La religiosità di Franz Liszt nel bicentenario della nascita

dal sito:

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La religiosità di Franz Liszt nel bicentenario della nascita

Al fondo della sofferenza umana

di MICHELE CAMPANELLA

Il 10 marzo a Roma, al Parco della Musica, viene presentato il volume Il mio Liszt. Considerazioni di un interprete (Milano, Bompiani, 2011, pagine 220, euro 11) scritto, in occasione del bicentenario della nascita del compositore ungherese, da uno degli esecutori più accreditati per questo repertorio. Ne anticipiamo uno stralcio.

Nella vita di Liszt la fede è una presenza indiscussa, anche da parte degli osservatori più scettici. Si dibatte di come la sua musica sia investita da essa, al di là delle ambizioni e delle intenzioni programmatiche dello stesso Liszt. Nel catalogo delle opere lisztiane la quantità di titoli « spirituali » è veramente cospicua: dalla prima Ave Maria (composta nel 1842) sino al suo ultimo anno di vita (1886), l’elenco dei pezzi dedicati alla fede cattolica, amplissimo, si confonde con i pezzi di carattere puramente meditativo, tanto da non potersi distinguere. Nella sua immaginazione la presenza di eroi, così significativa sino agli anni Cinquanta, si assottiglia per lasciare spazi sempre più vasti alle figure di santi e in particolare alla venerazione della Madonna. Nella creazione di un genere spirituale che trasversalmente abbracciasse pianoforte, coro, orchestra, con le loro diverse esigenze linguistiche, Liszt compie uno sforzo meritorio nel prendere le distanze da quello stile improvvisativo del palcoscenico, dal quale proviene. La maturazione di questo nuovo linguaggio non è indenne da sbavature e incertezze, legata come anche alla conquista del mestiere di orchestratore, abbastanza tardiva rispetto alla fioritura adolescenziale del suo talento pianistico.
La religiosità lisztiana si manifesta in modi difformi, né si potrebbe chiedere diversamente a un artista così orgoglioso della sua libertà. La relazione tra poesia e religione nella sua musica non è ben definita. In molti titoli la ricerca dell’eufonia diventa la cifra stessa del suo approccio alla preghiera, una sorta di conforto morale nella dolcezza del suono: non esiste un confine preciso tra eufonia estetizzante e ascesi. Un po’ come l’Adorazione dei pastori del Correggio, dove la Bellezza rischia di far velo alla Verità, rendendola sentimentale. Inoltre Liszt legge la storia della Chiesa attraverso figure eroiche di santi; alla loro mediazione e alla celebrazione dell’Ecclesia triumphans dedica molte risorse strumentali, soprattutto nelle sue messe per coro e orchestra.
Nella seppur frustrata ambizione di assumere il ruolo di riformatore della musica liturgica, Liszt ha impegnato tutto il suo talento alla ricerca di un punto di equilibrio tra tradizione antica e innovazione. Cosa che gli costò parecchi nemici.
Nonostante la presenza consistente di composizioni spirituali nel repertorio pianistico lisztiano, sarebbe paradossale valutare il volto religioso della sua personalità musicale dimenticando il Christus e la Leggenda di santa Elisabetta, raramente eseguiti in concerto. Vorrei soffermarmi sul Christus perché in questo opus magnum è manifesto il legame sia con la musica italiana a lui contemporanea, sia con la Chiesa cattolica e con la tradizione musicale che da essa discendeva.
Il Christus, senza ambire a un’omogeneità (irrealistica per le sue dimensioni monstre), pretende di essere al contempo sintesi delle esperienze artistiche dell’autore e nuova strada dello stile liturgico romano, attraverso il recupero delle « origini » palestriniane. Per questo motivo l’opera si presenta in giganteschi frammenti distanti tra loro, come avviene per i pezzi « caratteristici » di un ciclo romantico. I differenti organici orchestrali utilizzati nei vari episodi cercano la pluralità di stili e di sintassi, in un difficile equilibrio tra linguaggio della tradizione liturgica, cantabilità italiana, e orchestra moderna, correndo anche qualche rischio (Tristis est anima mea, per esempio, è un brano che rimanda un po’ troppo agli stilemi del melodramma italiano). Ciò che stupisce nel Christus è la capacità di Liszt da una parte di concepire una partitura universale, che si rifà in qualche misura alla classicità delle antiche generazioni di musicisti, e dall’altra di non perdere la fortissima impronta della sua personalità artistica, proprio nel momento in cui si allontana dalla poetica romantica, in lui stesso così autorevolmente incarnata.
Il Christus esprime compiutamente in musica la certezza, la serenità, la forza che scaturiscono dalla Verità. Soltanto alla luce delle grandi opere corali andrebbero esaminati i brani pianistici che si rivolgono alla fede: Vexilla regis prodeunt, che evoca il linguaggio primitivo delle origini; In festo trasfigurationis Domini nostri Jesu Christi, quasi verso l’impronunciabile; le Leggende francescane, composte come in uno stato di estasi. Il valore degli ultimi due brani non sta tanto nel loro straordinario impressionismo quanto nella profonda adesione alle figure dei santi: questi non sono un « pretesto » per fare musica, è la musica il linguaggio privilegiato da Liszt per venerarli. I pezzi di carattere spirituale raggiungono un apice con la stesura, molto meditata, delle Harmonies poétiques et religieuses, che segna un punto importante nello sviluppo del linguaggio lisztiano. (Posso immaginare che il solo titolo Harmonies poétiques et religieuses gli abbia creato già all’epoca antipatia diffusa, tra i cattolici perché la religione non si confonde con la poesia, tra i laici perché la poesia bagnata in acque cattoliche passa al nemico).
Raccogliendo i frutti di un’esperienza quasi trentennale, il musicista ungherese sperimenta la massima potenza oratoria cui può giungere il suono del pianoforte inteso come alternativa al canto umano. I dieci quadri del Kreis non si concentrano più sulla resa virtuosistica e le difficoltà tecniche sono sempre rigorosamente al servizio della concezione sonora della musica.
La santità della Chiesa trionfante, così appassionatamente espressa da pagine memorabili come il poema sinfonico Hunnenschlacht, la Leggenda di san Francesco di Paola che cammina sulle onde, tutte le grandi messe così come i due oratori, non è accolta con favore dalla sensibilità del XXI secolo: non commuove le folle e non convince gli stessi interpreti. I paradigmi di santità insegnati da Georges Bernanos sono meno retorici e si immergono senza enfasi nella sofferenza umana. I santi del XX secolo certo non mancano, ma poco somigliano a quelli descritti da Liszt.
La spiritualità del nostro tempo non chiede di esibirsi sui palcoscenici e si rifugia in più appropriati luoghi dell’anima. Tuttavia svilire il sentimento profondo e continuamente riaffiorante di fedeltà alla dottrina della Chiesa romana così vivo in Liszt, è la facile reazione del cinismo e dello scetticismo della nostra società secolarizzata. È quindi comprensibile la totale svalutazione di quella parte dell’opera di Liszt che era considerata dall’autore come la sua più importante, e destinata a sopravvivergli. Eppure non tutto è perduto: esistono alcuni brani della produzione spirituale di Liszt ancora corrispondenti alla nostra sensibilità ferita. La sua Sancta Dorothea è un miracoloso esempio di veicolazione attraverso la musica: la quieta operosità claustrale, le emozioni rinchiuse nel silenzio vengono descritte in modo toccante. Il mottetto Ossa arida e la Via Crucis lasciano cadere l’oratoria trionfalistica e immergono senza pietà il coltello nella ferita. Con queste opere Liszt giunge al termine di un lungo percorso, principiato dallo stile Biedermeier delle composizioni infantili, dove i sentimenti assomigliano a una stampa di genere da attaccare alle pareti di una casa borghese, e concluso con l’espressionismo di questi brandelli di musica, capaci di andare al fondo della sofferenza umana senza pagare dazio a nessun condizionamento, di qualsiasi genere.

(L’Osservatore Romano 10 marzo 2011)

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