Our Father in heaven..

dal sito:
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa201105/110501ravasi.pdf
Tagore, una voce in mano a Dio
di Gianfranco Ravasi
in “Il Sole 24 Ore” del 1 maggio 2011
«Ho ricevuto il mio invito alla festa di questo mondo; la mia vita è stata benedetta. I miei occhi
hanno veduto, le mie orecchie hanno ascoltato. In questa festa dovevo solo suonare il mio strumento musicale: ho eseguito come meglio potevo la parte che mi era stata assegnata. Ora ti chiedo, Signore: è venuto il momento di entrare e di vedere il tuo volto?». Era ormai al tramonto della vita quando Rabindranath Tagore scriveva questa sorta di testamento, convinto però che la morte non era una soglia spalancata sull’abisso del nulla, ma un portale aperto sull’infinito e sull’eterno, per un le vecchie parole muoiono e nuove melodie sgorgano dal
cuore, i vecchi sentieri si perdono e appare un nuovo paese meraviglioso». Settant’anni fa, il 7
agosto 1941 nella cittadella dello spirito da lui fondata a Santiniketan in Bengala, moriva questo
celebre poeta e guru o maestro spirituale, che era nato centocinquant’anni fa a Calcutta, il 6 maggio 1861.
Commemoriamo questi due anniversari non certo con un profilo compiuto di questo personaggio popolarissimo anche in Occidente: in verità, è quasi impossibile, valicare l’oceano testuale che ha lasciato dietro di sé, una distesa di 150.000 versi, 300.000 righe di prosa, 3.000 canti musicali, senza contare articoli e discorsi. Infatti, egli ha scritto romanzi e racconti, migliaia di poesie, drammi e testi teatrali, saggi di filosofia e di teologia e persino un’autobiografia. Discepolo di una comunità teistica per l’adorazione di Dio (Brahma-Samaj), fondò a sua volta una corrente misticosociale, fu riformatore agrario, originale pedagogista, combattente politico, creatore di università, edificatore di ponti ideali tra Occidente e Oriente, messaggero instancabile in viaggio in tutto il mondo. Non è neppure facile raccogliere spunti tematici dai suoi versi perché essi sono una efflorescenza inesauribile di simboli, immagini, intuizioni, emozioni; talora egli s’avvia sui percorsi d’altura della contemplazione e dell’astrazione, altre volte scende nelle piazze impolverate della tradizione popolare; non di rado cede alla tentazione dell’erudizione e della maniera, spesso opta invece per la trasparenza luminosa dell’essenzialità e della folgorazione mistica. «Dio si stanca dei grandi regni, mai dei piccoli fiori», scriveva, evocando le teofanie silenziose: «Oggi lungo i sentieri nascosti, / attraverso l’ombrosa selva / invisibile a tutti, / silenzioso come la notte sei venuto, Signore… », così cantava in una delle sue opere più celebri, Gitanjali del 1913-14 (tradotta in italiano come Canti di offerta, San Paolo Edizioni 1993). Purtroppo, però, l’uomo «affonda nelle sabbie mobili della noia… / intristito in pareti strette, senza cielo aperto… / perso
nelle molte strade / tra grattacieli di inutili cose». E invece dovrebbe abbandonarsi all’abbraccio
divino, come egli invoca: «Lasciami solo quel poco con cui possa chiamarti il mio tutto. / Lasciami solo quel poco con cui possa sentirti in ogni luogo / e offrirti il mio amore in ogni momento». E ancora la temperie mistica di questa «piccola canna di flauto» suonata da Dio – come ama definirsi Tagore, che era anche musicista – affiora in un’altra confessione di lode: «Hai fatto prigioniero il mio cuore / nelle infinite reti / del tuo canto, o mio Signore».
Eppure la sua religiosità non si astrae dalla quotidianità che gronda di sofferenze e di ingiustizie.
Citatissima è la preghiera, sempre del suo capolavoro Gitanjali, che suona così nel suo centro
tematico: «Dammi la forza, o Signore, di non rinnegare mai il povero, / di non piegare le ginocchia di fronte all’insolenza dei potenti». Esemplare è la parabola dell’aspirante asceta che decide di lasciare la sua famiglia per l’eremo e che si chiede: «Chi mi trattenne a lungo nell’illusione della vita familiare?». Dio gli sussurra: Io! «Ma l’uomo aveva le orecchie turate. Col suo bimbo addormentato al seno, la moglie dormiva placidamente. L’uomo disse: Chi siete voi che mi ingannate coi sentimenti? Una voce misteriosa mormorò: Essi sono Dio! Ma egli non intese. Allora Dio comandò: Fermati, sciocco, non abbandonare la tua casa! Ma l’aspirante asceta ancora non udì. Dio, allora, tristemente sospirando disse: Perché il mio servo mi abbandona per andare in cerca di me?». Scriveva, infatti, Tagore: «Sognavo che la vita fosse gioia. Mi svegliai: la vita è servizio. Ho, allora, servito e nel servizio ho trovato la gioia». L’incontro con l’altro è fondamentale per ritrovare sestessi: «Il nostro vero valore è in noi stessi, ma è sparso in tutte le persone del mondo. Dobbiamo camminare per unirci, altrimenti non ritroviamo noi stessi». Questa « incarnazione » della fede ha fatto sì che il poeta si avvicinasse a Cristo, non di rado evocato nelle sue pagine al punto tale che un suo studioso, il missionario saveriano Marino Rigon ha raccolto tutte queste testimonianze cristologiche in un volume Il Cristo secondo Tagore (Paoline 1993). Scriveva: «Dal giorno che Cristo offrì la sua vita immortale nel calice della morte per i disprezzati e i dimenticati sono passate
centinaia d’anni. Eppure egli oggi scende ancora dalle dimore immortali a quelle mortali. Vede
l’uomo fustigato dal peccato, colpito da frecce e lance. S’affilano lame, nuove e più tremende armi di morte sono pronte per essere impugnate dalle mani dell’uomo omicida. Cristo si stringe le mani al petto: ha capito che non è finito il momento perenne della sua morte». Ecco la sua riflessione sull’Incarnazione: «Cristo ha sopportato tutte le ingiurie dalle mani dell’uomo e le sue sofferenze risuonano alla radice del peccato umano. Il Dio degli uomini è dentro l’uomo, opporsi a lui è peccato, unirsi a lui è cancellare il peccato. Quel grande Uomo, offrendo continuamente la sua vita, ha dato vita al piccolo uomo». Siamo partiti con un suo ideale testamento alle soglie della morte, concludiamo con una replica tematica desunta da un’altra sua celebre raccolta, Il Giardiniere (1913): «Pace, cuor mio, che il tempo dell’addio sia dolce. / Che non sia morte ma pienezza. / Che l’amore si sciolga nel ricordo e il dolore in canzone… / Fermati un istante, o Bellissima Fine, / e in silenzio dimmi le tue ultime parole». Mistico
La parola mistico deriva dal greco mystikòs che significa misterioso e definisce colui che pratica il misticismo e/o scrive opere di mistica. Per misticismo si intende l’atteggiamento spirituale o la dottrina religiosa o filosofica in base a cui l’intima unione col divino, ottenuta con l’ascesi e la mediazione interiore, porta alla conoscenza perfetta. Rabindranath Tagore nacque a Calcutta il 6 maggio 1861 e morì a Santiniketan il 7 agosto 1941. Personalità poliedrica, fu scrittore, poeta, drammaturgo e filosofo. Figlio di un ricco Bramino, studiò in Inghilterra per poi tornare in India e dedicarsi alle arti e alle sue terre. Con le sue opere cercò di fare da ponte tra la cultura orientale e quella occidentale. Nel 1913 l’accademia di Svezia di assegnò il premio Nobel per la letteratura. Tagore è stato tradotto praticamente in tutte le lingue europee. Oltre alle arti, si impegnò a costruire strade, ospedali e anche una scuola, che oggi è università.
dal sito:
http://www.zenit.org/article-26556?l=italian
BENEDETTO XVI: OCCORRE ACQUISIRE DI NUOVO L’ARTE DELLA PREGHIERA
Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 4 maggio 2011 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito la catechesi tenuta questo mercoledì da Papa Benedetto XVI, in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro, nell’iniziare un nuovo ciclo di catechesi sul tema della preghiera.
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Cari fratelli e sorelle,
quest’oggi vorrei iniziare una nuova serie di catechesi. Dopo le catechesi sui Padri della Chiesa, sui grandi teologi del Medioevo, sulle grandi donne, vorrei adesso scegliere un tema che sta molto a cuore a tutti noi: è il tema della preghiera, in modo specifico di quella cristiana, la preghiera, cioè, che ci ha insegnato Gesù e che continua ad insegnarci la Chiesa. E’ in Gesù, infatti, che l’uomo diventa capace di accostarsi a Dio con la profondità e l’intimità del rapporto di paternità e di figliolanza. Insieme ai primi discepoli, con umile confidenza ci rivolgiamo allora al Maestro e Gli chiediamo: « Signore, insegnaci a pregare » (Lc 11,1).
Nelle prossime catechesi, accostando la Sacra Scrittura, la grande tradizione dei Padri della Chiesa, dei Maestri di spiritualità, della Liturgia vogliamo imparare a vivere ancora più intensamente il nostro rapporto con il Signore, quasi una « Scuola della preghiera ». Sappiamo bene, infatti, che la preghiera non va data per scontata: occorre imparare a pregare, quasi acquisendo sempre di nuovo quest’arte; anche coloro che sono molto avanzati nella vita spirituale sentono sempre il bisogno di mettersi alla scuola di Gesù per apprendere a pregare con autenticità. Riceviamo la prima lezione dal Signore attraverso il Suo esempio. I Vangeli ci descrivono Gesù in dialogo intimo e costante con il Padre: è una comunione profonda di colui che è venuto nel mondo non per fare la sua volontà, ma quella del Padre che lo ha inviato per la salvezza dell’uomo.
In questa prima catechesi, come introduzione, vorrei proporre alcuni esempi di preghiera presenti nelle antiche culture, per rilevare come, praticamente sempre e dappertutto si siano rivolti a Dio.
Comincio con l’antico Egitto, come esempio. Qui un uomo cieco, chiedendo alla divinità di restituirgli la vista, attesta qualcosa di universalmente umano, qual è la pura e semplice preghiera di domanda da parte di chi si trova nella sofferenza, quest’uomo prega: « Il mio cuore desidera vederti… Tu che mi hai fatto vedere le tenebre, crea la luce per me. Che io ti veda! China su di me il tuo volto diletto » (A. Barucq – F. Daumas, Hymnes et prières de l’Egypte ancienne, Paris 1980, trad. it. in Preghiere dell’umanità, Brescia 1993, p. 30). Che io ti veda; qui sta il nucleo della preghiera!
Presso le religioni della Mesopotamia dominava un senso di colpa arcano e paralizzante, non privo, però, della speranza di riscatto e liberazione da parte di Dio. Possiamo così apprezzare questa supplica da parte di un credente di quegli antichi culti, che suona così: « O Dio che sei indulgente anche nella colpa più grave, assolvi il mio peccato… Guarda, Signore, al tuo servo spossato, e soffia la tua brezza su di lui: senza indugio perdonagli. Allevia la tua punizione severa. Sciolto dai legami, fa’ che io torni a respirare; spezza la mia catena, scioglimi dai lacci » (M.-J. Seux, Hymnes et prières aux Dieux de Babylone et d’Assyrie, Paris 1976, trad. it. in Preghiere dell’umanità, op. cit., p. 37). Sono espressioni che dimostrano come l’uomo, nella sua ricerca di Dio, ne abbia intuito, sia pur confusamente, da una parte la sua colpa, dall’altra aspetti di misericordia e di bontà divina.
All’interno della religione pagana dell’antica Grecia si assiste a un’evoluzione molto significativa: le preghiere, pur continuando a invocare l’aiuto divino per ottenere il favore celeste in tutte le circostanze della vita quotidiana e per conseguire dei benefici materiali, si orientano progressivamente verso le richieste più disinteressate, che consentono all’uomo credente di approfondire il suo rapporto con Dio e di diventare migliore. Per esempio, il grande filosofo Platone riporta una preghiera del suo maestro, Socrate, ritenuto giustamente uno dei fondatori del pensiero occidentale. Così pregava Socrate: « Fate che io sia bello di dentro. Che io ritenga ricco chi è sapiente e che di denaro ne possegga solo quanto ne può prendere e portare il saggio. Non chiedo di più » (Opere I. Fedro 279c, trad. it. P. Pucci, Bari 1966). Vorrebbe essere soprattutto bello di dentro e sapiente, e non ricco di denaro.
In quegli eccelsi capolavori della letteratura di tutti i tempi che sono le tragedie greche, ancor oggi, dopo venticinque secoli, lette, meditate e rappresentate, sono contenute delle preghiere che esprimono il desiderio di conoscere Dio e di adorare la sua maestà. Una di queste recita così: « Sostegno della terra, che sopra la terra hai sede, chiunque tu sia, difficile a intendersi, Zeus, sia tu legge di natura o di pensiero dei mortali, a te mi rivolgo: giacché tu, procedendo per vie silenziose, guidi le vicende umane secondo giustizia » (Euripide, Troiane, 884-886, trad. it. G. Mancini, in Preghiere dell’umanità, op. cit., p. 54). Dio rimane un po’ nebuloso e tuttavia l’uomo conosce questo Dio sconosciuto e prega colui che guida le vie della terra.
Anche presso i Romani, che costituirono quel grande Impero in cui nacque e si diffuse in gran parte il Cristianesimo delle origini, la preghiera, anche se associata a una concezione utilitaristica e fondamentalmente legata alla richiesta della protezione divina sulla vita della comunità civile, si apre talvolta a invocazioni ammirevoli per il fervore della pietà personale, che si trasforma in lode e ringraziamento. Ne è testimone un autore dell’Africa romana del II secolo dopo Cristo, Apuleio. Nei suoi scritti egli manifesta l’insoddisfazione dei contemporanei nei confronti della religione tradizionale e il desiderio di un rapporto più autentico con Dio. Nel suo capolavoro, intitolato Le metamorfosi, un credente si rivolge a una divinità femminile con queste parole: « Tu sì sei santa, tu sei in ogni tempo salvatrice dell’umana specie, tu, nella tua generosità, porgi sempre aiuto ai mortali, tu offri ai miseri in travaglio il dolce affetto che può avere una madre. Né giorno né notte né attimo alcuno, per breve che sia, passa senza che tu lo colmi dei tuoi benefici » (Apuleio di Madaura, Metamorfosi IX, 25, trad. it. C. Annaratone, in Preghiere dell’umanità, op. cit., p. 79).
Nello stesso periodo l’imperatore Marco Aurelio – che era pure filosofo pensoso della condizione umana – afferma la necessità di pregare per stabilire una cooperazione fruttuosa tra azione divina e azione umana. Scrive nei suo Ricordi: « Chi ti ha detto che gli dèi non ci aiutino anche in ciò che dipende da noi? Comincia dunque a pregarli, e vedrai » (Dictionnaire de Spiritualitè XII/2, col. 2213). Questo consiglio dell’imperatore filosofo è stato effettivamente messo in pratica da innumerevoli generazioni di uomini prima di Cristo, dimostrando così che la vita umana senza la preghiera, che apre la nostra esistenza al mistero di Dio, diventa priva di senso e di riferimento. In ogni preghiera, infatti, si esprime sempre la verità della creatura umana, che da una parte sperimenta debolezza e indigenza, e perciò chiede aiuto al Cielo, e dall’altra è dotata di una straordinaria dignità, perché, preparandosi ad accogliere la Rivelazione divina, si scopre capace di entrare in comunione con Dio.
Cari amici, in questi esempi di preghiere delle diverse epoche e civiltà emerge la consapevolezza che l’essere umano ha della sua condizione di creatura e della sua dipendenza da un Altro a lui superiore e fonte di ogni bene. L’uomo di tutti i tempi prega perché non può fare a meno di chiedersi quale sia il senso della sua esistenza, che rimane oscuro e sconfortante, se non viene messo in rapporto con il mistero di Dio e del suo disegno sul mondo. La vita umana è un intreccio di bene e male, di sofferenza immeritata e di gioia e bellezza, che spontaneamente e irresistibilmente ci spinge a chiedere a Dio quella luce e quella forza interiori che ci soccorrano sulla terra e dischiudano una speranza che vada oltre i confini della morte. Le religioni pagane rimangono un’invocazione che dalla terra attende una parola dal Cielo. Uno degli ultimi grandi filosofi pagani, vissuto già in piena epoca cristiana, Proclo di Costantinopoli, dà voce a questa attesa, dicendo: « Inconoscibile, nessuno ti contiene. Tutto ciò che pensiamo ti appartiene. Sono da te i nostri mali e i nostri beni, da te ogni nostro anelito dipende, o Ineffabile, che le nostre anime sentono presente, a te elevando un inno di silenzio » (Hymni, ed. E. Vogt, Wiesbaden 1957, in Preghiere dell’umanità, op. cit., p. 61).
Negli esempi di preghiera delle varie culture, che abbiamo considerato, possiamo vedere una testimonianza della dimensione religiosa e del desiderio di Dio iscritto nel cuore di ogni uomo, che ricevono compimento e piena espressione nell’Antico e nel Nuovo Testamento. La Rivelazione, infatti, purifica e porta alla sua pienezza l’anelito originario dell’uomo a Dio, offrendogli, nella preghiera, la possibilità di un rapporto più profondo con il Padre celeste.
All’inizio di questo nostro cammino nella « Scuola della preghiera » vogliamo allora chiedere al Signore che illumini la nostra mente e il nostro cuore perché il rapporto con Lui nella preghiera sia sempre più intenso, affettuoso e costante. Ancora una volta diciamoGli: « Signore, insegnaci a pregare » (Lc 11,1).