo e di riverenza del figlio verso il padre. Questa ospitalità e accoglienza, questa intimità e riverenza sono le caratteristiche del Signore e Maestro, il quale rivela che la qualità più profonda dell’amore è l’umiltà di essere a servizio dell’altro.
Con questo amore umile, Gesù tiene nelle mani i nostri piedi. I piedi rappresentano il cammino dell’uomo che si è allontanato da Dio; ora essi sono nella mano del Figlio, che è la stessa del Padre, dalla quale nessuno può rapire (cfr. Gv 10,28-30).
Gesù afferma che «un apostolo non è più grande di chi lo ha mandato» (cfr. v. 27). L’essere inviato implica dipendenza da chi manda, ma anche unione con lui e impegno verso di lui. La dipendenza, l’unione e l’impegno nei confronti del Maestro implica il lavare i piedi degli altri, come ha fatto lui, che è stato in mezzo ai suoi come colui che serve (cfr. Lc 22,27). L’umiltà di Dio che lava i piedi all’uomo è il fondamento di un nuovo modo di vivere. Se ciascuno può pensare che il Figlio di Dio «mi ha amato e ha dato se stesso per me», può anche prendere la determinazione che «questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato» (Gal 2,20).
L’esperienza personale del Maestro e Signore, che si fa servo, chiama a un determinato stile di vita, diverso da quello nascosto nella lite dei discepoli su «chi di loro poteva esser considerato il più grande» (Lc 22,24). L’apostolo che vuol essere come i grandi del mondo non ha capito chi è il Signore. Diversamente, chi farà come ha fatto Gesù, chi farà «queste cose» sarà beato (cfr. v. 17).

Preghiera:
Signore Gesù, i nostri piedi sono nelle tue mani, il nostro cammino è custodito dal tuo amore. Concedi che con la tua grazia, come te, custodiamo il cammino dei nostri fratelli.

Agire:
Pensando alle parole di Gesù, nella giornata, con umiltà, farò dei gesti di amore fraterno.

Commento a cura di don Nunzio Capizzi

Cristo è risorto

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http://www.reginadellapace.info/template_permalink.asp?id=192

Publié dans:immagini sacre |on 18 mai, 2011 |Pas de commentaires »
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