Archive pour le 1 mai, 2011

Papa Giovanni Paolo II

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Sant’Ambrogio e il chierichetto

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/157q04a1.html

DA: L’0SSERVATORE ROMANO

(11 luglio 2010)

Sant’Ambrogio e il chierichetto

Pubblichiamo il racconto autobiografico che apre il libro Preghiera e poesia negli Inni di sant’Ambrogio e di Manzoni (Milano, Jaca Book, 2010, pagine 182, euro 18, con prefazione del direttore del nostro giornale).
di Inos Biffi
Direi di aver incontrato gli inni di sant’Ambrogio negli anni della fanciullezza, o poco oltre. Diventato, infatti, chierichetto, intorno agli otto anni, non mancavo mai, la domenica e nelle feste, al canto dei vespri parrocchiali, a cui seguivano una buona spiegazione della dottrina cristiana a un’assemblea normalmente attenta, anche se non di rado assonnata nei pomeriggi estivi, e la solenne benedizione col Santissimo Sacramento.
Ho ricordato di essere diventato presto chierichetto:  fu per un inaspettato e provvido invito, a cui subito acconsentii, di un compagno di scuola, intelligente e buono, già da qualche tempo chierichetto, e col quale avrei condiviso una cordiale amicizia, prima che il Signore lo chiamasse in ancor giovane età e dopo dolorose peripezie.
Non potevo certo allora immaginare che quell’invito sarebbe stato decisivo per la mia esperienza religiosa, la storia della mia fede e l’orientamento della mia vita. Forse per questo, la circostanza in cui mi fu rivolto mi è rimasta impressa, sia pure con i contorni non più lucidi:  mi pare fosse sul piazzale della chiesa, una domenica, dopo una celebrazione, forse i vespri.
Rimasi gioiosamente fedele a quell’impegno tutto il tempo della fanciullezza e dell’adolescenza, fino all’ingresso in seminario, anche se, abitando alquanto distante dalla parrocchia, quella fedeltà comportava percorsi giornalieri fatti di salite e di discese, già di mattina presto – il primo tocco di campane si faceva sentire alle cinque e trenta – quando ancora era buio e s’intravedeva appena la strada di campagna, che dovevo percorrere:  una strada ghiacciata o innevata nella rigida stagione invernale, o tutta fangosa nella stagione delle piogge.
Era un cammino percorso in solitudine e avvolto da un grande silenzio, interrotto soltanto dal latrato di qualche cane e dal canto del gallo proveniente da qualche casolare dei dintorni. Allora non conoscevo l’inno di sant’Ambrogio Aeterne rerum conditor, dove ricorre il canto del gallo « araldo del giorno », con i versi:  « Già s’ode l’araldo del giorno, / che veglia nel profondo della notte:  / è come luce a chi cammina al buio, / delle notturne veglie è segnale », e quelli che seguono.
Lo avrei conosciuto e gustato molti anni dopo, dedicandomi alla cura dell’edizione degli inni di sant’Ambrogio e alla riforma del Breviario Ambrosiano.
Durante il tragitto, che allora mi sembrava più lungo di quel che fosse in realtà, mi avveniva anche d’incontrare qualche operaio che in bicicletta, di buon’ora, si recava al lavoro, o alcune donne che scendevano dal Mirasole e come me si avviavano alla prima messa:  non erano taciturne, e il solo sentire il loro chiacchiericcio mi rassicurava.
Con tutto ciò, non venivo distolto dai vari e non vuoti pensieri che occupavano la mia mente lungo la via che dal Tricodaglio saliva fino all’antica Lomania, un minuscolo paese di collina, allora con poco più di mille anime:  Tricodaglio era invece, ed è tuttora, il nome curioso e, come sembra, di origini remote, della mia esigua frazione, situata all’incontro di tre strade sassose, ai piedi della collinetta del Mirasole.
Quando, forse in seconda o terza elementare, imparai a memoria la poesia Ave di Diego Valeri, dove il poeta scrive dell’Angelo che « Lieve lieve ha sfiorato con l’ala di velluto / il povero paese », spargendovi « un tenue lume / di perla e di turchese / e un palpito di piume », pensai subito al mio « povero paese », al campanile della sua chiesa, da dove scendevano fino al « gruppetto di case » del Tricodaglio – sono sempre i versi dell’Ave di Valeri – « gli ultimi tocchi / cullati come foglie / dal vento della sera ». Ero convinto che anche dalle nostre « più oscure soglie » l’Angelo si volava via « a portar la preghiera / degli umili a Maria »:  Lomagna, allora, un po’ come tutta la Brianza, era una terra di laboriosi e sfruttati contadini, in un primo tempo a mezzadria con i proprietari, signorotti locali o marchesi e conti di un illustre casato milanese, che possedevano ai margini del paese un bel palazzo settecentesco.
Ma più che nei viaggi di andata era durante quelli di ritorno che coltivavo le mie riflessioni, specialmente rimeditando le parole ascoltate nelle prediche, che ripetevo e persino declamavo, per ricomporle secondo una mia logica e i miei gusti.
Forse quell’esercizio non fu vano per la predicazione, l’insegnamento e la scrittura che mi avrebbero occupato tanti anni dopo, e dove avrei sempre ricercato una coltivazione e quasi un culto della parola.
Nei mesi scolastici, finita la messa, quasi sempre preceduta, alle sei meno un quarto, dall’ufficio dei defunti, i cui notturni in latino, dopo qualche tempo, avevo imparato quasi a memoria, occorreva raggiungere la casa in fretta, e subito riprendere la stessa strada per frequentare la scuola.
E, pure, quel servizio liturgico così mattiniero, agli inizi ancora presieduto dal parroco anziano e irascibile, non mi era mai pesato, anche se l’oscurità mi angosciava, e ogni rumore o soffio di vento che agitasse le foglie mi impauriva, e persino mi spaventava il muoversi della mia ombra, che la luna proiettava sui terreni tutt’intorno, attraversati da torrenti e rogge, e ricchi di fontanili. E, infatti, quand’era in piena la Molgoretta, non mancava una certa apprensione ad attraversare il ponte.
Se, però, nelle mattine gelide d’inverno era sereno e il cielo tutto stellato, lo spettacolo, con la brina che imbiancava i terreni sotto il ciglio della strada, mi incantava.
Al ritorno, la vista era mutata:  dopo l’alba il cielo si era fatto chiaro, e in autunno o d’inverno il sole già sorto faceva brillare i campi circostanti. Ignoravo, allora, la pagina de I Promessi Sposi che, all’inizio del quarto capitolo, descrive l’uscita di padre Cristoforo dal convento di Pescarenico, la sua salita alla casa di Lucia, e intorno « la terra lavorata di fresco », che « spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza »; ma appena venni a conoscenza di quella pagina, mi ritrovai come in un paesaggio noto:  il pensiero tornò subito alle vedute contemplate in quei miei percorsi mattinieri che mi facevano gioire immensamente.
A distanza di più di sessant’anni, mi pare di rivedere quello spettacolo e di risentire quell’impressione:  serbati vivi nel fondo dell’anima, tornano a suscitare l’immutato piacere della memoria, forse anche perché, a distanza di tempo, i ricordi sono soliti abbellire e trasfigurare anche le vicissitudini meno affascinanti e meno piacevoli  del  passato.  Ma  torniamo  agli inni di sant’Ambrogio e ai vespri domenicali.
Nel tempo ordinario si cantava a distesa uno dei suoi inni più belli, il Deus creator omnium, scritto per l’ »ora dell’accensione », che tanto aveva incantato e commosso sant’Agostino e che anche sua madre, Monica, ben conosceva e citava.
Certamente, in quegli anni acerbi non capivo nulla dei versi splendidi di quell’inno, come di quelli dell’Intende qui regis Israel, nei vespri natalizi, o di quelli dell’Hic est dies verus Dei, nel tempo pasquale.
D’altronde, nessuno capiva quello che cantava, ma tutti lo stesso cantavano a distesa quei carmina che, come professioni sonore della fede, con sagace percezione pastorale, sant’Ambrogio aveva composto per la preghiera liturgica dei suoi fedeli, nel corso della giornata o nelle feste del Signore e dei martiri. A poco a poco finii, però, con l’impararli quasi a memoria. Qualche cosa, tuttavia, mi ingegnavo di capire, aiutato dai volumetti, dai profili variamente colorati a seconda dei tempi liturgici, che l’Opera della Regalità dell’Università Cattolica con felice iniziativa metteva in mano dei fedeli perché potessero seguire i riti e parteciparvi attivamente, e dal denso e prezioso Parrocchiano Ambrosiano.
Di là dalla comprensione che allora ne potessi avere, quegli inni ambrosiani a poco a poco si depositarono in me come un seme silenzioso, in attesa di germogliare quando, molto più tardi, a seguito di circostanze, alcune prevedibili e altre affatto imprevedute, mi sarei dovuto soffermare a lungo su di essi, per studiarli e per tradurli.
E sempre a quei vespri incominciai a sentir cantare, insieme con gli inni di sant’Ambrogio, i salmi in latino, e anche di essi imparavo a memoria qualche versetto. E al riguardo mi viene in mente quanto mi narrava il cardinale Giovanni Colombo del suo nonno materno che, vedendo per la prima volta la gran « foppa » del mare, a Genova, prima di imbarcarsi come emigrante in Argentina, ebbe a esclamare:  « Vedi il mare, e fuggi! »:  era la sua versione del versetto del salmo 113 (v. 3) cantato ai vespri nella chiesa parrocchiale di Caronno, Vidit mare et fugit.
Mi veniva spontaneo di collegare strettamente quelle liturgie vespertine alle stagioni; il tempo di Quaresima e di Pasqua alla primavera che scioglieva i ghiacci e rinverdiva i prati; il tempo dopo Pentecoste all’estate, che indorava le messi e, qualche anno, con la sua arsura insopportabile inaridiva e disseccava i campi di granoturco – da qui le preghiere e le processioni per propiziare l’acqua – il tempo d’Avvento si associava all’autunno, con le sue nebbie, specialmente al fondo della discesa, al Lavandaio, dove scorrevano le rogge, e con le prime ombre della sera, che sentivo e aspiravo con diffusa mestizia; mentre il tempo del Natale, dell’Epifania e delle domeniche che seguivano ci collocava nell’inverno, con tanta neve e ghiaccio, che rendeva la strada scivolosa, e si aveva l’impressione che non passasse mai.
Era come se la grazia dei misteri si disposasse con le stagioni e le attraversasse, assumendo la forma sensibile della natura:  la grazia infusa nei ricorsi dei tempi, che si trovavano, così, nobilitati e sublimati, e da puro calendario meteorologico passavano a calendario della pietà e a ciclo di salvezza.
Questa associazione non ha cessato di perdurare e ha facilitato la visione teologica, che avrebbe portato frutti in seguito, di tutta la realtà creata per mezzo di Cristo, in lui e in vista di lui, e quindi anche del tempo, in cui si dispiega la sua signoria.
Anche durante i tragitti solitari verso casa dopo i vespri non mancavo di riandare a quello che si era celebrato o cantato in chiesa, salmi o inni. Era ancora una seminagione:  negli anni successivi li avrei ritrovati.

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OMELIA DEL PAPA PER LA BEATIFICAZIONE DI GIOVANNI PAOLO II – 1 maggio 2011

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26507?l=italian

OMELIA DEL PAPA PER LA BEATIFICAZIONE DI GIOVANNI PAOLO II

“Continua – ti preghiamo – a sostenere dal Cielo la fede del Popolo di Dio”

ROMA, domenica, 1 maggio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia pronunciato quest’oggi, II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia, da Benedetto XVI nel presiedere, sul sagrato della Basilica Vaticana, la celebrazione eucaristica nel corso della quale ha proclamato Beato il Servo di Dio Giovanni Paolo II (1920-2005).

* * *
Cari fratelli e sorelle!
Sei anni or sono ci trovavamo in questa Piazza per celebrare i funerali del Papa Giovanni Paolo II. Profondo era il dolore per la perdita, ma più grande ancora era il senso di una immensa grazia che avvolgeva Roma e il mondo intero: la grazia che era come il frutto dell’intera vita del mio amato Predecessore, e specialmente della sua testimonianza nella sofferenza. Già in quel giorno noi sentivamo aleggiare il profumo della sua santità, e il Popolo di Dio ha manifestato in molti modi la sua venerazione per Lui. Per questo ho voluto che, nel doveroso rispetto della normativa della Chiesa, la sua causa di beatificazione potesse procedere con discreta celerità. Ed ecco che il giorno atteso è arrivato; è arrivato presto, perché così è piaciuto al Signore: Giovanni Paolo II è beato!
Desidero rivolgere il mio cordiale saluto a tutti voi che, per questa felice circostanza, siete convenuti così numerosi a Roma da ogni parte del mondo, Signori Cardinali, Patriarchi delle Chiese Orientali Cattoliche, Confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Delegazioni Ufficiali, Ambasciatori e Autorità, persone consacrate e fedeli laici, e lo estendo a quanti sono uniti a noi mediante la radio e la televisione.
Questa Domenica è la Seconda di Pasqua, che il beato Giovanni Paolo II ha intitolato alla Divina Misericordia. Perciò è stata scelta questa data per l’odierna Celebrazione, perché, per un disegno provvidenziale, il mio Predecessore rese lo spirito a Dio proprio la sera della vigilia di questa ricorrenza. Oggi, inoltre, è il primo giorno del mese di maggio, il mese di Maria; ed è anche la memoria di san Giuseppe lavoratore. Questi elementi concorrono ad arricchire la nostra preghiera, aiutano noi che siamo ancora pellegrini nel tempo e nello spazio; mentre in Cielo, ben diversa è la festa tra gli Angeli e i Santi! Eppure, uno solo è Dio, e uno è Cristo Signore, che come un ponte congiunge la terra e il Cielo, e noi in questo momento ci sentiamo più che mai vicini, quasi partecipi della Liturgia celeste.
« Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! » (Gv 20,29). Nel Vangelo di oggi Gesù pronuncia questa beatitudine: la beatitudine della fede. Essa ci colpisce in modo particolare, perché siamo riuniti proprio per celebrare una Beatificazione, e ancora di più perché oggi è stato proclamato Beato un Papa, un Successore di Pietro, chiamato a confermare i fratelli nella fede. Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica. E subito ricordiamo quell’altra beatitudine: « Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli » (Mt 16,17). Che cosa ha rivelato il Padre celeste a Simone? Che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Per questa fede Simone diventa « Pietro », la roccia su cui Gesù può edificare la sua Chiesa. La beatitudine eterna di Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ha la gioia di proclamare, sta tutta dentro queste parole di Cristo: « Beato sei tu, Simone » e « Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! ». La beatitudine della fede, che anche Giovanni Paolo II ha ricevuto in dono da Dio Padre, per l’edificazione della Chiesa di Cristo.
Ma il nostro pensiero va ad un’altra beatitudine, che nel Vangelo precede tutte le altre. E’ quella della Vergine Maria, la Madre del Redentore. A Lei, che ha appena concepito Gesù nel suo grembo, santa Elisabetta dice: « Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto » (Lc 1,45). La beatitudine della fede ha il suo modello in Maria, e tutti siamo lieti che la beatificazione di Giovanni Paolo II avvenga nel primo giorno del mese mariano, sotto lo sguardo materno di Colei che, con la sua fede, sostenne la fede degli Apostoli, e continuamente sostiene la fede dei loro successori, specialmente di quelli che sono chiamati a sedere sulla cattedra di Pietro. Maria non compare nei racconti della risurrezione di Cristo, ma la sua presenza è come nascosta ovunque: lei è la Madre, a cui Gesù ha affidato ciascuno dei discepoli e l’intera comunità. In particolare, notiamo che la presenza effettiva e materna di Maria viene registrata da san Giovanni e da san Luca nei contesti che precedono quelli del Vangelo odierno e della prima Lettura: nel racconto della morte di Gesù, dove Maria compare ai piedi della croce (cfr Gv 19,25); e all’inizio degli Atti degli Apostoli, che la presentano in mezzo ai discepoli riuniti in preghiera nel cenacolo (cfr At 1,14).
Anche la seconda Lettura odierna ci parla della fede, ed è proprio san Pietro che scrive, pieno di entusiasmo spirituale, indicando ai neo-battezzati le ragioni della loro speranza e della loro gioia. Mi piace osservare che in questo passo, all’inizio della sua Prima Lettera, Pietro non si esprime in modo esortativo, ma indicativo; scrive, infatti: « Siete ricolmi di gioia » – e aggiunge: « Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede: la salvezza delle anime » (1Pt 1,6.8-9). Tutto è all’indicativo, perché c’è una nuova realtà, generata dalla risurrezione di Cristo, una realtà accessibile alla fede. « Questo è stato fatto dal Signore – dice il Salmo (118,23) – una meraviglia ai nostri occhi », gli occhi della fede.
Cari fratelli e sorelle, oggi risplende ai nostri occhi, nella piena luce spirituale del Cristo risorto, la figura amata e venerata di Giovanni Paolo II. Oggi il suo nome si aggiunge alla schiera di Santi e Beati che egli ha proclamato durante i quasi 27 anni di pontificato, ricordando con forza la vocazione universale alla misura alta della vita cristiana, alla santità, come afferma la Costituzione conciliare Lumen gentium sulla Chiesa. Tutti i membri del Popolo di Dio – Vescovi, sacerdoti, diaconi, fedeli laici, religiosi, religiose – siamo in cammino verso la patria celeste, dove ci ha preceduto la Vergine Maria, associata in modo singolare e perfetto al mistero di Cristo e della Chiesa. Karol Wojtyla, prima come Vescovo Ausiliare e poi come Arcivescovo di Cracovia, ha partecipato al Concilio Vaticano II e sapeva bene che dedicare a Maria l’ultimo capitolo del Documento sulla Chiesa significava porre la Madre del Redentore quale immagine e modello di santità per ogni cristiano e per la Chiesa intera. Questa visione teologica è quella che il beato Giovanni Paolo II ha scoperto da giovane e ha poi conservato e approfondito per tutta la vita. Una visione che si riassume nell’icona biblica di Cristo sulla croce con accanto Maria, sua madre. Un’icona che si trova nel Vangelo di Giovanni (19,25-27) ed è riassunta nello stemma episcopale e poi papale di Karol Wojtyla: una croce d’oro, una « emme » in basso a destra, e il motto « Totus tuus », che corrisponde alla celebre espressione di san Luigi Maria Grignion de Montfort, nella quale Karol Wojtyla ha trovato un principio fondamentale per la sua vita: « Totus tutus ego sum et omnia mea tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor tuum, Maria – Sono tutto tuo e tutto ciò che è mio è tuo. Ti prendo per ogni mio bene. Dammi il tuo cuore, o Maria » (Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, n. 266).
Nel suo Testamento il nuovo Beato scrisse: « Quando nel giorno 16 ottobre 1978 il conclave dei cardinali scelse Giovanni Paolo II, il Primate della Polonia card. Stefan Wyszynski mi disse: «Il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio» ». E aggiungeva: « Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l’intera Chiesa – e soprattutto con l’intero episcopato – mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato all’evento conciliare dal primo all’ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. Per parte mia ringrazio l’eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato ». E qual è questa « causa »? E’ la stessa che Giovanni Paolo II ha enunciato nella sua prima Messa solenne in Piazza San Pietro, con le memorabili parole: « Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! ». Quello che il neo-eletto Papa chiedeva a tutti, egli stesso lo ha fatto per primo: ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante – forza che gli veniva da Dio – una tendenza che poteva sembrare irreversibile.
[In polacco]
Con la sua testimonianza di fede, di amore e di coraggio apostolico, accompagnata da una grande carica umana, questo esemplare figlio della Nazione polacca ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo. In una parola: ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia di libertà.
Ancora più in sintesi: ci ha ridato la forza di credere in Cristo, perché Cristo è Redemptor hominis, Redentore dell’uomo: il tema della sua prima Enciclica e il filo conduttore di tutte le altre.
Karol Wojtyla salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo, incentrato sull’uomo. Il suo messaggio è stato questo: l’uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell’uomo. Con questo messaggio, che è la grande eredità del Concilio Vaticano II e del suo « timoniere » il Servo di Dio Papa Paolo VI, Giovanni Paolo II ha guidato il Popolo di Dio a varcare la soglia del Terzo Millennio, che proprio grazie a Cristo egli ha potuto chiamare « soglia della speranza ». Sì, attraverso il lungo cammino di preparazione al Grande Giubileo, egli ha dato al Cristianesimo un rinnovato orientamento al futuro, il futuro di Dio, trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide sulla storia. Quella carica di speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all’ideologia del progresso, egli l’ha legittimamente rivendicata al Cristianesimo, restituendole la fisionomia autentica della speranza, da vivere nella storia con uno spirito di « avvento », in un’esistenza personale e comunitaria orientata a Cristo, pienezza dell’uomo e compimento delle sue attese di giustizia e di pace.
Vorrei infine rendere grazie a Dio anche per la personale esperienza che mi ha concesso, di collaborare a lungo con il beato Papa Giovanni Paolo II. Già prima avevo avuto modo di conoscerlo e di stimarlo, ma dal 1982, quando mi chiamò a Roma come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, per 23 anni ho potuto stargli vicino e venerare sempre più la sua persona. Il mio servizio è stato sostenuto dalla sua profondità spirituale, dalla ricchezza delle sue intuizioni. L’esempio della sua preghiera mi ha sempre colpito ed edificato: egli si immergeva nell’incontro con Dio, pur in mezzo alle molteplici incombenze del suo ministero. E poi la sua testimonianza nella sofferenza: il Signore lo ha spogliato pian piano di tutto, ma egli è rimasto sempre una « roccia », come Cristo lo ha voluto. La sua profonda umiltà, radicata nell’intima unione con Cristo, gli ha permesso di continuare a guidare la Chiesa e a dare al mondo un messaggio ancora più eloquente proprio nel tempo in cui le forze fisiche gli venivano meno. Così egli ha realizzato in modo straordinario la vocazione di ogni sacerdote e vescovo: diventare un tutt’uno con quel Gesù, che quotidianamente riceve e offre nella Eucaristia.
Beato te, amato Papa Giovanni Paolo II, perché hai creduto! Continua – ti preghiamo – a sostenere dal Cielo la fede del Popolo di Dio. Tante volte ci hai benedetto da questa piazza. Santo Padre oggi ti preghiamo, ci benedica! Amen.

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