Archive pour le 12 mai, 2011

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Le lacrime di Dostoevskij e la consolazione dello starec Amvrosij di Optina

dal sito:

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/arte/dostoevskamvros.htm

DOSTOEVSKIJ E LO STAREC AMVROSIJ TI OPTINA
 
Le lacrime di Dostoevskij e la consolazione dello starec Amvrosij di Optina
 
Era il giugno del 1878 quando Fedor Michajlovic Dostoevskij, in compagnia del filosofo V. Solov’ev, si recò in pellegrinaggio al monastero di Optina Pustyn’. Il celebre autore Russo stava vivendo un momento molto difficile, il 16 maggio di quell’anno gli era morto improvvisamente, dopo un attacco di convulsioni febbrili, il figlioletto Alesha di tre anni.
Scrive la moglie Anna G. Dostoevskaja: «Fedor Michajlovic ebbe un profondo dolore per quella morte: egli amava Alesa in modo particolare, di un amore quasi morboso, come se avesse il presentimento che dovesse perderlo presto. E il bambino era morto di epilessia, malattia ereditata dal padre. Esteriormente tranquillo, egli sopportava con coraggio quel colpo del destino, ma io temevo che esso sarebbe stato fatale alla sua salute, così incostante. Per distrarlo dai pensieri troppo tristi, pregai Solov’ev, che in quei giorni di dolore veniva da noi molto spesso, di persuaderlo ad andare con lui a Optina Pustyn’, dove egli si proponeva di passare l’estate. Solov’ev mi promise che l’avrebbe fatto e cominciò a pregare Fedor M. di andare con lui. Io pure lo pregai di accompagnare Solov’ev e decidemmo che, verso la metà di giugno, Fedor M. sarebbe partito da Mosca insieme con l’amico. Solo non l’avrei mai lasciato partire». Da quanto riferisce la moglie è da supporre che Dostoevskij si recò a Optina in primo luogo per ottenere conforto spirituale per la dolorosa perdita del figlio. Sia lui che la moglie erano completamente abbandonati al dolore e le parole di consolazione dette dallo starec Amvrosij a Dostoevskij furono molto probabilmente quelle messe in bocca allo starec Zosima nel II libro de I fratelli Karamazov dove il romanziere descrive le donne credenti, e in modo particolare una madre che esprime allo starec il suo dolore per la morte del suo bambino di età e di nome uguale al figlio di Dostoevskij.
Dice la moglie A. G. Dostoevskaja: «La morte del nostro piccolo mi aveva abbattuta: mi abbandonai totalmente al dolore, piansi, piansi, ed ero così disperata che nessuno mi riconosceva. La mia vivacità abituale sparì e la mia energia fece posto all’apatia. Ero indifferente a tutto e a tutti, non mi interessavano più né la casa né gli affari e trascuravo anche i bambini… Molti dei dubbi, pensieri e anche parole mie di quel tempo si trovano ne I fratelli Karamazov nel capitolo “Le donne credenti” in cui una madre che ha perduto il suo bambino sfoga col padre Zosima il suo dolore…». Nei suoi ricordi Anna Grigor’evna racconta degli incontri avuti da Dostoevskij con lo starec Amvrosij: «Nell’eremo, Fedor M. vide tre volte il celebre e venerato padre Amvrosij; una volta in mezzo alla folla e due volte solo; i suoi discorsi gli fecero una profonda impressione. Quando disse al padre della disgrazia accadutaci e che io ero ancora così straziata, il padre gli domandò se io fossi credente e, avuta una risposta affermativa, lo pregò di portarmi la sua benedizione. Le stesse parole dice padre Zosima, ne I fratelli Karamazov, alla madre addolorata»[1].
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Da “Le donne credenti”, II libro de I fratelli Karamazov
 
Molte delle donne che si affollavano attorno a lui versavano lacrime di gioia e di commozione, sotto l’impressione del momento; altre cercavano di spingersi avanti anche solo per baciargli il lembo della veste, altre ancora si lamentavano. Egli le benediceva tutte e ad alcune rivolgeva qualche parola…
– Eccone una che viene da lontano! – disse lo starec, indicando una donna non ancora vecchia ma molto magra e smunta, dal viso più che abbronzato addirittura quasi nero. La donna stava in ginocchio e guardava lo starec con gli occhi fissi. C’era in quello sguardo un’espressione esaltata.
– Da lontano, bàtjuska, da lontano, trecento versty da qui… Da lontano, bàtjuska, da lontano… – cantilenava la donna, dondolando pian piano la testa da una parte all’altra e appoggiando una guancia sulla palma della mano. Parlava come se si lamentasse. C’è nel popolo un dolore silenzioso e paziente, esso si ritrae in sé e tace. Ma esiste anche un dolore lacerante; esso erompe una volta in lacrime disperate e da quell’istante si sfoga in lamenti. Specialmente nelle donne. Ma non è meno penoso del dolore silenzioso. I lamenti danno sollievo, sì, ma corrodono e lacerano il cuore ancora di più. Un tale dolore non vuole neanche conforto, si nutre della consapevolezza della propria indistruttibilità. I lamenti non esprimono altro che il bisogno di irritare continuamente la ferita.
– Sei della città? – proseguì lo starec, guardando fissamente la donna.
– Della città, padre, della città; veramente siamo gente di campagna, ma viviamo in città. Sono venuta, padre, per vederti. Abbiamo sentito parlare di te, bàtjuska, ne abbiamo sentito parlare. Ho seppellito un bambino piccoletto, poi sono andata a pregar Dio. In tre monasteri sono stata e mi hanno detto: «Nastàsjuska, va’ anche laggiù», ossia qui da voi, angelo santo. Sono venuta, ieri sono stata alla liturgia notturna, ed ecco che oggi sono qui da voi.
– Perché piangi?
– Piango il mio figlioletto, bàtjuska; aveva quasi tre anni; ancora due mesi e avrebbe avuto tre anni. È per il mio bimbetto, padre, che mi tormento. Era l’ultimo figliuolo che ci era rimasto: quattro ne abbiamo avuti, io e Nikìtuska, ma in casa nostra, padre benamato, i bimbi non campano. I tre primi li ho sotterrati io, ma non li ho pianti troppo, ma quest’ultimo l’ho sotterrato e non lo posso dimenticare. È proprio come se fosse qui davanti a me, e non si allontana. Mi ha disseccato l’anima. Guardo i suoi pannolini, la camiciuola, le scarpette e singhiozzo. Tiro fuori tutto ciò che è rimasto di lui, guardo ogni cosa, e piango. Dico a Nikìtuska, mio marito: «Padrone mio, lasciami andare in pellegrinaggio». Lui è vetturino, non siamo poveri, padre, non siamo poveri: lavoriamo per conto nostro, e sono nostri cavalli e carrozza. Ma a che ci serve ora la roba? Si sarà messo a bere il mio Nikìtuska, senza di me; di certo è così; anche prima, non appena mi voltavo, lui subito si disanimava. Ma adesso non penso neppure più a lui. Già da tre mesi sono lontana da casa. Ho dimenticato, ho dimenticato tutto e non voglio più ricordare nulla; e poi che cosa farei adesso con lui? L’ho finita con lui, l’ho finita, l’ho finita con tutti. E non vorrei neppure più rivedere la mia casa, né la mia roba, non vorrei vedere più nulla!
– Senti, madre – proferì lo starec –, un grande santo dei tempi antichi vide una volta in un tempio una mamma che piangeva come te; anche lei piangeva il suo figlioletto, l’unico che aveva e che il Signore aveva chiamato a sé. «Non sai» le disse quel santo «come questi bambinelli se ne stanno tutti fieri davanti al trono di Dio? Nel regno dei cieli non c’è nessuno più fiero di loro. Tu, o Signore, dicono a Dio, ci hai donato la luce; noi l’abbiamo appena veduta e Tu ce l’hai ripresa. E pregano e chiedono con tanta baldanza che il Signore concede subito loro il grado di angeli. Perciò, disse quel santo, gioisci anche tu, donna, e non piangere perché il tuo piccolo è ora vicino al Signore nella schiera dei Suoi angeli». Ecco cosa disse in tempi antichi quel santo alla donna piangente. Ed egli era un grande santo e non poteva non dirle il vero. Perciò sappi anche tu, o madre, che il tuo bambinello è oggi presso il trono del Signore e gioisce, si rallegra, e prega Dio per te. Non piangere quindi neppur tu, ma gioisci.
La donna lo ascoltava con la guancia appoggiata alla mano e con gli occhi bassi. Sospirò profondamente.
– Anche Nikìtuska, per consolarmi, mi parlava proprio come te. «Non sei ragionevole» mi diceva. «Perché piangi? Il nostro bambinello è vicino al Signore Iddio e canta insieme con gli altri angeli». Mi dice così, ma piange anche lui; lo vedo che piange come me. «Lo so, Nikìtuska», dico io, «dove potrebbe essere se non accanto al Signore Iddio?… ma qui con noi ora non c’è più, Nikìtuska, non è più seduto qui vicino a noi come prima…». Se lo vedessi solo una volta, se potessi rivederlo una volta ancora! Non mi avvicinerei, non gli direi neppure una parola, mi nasconderei in un angolo pur di vederlo un attimo, pur di sentirlo giocare nel cortile e poi venire, come una volta, gridando con la sua vocetta: «Mammina, dove sei?» Potessi solo una volta, una volta sola sentirlo camminare nella stanza con i suoi piedini che facevano toc toc!… Mi ricordo che quasi sempre correva da me gridando e ridendo! Potessi solo sentire i suoi piedini, sentirli, riconoscerli! Ma lui non c’è più, bàtjuska, non c’è più e non lo sentirò mai più! Ecco qui la sua cinturina, ma lui non c’è più e io non potrò mai più né vederlo né sentirlo!
Essa cavò dal seno la piccola cintura di passamano del suo bimbetto e, al solo vederla, fu scossa dai singhiozzi e si coprì il volto con le dita attraverso le quali colarono rivi di lacrime.
– Questa – disse lo starec – questa è l’antica «Rachele che piange i suoi figli e non può consolarsi perché essi non sono più»; tale è la sorte assegnata sulla terra a voi madri. E tu non consolarti, non occorre che tu ti consoli, piangi pure; ma, ogni volta che piangi, ricordati che il tuo bambino è uno degli angeli di Dio, che di là ti guarda e ti vede, gioisce delle tue lacrime e le indica al Signore Iddio. E ancora a lungo durerà questo tuo sublime pianto di madre, ma alla fine si trasformerà in una quieta gioia, e le tue amare lacrime non saranno più che lacrime di dolce tenerezza e di purificazione del cuore che laveranno la tua anima dal peccato. Io pregherò per la pace del tuo bambino: come si chiamava?
– Alekséj, bàtjuska.
– È un bel nome. In ricordo di Alekséj «uomo di Dio?».
– Di lui, bàtjuska, di lui, di Alekséj «uomo di Dio».
– Quale grande santo! Pregherò, madre, pregherò e nella mia preghiera ricorderò la tua afflizione e pregherò anche per la salute di tuo marito. Però tu commetti peccato ad abbandonarlo. Torna da tuo marito e abbi cura di lui. Di lassù il tuo piccolo vedrà che hai abbandonato il suo papà e piangerà per voi; perché vuoi turbare la sua beatitudine? Lui è vivo, vivo, giacché l’anima vive in eterno; non è nella casa, ma è invisibile accanto a voi. Ma come potrà venire nella sua casa, se tu dici che hai preso a odiarla, la tua casa? Da chi dunque andrà, se non troverà insieme il babbo e la mamma? Adesso tu lo sogni e ti tormenti, ma allora egli ti manderà dei sogni tranquilli. Va’ da tuo marito, madre, va’ oggi stesso.
– Andrò, caro, seguirò i tuoi consigli. Mi hai sconvolto il cuore. Nikìtuska, Nikìtuska mio, tu mi aspetti, caro, mi aspetti…

[1] Cfr. AA.VV., Il santo starec Amvrosij del monastero russo di Optina, Abbazia

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Don Martino Michelone proclamato “Giusto tra le Nazioni”

 dal sito:

http://www.zenit.org/article-26668?l=italian
 
L’EROISMO DI UN PARROCO DI CAMPAGNA

Don Martino Michelone proclamato “Giusto tra le Nazioni”

di Antonio Gaspari

ROMA, giovedì, 12 maggio 2011 (ZENIT.org).- Gli orrori della seconda guerra mondiale e la barbarie che si scatenò contro il popolo ebraico fu riscattata dalle azioni di tanti eroi sconosciuti i quali con le loro opere di bene salvarono l’umanità.
E’ questo il caso di don Martino Michelone, parroco di Morasengo (Asti), un piccolo paese del Monferrato, il quale rischiò la vita pur di salvare una famiglia di ebrei perseguitati dai nazisti.
Domenica 8 maggio l’ambasciatore d’Israele Ghideon Meir, i rappresentanti della Regione e della Provincia, don Luigi Ciotti, presidente dell’associazione Libera, la vicepresidente dell’Ucei, Claudia De Benedetti e i sindaci di molti comuni monferrini tra cui Morano, città natale di don Michelone, hanno celebrato il riconoscimento di “Giusto tra le Nazioni” del parroco di Morasengo.
L’ambasciatore d’Israele Ghideon Meir ha ricordato gli scopi fondanti dello Yad Vashem, riportando la frase del Talmud che dice “chi salva una vita salva il mondo intero”. Dopodichè ha consegnato nella mani di Mauro, nipote di don Martino Michelone, la medaglia e il diploma con cui il sacerdote viene riconosciuto tra i giusti che contribuirono a salvare l’umanità.
Nel corso delle celebrazioni è stata scoperta una targa sulla facciata della chiesa che ricorda don Michelone e una targa sul retro della chiesa che intitola la Piazza a don Martino.
A raccontare la storia è stato Luciano Segre, un consulente di imprese e associazioni di industriali, che all’epoca aveva appena otto anni.
Era il 1938 quando in Italia vennero proclamate le leggi razziali. Riccardo Segre era un commerciante di tessuti a Casale Monferrato, e cercava di vivere tranquillo, ma dopo l’8 settembre 1943 la vita divenne incerta per tutti, soprattutto per gli ebrei.
Così Riccardo, insieme alla moglie Angela, sua sorella Elvira e il piccolo Luciano, fuggirono prima a Cogne e poi da lì pensarono alla fuga in Svizzera. Arrivarono in ritardo all’appuntamento con la famiglia Ovazza, e quella che poteva sembrare una disgrazia fu una fortuna, perchè tutti ci componenti della famiglia degli Ovazza venne tradita e uccisa.
Riccardo Segre, insieme alla sua famiglia, cercò di nascondersi, ma non aveva più denaro e si ammalò contraendo una infezione al polmone. Quando tutto sembrava perso e cominciava ad affiorare la disperazione, Riccardo incontrò don Martino, già cliente del suo negozio di tessuti, il quale gli disse: “Prendi la tua famiglia e venite a nascondervi in canonica da me”.
Luciano ha raccontato che la sua famiglia viveva nascosta sopra la chiesa e che don Martino “aveva mani grosse come badili” e faceva spesso volare scappellotti, ma era buono come il pane.
Per curare l’infezione polmonare di Riccardo, don Martino riuscì persino a recuperare della penicillina tra i medicinali paracadutati dagli inglesi.
Il rispetto per la religione ebraica era assoluto. Luciano ha testimoniato allo Yad Vashem che “Mai don Martino cercò di intavolare un discorso religioso con i Segre”, anche se, per evitare perquisizione e dubbi, aveva Riccardo come parte del coro della Chiesa, mentre Luciano faceva il chierichetto.
Nel corso della cerimonia in cui è stata scoperta la lapide in ricordo di don Martino, Luciano Segre ha spiegato: “Ho vissuto due anni magnifici in questo paese: è logico ero un bambino e mi divertiva stare qui.  Falsificando i documenti don Michelone mi ha mandato persino alla scuola elementare di Tonengo. In quella chiesa io servivo messa e mio padre cantava nel coro. Don Michelone però ha sempre rispettato la nostra religione”.
Don Martino, era molto attivo nell’opera di assistenza alle vittime della persecuzione e della guerra. E per questo divenne presto oggetto delle attenzione dei nazisti.
E’ sempre Luciano a narrare che una volta i nazisti vennero a cercare don Martino al fine di arrestarlo. Ma don Martino godeva della vigile attenzione dei parrocchiani, i quali riuscirono a farlo scappare in anticipo per il dirupo dietro la chiesa e poi lo nascosero nella macchia fino a quando i nazisti non decisero la ritirata.
Nel corso delle cerimonie per la commemorazione il giornalista Gad Lerner, che per primo ha diffuso la storia di don Martino, ha detto: “Se siamo venuti qui oggi in tanti e da tanti posti diversi è per dirvi grazie, grazie a voi e ai vostri padri, che sapevano che don Michelone stava nascondendo una famiglia di ebrei eppure non hanno mai denunciato nessuno.  Grazie perché ci avete donato una persona splendida come Luciano Segre. Oggi siamo chiamati a trasmettere questa memoria: il bene fatto nel 1943 diventa il bene per altre persone”.

Publié dans:ebraismo : i giusti |on 12 mai, 2011 |Pas de commentaires »

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