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Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata
Giovanni Paolo II
Ci alzeremo in piedi ogni volta che
la vita umana viene minacciata…
Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita
viene attaccata prima della nascita
Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l’autorità
di distruggere la vita non nata…
Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso
o solo come un mezzo per soddisfare un’emozione
e grideremo che ogni bambino
è un dono unico e irripetibile di Dio…
Ci alzeremo quando l’istituzione del matrimonio
viene abbandonata all’egoismo umano…
e affermeremo l’indissolubilità del vincolo coniugale…
Ci alzeremo quando il valore della famiglia
è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche…
e riaffermeremo che la famiglia è necessaria
non solo per il bene dell’individuo
ma anche per quello della società…
Ci alzeremo quando la libertà
viene usata per dominare i deboli,
per dissipare le risorse naturali e l’energia
e per negare i bisogni fondamentali alle persone
e reclameremo giustizia…
Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti
vengono abbandonati in solitudine
e proclameremo che essi sono degni di amore,
di cura e di rispetto.
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Il Santuario Mariano di « Nostra Signora del Libano »
La gigantesca statua della Vergine, bianca figura a braccia aperte e rivolta verso il mare che troneggia dall’alto della collina di Harissa, è l’emblema della devozione alla Madonna del biblico Paese mediorientale.
Il Libano, Paese di antica cristianità il cui nome è reso sacro dalla Bibbia, copre e manifesta ricchezze inesauribili di cui tutti i Libanesi, nella diversità delle loro Comunità religiose e civili, vanno fieri. Terra biblica dei Cedri, la cui figura campeggia in mezzo della bandiera nazionale, il Libano è anche terra di antica civiltà, le cui coste e alte montagne hanno visto avvicendarsi Sumeri, Babilonesi, Egizi, Fenici, Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Crociati, Ottomani e Francesi. Il Libano si vanta di essere stato non solo terra di elezione del popolo navigatore dei Fenici che solcarono i mari con le loro potenti navi, ma anche teatro di eventi biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento.
La parola Libano possiede numerose risonanze storiche: basti qui segnalare che il nome ricorre nella Bibbia esplicitamente non meno di 72 volte, e più di cento volte per segno e allusione. L’origine del vocabolo e il senso che contiene ha però ancora un che di misterioso.
Nelle lingue semitiche libano significa genericamente bianco, e in questo caso il nome è suggerito dalla presenza, sulle alte montagne del Paese, di neve che ne corona la sommità in modo quasi permanente. Il nome significa anche incenso, quello stesso portato al divin Bambino dai Re Magi, il quale è bianco ed emana volute di fumo dello stesso colore. Attualmente c’è chi suggerisce di ricercare il senso del termine nel latte, prodotto noto per il suo colore bianco: del resto il nome arabo del latte ancora oggi è laban, che indica insieme il latte ed i suoi derivati, fra cui lo yogurt.
Culto dei Libanesi alla Madre di Dio
La venerazione di Maria è molto viva nel cuore di tutti i Libanesi e suscita l’ammirazione di tutti coloro che, in un modo o in un altro, hanno potuto avvicinare i fedeli del Libano. Nella sua Mission en Phénicie, Renan ha potuto scrivere: « Il culto della Vergine è profondissimo presso le genti del Libano e costituisce il grande ostacolo agli sforzi dei Protestanti presso quei popoli. Essi cedono su tutti i punti, ma quando si tratta di rinunziare al culto della Vergine, un legame più forte di loro li trattiene ».
Isolati fin dai tempi più remoti nella montagna libanese, i Cristiani, specie i Maroniti, hanno trovato nella Madre di Dio consolazione e aiuto nelle molte prove che hanno dovuto affrontare e superare lungo i secoli. Essi amano associare la figura di Maria alle reminiscenze bibliche legate al Monte Libano e all’albero del Cedro, che tanta parte hanno nelle composizioni poetiche veterotestamentarie e che spesso dalla tradizione patristica sono applicate alla Vergine Maria.
Per loro la Vergine Maria è la prediletta da Dio del « Cantico dei Cantici », che viene dal Libano: « Veni de Libano… »; essa s’innalza « come il cedro del Libano »; l’odore profumato delle sue vesti è « come il profumo del Libano » [Cant. 4, 11]. Nelle « Litanie Lauretane », che sempre i Maroniti recitano volentieri, dopo l’invocazione « Rosa mystica », inseriscono l’invocazione: « Cedro del Libano, prega per noi ».
I Maroniti osservano un rito particolare, quello della benedizione con l’immagine mariana, sul modello della benedizione eucaristica. Il sacerdote in cotta e stola la incensa, sale i gradini dell’altare, prende l’immagine della Vergine e si volge verso i fedeli, pronunciando ad alta voce questa formula di benedizione: « Per l’intercessione della Madre di Dio, la Vergine Maria, vi benedica la SS.ma Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo ». I fedeli rispondono: « Amen, perché ogni bene viene dalla Santa Vergine ».
I Maroniti riservano a questa e ad altre occasioni molti canti popolari in onore di Maria, suggestivi per la spontaneità dei testi e per la loro semplicità melodica. Ne traduciamo uno per esemplificare:
« O Madre di Dio, o misericordiosa
Madre di pietà e soccorso,
tu sei il nostro rifugio
e la nostra speranza.
Proteggici, o Vergine,
e abbi pietà dei nostri defunti.
O Vergine Madre, anche se
il tuo corpo è lontano da noi,
la tua intercessione ci accompagna
e ci protegge.
Da colui che ti ha esaltata
sopra ogni creatura
nel prendere da te un corpo,
ottieni ai peccatori il perdono,
continuamente.
Tu sei nostra madre e nostra speranza,
nostro vanto e nostro rifugio,
intercedi per noi presso il tuo Figlio
ché perdoni i nostri peccati
per sua misericordia.
Non ci abbandonare,
buona e piena di ogni grazia.
Salva i tuoi servitori,
ché ti possiamo ringraziare
nei secoli dei secoli ».
Il Libano, terra di Santuari mariani
Il Libano, terra di rifugio per tutti gli abitanti della regione, è stato chiamato « Paese di Maria » per la proverbiale devozione dei Libanesi per la loro Regina. Per questo il Paese è costellato di Chiese e di Santuari mariani. Infatti, gran parte delle Chiese è dedicata alla Vergine; e c’è sempre, nelle altre, un Altare consacrato a lei che è invocata con i titoli più belli e singolari: « Nostra Signora dell’Annunciazione », « Nostra Signora della Luce », « Nostra Signora dei Doni », ecc. Grandi statue sono erette in cima ai monti, e sono tantissimi i Santuari mariani frequentati da folle di pellegrini provenienti da ogni angolo del Paese.
I Santuari mariani non si contano e appartengono a tutte le Comunità cristiane. Fra questi vanno citati: quelli di Bkerké, Dimane, Qannoubine nella valle della Qadisha, il villaggio biblico di Cana, Bikfaya, Jbeil, Balamand, Ehden, Harissa, Zahlé, Mannara a Magdouché, Deir al-Kamar, Ksara, Bzommar, ecc.
Presenteremo ai nostri Lettori solo alcuni di questi, iniziando con quello più visitato, che porta il nome di « Notre-Dame du Liban », ad Harissa, la cui costruzione risale al 1904, in occasione del cinquantesimo anniversario della definizione dogmatica dell’Immacolata Concezione.
Il Santuario di « Nostra Signora del Libano » ad Harissa
Il Santuario dista 25 kilometri da Beirut, la capitale del Libano, su una collina che sovrasta a 600 metri di altezza la cittadina costiera di Jounieh. Lì si erge la gigantesca statua della Vergine, bianca figura che troneggia dall’alto della collina: con le braccia aperte e rivolta verso il mare, dà un effetto di grande suggestione. Questo luogo costituisce un centro focale delle Comunità cattoliche del Libano. In effetti, sul fianco della collina si vede la Sede patriarcale maronita di Bkerké; sulla cima vi è il Convento dei Padri Missionari di San Paolo, appartenenti alla Chiesa Greco Melkita Cattolica; un po’ più in alto, a qualche centinaio di metri, si trova la Sede della Nunziatura Apostolica in Libano, e nelle vicinanze il Convento dei Francescani. Più in là, il Convento di Charfé, Sede del Patriarcato Siro-cattolico, e sulla collina di Bzoummar, il Patriarcato Armeno-cattolico.
Il luogo fu scelto nel 1904 come Sede del Santuario dal Patriarca Maronita Elias Hoyek (1899-1931), e da Monsignor Charles Duval, Delegato Apostolico in Libano, per commemorare il cinquantesimo anniversario della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione. La statua prende a modello l’immagine della Santa Vergine apparsa nel 1830 a Caterina Labouré alla Rue du Bac a Parigi. L’artista Durenne la confezionò in dodici pezzi il cui peso totale ammontava a 14 tonnellate. Verso la fine di luglio 1906 fu trasportata ad Harissa e fu posta su un piedistallo a spirale composto da un centinaio di gradini. L’inaugurazione fu presieduta da Monsignor Hoyek, il 3 maggio 1908, anno del Giubileo sacerdotale di Papa Pio X e delle Apparizioni della Vergine a Lourdes. Da allora si celebra la festa della Madonna del Libano ogni anno il 1° Maggio, all’inizio del mese mariano.
Da un anno all’altro, il piccolo Santuario si è ingrandito ed è diventato il primo centro di Pellegrinaggi mariani provenienti da ogni parte: dal Libano, dal Medio Oriente e dai Paesi arabi. Il loro numero è andato ingrandendosi giorno dopo giorno, in ogni stagione e ad ogni occasione: familiare, religiosa, sociale, come a segnare da qui sempre nuova ripartenza nella vita cristiana.
Anche Non-Cristiani e Non-credenti vengono a questo Santuario, come turisti o con intento religioso di venerazione per Colei che il Corano chiama « la più nobile delle donne dell’universo », e dal popolo è detta « Sittina Mariam », vale a dire: « Nostra Signora Maria ». Tutti e ciascuno vogliono salutare la Vergine, « Nostra Signora del Libano », contemplare il suo volto, averne una benedizione, ammirare questo luogo unico al mondo, e ripartire con nuovo slancio per una vita migliore. Davvero, in questo luogo si avvera ogni giorno la parola profetica della stessa Madonna: « Tutte le generazioni mi proclameranno beata » (Lc 1, 48).
L’Atto di Affidamento del Papa nel nuovo grande Santuario
Nell’ultimo decennio degli Anni Novanta, la statua è stata affiancata da una grande Basilica che ha accolto il 10 e 11 Maggio 1997 il Papa Giovanni Paolo II in mezzo ad una grande folla, di giovani soprattutto. Dopo la recita del Regina coeli ai piedi della Patrona del Libano, il Papa pronunciò il seguente « Atto di affidamento »:
« Al termine di questa celebrazione, nell’ora della preghiera mariana, invochiamo anche i Santi che sono fioriti in questa terra […]
Insieme con voi, affido a Nostra Signora del Libano tutti i figli e le figlie del Paese. La Madre del Signore, presente ai piedi della Croce e nel Cenacolo della Pentecoste, raccolga nella fede, nella speranza e nell’amore i suoi figli che vivono in questo Paese o sparsi nel mondo! Assista i Pastori nel loro ministero! Sostenga la fedeltà orante e il servizio caritativo dei monaci e delle monache, dei religiosi e delle religiose! Accompagni i laici nella loro vita ecclesiale e nel servizio alla società! Irrobustisca le famiglie nell’unità dell’amore e nella dedizione alla loro missione educativa! Guidi i giovani sulle strade della vita!
Nella sua materna tenerezza, Maria dia conforto ai poveri, a quanti soffrono nel corpo o nello spirito, ai prigionieri e ai rifugiati!
Nostra Signora del Libano, veglia sull’intero popolo di questa terra così provata! A te lo affida il Successore di Pietro, qui giunto per portare a tutti un messaggio di fiducia e di speranza. Possa avverarsi, sulla soglia del nuovo millennio cristiano, il messaggio profetico di Isaia: « Ancora un poco e il Libano si cambierà in un frutteto e il frutteto sarà considerato una selva » [Is 29, 17].
Concedi, o Vergine Santissima, a questo popolo antico e pur sempre giovane di mantenersi degno erede della sua illustre storia, costruendo con dinamismo il suo avvenire nel dialogo con tutti, nel rispetto reciproco dei diversi gruppi, nella concordia fraterna!
Regina della pace, proteggi il Libano! ».
di George Gharib; rivista « Madre di Dio », maggio 2005
dal sito:
http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/05-Maggio/S_Bernardino_da_Siena.html
20 maggio: S. Bernardino da Siena, predicatore (1380-1444)
NEL NOME DI GESU’
“Misericordia e Pace” queste erano le due parole chiave pronunciate dai pellegrini che si recavano a Roma per il grande Giubileo del 1400. Era come un motto, uno slogan, una bandiera, ma nello stesso tempo qualcosa di più: un augurio certamente, un sospiro sommesso, un desiderio struggente, talvolta un grido disperato. Perché si avvertiva, proprio in quegli anni ma anche in seguito, questo profondo bisogno di Misericordia e di Pace nel campo politico, sociale ed ecclesiale.
Di pace politica anzitutto: l’Europa, fatta di nazioni cristiane divisa e molto spesso “l’un contro l’altra armata”. Principi cristiani che non facevano altro che organizzare guerre per… difendersi da altri principi cristiani, o per estendere il proprio potere (politico o economico). E, suprema bestemmia, molti affermavano di agire «nel nome di Dio». L’Italia: anch’essa divisa, con piccoli stati contro altri stati (le grandi Signorie), con città contro città, e all’interno di esse fazioni o partiti contro altre fazioni o partiti.
Chi non ricorda le lotte fra Guelfi e Ghibellini?“ Pace e Misericordia” anche tra le Chiese d’Oriente e d’Occidente e dentro la stessa Chiesa Cattolica: erano gli anni del Grande Scisma, dei papi (a Roma) e degli antipapi (ad Avignone), o degli scandali all’interno stesso di essa, con un clero spesso non all’altezza del proprio compito, culturalmente e moralmente.
Proprio in quei decenni si sviluppò un movimento di predicazione per il popolo che aveva come primo obiettivo il risveglio spirituale ed ecclesiale ma conseguito mediante migliori rapporti sociali, economici e familiari. Come dire ricreare una fede cristiana incarnata e trasformante la vita quotidiana, pubblica e privata. Si predicava perciò contro la violenza in generale, contro l’usura, lo strozzinaggio ed il lusso (violenza economica contro i poveri), contro la corruzione ed il gioco d’azzardo (rovina degli individui), contro le lotte tra le varie famiglie potenti e molto spesso prepotenti, contro lo sfruttamento e le perversioni sessuali.
In prima linea, in questa predicazione, erano gli ordini mendicanti dei Domenicani e dei Francescani. Questi organizzavano gruppi di missionari ambulanti, muniti di autorizzazione ecclesiastica mandati o talvolta anche chiamati benevolmente dagli stessi governanti, che speravano in un ritorno positivo per la loro immagine politica. Tra i tanti predicatori, due nomi eccellenti, ambedue bravi e famosi, ambedue santi: uno domenicano (San Vincenzo Ferrer, spagnolo ma che ha predicato anche in Italia, per questo chiamato Ferreri) e San Bernardino da Siena, “eccellente maestro di teologia e dottore di diritto canonico” come lo definì il Papa Pio II.
Ma per la storia della Chiesa è un grande, originale ed efficace predicatore. Infatti “gli bastava trovarsi davanti al popolo per lasciarsi alle spalle la dotta preparazione ed entrare in perfetta sintonia con la gente semplice, usandone, con festosa gioia creativa, il linguaggio quotidiano. L’esemplarità di Bernardino da Siena è tutta in questa sua capacità di ripensare il Vangelo dal di dentro della cultura popolare e di travasarlo in un linguaggio che era, proprio come quello di Gesù, il linguaggio di tutti i giorni” (Ernesto Balducci). E questo non è poco.
“Stage” pratico… tra i malati di peste
Bernardino nacque a Massa Marittima, dove il padre era governatore. Rimasto a sei anni orfano fu allevato, a Siena, da uno zio paterno e da due zie, molto religiose ma non bigotte, che gli diedero un’ottima educazione cristiana. Per questo motivo nelle prediche, Bernardino dimostrerà sempre una profonda conoscenza dei problemi femminili veri. Studiò grammatica e retorica e si laureò in giurisprudenza.
Durante la peste del 1400 a Siena, essendo perito tutto il personale regolare dell’ospedale e rispondendo alla richiesta di aiuto del responsabile, si offrì volontario insieme ai suoi amici della Compagnia dei Battuti (o dei Disciplinati) a cui si era iscritto, che si riunivano, a mezzanotte, nei sotterranei dell’ospedale. Dopo l’esperienza di quattro mesi tra i malati di peste, rimase lui stesso colpito dalla malattia e lottò per un po’ di tempo tra la vita e la morte.
Fu un’esperienza tremenda ma così forte che lo segnerà positivamente tutta la vita. Aveva imparato sull’uomo e i suoi bisogni ma anche su se stesso ciò che i libri di antropologia del tempo non avrebbero potuto insegnargli con maggiore efficacia. Passata poi l’epidemia si prese cura di una delle due zie, gravemente malata, fino alla sua morte.
Nel 1402, sempre a Siena, diventò francescano e due anni dopo sacerdote. Fu mandato poi a Fiesole per completare gli studi in teologia ascetica e mistica: qui lesse con attenzione e con entusiasmo gli scritti dei grandi autori francescani, in primis, Francesco e Bonaventura, Duns Scoto, Jacopone da Todi e altri.
Nel 1405 fu nominato dal Vicario dell’Ordine predicatore ufficiale, e da questo momento in poi Bernardino si dedicherà soprattutto alla predicazione (ma anche al governo e riforma del suo Ordine di cui fu Vicario Generale dal 1438 al 1442). In primo luogo nel territorio della Repubblica di Siena, poi in altre innumerevoli città, specialmente dell’Italia centro settentrionale.
Predicatore comprensibile, efficace, attuale
È interessante sapere che le prediche di Bernardino da Siena ci sono pervenute grazie ad un fedele (o ammiratore) trascrittore, il quale a modo suo stenografava tutto, anche i sospiri del predicante. Questi raccomandava che ciò che bisogna dire nella predica deve essere
“chiarozo, chiarozo… acciò chè chi ode ne vada contento e illuminato, e non imbarbugliato”.
Per Bernardino inoltre il predicare doveva essere un “dire chiaro e dire breve” ma senza dimenticare insieme il “dire bello”. E, come spiegava con una metafora contadina:
“Piuttosto ti diletterai di bere il buon vino con una tazza chiara e bella che con una scodella brutta e nera”.
Insomma curare il contenuto (il buon vino evangelico) e il contenente che deve essere bello (la forma). E lui faceva tutto questo (eccetto la brevità). Conquistava l’uditorio non con ragionamenti astrusi e astratti, ma con la semplicità, con parabole, aneddoti, racconti, metafore, drammatizzando e teatralizzando il racconto (oggi diremmo che della predica faceva un piccolo “show spirituale”).
Era soprattutto attuale: castigava e canzonava le umane debolezze, le stregonerie, le superstizioni, il gioco e le bische (“diceva: “anche il demonio vuole il suo tempio ed esso è la bisca”), i piccoli e grandi imbrogli nel commercio al dettaglio, le mode frivole (specialmente delle donne, oggi è il culto del “look”), i vizi in generale, pubblici e privati. Ma era feroce con gli usurai del tempo, una piaga antica (e moderna). Paragonava la morte di questi tali all’uccisione del porco in una famiglia: una festa ed una liberazione dalla fame per tutti.
Ma qual era il centro della predicazione di Bernardino? Naturalmente Gesù Cristo, in un triplice aspetto: il Gesù “umanato” e cioè l’Incarnazione, il Gesù “passionato” ovvero la sua Passione e Morte in Croce, ed infine il Gesù “glorificato”, la sua Resurrezione e Ascensione alla destra del Padre.
Bernardino metteva in risalto il primato assoluto del Cristo, la sua mediazione universale, la subordinazione di tutte le cose a Lui e in vista di Lui per arrivare attraverso Lui alla perfezione e alla comunione con Dio. È il tema centrale del “Christus Victor” diventato il Signore di tutto attraverso la sofferenza della Croce, rendendo tutti partecipi della salvezza dal peccato.
Tutto bene, tutto liscio nella sua vita? Non è possibile per nessuno. Oggi gli si rimprovera infatti una durezza eccessiva contro le cosiddette “streghe” e contro gli Ebrei (allora non erano ancora i “nostri Fratelli maggiori”). Era santo ma anche figlio del suo tempo e della cultura di allora.
Comunque la sua fama di predicatore travolgente, efficiente ed efficace (nelle conversioni anche clamorose, simboleggiato nel “rogo delle vanità”) non lo risparmiò da ostilità, sofferenze ed incomprensioni.
Sappiamo che l’invidia è una non virtù che, come zizzania, è sempre stata presente anche nei verdi campi ecclesiali. Bernardino fu infatti accusato di idolatria (e non una volta sola anche di eresia) specialmente per quanto riguardava la devozione al Nome di Gesù, espresso nel famoso trigramma JHS messo su uno stendardo. Fu sempre completamente scagionato (a Roma) e reintegrato. Fino alla morte che incontrò a L’Aquila il 20 maggio 1444.
Non solo aveva predicato bene, ma era anche vissuto da santo. Santità la sua che venne riconosciuta subito dalla Chiesa attraverso il papa Niccolò V che lo canonizzò, solo sei anni dopo, il 24 maggio del 1450.
MARIO SCUDU
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Il nome di Gesù è Luce
Il nome di Gesù è la luce dei predicatori perché illumina di splendore l’annunzio e l’ascolto della sua parola. Donde credi si sia diffusa in tutto il mondo una luce di fede così grande, repentina e ardente, se non perché fu predicato Gesù? Non ci ha Dio “chiamati alla sua ammirabile luce” (1 Pt 12, 9) con la luce e il sapore di questo nome? Ha ragione l’Apostolo di dire a coloro che sono stati illuminati e in questa luce vedono la luce: “Se un tempo eravate tenebre, ora siete luce nel Signore: comportatevi perciò come figli della luce” (Ef 5,8).
Perciò si deve annunciare questo nome perché risplenda, non tenerlo nascosto. E tuttavia nella predicazione non lo si deve proclamare con un cuore vile o con una bocca profanata, ma lo si deve custodire e diffondere come da un vaso prezioso…
L’Apostolo Paolo portava dovunque il nome di Gesù con le parole, con le lettere, con i miracoli e con gli esempi. Infatti lodava sempre il nome di Gesù e gli cantava inni con riconoscenza…
Dai Discorsi, n. 49, Sul glorioso nome di Gesù Cristo, cap. 2.
RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2006 – 5
dal sito:
http://www.zammerumaskil.com/liturgia/preghiere-e-poesie/preghiera-dei-disabili-mentali.html
Preghiera dei disabili mentali
Giovedì 11 Marzo 2010
Padre della vita,
che con infinito amore
guardi e custodisci coloro che hai creato,
ti ringraziamo per tutti i tuoi doni.
Ascoltaci quando ti invochiamo.
sostienici quando vacilliamo,
perdona ogni nostro peccato.
Signore Gesù, Salvatore del mondo,
che hai preso su di te
i pesi e i dolori dell’umanità,
ti affidiamo ogni nostra sofferenza.
Quando non siamo compresi, consolaci,
nell’inquietudine donaci la pace,
se siamo considerati ultimi, tu rendici primi.
Spirito Santo,
consolatore degli afflitti
e forza di coloro che sono nella debolezza,
ti imploriamo: scendi su di noi.
Con il tuo conforto, il pellegrinaggio della nostra vita
sia un cammino di speranza
verso l’eternità beata del tuo Regno. Amen.
Card. Dionigi Tettamanzi
Genova Giugno 2000
dal sito:
http://www.zenit.org/article-26786?l=italian
MARIA CI MOSTRA IL VOLTO DEL PADRE
V Domenica di Pasqua, 22 maggio 2011
di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 20 maggio 2011 (ZENIT.org).- In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: ‘Vado a prepararvi un posto’? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado conoscete la via”. Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?”. Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin d’ora lo conoscete e lo avete veduto”. Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Gli rispose Gesù : “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi tu dire: ‘Mostraci il Padre’? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre” (Gv 14, 1-12).
Proprio l’apostolo Giovanni, che ci racconta la richiesta di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta!” (Gv 14,8), conclude il prologo del suo Vangelo con un’affermazione che sembra giustificare il discepolo: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Perciò, il velato rimprovero di Gesù: “Da tanto tempo sono con voi…Come puoi tu dire: ‘Mostraci il Padre?” (Gv 14,9), sorprende anche noi.
Filippo sapeva chi era Gesù. Ormai da tre anni seguiva il Maestro, che lo aveva incontrato in Galilea invitandolo senza esitazione a seguirlo. Egli stesso si era trasformato in entusiasta testimone del Signore nei confronti di Natanaele: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazaret” (Gv 1,43-46). Un’affermazione che dimostra la sua conoscenza delle Scritture.
Filippo, tuttavia, non sembra ancora consegnato totalmente al mistero del suo Maestro, e continuerà ad esitare, come quel giorno in cui Gesù lo mette alla prova chiedendogli: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (Gv 6,5). In tale circostanza, Gesù non risponde al discepolo come fa oggi, ma lo sorprende con la clamorosa eloquenza della moltiplicazione dei pani, dimostrandogli così ciò che oggi rivela esplicitamente: “..il Padre che rimane in me, compie le sue opere” (Gv 14,10b).
Ma ora Filippo, ancora prigioniero dei suoi schemi, torna con lo stesso atteggiamento ad interpellare il Signore: “Mostraci il Padre e ci basta!” (Gv 14,8).
La sua domanda, per altro, non è certo ingiustificata, come osserva un grande teologo: “Qui vogliamo fermarci e cercare di riflettere. Non è forse così paradossale quell’affermazione centrale “Chi vede me, vede il Padre”, da confinare con la follia? Qui un uomo dice – giacché Gesù è pur sempre un uomo – che chi vede lui, chi lo vede davvero, costui vede Dio. Ma Dio non è forse indicibile, non abita forse “in una luce inaccessibile”, non abbaglia i nostri deboli occhi, cosicché noi non possiamo guardare senza danno in questa luce? Può esserci una rappresentazione del Divino all’interno del nostro mondo limitato, angusto? Certamente nessuno di noi oserà, a meno che non sia pazzo, assumersi il ruolo di interprete di Dio. Ma chiediamoci d’altra parte: Possiamo negare a Dio la capacità di rivelarsi al mondo, se lo vuole? Negargli questo significherebbe racchiuderlo nella sua gloria come in una prigione, in una gabbia d’oro. E non ha forse il Creatore di questo mondo già cominciato a rivelare in esso qualcosa della sua sapienza, grandezza, bellezza, “come in uno specchio e in un enigma”? Perché non dovrebbe egli poter andare avanti e nel volto di un uomo lasciar trasparire i suoi propri tratti?“Chi vede me vede il Padre”. Cioè: chi vede come io mi consumo senza risparmio per gli uomini, nei miei discorsi, nei miei miracoli, nelle pene che per essi io prendo su di me, nelle sofferenze che, imposte da loro, io carico su di me, costui da tutto ciò può vedere come Dio Padre interiormente si pone nei confronti degli uomini, sue creature. Gesù racconta la parabola del figliol prodigo; essa commuove tutti quelli che lo ascoltano. E cosa dice egli con essa? Dice: il Padre è così! E questo atteggiamento interiore del Padre voi potete addirittura con la sua grazia imitarlo, appropriarvene. “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36). Se il Padre vi ha perdonato un debito così grande, allora voi potete – addirittura con facilità – perdonarvi l’un l’altro i vostri piccoli debiti” (H. U. V. Balthasar, Tu coroni l’anno con la tua grazia, p. 78).
Tutto ciò ha molto da dirci e confortarci, anche se il volto radioso del Padre si dovesse improvvisamente eclissare a causa di un evento tanto doloroso da renderlo irriconoscibile al cuore. E’ quanto s’è presentato ai miei occhi in questi giorni. Ecco una giovane famiglia felice, perché dopo anni di preghiere e di fiduciosa attesa, Dio Padre ne ha esaudito la supplica per il dono di un altro figlio. Solo pochi giorni fa stavamo festeggiando con gioia grande il lieto evento, giunto ormai alle soglie del terzo mese. Ma ieri mi ha raggiunto questo terribile annuncio: “Caro padre, il mio bambino non c’è più…La gravidanza si è fermata circa una settimana fa e ora sono in ospedale per il raschiamento. Avrei tanto piacere che lei ci scrivesse una mail, così la leggo quando torno a casa…Grazie”.
Questa semplice, rassegnata preghiera di una mail di conforto è la stessa richiesta di Filippo a Gesù: “Mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14,8), ma com’è difficile mostrare il volto misericordioso del Padre quando la morte trasforma crudelmente in singhiozzi il canto alla sua misericordia! Pensando alle parole della “Salve Regina”, ho scritto loro: “La Madre di ogni figlio è con il vostro bambino in Cielo, ed è con voi in terra per consolarvi con la sua dolce presenza, anche e soprattutto ora, presso la croce del suo Figlio”.
Sì, Gesù mostra in se stesso com’è il Padre, ma è Maria che ci mostra Gesù, il Volto del Padre: “..e mostraci dopo questo esilio Gesù, il frutto benedetto del tuo seno, o clemente, o pia, o dolce vergine Maria”.
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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
dal sito:
http://www.zenit.org/article-26779?l=italian
QUELL’ABBRACCIO TRA WOJTYLA E IL RABBINO TOAFF
Di Segni: « Tra loro un feeling speciale »
di Mariaelena Finessi
ROMA, venerdì, 20 maggio 2011 (ZENIT.org).- Del dialogo, dei giovani e della comunicazione, Wojtyla è stato però anche il Papa della prima visita ufficiale in una sinagoga. «No signorina qua si sbaglia»: il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni scherza con la presentatrice al concerto organizzato il 18 maggio da « Roma Capitale » a chiusura degli eventi per la beatificazione di Giovanni Paolo II. Sale sul palco dellAuditorium della Conciliazione per raccontare il particolare «feeling» con lebraismo instaurato dal Papa polacco durante il suo mandato.
«Se vogliamo essere precisi prosegue Di Segni , il primo Pontefice in assoluto a visitare una sinagoga è stato Pietro». In platea, tra migliaia di spettatori, una delegazione ebraica composta, tra gli altri, dal Presidente dellUnione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e dallassessore della Comunità ebraica di Roma Ruben Della Rocca in rappresentanza del presidente Riccardo Pacifici.
Artisti di fama, e testimoni « speciali » del legame vissuto con Wojtyla nel corso del suo pontificato durato 27 anni – come ad esempio l’ex Cardinale vicario di Roma Camillo Ruini o il postulatore monsignor Slawomir Oder – si alternano sul palco a ripercorrere i momenti più importanti, le svolte e i giri di boa che questo pontefice ha consegnato per sempre alla storia.
Come quella volta, 13 aprile 1986, quando Giovanni Paolo II ha varcato la soglia del Tempio di Roma. Di Segni, ai tempi giovane ministro del culto, ricorda così levento: «Cera la sensazione di vivere un momento storico». E tanta era stata poi la sorpresa «anche perché non era poca la perplessità per i problemi procedurali da risolvere. In altri termini era tutto da creare». E, daltra parte, si era impreparati: mai cerano stati precedenti di tale portata.
«Si racconta una leggenda continua Di Segni per spiegare come fosse unassoluta novità quellincontro tra il Papa e lex rabbino capo di Roma Elio Toaff, oggi 96enne -, che io allora abbia cantato ma posso assicurarvi che ciò non corrisponde al vero. Di fatto ironizza il rabbino nella sua nota cifra stilistica, lasciando intendere una scarsa capacità canora non ha piovuto quel giorno». Indimenticabile labbraccio tra i due uomini, in cui si racchiudevano tante parole non dette a sciogliere altrettante incomprensioni. «Tra loro cera un feeling speciale», commenta Di Segni.
Lo stesso Toaff nell’autobiografico « Perfidi giudei, fratelli maggiori » (ediz. Mondadori) scrive: «Insieme entrammo nel Tempio. Passai in mezzo al pubblico silenzioso, in piedi, come in sogno, il Papa al mio fianco, dietro cardinali, prelati e rabbini: un corteo insolito, e certamente unico nella lunga storia della Sinagoga. Salimmo sulla Tevà e ci volgemmo verso il pubblico. E allora scoppiò lapplauso. Un applauso lunghissimo e liberatorio, non solo per me ma per tutto il pubblico, che finalmente capì fino in fondo l’importanza di quel momento… Lapplauso scoppiò [nuovamente] irrefrenabile quando [il Papa] disse: « Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiori »».
E non a caso il nome di Toaff è uno dei tre insieme a quello dellallora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede cardinale Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, e del cardinale Stanislaw Dziwisz, attuale arcivescovo di Cracovia ma per quarantanni a servizio di Wojtyla come suo segretario particolare – pubblicati nel testamento spirituale del pontefice polacco «a ulteriore riprova di un legame che va oltre lufficialità. Una simpatia sostanziale che porta allamicizia là dove il profilo dottrinale può creare problemi».
Il rabbino puntualizza quindi il senso della parola « dialogo » che molti osservatori hanno preso ad usare per raccontare, con la visita di Wojtyla al Ghetto, linfrangersi di certe rigidità del passato: «In quegli anni il dialogo tra ebraismo e cristianesimo era già ben impostato ma si trattava perlopiù di un dialogo tra eruditi e teologi. Un dialogo a cui mancava laspetto umano e Wojtyla è stato in grado coglierne la necessità».
Insomma, conclude Di Segni, «questo Papa ha saputo rompere il ghiaccio ed oggi tutti ci rendiamo conto che il suo gesto ha cambiato per sempre latmosfera nelle nostre relazioni».