Archive pour le 19 mai, 2011

Abraham Covenant

Abraham Covenant dans immagini sacre 20%20DE%20SAUSSURE%20LA%20VISITE%2001
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CRISTO GESU’, SEI QUI, SEI QUI CON NOI E PER NOI (Card. Tettamanzi)

dal sito:

http://www.piccolifiglidellaluce.it/preghiereucaristiche.htm

CRISTO GESU’, SEI QUI, SEI QUI CON NOI E PER NOI

(Dionigi card. Tettamanzi)
 
Cristo Gesù,
sei qui,
sei qui con noi e per noi.
 
Noi ti adoriamo e ti benediciamo
nel Sacramento del tuo amore:
Tu, pane di vita eterna,
Tu, luce e salvezza del mondo,
Tu, gioia di ogni cuore umano!
 
Sei qui!
I miei occhi non ti vedono,
le mie orecchie non ti sentono,
le mie mani non ti possono toccare.
Ma la fede che mi doni
è luce al mio cuore
che ti dice con invincibile certezza:
« Sei qui, sei qui, Cristo Gesù! ».
 
Sei qui con noi
perché Tu ci appartieni, Cristo Gesù!
Sei con noi
con la carne santa e adorabile
che Maria nel suo amore verginale ti ha dato.
La tua carne, o Figlio eterno di Dio, è carne umana,
fragile e debole come la mia,
provata, sofferente e mortale come quella d’ogni uomo.
La tua carne ti fa fratello, compagno e amico di tutti,
mio fratello, mio compagno, mio amico.
Sei con noi, Cristo Gesù!
L’umanità intera, frantumata e lacerata,
in te diviene un’unica grande famiglia.
Sei Tu la fonte dell’unità contro ogni divisione,
la forza della solidarietà contro ogni egoismo,
il principio dell’amore contro ogni odio e ogni vendetta.
Tu sei con noi, Cristo Gesù!
 
Sei qui per noi,
per noi bisognosi di salvezza e di vita piena,
di verità e di libertà autentica;
per noi bisognosi di amore e di conforto,
di perdono e di pace giusta e duratura;
per noi bisognosi di te, Cristo Gesù.
Tu ci sei necessario!
Perché sei “la via, la verità e la vita” (Gv. 14, 6).
Senza di te non possiamo vivere, Cristo Gesù!
 
Sei qui, con noi e per noi!
Ma anche noi siamo qui, con te e per te, Cristo Gesù!
 
Siamo qui,
prostrati ti adoriamo
e ti confessiamo nostro Signore e nostro Dio,
nostro Servo e Pastore.
Siamo qui,
con il peso delle nostre miserie d’ogni giorno,
con il peso grande di tutti i peccati del mondo.
Con umiltà e fiducia ti imploriamo:
il sangue della tua croce ci doni la misericordia del Padre,
purifichi il nostro cuore,
rinnovi la nostra vita.
 
Siamo qui con Te.
La tua voce implorante giunge al nostro cuore:
“Rimanete nel mio amore » (Gv. 15, 9).
Sì, o Signore, noi vogliamo rimanere nel tuo amore
per accogliere da te la Parola
che ci rivela il senso della vita, della sofferenza e della morte,
per ricevere da te la Grazia che ci fa uomini nuovi
e veri figli di Dio,
per accogliere da te il Comandamento della carità
che ci fa vivere come fratelli e sorelle
che si stimano e si rispettano,
si comprendono e si aiutano,
si amano e si perdonano,
vivono nella concordia e nella pace.
Siamo qui con te, Cristo Gesù,
perché solo con te c’è la felicità vera di cui ha fame e sete la nostra anima.
 
Siamo qui con Te e per Te,
Cristo Gesù,
per partecipare alla vita del tuo Regno,
per condividere la tua missione di salvezza.
Riconosciamo di essere deboli e incerti,
chiusi in noi stessi e paurosi,
ma tu, o Signore, non lasciarci mancare mai
il vento e il fuoco del tuo Spirito.
Rialzaci, dunque,
e fa’ che percorriamo con entusiasmo
i sentieri del mondo
portando in ogni ambiente di vita
la luce del tuo Vangelo,
il sale della tua sapienza,
il lievito del tuo rinnovamento,
il profumo della tua grazia.
Così la tua Chiesa, o Signore, potrà risplendere
di bontà e di santità
anche con le piccole e umili azioni della giornata,
e la nostra Città e i nostri paesi potranno diventare
terreno fecondo di virtù umane:
di onestà e laboriosità,
di giustizia, sincerità e fedeltà,
di solidarietà con tutti,
di servizio verso i più deboli e poveri e bisognosi.
 
In Te, o Signore, riponiamo tutta la nostra fiducia!
Sei qui,
sei qui con noi e per noi,
Cristo Gesù!

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Parole e numeri dell’amore (Di mons. Gianfranco Ravasi)

 dal sito:


http://www.templarisanbernardo.org/mons.%20Ravasi,%20Parole%20e%20numeri%20dell’amore%20per%20il%20prossimo.htm

Parole e numeri dell’amore

per il PROSSIMO

La giustizia deve avere un suo rigore e una sua pienezza, espressa attraverso il 3 e 4, numeri che nel computo simbolico vengono idealmente sommati così da raggiungere il 7. Ma, d’altro lato, a imporsi in tutta la sua grandezza è in ebraico il «hesed», ossia l’amore generoso e fedele che non conosce confini ed è infinito, perché tale è il valore del numero 1000
 
Di mons. Gianfranco Ravasi

Nihil caritate dulcius,
«nulla è più dolce dell’amore», scriveva sant’Ambrogio nella sua opera dal titolo ciceroniano De officiis. Ma nulla è anche più difficile da comprimere in una trattazione come l’amore. Noi, allora, ci accontenteremo di illustrare in forma essenziale e simbolica i vari « nomi », ossia le diverse iridescenze del tema dell’amore, l’entolé megále, come diceva Gesù, ossia il «comandamento massimo, cardinale, principe» dell’impegno morale e spirituale cristiano (vedi Mt 22, 34-40). Cercheremo anche di identificare alcuni « numeri » simbolici che esaltano l’autentica carità.

Iniziamo col lessico biblico dell’amore.

LE PAROLE DELL’AMORE
1. Il primo termine fondamentale è prossimo. Esso è centrale nel nostro discorso e si è consapevoli che la sua accezione è variegata nelle Scritture.
Abbraccia innanzitutto il fratello, la famiglia, il clan, la tribù, il popolo eletto, escludendo le altre nazioni (gojim) e i nemici. Tuttavia già nel Primo Testamento si segnalano aperture universalistiche e il perdono del nemico già si presenta non solo con Giuseppe e i suoi fratelli ma anche con la norma sull’asino del nemico (Es 23, 4-5) e sull’ospitalità per lo straniero che si deve «amare come se stessi» (Lv 19, 34).
Certo è che Cristo tende all’estremo questo precetto nel suo Discorso della Montagna, proponendo il superamento della giustizia del taglione e l’amore per il nemico, sempre sulla base dell’esemplarità di Dio, generoso con malvagi e ingiusti (Mt 5, 38-48).
Suggestiva rimane la parabola del Buon Samaritano, già significativa per il soggetto assunto come modello, una figura legata a una comunità detestata da Israele (Lc 10, 25-37). Nel contesto del racconto parabolico, lo scriba rivolge a Gesù il quesito oggettivo su «chi sia il prossimo»; Gesù, invece, alla fine rilancia la domanda modificandola in senso soggettivo e dinamico: «Chi ha agito da prossimo?». Più che definire la categoria esterna «prossimo», è necessario «farsi, essere prossimo» dell’altro in senso efficace; più che una ricerca sul prossimo, la nostra dev’essere un’azione da prossimo, con una ricerca del prossimo per aiutarlo.
2. Il secondo vocabolo è amicizia, una qualità vissuta da Dio stesso che considera «Abramo mio amico» al quale «non tiene nascosto quello che sta per fare», discutendone con lui il merito e l’opportunità. Similmente con Mosè «il Signore parlava a faccia a faccia, come un uomo parla con un altro» (Es 33, 11). Il Cristo stesso sperimenta gioie e dolori dell’amicizia con Lazzaro e coi discepoli.
C’è, però, soprattutto l’amicizia umana, celebrata dal Siracide in un vero e proprio « elogio » (6, 5-17), che contiene anche il celebre detto secondo il quale «chi trova un amico, trova un tesoro». Esemplare è la figura amicale incarnata da Davide e Gionata, anche se da taluni il linguaggio biblico « amoroso » adottato in questo caso è interpretato in chiave politica: «L’anima di Gionata s’era talmente legata all’anima di Davide che Gionata lo amò come se stesso… Lo amava come l’anima sua, come se stesso» (1 Sam 18, 1; 20, 17).
3. Un terzo termine è la misericordia che potrebbe rimandare alla più ricca radice ebraica rhm, destinata a mettere in luce la passione e la tenerezza « viscerale » della madre o anche del padre. La benedizione iniziale della Seconda Lettera ai Corinzi (1, 3-4) ben illustra la dimensione teologica di questo amore fatto di partecipazione appassionata che, per altro, è presente in quasi tutte le religioni (la maitri buddhista, la karuna hindu, la zakat musulmana e così via): «Sia benedetto Dio…, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione,
il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio».
La figura che incarna idealmente questa misericordia generosa e operosa è il citato Buon Samaritano, a differenza del sacerdote e del levita, gelidi osservanti di norme sacrali di purità. Nella parabola Gesù descrive con accuratezza tutti i gesti di premura e di compassione di quell’uomo nei confronti della vittima di
un’aggressione: gli si accosta, gli fascia le ferite, vi versa olio e vino, lo carica sulla sua cavalcatura, lo porta in una locanda, si prende cura di lui, ne paga i costi di assistenza anche per il decorso delle ferite (Lc 10, 34-35). Ma alla radice di tutto c’è proprio la «misericordia»: «passando accanto [allo sventurato] lo vide ed esplanchnísthe», col verbo greco della tenerezza, della compassione autentica e « viscerale », con la misericordia nel senso etimologico del nostro vocabolo.
4. Intrecciamo qui sotto un’unica voce un trittico lessicale neotestamentario (ma anche classico): philanthropía – philadelphía – philoxenía. Pur con caratteristiche specifiche, esse s’inanellano tra loro ed esprimono una
vicinanza amorosa al prossimo sulla base della nostra comune « adamicità »: tutti apparteniamo alla stessa umanità.
Naturalmente le motivazioni religiose possono essere più alte. La paternità divina e la redenzione ci rendono tutti fratelli: «Con sincera philadelphía – cioè amore fraterno – amatevi intensamente con cuore puro reciprocamente, essendo stati rigenerati non da seme corruttibile ma incorruttibile, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna» (1 Pt 1, 22-23).
L’orizzonte si allarga e dalla philanthropía e dalla philadelphía si giunge all’amore per il diverso e per lo straniero: «Perseverate nell’amore fraterno (philadelphía). Non dimenticate l’amore per lo straniero (philoxenía)» e, quindi, l’ospitalità (Eb 13, 1-2). L’accoglienza dello straniero è una virtù specifica
all’interno dell’amore del prossimo e scandisce la vera appartenenza al cristianesimo: «ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt 25, 35), come era un precetto per lo stesso ebraismo (Lv 19, 33-34: «…Il forestiero dimorante in mezzo a voi lo tratterete come chi è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso…»).
5. Eccoci, così, alla koinonía, a quella «comunione fraterna» tanto cara a livello programmatico alla comunità giudeocristiana di Gerusalemme. Si tratta di un incontro tra due virtù fondamentali delle relazioni sociali, la giustizia e la solidarietà. La formulazione essenziale è già nel Deuteronomio: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello bisognoso, non indurire il tuo cuore e non chiudere la tua mano» (15, 7). La sua attuazione esemplare potrebbe essere il progetto di colletta che Paolo sostiene tra le varie chiese in favore dei poveri di Gerusalemme. Il modello cristiano più alto potrebbe essere la koinonía esaltata come una delle quattro colonne che reggono la Chiesa delle origini: «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli, nella koinonía, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2, 42).
La stessa solidarietà nella sua formulazione concreta: «Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno… Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 2, 44-45; 4, 34-35). La grande tradizione cristiana raccoglierà questo modello ideale, a partire dal famoso simbolo del mantello tagliato di san Martino per attraversare tutti i secoli con una folla di testimoni di carità, di comunione fraterna, di giustizia e solidarietà.
6. Una considerazione merita anche l’eros, una categoria dell’amore particolarmente esaltata e analizzata dalla cultura greca e dalla moderna psicanalisi. L’ormai classico saggio di Anders Nygren, Eros e agape (1930), ha attentamente vagliato sia nella Bibbia sia nella tradizione cristiana la tensione ma anche gli incroci tra eros e agape, l’altro vocabolo greco dell’amore. L’eros è desiderio, aspirazione e tensione verso l’altro; l’agape è sacrificio, donazione verso l’altro. L’eros è via dell’uomo a Dio; l’agape è innanzitutto via di Dio verso l’uomo. L’eros è conquista dell’uomo; l’agape è grazia. L’eros è utoaffermazione nobile e gloriosa; l’agape è amore disinteressato e dono di sé. L’eros è determinato dalla bellezza della persona amata; l’agape ama e crea il valore dell’amato. Ciò non toglie – come ha ribadito Benedetto XVI nella Deus caritas est – che l’eros, componente tipica dell’umanità che con esso trasfigura la mera sessualità, s’intrecci con l’amore. La dimostrazione più alta e affascinante è indubbiamente offerta dal Cantico dei cantici (che pure non conosce un
vocabolo ebraico analogo all’eros greco, per altro assente nel Nuovo Testamento): questo poemetto biblico di 1250 parole è innanzitutto celebrazione di un’esperienza umana personale e totale. Essa comprende anche una riconciliazione con l’eros e col linguaggio del corpo, senza falsi pudori e senza sbavature pornografiche (la pornografia è, infatti, non solo negazione dell’amore ma anche dell’eros), senza spiritualismi puritani ed evanescenti e senza carnalità esasperate e pesanti. Si leggano i tre canti del corpo della donna e dell’uomo nei cc. 4; 5 e 7 per scoprire non solo che «tanto il punto di partenza quanto il punto d’arrivo del fascino – reciproco stupore e ammirazione – sono la femminilità della sposa e la mascolinità dello sposo nell’esperienza diretta della loro visibilità» (come diceva Giovanni Paolo II in una sua catechesi sul Cantico del 1984), ma anche per comprendere il rilievo della corporeità nella vicenda d’amore: noi non « abbiamo » un corpo ma « siamo » un corpo e nell’eros questa differenza emerge nitidamente. Certo, sull’eros nel Cantico si accende la fiaccola dell’amore che lo supera e lo invera in una dimensione ulteriore e trascendente.
7. Eccoci giunti, così, al termine neotestamentario specifico per indicare l’amore, agápe, presente 116 volte come sostantivo, 143 volte come verbo (agapáo) e 61 volte nella forma aggettivale agapetós, « amato ». È il vertice del lessico dell’amore, l’agápe teteleioméne, « l’amore perfetto » (1 Gv 4, 12). Esso ha la sua celebrazione innica nella stupenda pagina paolina di 1 Cor 13: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’agape, sarei un bronzo echeggiante o un cembalo tintinnante…» e così via fino alla proclamazione finale: «Sono tre le realtà che permangono: la fede, la speranza e l’agape. Ma di tutte più grande è l’agape!» Questo canto illumina il corteo di virtù che accompagnano l’agape: magnanimità, bontà, umiltà, disinteresse, generosità, rispetto, benignità, perdono, giustizia, verità, tolleranza, costanza…
Di fronte ad essa anche doni altissimi come la profezia, la conoscenza teologica e la fede capace di «trasportare le montagne» impallidiscono. Lo stesso dono delle « lingue », segno di esperienze estatico-mistiche, diventa – se privo di agape – il rimbombo di un gong o il frastuono dei cembali dei riti orgiastici della dea Cibele. In agguato c’è, comunque, sempre il tradimento di questa virtù teologale e sociale. Curioso, ad esempio, è lo stravolgimento operato da George Orwell nel suo romanzo Fiorirà l’aspidistra attraverso la sostituzione della parola « denaro » ad agape: «Anche se parlassi tutte le lingue, se non ho denaro, divengo un bronzo risonante… Se non ho denaro, sono nulla… Il denaro tutto crede, tutto spera, tutto sopporta…».

I NUMERI DELL’AMORE PER IL PROSSIMO
A tutti è noto quanto rilevante sia per le Scritture la simbologia numerica; si pensi che solo l’Apocalisse incastona nelle sue pagine ben 283 numeri cardinali, ordinali e frazionali! Vorremmo anche noi in forma piuttosto libera, sulla scia della tradizione giudaica e cristiana, identificare alcuni numeri significativi
dell’amore. Si tratta in verità di curiose equazioni che si richiamano tra loro. Ne indicheremo quattro che si combinano idealmente a coppia.
1. Prima equazione: 7 a 77. Ci troviamo qui nel polo antitetico dell’ideale spettro cromatico dell’amore: si tratta, infatti, dei numeri dell’odio, esaltati con veemenza da Lamek nel suo terribile canto della violenza a spirale, della spada sempre insanguinata: «Io uccido un uomo per una mia ferita e un ragazzo per un mio livido! Se Caino è vendicato 7 volte, Lamek lo sarà 77 volte!» (Gn 4, 23-24).
Siamo di fronte alla vendetta senza limiti e senza la parità offesa-pena che, come vedremo, introdurrà la legge del taglione.
È la frattura di ogni equilibrio sociale. Al giudizio pieno e severo sul delitto di Caino (7 volte) si oppone – sempre attraverso il ricorso al numero della pienezza, ma in una forma esasperata – l’eccesso vendicativo (77 volte).
2. Seconda equazione: 7 a 70 x 7. Ora ci spostiamo all’estremo opposto dello spettro, quello positivo dell’amore totale, incarnato nel perdono cristiano. Di fronte a Pietro che ripropone per il perdono il 7 della pienezza («Quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a 7 volte?»), Gesù replica introducendo un numero tendente verso l’infinito, sempre nella linea del settenario: «Non ti dico fino a 7, ma fino a 70 volte 7» (Mt 18, 21-22). È evidente l’ammiccamento, sia pure per contrasto, all’equazione di Lamek: nell’amore, al 7 volte di Pietro, si oppone il 70 volte 7 di Cristo, illustrato poi dalla parabola dei
due debitori, ove un’altra equazione numerica illustra quella formulata nel principio generale: ai 100 denari si confrontano i 10.000 talenti (Mt 18, 23-35).
3. Terza equazione: 1 a 1. Essa non è esplicita ma sottesa alla cosiddetta legge del taglione, vocabolo modellato sul latino talis: tale la colpa, tale la pena. Si legge, infatti, nell’Esodo: «Vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido» (21, 23). La durezza della formulazione esemplificativa può celare l’evidente progresso che si registra rispetto all’equazione di Lamek. In realtà ora abbiamo la codificazione della giustizia distributiva ed è un passo
rilevante verso una migliore normativa giuridica. In positivo si potrebbe trascrivere questa legge pensando proprio al precetto dell’amare il prossimo come se stessi (1 a 1 anche in questo caso).
Oppure alla cosiddetta « regola d’oro » presente nel libro di Tobia (4, 15): «Non fare a nessuno ciò che non piace a te».
Essa nel Talmud appare in questa frase appassionata: «Non fare al prossimo tuo ciò che è odioso a te: questa è tutta la Legge, il resto è solo spiegazione» (Shabbat 31a). Gesù la trasformerà in chiave esplicitamente positiva: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fate a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7, 12).
4. Quarta equazione: 3 / 4 a 1000. Per certi versi è il superamento dell’equazione del taglione il cui valore di giustizia permane ma è travalicato nella logica superiore dell’amore. È ciò che è applicato all’agire di Dio sia nel primo comandamento del Decalogo (Es 20, 5-6), sia nell’auto-rivelazione dei Sinai, «la carta d’identità biblica di Dio», come l’ha definita Albert Gelin (Es 34, 6-7). Noi ora citiamo integralmente solo la formula decalogica più schematica: «Io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla 3a e 4a generazione, per coloro che mi odiano ma che dimostra il suo amore fedele fino a 1000 generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi». Nell’altro passo l’amore misericordioso divino è ancor più marcato: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e grazioso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà, che conserva il suo amore per 1000 generazioni e perdona la colpa, la ribellione e il peccato».
Attraverso il linguaggio « generazionale » (destinato a sottolineare l’aspetto sociale e non esclusivamente personale del peccato) si esalta, da un lato, la giustizia: essa deve avere un suo rigore e una sua pienezza, espressa attraverso il 3 e 4, numeri che nel computo simbolico vengono idealmente sommati così da raggiungere il 7. Ma, d’altro lato, a imporsi in tutta la sua grandezza è in ebraico il hesed, ossia l’amore generoso e fedele che non conosce confini ed è infinito, perché tale è il valore del numero 1000. Dal numero freddo e implacabile dell’odio giungiamo, così, al vertice caloroso e gioioso dell’amore che non conosce numeri ma tende all’infinito come il Dio che è amore (1 Gv, 4, 8.16). A chi seguirà questa equazione piena dell’amore potrebbe essere riservata la beatitudine del Siracide: «Beati coloro che si sono addormentati nell’amor» (48,11).
 
Da Avvenire del 9 novenbre 2008
 

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LA FRUTTUOSA GRANDEZZA DELLA PREGHIERA

dal sito:

http://www.certosini.info/preghiera/medit/guillerand/guillerand_03.htm

Dinanzi a Dio: La Preghiera

Di A. Guillerand, monaco certosino

CAPITOLO III

LA FRUTTUOSA GRANDEZZA DELLA PREGHIERA

I santi hanno scritto su questo tema delle pagine splendide:  » Quale dignità e quale gloria! – dice san Giovanni Crisostomo. – Il Dio onnipotente continuamente pronto ad ascoltarci « . Deboli creature, poveri esseri di un giorno, piccoli fiori nati al mattino, già appassiti alla sera, che però possiamo volgerci verso di Lui e subito ci dà udienza, ci parla, ci accarezza, si apre a noi; si china verso la nostra miseria e l’innalza fino al suo trono; ci fa entrare nella sua dimora, e questa dimora è il suo Amore, è il movimento stesso del suo Essere e della sua Vita!
lo stancherei il migliore degli uomini e il meno occupato presentandomi così a lui ad ogni momento con, purtroppo, una disinvoltura e una sfacciataggine che offenderebbero anche i più indulgenti; Dio mi riceve sempre, perdona e scusa tutte le mie sfrontatezze. Egli mi riceve e mi coccola. Mi mostra gli splendori del suo palazzo; ha sempre qualche luce nuova da offrire alla mia intelligenza, qualche delizia per il mio cuore. E se la luce è antica, la riveste di freschezza come un fiore di una nuova primavera; e se crede utile di lasciarmi nella notte, questa stessa notte si illumina di chiarezza e le più spesse tenebre si cambiano in vive luci. E se mi rifiuta le delizie sensibili, mi fa trovare nella preghiera del deserto dolcezze superiori che rapiscono la mia fede di bimbo che confida in suo Padre.
Questi divini rapporti mi basterebbero mille volte, se Dio si presentasse da solo, poiché Dio è tutto ed è tutto per me. Ma Dio si circonda di una compagnia innumerevole e affascinante. Le più belle anime di tutti i tempi, innalzate e raggianti per la Luce che le circonda, sono lì con Lui, amanti e buone come Lui; esse mi testimoniano la stessa tenerezza e mi offrono di condividere la loro felicità e la gioia dei loro rapporti con Colui che è e si dona; esse prendono le mie preghiere già prima che siano salite dal mio cuore alle mie labbra; le presentano a Dio; le arricchiscono della loro fraterna supplica; le profumano del loro sorriso; vi aggiungono i loro propri meriti. In tale società si dimentica la terra, gli uomini, le loro piccolezze e le nostre, tutto ciò che deprime o rattrista; si rende l’anima serena e come celeste; ci si sente grandi, forti e consolati.
Gli avversari della nostra salvezza come appaiono disprezzabili… e in realtà lo sono! Dio, la sua grazia, le virtù con cui ci fortifica e ci adorna, l’eterna felicità che promette, di cui talvolta dona come le primizie, i cieli che si avvicinano, che sembrano aprirsi, tutto ciò ci fa dimenticare i pericoli e le ore desolate del cammino. La preghiera pone l’anima dinanzi a queste realtà, e più che dinanzi: essa fa penetrare nel dolce soggiorno.
 » La preghiera – dice san Giovanni Climaco – unisce a Dio, sostiene il mondo, abbellisce le anime, cancella le colpe, preserva dalle tentazioni, difende nella lotta; la preghiera consola nelle pene, è la madre delle lacrime feconde, delle lacrime d’amore, dopo essere nata da quelle del pentimento; essa alimenta le gioie spirituali e le delizie dei cuori trasformati e uniti, le profonde luci, le sicurezze tranquille, le speranze fondate, i grandi progressi delle anime e i grandi interventi divini dipendono da essa « .
Tra lo sviluppo della preghiera e l’ascesa delle anime esiste un rapporto che è unanimemente constatato e che si impone. Elevandosi, le anime raggiungono delle regioni dove l’agitazione delle cose passeggere non arriva; il movimento cessa o diminuisce, le passioni si affievoliscono, il rumore del mondo, le sue preoccupazioni, i nostri stessi pensieri si fanno come lontani, l’attenzione si concentra su Colui che è Silenzio, Riposo, Dio di pace; ci si sente invasi di calma e come rivestiti dell’Immutabilità divina, che sembra comunicarsi a tutto l’essere. È il terreno della preghiera, del pio impeto d’amore che ci slancia verso Dio, incessantemente slanciato Egli stesso verso di noi. Il suo Spirito ci avvolge, ci penetra, discende in noi e dice:  » Figlio mio « , e ripartendo dalle profondità del nostro essere, che fa rivolgere verso il suo Principio, risponde:  » Padre! « .
Nessuna ora più grande e feconda, nessuna attività più alta sono possibili.
Ma nell’anima che prega così sono richieste delle disposizioni che reclamano dei lunghi esercizi e delle dure fatiche. La sensibilità turbata dalla colpa si ribella, si sbizzarrisce in slanci pazzeschi, in scoraggiamenti; essa non vuole riprendere il suo ruolo di serva; vuole dirigersi da sé, seguire i suoi capricci; resiste; le battaglie l’esasperano. Più la si vuole disciplinare, più si sbriglia e s’impenna. Bisogna riordinarla; bisogna rimetterla al suo posto che è quello di serva molto utile, ma sottomessa. Bisogna ristabilire l’armonia distrutta del bell’edificio umano che Dio aveva costruito. Dio solo può ricostruirlo… e noi non riusciamo a convincercene del tutto. La necessità assoluta del suo aiuto è l’ultima idea che entra nelle anime e che comanda il loro movimento verso di Lui. Noi passiamo la nostra vita a pretendere di santificarci senza questo aiuto e a credere nella nostra autonomia.
La preghiera ben compresa e fatta bene ci ripone nel nostro ruolo di creatura che riceve tutto dal Creatore, e che, senza di Lui, non è soltanto debole, ma completamente impotente. Allora noi ridiveniamo illuminati e forti; vediamo la verità e possiamo farla, poiché essa è in noi e si dona. Fino a quel momento noi eravamo nel nostro nulla e non volevamo uscirne.’anima che prega può essere ancora ben lontana dalla perfezione, essa è per via e arriverà. Essa è unita al principio che gliela comunicherà; accoglierà ciò che lui vorrà compiere in lei ad ogni istante. Essa segue un cammino infallibile, poiché tale cammino è il traguardo. È, al tempo stesso, in viaggio e al traguardo. Dio stesso prega in lei, la conduce a Sé, e già le si dona.
La preghiera procede dall’unione e la cerca e la completa. Dio fa incessantemente domandare ciò che vuole donare, e dona ciò che ha fatto domandare. Poi iscrive questo movimento dell’anima sul suo libro di vita; gli angeli lo mettono in conto, rapiti; essi ne raccolgono tutte le briciole, le colgono sulle labbra, appena abbozzate, così informi e talvolta così deformi, non vedendo che l’intenzione che è retta o l’infermità che scusa.
 » La preghiera ? dice sant’Agostino ? viene incontro ai bisogni delle anime, attira i soccorsi che sono loro necessari; rallegra gli angeli, tormenta l’inferno, è per Dio un sacrificio che non può non essergli accetto; essa è il coronamento della religione, è la lode totale, la gloria perfetta, la sorgente delle più solide speranze « .
Come, a un tale tesoro, a tali dolcezze, a un così grande onore, possiamo preferire dei vani discorsi, delle ore di ozio, dei divertimenti stupidi, delle fantasticherie senza oggetto? Dio è là, ci attende, ci chiama, ci offre chiarezze per lo spirito, energie per la volontà, ineffabili delizie per la sensibilità, beni inestimabili per noi stessi e per gli altri… e noi gli volgiamo le spalle.
Noi abbiamo, è vero, una scusa: è questo amore che si offre incessantemente e che sembra avvilirsi per donarsi. Ma il dono di sé non appare vile che alle anime vili. 1 cuori nobili sanno che è la verità e la vita, ed essi amano mantenersi in contatto con questo amore che si mostra e si comunica mostrandosi.

Publié dans:preghiera (sulla) |on 19 mai, 2011 |Pas de commentaires »

buona notte

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Angel’s Fishing Rod Wandflower

http://www.floralimages.co.uk/

Omelia per il 19 maggio 2011

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/12336.html

Omelia (17-04-2008) 

Messa Meditazione

La beatitudine dell’apostolo

Lettura
Il brano contiene, in primo luogo, la conclusione della spiegazione della lavanda dei piedi, con le parole di Gesù sul rapporto signore-servo e con quelle circa la relazione tra l’inviato e colui che lo manda. La beatitudine dei discepoli starà nel fare «queste cose», nel fare cioè quello che Gesù ha fatto. In secondo luogo, il testo rimanda al tradimento di Giuda e all’elezione divina, nei confronti dei discepoli che Gesù ha amato e scelto. Infine, pone l’esortazione ad accogliere ogni inviato come il Signore stesso.

Meditazione
Lavare i piedi è gesto di ospitalità e di accoglienza, riservato allo schiavo non giudeo. Ma è anche gesto di intimità della sposa verso lo sposo e di riverenza del figlio verso il padre. Questa ospitalità e accoglienza, questa intimità e riverenza sono le caratteristiche del Signore e Maestro, il quale rivela che la qualità più profonda dell’amore è l’umiltà di essere a servizio dell’altro.
Con questo amore umile, Gesù tiene nelle mani i nostri piedi. I piedi rappresentano il cammino dell’uomo che si è allontanato da Dio; ora essi sono nella mano del Figlio, che è la stessa del Padre, dalla quale nessuno può rapire (cfr. Gv 10,28-30).
Gesù afferma che «un apostolo non è più grande di chi lo ha mandato» (cfr. v. 27). L’essere inviato implica dipendenza da chi manda, ma anche unione con lui e impegno verso di lui. La dipendenza, l’unione e l’impegno nei confronti del Maestro implica il lavare i piedi degli altri, come ha fatto lui, che è stato in mezzo ai suoi come colui che serve (cfr. Lc 22,27). L’umiltà di Dio che lava i piedi all’uomo è il fondamento di un nuovo modo di vivere. Se ciascuno può pensare che il Figlio di Dio «mi ha amato e ha dato se stesso per me», può anche prendere la determinazione che «questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato» (Gal 2,20).
L’esperienza personale del Maestro e Signore, che si fa servo, chiama a un determinato stile di vita, diverso da quello nascosto nella lite dei discepoli su «chi di loro poteva esser considerato il più grande» (Lc 22,24). L’apostolo che vuol essere come i grandi del mondo non ha capito chi è il Signore. Diversamente, chi farà come ha fatto Gesù, chi farà «queste cose» sarà beato (cfr. v. 17).

Preghiera:
Signore Gesù, i nostri piedi sono nelle tue mani, il nostro cammino è custodito dal tuo amore. Concedi che con la tua grazia, come te, custodiamo il cammino dei nostri fratelli.

Agire:
Pensando alle parole di Gesù, nella giornata, con umiltà, farò dei gesti di amore fraterno.

Commento a cura di don Nunzio Capizzi

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