Archive pour mai, 2011

Provvidenza. Questa grande sconosciuta (R.Guardini)

dal sito:

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Provvidenza. Questa grande sconosciuta (R.Guardini)

Avvenire 20.6.10

Romano Guardini nasce a Verona nel 1885 e nel 1886 si trasferisce con la famiglia a Magonza, in Germania. Negli anni universitari, dopo avere frequentato per due semestri la facoltà di chimica a Tubinga e per tre semestri quella di economia politica a Monaco e Berlino, decide di entrare in seminario e viene ordinato sacerdote nel 1910. Nel 1922 ottiene con una tesi su Bonaventura l’abilitazione alla docenza in teologia dogmatica, mentre è attivo nella pastorale con il movimento giovanile cattolico. Nel 1923 gli venne affidata la cattedra di «visione del mondo» cattolica all’Università di Berlino, che conserva fino al 1939, quando viene prematuramente «pensionato» dal regime nazista. Dal 1943 al 1945 si ritira a Mooshausen, dove era parroco un suo caro amico, Josef Weiger. Nel 1945 ottiene nuovamente la cattedra di filosofia della religione e visione cattolica del mondo a Tubinga, nel 1948 passa alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera. Nel 1962 è costretto a lasciare l’attività accademica per motivi di salute, gli stessi che gli impediscono poi di partecipare ai lavori del Concilio Vaticano II. Muore nel 1968. Il brano che qui pubblichiamo è tratto dal volume La preghiera del Signore, il Padre Nostro (pagine 102, euro 10) appena pubblicato da Morcelliana.
Ma che cosa significa Provvidenza? L’esistenza cristiana si è espressa nelle parole del linguaggio. Ma il linguaggio cristiano, le parole che contengono il mistero, le energie, le gioie e gli interessi di quell’esistenza, nel corso del tempo, specialmente degli ultimi due secoli [1700 e 1800], hanno avuto una sorte sfortunata. L’esistenza cristiana è scivolata nella mondanità e ne ha assunto insieme le parole. Ora s’aggirano dappertutto nel nostro linguaggio quotidiano termini che derivano dall’ambito sacro della fede e dell’amore cristiani, ma non hanno più in sé molto della loro origine. Più volte un residuo, una vibrazione, un’aura – per il resto sono divenuti mondani, secolari. Così è accaduto anche alla sacra parola «Provvidenza». In sé essa significa il mistero del cuore di Cristo. Ne è nato però qualcosa di carattere molto secolare. Una volta che ci poniamo con attenzione in ascolto di che cosa infine si esprima realmente nella parola «provvidenza», come viene usata, per lo più, essa sembra indicare alcunché come un «ordine del mondo»: quindi, all’incirca, che tutte le cose e per conseguenza anche l’uomo con esse e con i suoi simili, si trovano reciprocamente in una connessione razionale, cioè determinata dalla natura. Se l’uomo lasciasse che la saggia «natura» concedesse le sue garanzie, se l’uomo agisse razionalmente, secondo natura, tutto diventerebbe buono… Nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, di questo modo di sentire s’è fatta una visione del mondo, una Weltanschauung ; anzi un’intera dottrina dell’economia e del benessere. Ora, si tratta già di una cosa molto fragile se è questo ordine presuntamente razionale, che deve garantire il bene dell’uomo. Noi abbiamo anzi sperimentato che cosa ne è scaturito: la prima guerra mondiale e il caos del periodo successivo. Ma, prescindendo interamente dal fatto che per questo «ordine» i conti non tornano per nulla – ciò che Gesù intende con «ordine», è qualcosa di totalmente altro! Qualcosa di audace, di inedito. Qualcosa che proprio non appartiene al mondo e alla sua ragione, ma viene dal cielo. Come parla Egli dunque della Provvidenza? Nel discorso della montagna, Mt 6,24-34, si dice: «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire Dio e mammona. Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete: la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? e chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? [altra interpretazione: 'un cubito alla sua statura']. E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo [gli anemoni], non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettate nel forno, non farà assai di più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque, dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani: il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno [di Dio] e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena». Questo ha forse la tonalità di un mero «ordine del mondo»? L’esortazione a non preoccuparsi, a non dire: Che cosa possiamo mangiare, che cosa possiamo bere, di che cosa possiamo vestirci, perché sono i pagani ad adoperarsi per tutto ciò? Non erano appunto quei «pagani», che sapevano parlare in modo tanto eccellente dell’«Ordine» del mondo? Gli stoici per esempio che insegnavano come in tutto viva una grande ragione [ lógos ], e come, se ci si affida ad essa, tutto proceda bene? Qui dev’esservi qualcosa di totalmente altro! Ma che cosa? Per esempio un’esistenza da fiaba, nella quale all’ozioso il cibo venga a volo; e il vestito cresca sugli alberi? O una promessa che il mondo perderà la durezza della sua realtà, e sarà dato al credente di rettificarlo, secondo il suo desiderio? In verità no; ma tutto ciò che viene detto sulla Provvidenza, deve essere compreso dalla frase conclusiva: «Cercate prima il regno [di Dio] e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta». Tutto ne dipende. L’uomo viene incitato a fare di quella del regno di Dio la sua prima e più seria ricerca. Soprattutto ad adoperarsi perché il regno di Dio giunga e consegua spazio nella sua esistenza. La sua preoccupazione primaria dev’essere che avvenga tutto quello che Dio vuole – il grande Dio, del quale si dice che «come è alto il cielo sulla terra, altrettanto alti sono i suoi pensieri al di sopra di quelli degli uomini» [cfr. Is 55,9]. Come Egli progetta e vuole con intento creativo, così deve accadere, nonostante il mondo e la razionalità terrena. L’uomo deve puntare su quella base. Deve spostare il centro della sua vita, ponendolo dall’«io» in Dio. Deve pensare, giudicare, agire da quanto parla in Cristo. Ma è cosa difficile, assai, assai difficile! Può apparire una stoltezza; come lo staccarsi da ogni posizione salda. Ma se avviene, e l’uomo entra con Dio nell’intesa, nell’accordo della sollecitudine per il Regno, allora Dio si cura di lui in un modo nuovo, creativo. L’esistenza – che, anzi, in verità, insieme con tutto il suo ordine celebrato dalla ragione, non si preoccupa affatto dell’uomo – si raccoglie attorno a lui e in direzione di lui. Dunque, un miracolo? Sì, un miracolo che ha origine da quanto ha puramente carattere terreno, mondano. In verità, una nuova creazione, che emerge scaturendo dall’energia, che è in grado di compiere tale impresa, dall’amore di Dio cui si sia data libertà di agire. Il mondo con la sua struttura non è già compiuto. Esso sta, plasmabile e obbediente, nella Sua mano. Se l’amore creatore di Dio è accolto dalla cura amorosa e dalla fiducia del cristiano, se la libertà dell’uomo si apre e gli dà spazio, dal mondo si sviluppa una forma nuova della realtà. Si costituisce qui un nuovo «ordine», che deriva da Dio e si rapporta alla salvezza dell’«uomo nuovo». In esso l’esistenza prende l’uomo a riferimento. Egli riceve ciò che gli è necessario di fronte a Dio, anche se si attraversassero oscurità e distretta. Nella misura in cui la sollecitudine per il regno di Dio diviene il primo interesse in una persona, «non con la lingua, ma nei fatti e nella verità» [cfr. 1Gv 3,18] – sarà una cosa sola con Dio nell’amore. Ma allora per volontà di Dio si instaura un’unità che tutto pervade efficacemente. L’insieme degli avvenimenti si ordina attorno a questa persona, e tutto ciò che accade, si compie grazie all’amore. La Provvidenza è qualcosa di grande e misterioso a un tempo. Essa equivale a quel combinarsi dell’esistenza, che si verifica attorno alla persona la quale fa propria la sollecitudine di Dio. Intorno ad essa, il mondo si fa diverso. Hanno inizio i «nuovi cieli e nuova terra» [cfr. Is 65,17.22; 1Pt 3,13; Ap 21,1]. Questo significa Provvidenza; non ciò che il pensiero secolarizzato dell’epoca moderna ne ha fatto. Non vogliamo abbassare le cose di Dio. Devono mantenere la loro grandezza e la loro magnificenza gloriosa. Se poi ci accorgiamo di essere troppo piccoli per esse, intendiamo lasciarle come sono. Allora v’è almeno verità. Vogliamo lasciare la sua grandezza al Dio ricco e confessare al Suo cospetto la nostra piccolezza e povertà. Sarà un atto di gentilezza. Provvidenza non significa ordine del mondo. Che il mondo sia ordinato, è qualcosa di poderoso. Che tutto sia in connessione e che in essa abbia la sua legge e così anche noi uomini, è quanto ci deve riempire di reverenza. Ma soltanto di tale ordine non possono vivere il nostro spirito, il nostro cuore, la dignità della nostra persona. Il mero ordine del mondo passa attraverso di noi; da lontananza infinita a lontananza infinita. Per tale ordine noi siamo solamente materiale e strumento. Esso non si preoccupa di noi, ma ci adopera. Ciò è anche giusto, in questo modo, e noi non vogliamo aspirare a cose da fiaba. Ma l’ordine della Provvidenza intende altro. Esso deriva dal cuore di Dio. Esso rifulge nel cuore della persona che è entrata in accordo d’amore con Lui, e nella condivisione della cura per il suo Regno. Essa compenetra questa persona, l’orientamento e i sentimenti, il parlare e l’agire. S’irradia da lei in tutto ciò che la circonda: nelle altre persone, in cose e vicende. Essa afferra la realtà, la ordina in modo nuovo e cambia il mondo. Non nella fantasia; non come nelle fiabe; non mediante la magia e l’incantesimo, ma grazie all’onnipotente creare per amore da parte di Dio, e attraverso il cuore che Gli si mette a disposizione. Su questa base dobbiamo intendere la petizione per il pane quotidiano. La persona che la pronuncia non ha a che fare con un ordine universale del mondo. Essa non ricorda Dio perché l’organizzazione razionale dell’esistenza possa funzionare esattamente anche oggi e domani e con riferimento all’alimentazione e al vestito personali. Questa persona si sforza invece di prendere ferma posizione nel «cercare il regno di Dio». Essa attua l’unità dell’accordo con Dio in questa sollecitudine; nel luogo in cui si trova e nel giorno che sta vivendo. E da qui essa, con la preghiera chiede che il luogo dove risiede, il giorno che appunto trascorre, le cose che ora le stanno attorno – tutto ciò possa obbedire alla santa volontà d’amore, pure nel senso che chi rivolge la richiesta abbia il suo pane e il suo vestito, e tutto ciò, «di cui – dice Gesù –: ‘il Padre che è nei cieli sa che avete bisogno’» [cfr. Mt 6,32].

Publié dans:Teologia |on 26 mai, 2011 |Pas de commentaires »

buona notte

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Filipendula vulgaris

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San Patrizio

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Publié dans:immagini sacre |on 25 mai, 2011 |Pas de commentaires »

IL GRIDO DEL DAINO di SAN PATRIZIO (bellissima preghiera /credo)

dal sito:

http://web.tiscali.it/angolodidario/sprazzidipoesia/sanpatrizio.html

SAN PATRIZIO

IL GRIDO DEL DAINO
 
Io sorgo oggi
grazie a una forza possente, l’invocazione della Trinità,
alla fede nell’Essere Uno e Trino
alla confessione dell’unità
del Creatore del Creato.
 
Io sorgo oggi
grazie alla forza della nascita di Cristo e del suo battesimo,
alla forza della sua crocifissione e della sua sepoltura,
alla forza della sua resurrezione e della sua ascesa,
alla forza della sua discesa per il Giudizio Universale.
 
Io sorgo oggi
grazie alla forza dell’amore dei cherubini,
in obbedienza agli angeli,
al servizio degli arcangeli,
nella speranza della resurrezione e della ricompensa,
nelle preghiere dei patriarchi,
nelle predizioni dei profeti,
nelle predicazioni degli apostoli,
nella fede dei confessori,
nell’innocenza delle vergini,
nelle imprese dei giusti.
 
Io sorgo oggi
grazie alla forza del cielo,
luce del sole,
fulgore della luna,
splendore del fuoco,
velocità del lampo,
rapidità del vento,
profondità del mare,
stabilità della terra,
saldezza della roccia.
 
Io sorgo oggi
grazie alla forza del Signore che mi guida,
il potere di Dio per sollevarmi,
la saggezza di Dio per guidarmi,
l’occhio di Dio per guardare davanti a me,
l’orecchio di Dio per udirmi,
la parola di Dio per parlarmi,
la mano di Dio per difendermi,
la via di Dio da seguire,
lo scudo di Dio a proteggermi,
l’esercito di Dio a salvarmi
dai tranelli dei diavoli,
dalle tentazioni del vizio,
da chi mi vuole male,
vicino e lontano,
solo e nella moltitudine.
 
Io invoco oggi tutte queste forze tra me e questi mali,
contro ogni potere che si opponga al mio corpo e alla mia anima,
contro le stregonerie dei falsi profeti,
contro le leggi nere degli dèi pagani,
contro le leggi false degli eretici,
contro la pratica dell’idolatria,
contro i sortilegi di streghe e fabbri e maghi,
contro ogni conoscenza che corrompe il corpo e l’anima dell’uomo.
 
Cristo fammi oggi da scudo
contro il veleno, contro il fuoco,
contro l’annegamento, contro le ferite,
che io possa avere abbondanza di ricompense.
Cristo con me, Cristo davanti a me, Cristo dietro di me,
Cristo alla mia destra, Cristo alla mia sinistra,
Cristo quando mi corico, Cristo quando mi siedo, Cristo quando mi alzo,
Cristo in ogni cuore che mi pensa,
Cristo in ogni bocca che mi parla,
Cristo in ogni occhio che mi guarda,
Cristo in ogni orecchio che mi ascolta.
 
Io sorgo oggi
grazie alla forza della nascita di Cristo e del suo battesimo,
alla forza della sua crocifissione e della sua sepoltura,
alla forza della sua resurrezione e della sua ascesa,
alla forza della sua discesa per il Giudizio Universale.
———————————–

NOTA
La lirica medievale irlandese si erge per bellezza e melodia, per potenza e profondità, in un periodo in cui l’Europa giaceva nel più oscuro nadir della sua storia. Due buone antologie (riportate sotto) permettono al lettore italiano di avvicinarsi a questo mondo periferico, eppure bellissimo, della poesia europea. Tuttavia, la preghiera-poesia di San Patrizio è tratta, con qualche modifica, dal bel libro di Thomas Cahill Come gli irlandesi salvarono la civiltà.

Publié dans:preghiere, santi scritti |on 25 mai, 2011 |Pas de commentaires »

CATECHESI DI BENEDETTO XVI SULLA FIGURA DI GIACOBBE

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26832?l=italian

CATECHESI DI BENEDETTO XVI SULLA FIGURA DI GIACOBBE

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 25 maggio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della catechesi che Papa Benedetto XVI ha pronunciato questo mercoledì in occasione dell’Udienza generale in Piazza San Pietro in Vaticano, iniziando un percorso biblico sulla preghiera e dedicando il primo intervento ad Abramo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sulla preghiera, ha incentrato la sua meditazione sulla figura di Giacobbe, nel Libro della Genesi.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
Oggi vorrei riflettere con voi su un testo del Libro della Genesi che narra un episodio abbastanza particolare della storia del Patriarca Giacobbe. È un brano di non facile interpretazione, ma importante per la nostra vita di fede e di preghiera; si tratta del racconto della lotta con Dio al guado dello Yabboq, del quale abbiamo sentito un brano.
Come ricorderete, Giacobbe aveva sottratto al suo gemello Esaù la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie e aveva poi carpito con l’inganno la benedizione del padre Isacco, ormai molto anziano, approfittando della sua cecità. Sfuggito all’ira di Esaù, si era rifugiato presso un parente, Labano; si era sposato, si era arricchito e ora stava tornando nella terra natale, pronto ad affrontare il fratello dopo aver messo in opera alcuni prudenti accorgimenti. Ma quando è tutto pronto per questo incontro, dopo aver fatto attraversare a coloro che erano con lui il guado del torrente che delimitava il territorio di Esaù, Giacobbe, rimasto solo, viene aggredito improvvisamente da uno sconosciuto con il quale lotta per tutta una notte. Proprio questo combattimento corpo a corpo – che troviamo nel capitolo 32 del Libro della Genesi – diventa per lui una singolare esperienza di Dio.
La notte è il tempo favorevole per agire nel nascondimento, il tempo, dunque, migliore per Giacobbe, per entrare nel territorio del fratello senza essere visto e forse con l’illusione di prendere Esaù alla sprovvista. Ma è invece lui che viene sorpreso da un attacco imprevisto, per il quale non era preparato. Aveva usato la sua astuzia per tentare di sottrarsi a una situazione pericolosa, pensava di riuscire ad avere tutto sotto controllo, e invece si trova ora ad affrontare una lotta misteriosa che lo coglie nella solitudine e senza dargli la possibilità di organizzare una difesa adeguata. Inerme, nella notte, il Patriarca Giacobbe combatte con qualcuno. Il testo non specifica l’identità dell’aggressore; usa un termine ebraico che indica « un uomo » in modo generico, « uno, qualcuno »; si tratta, quindi, di una definizione vaga, indeterminata, che volutamente mantiene l’assalitore nel mistero. È buio, Giacobbe non riesce a vedere distintamente il suo contendente e anche per il lettore, per noi, esso rimane ignoto; qualcuno sta opponendosi al Patriarca, è questo l’unico dato certo fornito dal narratore. Solo alla fine, quando la lotta sarà ormai terminata e quel « qualcuno » sarà sparito, solo allora Giacobbe lo nominerà e potrà dire di aver lottato con Dio.
L’episodio si svolge dunque nell’oscurità ed è difficile percepire non solo l’identità dell’assalitore di Giacobbe, ma anche quale sia l’andamento della lotta. Leggendo il brano, risulta difficoltoso stabilire chi dei due contendenti riesca ad avere la meglio; i verbi utilizzati sono spesso senza soggetto esplicito, e le azioni si svolgono in modo quasi contraddittorio, così che quando si pensa che sia uno dei due a prevalere, l’azione successiva subito smentisce e presenta l’altro come vincitore. All’inizio, infatti, Giacobbe sembra essere il più forte, e l’avversario – dice il testo – «non riusciva a vincerlo» (v. 26); eppure colpisce Giacobbe all’articolazione del femore, provocandone la slogatura. Si dovrebbe allora pensare che Giacobbe debba soccombere, ma invece è l’altro a chiedergli di lasciarlo andare; e il Patriarca rifiuta, ponendo una condizione: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto» (v. 27). Colui che con l’inganno aveva defraudato il fratello della benedizione del primogenito, ora la pretende dallo sconosciuto, di cui forse comincia a intravedere i connotati divini, ma senza poterlo ancora veramente riconoscere.
Il rivale, che sembra trattenuto e dunque sconfitto da Giacobbe, invece di piegarsi alla richiesta del Patriarca, gli chiede il nome: « Come ti chiami? ». E il Patriarca risponde: « Giacobbe » (v. 28). Qui la lotta subisce una svolta importante. Conoscere il nome di qualcuno, infatti, implica una sorta di potere sulla persona, perché il nome, nella mentalità biblica, contiene la realtà più profonda dell’individuo, ne svela il segreto e il destino. Conoscere il nome vuol dire allora conoscere la verità dell’altro e questo consente di poterlo dominare. Quando dunque, alla richiesta dello sconosciuto, Giacobbe rivela il proprio nome, si sta mettendo nelle mani del suo oppositore, è una forma di resa, di consegna totale di sé all’altro.
Ma in questo gesto di arrendersi anche Giacobbe paradossalmente risulta vincitore, perché riceve un nome nuovo, insieme al riconoscimento di vittoria da parte dell’avversario, che gli dice: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto» (v. 29). « Giacobbe » era un nome che richiamava l’origine problematica del Patriarca; in ebraico, infatti, ricorda il termine « calcagno », e rimanda il lettore al momento della nascita di Giacobbe, quando, uscendo dal grembo materno, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello (cfr Gen 25,26), quasi prefigurando lo scavalcamento ai danni del fratello che avrebbe consumato in età adulta; ma il nome Giacobbe richiama anche il verbo « ingannare, soppiantare ». Ebbene, ora, nella lotta, il Patriarca rivela al suo oppositore, in un gesto di consegna e di resa, la propria realtà di ingannatore, di soppiantatore; ma l’altro, che è Dio, trasforma questa realtà negativa in positiva: Giacobbe l’ingannatore diventa Israele, gli viene dato un nome nuovo che segna una nuova identità. Ma anche qui, il racconto mantiene la sua voluta duplicità, perché il significato più probabile del nome Israele è « Dio è forte, Dio vince ».
Dunque Giacobbe ha prevalso, ha vinto – è l’avversario stesso ad affermarlo – ma la sua nuova identità, ricevuta dallo stesso avversario, afferma e testimonia la vittoria di Dio. E quando Giacobbe chiederà a sua volta il nome al suo contendente, questi rifiuterà di dirlo, ma si rivelerà in un gesto inequivocabile, donando la benedizione. Quella benedizione che il Patriarca aveva chiesto all’inizio della lotta gli viene ora concessa. E non è la benedizione ghermita con inganno, ma quella gratuitamente donata da Dio, che Giacobbe può ricevere perché ormai solo, senza protezione, senza astuzie e raggiri, si consegna inerme, accetta di arrendersi e confessa la verità su se stesso. Così, al termine della lotta, ricevuta la benedizione, il Patriarca può finalmente riconoscere l’altro, il Dio della benedizione: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva» (v. 31), e può ora attraversare il guado, portatore di un nome nuovo ma « vinto » da Dio e segnato per sempre, zoppicante per la ferita ricevuta.
Le spiegazioni che l’esegesi biblica può dare riguardo a questo brano sono molteplici; in particolare, gli studiosi riconoscono in esso intenti e componenti letterari di vario genere, come pure riferimenti a qualche racconto popolare. Ma quando questi elementi vengono assunti dagli autori sacri e inglobati nel racconto biblico, essi cambiano di significato e il testo si apre a dimensioni più ampie. L’episodio della lotta allo Yabboq si offre così al credente come testo paradigmatico in cui il popolo di Israele parla della propria origine e delinea i tratti di una particolare relazione tra Dio e l’uomo. Per questo, come affermato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «la tradizione spirituale della Chiesa ha visto in questo racconto il simbolo della preghiera come combattimento della fede e vittoria della perseveranza» (n. 2573). Il testo biblico ci parla della lunga notte della ricerca di Dio, della lotta per conoscerne il nome e vederne il volto; è la notte della preghiera che con tenacia e perseveranza chiede a Dio la benedizione e un nome nuovo, una nuova realtà frutto di conversione e di perdono.
La notte di Giacobbe al guado dello Yabboq diventa così per il credente un punto di riferimento per capire la relazione con Dio che nella preghiera trova la sua massima espressione. La preghiera richiede fiducia, vicinanza, quasi in un corpo a corpo simbolico non con un Dio nemico, avversario, ma con un Signore benedicente che rimane sempre misterioso, che appare irraggiungibile. Per questo l’autore sacro utilizza il simbolo della lotta, che implica forza d’animo, perseveranza, tenacia nel raggiungere ciò che si desidera. E se l’oggetto del desiderio è il rapporto con Dio, la sua benedizione e il suo amore, allora la lotta non potrà che culminare nel dono di se stessi a Dio, nel riconoscere la propria debolezza, che vince proprio quando giunge a consegnarsi nelle mani misericordiose di Dio.
Cari fratelli e sorelle, tutta la nostra vita è come questa lunga notte di lotta e di preghiera, da consumare nel desiderio e nella richiesta di una benedizione di Dio che non può essere strappata o vinta contando sulle nostre forze, ma deve essere ricevuta con umiltà da Lui, come dono gratuito che permette, infine, di riconoscere il volto del Signore. E quando questo avviene, tutta la nostra realtà cambia, riceviamo un nome nuovo e la benedizione di Dio. E ancora di più: Giacobbe, che riceve un nome nuovo, diventa Israele, dà un nome nuovo anche al luogo in cui ha lottato con Dio, lo ha pregato; lo rinomina Penuel, che significa « Volto di Dio ». Con questo nome riconosce quel luogo colmo della presenza del Signore, rende sacra quella terra imprimendovi quasi la memoria di quel misterioso incontro con Dio. Colui che si lascia benedire da Dio, si abbandona a Lui, si lascia trasformare da Lui, rende benedetto il mondo. Che il Signore ci aiuti a combattere la buona battaglia della fede (cfr 1Tm 6,12; 2Tm 4,7) e a chiedere, nella nostra preghiera, la sua benedizione, perché ci rinnovi nell’attesa di vedere il suo Volto. Grazie.

La catechesi di Papa Benedetto su San Beda il Venerabile (18 febbraio 2009)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2009/documents/hf_ben-xvi_aud_20090218_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 18 febbraio 2009

Beda il Venerabile

Cari fratelli e sorelle,

il Santo che oggi avviciniamo si chiama Beda e nacque nel Nord-Est dell’Inghilterra, esattamente in Northumbria, nell’anno 672/673. Egli stesso racconta che i suoi parenti, all’età di sette anni, lo affidarono all’abate del vicino monastero benedettino perché venisse educato: “In questo monastero – egli ricorda – da allora sono sempre vissuto, dedicandomi intensamente allo studio della Scrittura e, mentre osservavo la disciplina della Regola e il quotidiano impegno di cantare in chiesa, mi fu sempre dolce o imparare o insegnare o scrivere” (Historia eccl. Anglorum, V, 24). Di fatto, Beda divenne una delle più insigni figure di erudito dell’alto Medioevo, potendo avvalersi dei molti preziosi manoscritti che i suoi abati, tornando dai frequenti viaggi in continente e a Roma, gli portavano. L’insegnamento e la fama degli scritti gli procurarono molte amicizie con le principali personalità del suo tempo, che lo incoraggiarono a proseguire nel suo lavoro da cui in tanti traevano beneficio. Ammalatosi, non smise di lavorare, conservando sempre un’interiore letizia che si esprimeva nella preghiera e nel canto. Concludeva la sua opera più importante la Historia ecclesiastica gentis Anglorum con questa invocazione: “Ti prego, o buon Gesù, che benevolmente mi hai permesso di attingere le dolci parole della tua sapienza, concedimi, benigno, di giungere un giorno da te, fonte di ogni sapienza, e di stare sempre di fronte al tuo volto”. La morte lo colse il 26 maggio 735: era il giorno dell’Ascensione.

Le Sacre Scritture sono la fonte costante della riflessione teologica di Beda. Premesso un accurato studio critico del testo (ci è giunta copia del monumentale Codex Amiatinus della Vulgata, su cui Beda lavorò), egli commenta la Bibbia, leggendola in chiave cristologica, cioè riunisce due cose: da una parte ascolta che cosa dice esattamente il testo, vuole realmente ascoltare, comprendere il testo stesso; dall’altra parte, è convinto che la chiave per capire la Sacra Scrittura come unica Parola di Dio è Cristo e con Cristo, nella sua luce, si capisce l’Antico e il Nuovo Testamento come “una” Sacra Scrittura. Le vicende dell’Antico e del Nuovo Testamento vanno insieme, sono cammino verso Cristo, benché espresse in segni e istituzioni diverse (è quella che egli chiama concordia sacramentorum). Ad esempio, la tenda dell’alleanza che Mosè innalzò nel deserto e il primo e secondo tempio di Gerusalemme sono immagini della Chiesa, nuovo tempio edificato su Cristo e sugli Apostoli con pietre vive, cementate dalla carità dello Spirito. E come per la costruzione dell’antico tempio contribuirono anche genti pagane, mettendo a disposizione materiali pregiati e l’esperienza tecnica dei loro capimastri, così all’edificazione della Chiesa contribuiscono apostoli e maestri provenienti non solo dalle antiche stirpi ebraica, greca e latina, ma anche dai nuovi popoli, tra i quali Beda si compiace di enumerare gli Iro-Celti e gli Anglo-Sassoni. San Beda vede crescere l’universalità della Chiesa che non è ristretta a una determinata cultura, ma si compone di tutte le culture del mondo che devono aprirsi a Cristo e trovare in Lui il loro punto di arrivo.

Un altro tema amato da Beda è la storia della Chiesa. Dopo essersi interessato all’epoca descritta negli Atti degli Apostoli, egli ripercorre la storia dei Padri e dei Concili, convinto che l’opera dello Spirito Santo continua nella storia. Nei Chronica Maiora Beda traccia una cronologia che diventerà la base del Calendario universale “ab incarnatione Domini”. Già da allora si calcolava il tempo dalla fondazione della città di Roma. Beda, vedendo che il vero punto di riferimento, il centro della storia è la nascita di Cristo, ci ha donato questo calendario che legge la storia partendo dall’Incarnazione del Signore. Registra i primi sei Concili Ecumenici e i loro sviluppi, presentando fedelmente la dottrina cristologica, mariologica e soteriologica, e denunciando le eresie monofisita e monotelita, iconoclastica e neo-pelagiana. Infine redige con rigore documentario e perizia letteraria la già menzionata Storia Ecclesiastica dei Popoli Angli, per la quale è riconosciuto come “il padre della storiografia inglese”. I tratti caratteristici della Chiesa che Beda ama evidenziare sono: a) la cattolicità come fedeltà alla tradizione e insieme apertura agli sviluppi storici, e come ricerca della unità nella molteplicità, nella diversità della storia e delle culture, secondo le direttive che Papa Gregorio Magno aveva dato all’apostolo dell’Inghilterra, Agostino di Canterbury; b) l’apostolicità e la romanità: a questo riguardo ritiene di primaria importanza convincere tutte le Chiese Iro-Celtiche e dei Pitti a celebrare unitariamente la Pasqua secondo il calendario romano. Il Computo da lui scientificamente elaborato per stabilire la data esatta della celebrazione pasquale, e perciò l’intero ciclo dell’anno liturgico, è diventato il testo di riferimento per tutta la Chiesa Cattolica.

Beda fu anche un insigne maestro di teologia liturgica. Nelle Omelie sui Vangeli domenicali e festivi, svolge una vera mistagogia, educando i fedeli a celebrare gioiosamente i misteri della fede e a riprodurli coerentemente nella vita, in attesa della loro piena manifestazione al ritorno di Cristo, quando, con i nostri corpi glorificati, saremo ammessi in processione offertoriale all’eterna liturgia di Dio nel cielo. Seguendo il “realismo” delle catechesi di Cirillo, Ambrogio e Agostino, Beda insegna che i sacramenti dell’iniziazione cristiana costituiscono ogni fedele “non solo cristiano ma Cristo”. Ogni volta, infatti, che un’anima fedele accoglie e custodisce con amore la Parola di Dio, a imitazione di Maria concepisce e genera nuovamente Cristo. E ogni volta che un gruppo di neofiti riceve i sacramenti pasquali, la Chiesa si “auto-genera”, o con un’espressione ancora più ardita, la Chiesa diventa “madre di Dio”, partecipando alla generazione dei suoi figli, per opera dello Spirito Santo.

Grazie a questo suo modo di fare teologia intrecciando Bibbia, Liturgia e Storia, Beda ha un messaggio attuale per i diversi “stati di vita”: a) agli studiosi (doctores ac doctrices) ricorda due compiti essenziali: scrutare le meraviglie della Parola di Dio per presentarle in forma attraente ai fedeli; esporre le verità dogmatiche evitando le complicazioni eretiche e attenendosi alla “semplicità cattolica”, con l’atteggiamento dei piccoli e umili ai quali Dio si compiace di rivelare i misteri del Regno; b) i pastori, per parte loro, devono dare la priorità alla predicazione, non solo mediante il linguaggio verbale o agiografico, ma valorizzando anche icone, processioni e pellegrinaggi. Ad essi Beda raccomanda l’uso della lingua volgare, com’egli stesso fa, spiegando in Northumbro il “Padre Nostro”, il “Credo” e portando avanti fino all’ultimo giorno della sua vita il commento in volgare al Vangelo di Giovanni; c) alle persone consacrate che si dedicano all’Ufficio divino, vivendo nella gioia della comunione fraterna e progredendo nella vita spirituale mediante l’ascesi e la contemplazione, Beda raccomanda di curare l’apostolato – nessuno ha il Vangelo solo per sé, ma deve sentirlo come un dono anche per gli altri – sia collaborando con i Vescovi in attività pastorali di vario tipo a favore delle giovani comunità cristiane, sia rendendosi disponibili alla missione evangelizzatrice presso i pagani, fuori del proprio paese, come “peregrini pro amore Dei”.

Ponendosi da questa prospettiva, nel commento al Cantico dei Cantici Beda presenta la Sinagoga e la Chiesa come collaboratrici nella diffusione della Parola di Dio. Cristo Sposo vuole una Chiesa industriosa, “abbronzata dalle fatiche dell’evangelizzazione” – è chiaro l’accenno alla parola del Cantico dei Cantici (1, 5), dove la sposa dice: “Nigra sum sed formosa” (Sono abbronzata, ma bella) –, intenta a dissodare altri campi o vigne e a stabilire fra le nuove popolazioni “non una capanna provvisoria ma una dimora stabile”, cioè a inserire il Vangelo nel tessuto sociale e nelle istituzioni culturali. In questa prospettiva il santo Dottore esorta i fedeli laici ad essere assidui all’istruzione religiosa, imitando quelle “insaziabili folle evangeliche, che non lasciavano tempo agli Apostoli neppure di prendere un boccone”. Insegna loro come pregare continuamente, “riproducendo nella vita ciò che celebrano nella liturgia”, offrendo tutte le azioni come sacrificio spirituale in unione con Cristo. Ai genitori spiega che anche nel loro piccolo ambito domestico possono esercitare “l’ufficio sacerdotale di pastori e di guide”, formando cristianamente i figli ed afferma di conoscere molti fedeli (uomini e donne, sposati o celibi) “capaci di una condotta irreprensibile che, se opportunamente seguiti, potrebbero accostarsi giornalmente alla comunione eucaristica” (Epist. ad Ecgberctum, ed. Plummer, p. 419)
La fama di santità e sapienza di cui Beda godette già in vita, valse a guadagnargli il titolo di “Venerabile”. Lo chiama così anche Papa Sergio I, quando nel 701 scrive al suo abate chiedendo che lo faccia venire temporaneamente a Roma per consulenza su questioni di interesse universale. Dopo la morte i suoi scritti furono diffusi estesamente in Patria e nel Continente europeo. Il grande missionario della Germania, il Vescovo san Bonifacio (+ 754), chiese più volte all’arcivescovo di York e all’abate di Wearmouth che facessero trascrivere alcune sue opere e glie­le mandassero in modo che anch’egli e i suoi compagni potessero godere della luce spirituale che ne emanava. Un secolo più tardi Notkero Galbulo, abate di San Gallo (+ 912), prendendo atto dello straordinario influsso di Beda, lo paragonò a un nuovo sole che Dio aveva fatto sorgere non dall’Oriente ma dall’Occidente per illuminare il mondo. A parte l’enfasi retorica, è un fatto che, con le sue opere, Beda contribuì efficacemente alla costruzione di una Europa cristiana, nella quale le diverse popolazioni e culture si sono fra loro amalgamate, conferendole una fisionomia unitaria, ispirata alla fede cristiana. Preghiamo perché anche oggi ci siano personalità della statura di Beda, per mantenere unito l’intero Continente; preghiamo affinché tutti noi siamo disponibili a riscoprire le nostre comuni radici, per essere costruttori di una Europa profondamente umana e autenticamente cristiana.

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Gran Canyons

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San Beda il Venerabile

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25 maggio (mf) : San Beda detto il Venerabile Sacerdote e dottore della Chiesa

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/27350

San Beda detto il Venerabile Sacerdote e dottore della Chiesa

25 maggio – Memoria Facoltativa

Monkton in Jarrow (Inghilterra) 672-673 – Jarrow, 25 maggio 735

Fu seguace di San Benedetto Biscop e di S. Ceolfrido, dedicandosi solo alla preghiera, allo studio e all’insegnamento del monastero di Jarrow. Fu anche amanuense e il Codex Amiatinus, uno dei più preziosi e antichi codici della Volgata, conservato nella biblioteca Laurenziana di Firenze, sarebbe stato eseguito sotto la sua guida. Della sua vasta produzione letteraria restano opere esegetiche, ascetiche, scientifiche e storiche. Tra queste c’è L’Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum, un monumento letterario universalmente riconosciuto da cui emerge la Romanità (universalità) della Chiesa. Studioso di tempra eccezionale e gran lavoratore, ha lasciato nei suoi scritti l’impronta del suo spirito umile sincero, del suo discernimento sicuro e della sua saggezza.

Patronato: Studiosi

Martirologio Romano: San Beda il Venerabile, sacerdote e dottore della Chiesa, che, servo di Cristo dall’età di otto anni, trascorse tutta la sua vita nel monastero di Jarrow nella Northumbria in Inghilterra, dedito alla meditazione e alla spiegazione delle Scritture; tra l’osservanza della disciplina monastica e l’esercizio quotidiano del canto in chiesa, sempre gli fu dolce imparare, insegnare e scrivere.  

Beda e basta. Le sue generalità cominciano e finiscono lì. Non conosciamo i suoi genitori. La data di nascita è incerta. Sappiamo soltanto che a sette anni viene affidato per l’istruzione ai benedettini del monastero di San Pietro a Wearmouth (oggi Sunderland) e che passerà poi a quello di San Paolo di Jarrow, contea di Durham, centri monastici fondati entrambi dal futuro san Benedetto Biscop, che è il primo a prendersi cura di lui.
E tra i benedettini Beda rimane, facendosi monaco e ricevendo, verso i trent’anni, l’ordinazione sacerdotale. Dopodiché basta: non diventa vescovo né abate: tutta la sua vita si concentra sullo studio e sull’insegnamento. Unici suoi momenti di “ricreazione” sono la preghiera e il canto corale.
La sua materia è la Bibbia. E il metodo è del tutto insolito per il tempo, ma ricco d’interesse per gli scolari, mentre i suoi libri raggiungeranno presto le biblioteche monastiche del continente europeo. In breve, Beda insegna la Sacra Scrittura mettendo a frutto tutta la sapienza dei Padri della Chiesa, ma non si ferma lì. Inventa una sorta di personale didattica interdisciplinare, che spiega la Bibbia ricorrendo pure agli autori dell’antichità pagana (Beda conosce il greco) e utilizzando le conoscenze scientifiche del suo tempo.
Gran parte di questo insegnamento si tramanda, perché Beda scrive, scrive moltissimo e di argomenti diversi, anche modesti; come il libretto De orthographia. E anche insoliti, come il Liber de loquela per gestum digitorum, famoso in tutto il Medioevo perché insegna a fare i conti con le dita. Si dedica ai calcoli astronomici per il computo della data pasquale, indicandola fino all’anno 1063. E ai suoi compatrioti il monaco benedettino offre la storia ecclesiastica d’Inghilterra, molto informata anche sulla vita civile, e soprattutto non semplicemente riferita, ma anche esaminata con attenzione critica.
Già da vivo lo chiamano “Venerabile”. E l’appellativo gli rimarrà per sempre, sebbene nel 1899 papa Leone XIII lo abbia proclamato santo e dottore della Chiesa. È stato uno dei più grandi comunicatori di conoscenza dell’alto Medioevo. E un maestro di probità, col suo costante scrupolo di edificare senza mai venire meno alla verità, col grande rispetto per chi ascoltava la sua voce o leggeva i suoi libri. A più di dodici secoli dalla morte, il Concilio Vaticano II attingerà anche al suo pensiero, che viene citato nella Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa e nel decreto Ad gentes sull’attività missionaria. Beda muore a Jarrow, dove ha per tanto tempo insegnato, e lì viene sepolto. Ma il re Edoardo il Confessore (10021066) farà poi trasferire il corpo nella cattedrale di Durham.

Autore: Domenico Agasso

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 24 mai, 2011 |Pas de commentaires »

Il Presidente della CEI: la politica italiana? Un “dramma del vaniloquio”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26819?l=italian

Il Presidente della CEI: la politica italiana? Un “dramma del vaniloquio”

Critiche anche verso una stampa “troppo fusa con la politica”

ROMA, lunedì, 23 maggio 2011 (ZENIT.org).- “L’Italia non è solo certa vita pubblica” e “non ci sono scusanti” per una “rappresentazione della vita politica svincolata dalle aspirazioni generali”, perché “la gente è stanca di vivere nella rissa e si sta disamorando sempre di più”. A dirlo è stato questo lunedì il Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), nella prolusione per la 63ma Assemblea generale dei Vescovi italiani.
Nell’analizzare lo scenario politico che domina la situazione italiana, il porporato ha affermato che “la politica che ha oggi visibilità è, non raramente, inguardabile, ridotta a litigio perenne, come una recita scontata e noiosa”; è il “dramma del vaniloquio”, dentro “alla spirale dell’invettiva che non prevede assunzioni di responsabilità”. In questo scenario, ha aggiunto, “gli appelli a concentrarsi sulla dimensione della concretezza, del fare quotidiano, della progettualità, sembrano cadere nel vuoto”.
Inoltre, ha sottolineato, “c’è una stampa che appare da una parte troppo fusa con la politica, tesa per lo più ad eccitare le rispettive tifoserie, e dall’altra troppo antagonista, eccitante al disfattismo, mentre dovrebbe essere fondamentalmente altro: cioè informazione non scevra da cultura, resoconto scrupoloso, vigilanza critica, non estranea ad acribia ed equilibrio”.
“Dalla crisi in cui si trova”, ha proseguito il Card. Bagnasco, “il Paese non si salva con le esibizioni di corto respiro, né con le slabbrature dei ruoli o delle funzioni, né col paternalismo, ma solo con un soprassalto diffuso di responsabilità”.
“Se, nonostante tutto, il Paese regge è perché ci sono arcate che lo tengono in piedi”, ha affermato il porporato. Di qui la necessità di recuperare “una capacità di sguardo che superi le apparenze”, senza “cadere in schemi manichei, in generalizzazioni ingiuste e inaccettabili”, per dare voce al “Paese sano che è distribuito all’interno di ogni schieramento”.
“Se non parliamo ad ogni piè sospinto – ha aggiunto ancora – non è perché siamo assenti. E se non ci uniamo volentieri al canto dei catastrofisti, non è perché siamo distratti, ma perché crediamo che vi siano tante forze positive all’opera, che non vanno schiacciate su letture universalmente negative o pessimistiche”.
L’”opzione di fondo” della Chiesa italiana “resta quella di preparare una generazione nuova di cittadini che abbiano la freschezza e l’entusiasmo di votarsi al bene comune”, attraverso l’esercizio “di una cittadinanza coscienziosa, partecipe”.
Affinché l’Italia “goda di una nuova generazione di politici cattolici”, la Chiesa “si sta impegnando a formare aree giovanili non estranee alla dimensione ideale ed etica, per essere presenza morale non condizionabile”.
In una nota il Copercom (Coordinamento delle associazioni per la comunicazione) si è associato alla preoccupazione espressa dall’Arcivescovo di Genova sullo stato dell’informazione in Italia. “In particolare preoccupa – ha sottolineato il Presidente del Copercom, Domenico Delle Foglie – la suddivisione di una parte della stampa italiana in opposte tifoserie che manifestano una contiguità se non una pericolosa fusione con la politica. D’altro canto è innegabile che anche una stampa antagonista, eccitante e tendente al disfattismo, non aiuta i cittadini a formarsi un giudizio libero e sereno”.
Per queste ragioni il Copercom ha fatto proprio l’auspicio espresso dal Cardinale Bagnasco e cioè che “l’informazione non sia scevra da cultura, resoconto scrupoloso, vigilanza critica”. “Le 28 associazioni che aderiscono al Copercom – ha concluso Delle Foglie – sapranno certamente raccogliere l’invito del Cardinale Bagnasco ad un protagonismo responsabile del mondo informativo e comunicativo dei cattolici”.

Publié dans:Cardinali, politica (???) |on 24 mai, 2011 |Pas de commentaires »
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