Archive pour avril, 2011

Pasqua 2005, Giovanni Paolo II, Messaggio Urbi et Orbi

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/messages/urbi/documents/hf_jp-ii_mes_20050327_easter-urbi_it.html

MESSAGGIO URBI ET ORBI

DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II     

Dal Vaticano, 27 Marzo 2005, Pasqua di Risurrezione.

1. Mane nobiscum, Domine!
Resta con noi, Signore! (cfr Lc 24, 29).
Con queste parole i discepoli di Emmaus
invitarono il misterioso Viandante
a restare con loro, mentre volgeva al tramonto
quel primo giorno dopo il sabato
in cui l’incredibile era accaduto.
Secondo la promessa, Cristo era risorto;
ma essi non lo sapevano ancora.
Tuttavia le parole del Viandante lungo la strada
avevano progressivamente riscaldato il loro cuore.
Per questo lo avevano invitato: “Resta con noi”.
Seduti poi intorno alla tavola della cena,
lo avevano riconosciuto allo “spezzare del pane”.
E subito Egli era sparito.
Dinanzi a loro era rimasto il pane spezzato,
e nel loro cuore la dolcezza di quelle sue parole.

2. Fratelli e Sorelle carissimi,
la Parola e il Pane dell’Eucaristia,
mistero e dono della Pasqua,
restano nei secoli come memoria perenne
della passione, morte e risurrezione di Cristo!
Anche noi oggi, Pasqua di Risurrezione,
con tutti i cristiani del mondo ripetiamo:
Gesù, crocifisso e risorto, rimani con noi!
Resta con noi, amico fedele e sicuro sostegno
dell’umanità in cammino sulle strade del tempo!
Tu, Parola vivente del Padre,
infondi fiducia e speranza in quanti cercano
il senso vero della loro esistenza.
Tu, Pane di vita eterna, nutri l’uomo
affamato di verità, di libertà, di giustizia e di pace.

3. Rimani con noi, Parola vivente del Padre,
ed insegnaci parole e gesti di pace:
pace per la terra consacrata dal tuo sangue
e intrisa del sangue di tante vittime innocenti;
pace per i Paesi del Medio Oriente e dell’Africa,
dove pure tanto sangue continua ad essere versato;
pace per tutta l’umanità, su cui sempre incombe
il pericolo di guerre fratricide.
Rimani con noi, Pane di vita eterna,
spezzato e distribuito ai commensali:
dà anche a noi la forza di una solidarietà generosa
verso le moltitudini che, ancor oggi,
soffrono e muoiono di miseria e di fame,
decimate da epidemie letali
o prostrate da immani catastrofi naturali.
Per la forza della tua Risurrezione
siano anch’esse rese partecipi di una vita nuova.

4. Anche noi, uomini e donne del terzo millennio,
abbiamo bisogno di Te, Signore risorto!
Rimani con noi ora e fino alla fine dei tempi.
Fa’ che il progresso materiale dei popoli
non offuschi mai i valori spirituali
che sono l’anima della loro civiltà.
Sostienici, Ti preghiamo, nel nostro cammino.
In Te noi crediamo, in Te speriamo,
perché Tu solo hai parole di vita eterna (cfr Gv 6, 68).
Mane nobiscum, Domine! Alleluia!

Buona Pasqua a tutti!

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http://www.artbible.net/3JC/-Joh-08,12_Light_of_the_world_Lumiere_du_monde/index2.html

Publié dans:immagini sacre |on 12 avril, 2011 |Pas de commentaires »

IL MISTERO DELLA PASQUA RISPLENDE DI STUPORE E DI MERAVIGLIA (il titolo l’ho tratto dal testo, è citazione)

dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/AnnoA-2011/04-Pasqua-A_2011/Omelie/01-Domenica-Pasqua-A_SC.html

(una citazione per titolo: IL MISTERO DELLA PASQUA RISPLENDE DI STUPORE E DI MERAVIGLIA – )

« Non è qui. È risorto, come aveva detto »

Se tutto nelle opere di Dio porta il segno dello « stupore », direi che soprattutto il mistero della Pasqua splende di stupore e di meraviglia.
È quanto mette in evidenza il Salmo responsoriale, che direttamente sembra riferirsi alla prodigiosa ricostruzione del secondo Tempio dopo il ritorno dall’esilio1 e che la Liturgia applica alla festa di Pasqua:
« La destra del Signore si è alzata,
la destra del Signore ha fatto meraviglie…
La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo;
ecco l’opera del Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno fatto dal Signore:
rallegriamoci ed esultiamo in esso » (Sal 118,16.22-24).
La « gioia » che ci pervade in questi giorni santi è proporzionata alla « meraviglia delle meraviglie » che Dio ha saputo operare risuscitando Cristo dai morti: perché la « pietra scartata dai costruttori » è proprio lui! Dio, però, più saggio architetto degli uomini, lo ha posto come « testata d’angolo »2 per sorreggere il nuovo « tempio », formato da tutti i redenti, vincitori ormai anch’essi della morte insieme al loro Signore. Mentre gli uomini gli avevano decretato la morte, Dio lo ha costituito « giudice dei vivi e dei morti » (At 10,42), colui « nel quale soltanto c’è salvezza » (At 4,12).

« Dio lo ha risuscitato al terzo giorno »
Questo senso di « stupore » lo cogliamo anche nell’annuncio che Pietro fa nella casa del centurione Cornelio, dopo la prodigiosa apparizione celeste che gli aveva fatto capire come la via della salvezza era ormai aperta anche ai pagani.
Dopo aver richiamato alcuni tratti della vicenda terrena di Gesù di Nazaret, Pietro ricorda come essa si sia drammaticamente conclusa a Gerusalemme: i Giudei « lo uccisero appendendolo a una croce » (At 10,39)! E questo, nonostante che egli fosse passato « beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui » (v. 38).
Proprio questa incomprensione dei Giudei fa crescere in noi la « meraviglia »: perché gli uomini non sono riusciti a vedere Dio proprio là dove era più presente? Come spiegare questa cecità, che rasenta i limiti dell’assurdo e dell’incredibile?
Meraviglia più grande, però, prova ed esprime san Pietro nel proclamare la risurrezione di Cristo, nella quale Dio si è preso la rivincita sulla ottusità e durezza di cuore degli uomini: « Ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio. Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui, ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome » (At 10,40-43).
Quel gesto di familiarità e di amicizia del Cristo risorto, che « mangia e beve » con i suoi Apostoli (At 10,41)3, commuove ed esalta ancora san Pietro. Nello stesso tempo, però, esso è la dimostrazione che Gesù è « veramente risorto » (cf Lc 24,34) ed è ormai l’eterno Vivente, che può compiere all’infinito gesti di risurrezione per tutti quelli che « credono » in lui: « Chiunque crede in lui, ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome » (v. 43).
La forza della risurrezione ormai fermenta la storia e diventa come il « giudizio » di Dio sugli uomini: si è « vivi » o si è « morti » nella misura in cui ci si lascia « trasformare » dalla potenza di questa vita « nuova » che è esplosa nel Cristo quando la pietra che chiudeva il sepolcro si è rovesciata, come ci dirà anche meglio san Paolo nella seconda lettura (Col 3,1-4).

Le donne « avvicinatesi, gli strinsero i piedi e lo adorarono »
Anche il brano di Vangelo è tutto percorso da un senso di stupore e di meraviglia. Anzi san Matteo, più degli altri Evangelisti, accentua questo aspetto, ricordandoci il « grande terremoto » che avvenne al momento della risurrezione del Signore e l’aspetto « rifulgente » di gloria dell’Angelo che fa rotolare la pietra del sepolcro e vi si asside sopra.
Sono tratti ripresi dal genere letterario « apocalittico », che vogliono suggerire la irruzione della potenza di Dio proprio là dove sembrava che gli uomini avessero seppellito per sempre, con il cadavere di Cristo, ogni speranza di vita. Non per nulla la storia della Passione si concludeva con la seguente annotazione: « Essi (cioè i Giudei) andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia » (Mt 27,66).
Ma analizziamo più dettagliatamente il racconto di san Matteo, cercando di cogliere il suo specifico messaggio. Pur convergendo infatti, nella sostanza, con la narrazione degli altri Evangelisti, egli vi introduce non pochi elementi propri, che dicono la sua « reinterpretazione » dei fatti.
Prima di tutto, il grande rilievo dato alla testimonianza delle donne, che sono Maria di Magdala e « l’altra Maria », cioè Maria di Giacomo.4 Esse non soltanto vanno al sepolcro, come ci dicono anche gli altri Evangelisti, ma hanno per prime, e insieme, l’apparizione di Gesù risorto (Mt 28,9-10). La loro andata al sepolcro, inoltre, non è per « ungere » il corpo del Signore, come in Marco e in Luca, ma per « visitare » la tomba (v. 1), che di fatto troveranno vuota. Indubbiamente Matteo intende dare un fondamento solido alla testimonianza della risurrezione.
Strano, però, che egli affidi e riconosca alle donne questa capacità di testimonianza, che invece san Paolo ignora,5 fedele in ciò alla tradizione giudaica, che non accettava la testimonianza di qualsiasi donna. Proprio per questo dobbiamo pensare di trovarci davanti a una tradizione storica sicura, che non avrebbe potuto essere inventata per nessun motivo.
D’altra parte, è assai importante che la prima esperienza del Cristo risorto la facciano delle donne e ne diventino anche le prime « annunciatrici ». Forse è il premio della loro fede, della loro semplicità e capacità di amare e di intuire: il loro andare al sepolcro già si pone in una linea di amore e di fedeltà al Signore. Gli Apostoli, invece, delusi e impauriti, più calcolatori che generosi, se ne stanno alla larga: addirittura non credono alla testimonianza delle donne, che ritengono come una forma di « vaneggiamento » (cf Lc 24,11).
Anche l’incontro con Gesù avviene in un clima di intensa commozione e di manifestazione scambievole di affetto: « Ed ecco Gesù venne loro incontro dicendo: « Salute a voi ». Ed esse, avvicinatesi, gli strinsero i piedi e lo adorarono. Allora Gesù disse loro: « Non temete; andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno »" (vv. 9-10). Quel gesto di « adorazione » (prosek´ynesan: v. 9), che Matteo carica di significato teologico, esprime la fede della Chiesa nel Signore risorto, ma anche la gioia e l’esultanza di poterlo quasi abbracciare e come afferrare con le proprie mani: tanto è « vero » il suo ritorno alla vita!
Una fede, dunque, quella nel Cristo risorto, che nasce dall’amore e genera l’amore, creando un consorzio di vita infrangibile con lui. È in questa linea che si muove anche il racconto dell’apparizione a Maria di Magdala, riferito con accenti commossi da san Giovanni (20,11-18). La priorità data alle donne nella storia delle apparizioni del Cristo risorto non è solo il riconoscimento della loro alta funzione nella Chiesa, ma direi soprattutto il riconoscimento del primato dell’amore e anche della « gioia » nell’annuncio della fede.

« Non abbiate paura, voi! So che cercate il crocifisso »
Sul tema della « gioia » insiste soprattutto la prima parte del Vangelo odierno. Dopo aver fatto cenno al terremoto e all’apparizione dell’Angelo, che si asside sulla pietra sepolcrale da lui fatta rotolare, il testo continua: « Per lo spavento che ebbero di lui le guardie tremarono tramortite. Ma l’Angelo disse alle donne: « Non abbiate paura, voi! So che cercate il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto ». Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli » (vv. 4-8).
È evidente il contrasto fra lo « spavento » delle guardie e l’invito alla « gioia » rivolto alle donne: « Non abbiate paura, voi! So che cercate il crocifisso ». Sono stati d’animo diversi quelli che generano rispettivamente gioia e spavento: le donne « cercano » il Signore, perché lo amano. In un certo senso, direi che Gesù è già risorto nel loro cuore! I nemici di Cristo invece lo temono: il suo ritorno alla vita li giudica e li condanna. Lo vogliono per sempre morto, perché è già morto nel loro cuore!
Se anche nel cuore delle donne c’è un certo « timore » (v. 8), è solo senso di sorpresa davanti a qualcosa di inatteso e di troppo grande per loro; non appena però ne possono verificare il significato, la gioia riprende il sopravvento e « in fretta, con timore e gioia grande » corrono a darne l’annuncio agli Apostoli (v. 8). Si confronti questo particolare con il testo parallelo di Marco, per capire l’accentuazione della gioia fatta dal primo Evangelista: « Ed esse (le donne), uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura » (Mc 16,8).

È chiaro che Matteo rilegge gli eventi pasquali alla luce della loro posteriore assimilazione da parte della comunità cristiana: una comunità di credenti che si sente salvata da Cristo e che nella sua risurrezione già esperimenta e pregusta la propria risurrezione, quella attuale nello spirito e quella futura del proprio stesso corpo. Tutti motivi da far impazzire il cuore di gioia!
È la « gioia » che solennemente esplode nel canto del « preconio » pasquale nella Liturgia della veglia notturna: « Esulti il coro degli Angeli, esulti l’assemblea celeste, un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto. Gioisca la terra, inondata di così grande splendore; la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo. Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore, e questo tempio tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa ».
« Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù »
Tutto questo indica che gli Evangelisti, narrando e proclamando la risurrezione del Signore, non intendevano rievocare solo un grandioso evento del passato, ma celebrare un « mistero » di salvezza, operante anche oggi nel cuore dei credenti e nel flusso stesso della storia.
È quanto san Paolo ricordava ai cristiani di Colossi, invitandoli a vivere alla luce del mistero della risurrezione. Se Cristo, risuscitando dai morti, ha aperto per sé e per noi, che siamo il suo « corpo », le porte del cielo e ci ha ricongiunti con Dio, vuol dire che anche noi dobbiamo lasciarci trasportare in alto: c’è ormai come una forza di lievitazione che ci spinge verso orizzonti, che vanno oltre quelli puramente terreni.
« Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria! » (Col 3,1-4).
Qui, san Paolo si riferisce certamente al sacramento del Battesimo che, facendoci morire al peccato, ci introduce al mistero della « vita nuova » in Cristo, ci fa cioè risorgere con lui: « Da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo… Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù » (Ef 2,5-6). Soltanto che questa vita di « risorti » non risplende ancora del fulgore della « gloria », come già è avvenuto per Cristo; essa è invece « nascosta » nei segni modesti del nostro agire di ogni giorno.
L’importante, però, è vivere già da adesso da « figli della risurrezione », trascinando in questo impeto di rinnovamento anche i nostri fratelli e tutta la realtà creata. È così che anche noi, come ricordava sant’Atanasio nelle sue « Lettere pasquali », « celebreremo la festa del Signore, non con le parole soltanto, ma con le opere ».

Publié dans:feste - Pasqua |on 12 avril, 2011 |Pas de commentaires »

San Paolo : l’episodio di Damasco (Car. C.M. Martini)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_confessioni_di_paolo2.htm

CARD.  CARLO MARIA MARTINI

(Le confessioni di Paolo)

La conoscenza di Gesù

Vogliamo cercare di approfondire l’episodio di Damasco così come Paolo stesso lo approfondisce in alcune lettere. Confessiamo la nostra titubanza nel penetrare il mistero di Dio in un’altra persona, anche se Paolo è figura emblematica per tutto il cristianesimo.
Confessiamo volentieri anche la nostra incapacità di cogliere il senso dei testi. Il Signore ci usi misericordia e ci faccia cogliere qualcosa di quella indescrivibile luce che ha avvolto e trasformato la vita dell’Apostolo.

-Ci rivolgiamo direttamente a te, apostolo Paolo. Tu vedi con quanta presunzione pretendiamo di penetrare nel mistero della tua vita che tu stesso hai ripensato in tanti anni. Se lo facciamo è perché vogliamo conoscerti attraverso la conoscenza di ciò che Dio ha fatto in te, conoscere chi è Dio, chi è Gesù Cristo, chi è Gesù per noi. Noi sappiamo che tu, apostolo Paolo, non sei indifferente di fronte al nostro desiderio; anzi è il tuo desiderio. Tu hai vissuto per questo, hai sofferto e sei morto per questo. È per la tua sofferenza e per la tua morte che ora ti preghiamo. Apri i nostri occhi come il Signore ha aperto i tuoi, perché comprendiamo la potenza di Dio in te e la potenza di Dio in noi. Donaci di comprendere ciò che tu eri prima della conversione, ciò che noi eravamo prima che Dio ci chiamasse, ciò che noi siamo di fronte alla chiamata di Dio.
Ci rivolgiamo anche a te apostolo Matteo perché, uscendo da ciò che crediamo di sapere o di avere già capito, entriamo nella terra sconfinata che è la Parola di Dio.
In questa terra sconfinata troviamo il nutrimento, l’acqua e la manna che ci fanno camminare, il fuoco che ci riscalda e ci illumina, ascoltiamo la Parola di Dio, vediamo il lampo della sua gloria.
Anche a noi sia concesso, come a Paolo e a Matteo, di portare il tuo messaggio con coraggio e con libertà di parola e di spirito.
Ascolta, o Padre, la preghiera che ti facciamo insieme con gli Apostoli Paolo e Matteo, insieme con Maria, Madre di Gesù. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Per comprendere la ricchezza dell’azione divina in Paolo, per capire ciò che lui ha detto della sua esperienza a cui fanno riferimento milioni di uomini, occorre aggiungere ai testi già citati le tre descrizioni della sua conversione che si trovano negli Atti degli Apostoli al cap. 9 (in terza persona) e ai capitoli 22 e 26 in forma autobiografica.
La descrizione del cap. 26 è la più ricca di spunti autobiografici, la più distesa e diffusa. Essa può servire come punto di partenza per chiarire quali domande fare a Paolo, ascoltare le risposte che ci dà, sulla base del testo degli Atti e di quelli delle lettere già evocate. È l’ultimo discorso che Paolo fa in sua difesa di fronte ad Agrippa, a Cesarea.

Recentemente sono stati scoperti i resti del palazzo imperiale: ed è proprio là, presso il mare, dove oggi le onde si infrangono sui ruderi delle costruzioni romane, che Paolo ha parlato di sé: «Anch’io credevo un tempo mio dovere – aveva un forte senso del dovere – di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti, e quando venivano condannati a morte, anch’io ho votato contro di loro – il caso cui si riferisce è evidentemente quello di Stefano e l’approvazione da lui data alla sua morte, anche se non ha buttato le pietre -. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere» (At 26, 9-11).
Qui si pongono dei problemi di critica storica. Non sembra che il sinedrio, a quel tempo, avesse il potere di andare aldilà delle sinagoghe della Palestina e nelle sinagoghe stesse aveva un potere limitato, non certo quello di uccidere. La stessa uccisione di Stefano è probabilmente un atto inconsulto, frutto di sommossa popolare e al di fuori del diritto. Le sinagoghe potevano interrogare, flagellare, imporre alcune penalità ed è in questo ambito che Paolo aveva operato all’inizio. Gli storici sono quindi dubbiosi davanti alla dizione « città straniere ». Forse Paolo si è fatto dare delle lettere di raccomandazione e poi, con uno zelo superiore a quello di quasi tutti gli altri, si è recato in queste città per convincerle a perseguitare i cristiani. È un uomo dotato di grande inventiva nel perseguire ciò che gli sembra giusto: «In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio» (At 26, 12-13).
Le parole sono da considerare con attenzione: «una luce dal cielo ». Su questo Paolo ha molto riflettuto e ci ritornerà scrivendo ai Corinti: «Quel Dio che ha detto: Sia la luce, è lo stesso che ha rifulso nei nostri cuori» (2 Cor 4, 6).
Il Dio della creazione che ha creato ogni luce gli si è manifestato con una luce ancora più grande: Paolo collega tutte le grandi opere creative di Dio nell’Antico Testamento con ciò che in lui è avvenuto. Una profonda illuminazione la cui sorgente è la gloria del Cristo stesso, alla luce del quale tutto il resto impallidisce.
« Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te recalcitrare contro il pungolo. E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: lo sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me» (At 26, 14-18).

Mettendo insieme questo testo con gli altri, possiamo fare a Paolo alcune domande:
- Da dove ti ha fatto uscire il Signore a Damasco, e dove eri quando la Parola di Dio ti ha raggiunto? – Verso quale direzione ti ha portato questo avvenimento fondamentale della tua vita?
- Come è avvenuto questo passaggio, cioè la tua pasqua dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, dalla non-conoscenza di Dio alla conoscenza di Dio?
Suggerisco qualche risposta.
Dove eri quando la Parola ti ha raggiunto?
La risposta è nel testo autobiografico della lettera ai Filippesi, dove Paolo afferma che la Parola di Dio lo ha colto mentre era in pieno possesso di valori fondamentali, a lui cari, e conquistati, in parte, a caro prezzo: «sebbene io possa confidare anche nella carne » (Fil 3, 4). Sono le realtà che vengono all’uomo dalla sua natura, dalla sua storia, dalla forza delle sue mani: «io più di lui ». Appartengono alla storia gloriosa di Paolo:
- circonciso l’ottavo giorno: non come i pagani, chiamati con disprezzo gli incirconcisi, nel senso di maledetti, abbandonati, quelli di cui Dio non sembra curarsi;
- della stirpe di Israele: del popolo eletto, luce delle nazioni;
- della tribù di Beniamino: conosco il mio passato, i miei antenati, il legame che mi riporta al figlio di Giacobbe;
- ebreo da ebrei: i possessi ricevuti, cioè padre, madre, nonni, tutti di questa gloriosa generazione;
- fariseo quanto alla legge: cioè ebreo della stretta osservanza, del rigore morale più assoluto, che più conosce la legge, che più vive le tensioni spirituali profonde del giudaismo. Fariseo era nome glorioso che sottolineava l’impegno di vita vissuta nell’ambito della legge, con una grande carica morale interiore.
- Quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’ osservanza della legge. È la stessa parola di lode che viene applicata a Giuseppe: uomo giusto. Così vengono anche descritti i genitori di Giovanni Battista, Zaccaria ed Elisabetta: erano entrambi giusti. La massima lode che si può fare dal punto di vista biblico, Paolo la applicava a sé.
- Irreprensibile: «Chi di voi mi convincerà di peccato? », avrebbe potuto dire;
- Non c’era in me niente che mi si potesse rimproverare dal punto di vista della legge: noi sappiamo quanto fossero minuziosi i comandamenti, le prescrizioni cerimoniali, e complicati i rituali. Anche oggi il pasto ebraico è molto complicato, con tante prescrizioni di cibi, alcune mescolanze da evitare, alcuni cibi da verificare all’origine. È tutta un’attenzione che richiede una grande tensione spirituale.
Paolo è colto quindi in una situazione in cui possiede tradizioni, impegno personale, zelo, giustizia: un insieme di grandi beni che gli è immensamente caro, di cui fa l’elenco con profonda commozione. Bisogna avere conosciuto gli ebrei per sentire con quanta intensità, anche oggi, dicono di essere ebrei, confessano la loro stirpe e la loro tradizione. È qualcosa che entra nella carne come una seconda natura, un modo di essere irrinunciabile. Il caso più tipico è quello di Simone Weil. Ella ha intuito in una maniera profondissima i misteri del Battesimo, dell’Eucaristia, della preghiera, ha scritto delle pagine forse tra le più belle sulla vita cristiana, sul lavoro, sulla contemplazione; ma non è mai giunta al Battesimo, perché le sembrava di non poter rinunciare al suo essere ebrea. Pur intuendo profondamente la bellezza della realtà cristiana, morendo dalla voglia di nutrirsi dell’Eucaristia, nella quale vedeva davvero il culmine della storia e della creazione, è stata fino all’ultimo bloccata dalla pienezza delle cose che le sembrava di possedere e dal bisogno di solidarietà con il suo popolo martoriato.
Paolo usa, sempre nella lettera ai Filippesi, una espressione che riferiste a Gesù, ma che certamente, a questa luce, acquista un sapore autobiografico: «Gesù Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio». Il testo greco sembra voler dire « non considerò come preda », cioè come oggetto di possesso avido, da tenersi con bramosia. Così Paolo viveva la sua realtà: un tesoro geloso che non poteva consegnare a nessuno. La risultanza di questo possesso era la grande cura nel difenderlo, il grande zelo nel promuoverlo, la grande violenza contro tutti quelli che potevano attentare al tesoro.
Ciò spiega la sua intolleranza verso i cristiani e il bisogno di sterminarli, perché coglieva, giustamente, che essi andavano proprio alla radice di quel tesoro.
Possiamo capire allora anche le autoaccuse che si farà e che vengono riferite nella prima lettera a Timoteo: «Ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1 Tim 1, 13). Non un bestemmiatore nel senso che si rivolgeva contro Dio, ma nel senso che, senza saperlo, – ed è qui tutta la sua conversione, il dramma che lui vive – si rivolgeva contro Cristo, Figlio di Dio, per la difesa del suo tesoro. Ora è comprensibile che descriva la sua vita come vissuta nel peccato perché, in realtà, – e se ne accorgerà sempre più – il suo atteggiamento verso Dio era profondamente sbagliato. Non considerava Dio come Dio, autore e origine di ogni bene; ma al centro di tutto c’era il suo possesso, la sua verità, i tesori che gli erano stati affidati. Un atteggiamento esteriormente irreprensibile ma che interiormente era di una possessività esasperata, tale da turbare in radice il suo rapporto con Dio, padre e creatore.
È lo stravolgimento che viveva senza saperlo e dal quale scaturirà la sua comprensione nuova del Vangelo, della grazia, della misericordia, dell’iniziativa divina, dell’attività di Dio.
Egli viveva non il Vangelo della grazia, ma la legge dell’autogiustificazione che gli faceva dimenticare di essere un pover’uomo, graziato da Dio non perché fosse qualcosa in sé, ma perché Dio lo amava.
Il dramma di Paolo è un dramma sottile, difficile, quale lo può vivere un uomo profondamente religioso e minacciava di diventare distorsione radicale dell’immagine di Dio in lui.
Ecco da dove viene Paolo e la sua violenza ideologica. La violenza ideologica, frutto di fanatismo e dell’incapacità di capire gli altri se non come sottomessi a se stessi, non è scomparsa ai nostri giorni. Ancora l’uomo cerca una salvezza propria, cerca una giustizia e un’autogiustificazione che porta ad ogni genere di aberrazioni, pago di un possesso in cui ci si crede totalménte padroni, e non servi, della verità.
La situazione di Paolo è istruttiva a riguardo di alcune delle perversioni più profonde. Quelle che affronterà Gesù nel Vangelo quando dirà: «I peccatori vi precedono nel Regno di Dio ». Vuol dire che chi commette dei peccati perché, ad esempio, si ubriaca o si lascia vincere dalla sensualità, commette peccato, certo, ma è sempre, in qualche modo, conscio di fare il male: ha bisogno di comprensione, di aiuto e di misericordia per superare la propria debolezza e confessa di essere fragile. Paolo invece non avrebbe mai confessato di essere fragile e debole. Ed è questo il peccato che Gesù attacca nei farisei: quella perversione fondamentale per cui l’uomo si fa salvezza di se stesso e, credendo di essere giunto all’apice della perfezione, giunge alle più gravi aberrazioni della violenza.
Verso quale direzione ti ha portato il Signore?
Paolo stesso ci fa comprendere nella lettera ai Filippesi e nella lettera ai Galati il significato di questa direzione.
a) Prima di tutto il Signore lo ha portato verso un totale distacco da ciò che prima gli era sembrato sommamente importante: «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ormai tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3, 7-8).
Lo ha portato verso la percezione che tutto questo non vale niente di fronte a Cristo: non in sé, ma di fronte a Cristo.
Lo ha portato ad una visione completamente nuova delle cose. Non a un cambiamento morale immediato, ma ad una illuminazione: egli parla di rivelazione, perché mettendosi da un punto di vista nuovo, quello di Cristo, tutte le cose gli appaiono diverse. Egli giudica la sua vita in maniera così nuova che l’esclamazione che meglio riassume la sua risposta interiore alla parola di Gesù sulla via di Damasco è: ho sbagliato tutto. Ho creduto valido ciò che non lo era e mi sono lasciato trascinare ad un modo di agire violento e, alla fine, ingiusto. lo che mi gloriavo della mia giustizia sono diventato giustiziere degli innocenti.
Mentre Gesù gli chiede: «Perché mi perseguiti? », capisce, d’un colpo, che ha confuso, miserevolmente, la verità delle cose. È comprensibile il terribile choc di Paolo che, non attraverso un ragionamento, ma attraverso una presa di contatto della verità, capisce che è tutto da rifare, da ribaltare dall’alto in basso. Analogamente Matteo al cap. 13 descrive il mercante che, avendo trovato una perla preziosa, si accorge che tutto il resto non vale niente; così come l’uomo che, avendo trovato il tesoro nascosto nel campo, comprende che tutto il resto non ha alcun significato.
Quello che è avvenuto in Paolo è una tale rivelazione dell’essere di Gesù che gli ha fatto cambiare giudizio e atteggiamento su ciò che era e su ciò che faceva: una rivelazione che ha capovolto il suo atteggiamento interiore.
b) Il secondo modo che esprime « verso quale direzione » lo troviamo soprattutto in un capitolo della lettera ai Galati: «Si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunzi assi in mezzo ai pagani» (Gal 1, 15). È la missione che viene affidata a Paolo. È sconvolgente per Paolo che le due cose avvengano insieme: nello stesso momento in cui Gesù gli fa capire: «hai sbagliato tutto», gli dice: «tutto ti affido», ti mando.
Il Dio del V angelo e della misericordia è Colui che nell’istante in CUI mi fa capire che ho sbagliato tutto su di lui, perché ho messo me stesso al suo posto, mi dimostra la sua misericordia nel perdonarmi e mi dà fiducia nel chiamarmi al suo servizio, affidandomi la sua stessa Parola.
Questo istante riassume per Paolo tutto ciò che egli sapeva di Dio in maniera sbagliata. L’oscuro diventa chiaro, il violento diventa misericordioso.
Come è avvenuto questo passaggio?
Vogliamo capire che cosa gli è stato rivelato e perché Paolo parla di rivelazione, prima che di conversione.
- Tutto gli è stato donato: non c’è stato da parte sua sforzo, meditazione, esercizi spirituali, lunghe preghiere, digiuni. Tutto gli è stato donato, perché egli fosse per tutti i popoli segno del Dio misericordioso, la cui iniziativa precede sempre la nostra ricerca.
Sarebbe bello rianalizzare il v. 15 del cap. 1 della lettera ai Galati che usa un linguaggio antico testamentario per descrivere ciò che è avvenuto in Paolo:
« Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio… ». Il soggetto della conversione non è Paolo: è Dio. Tutto il peso è dalla parte di Dio, lui è l’autore della conversione.
Come per la creazione « Dio disse e fu fatto », così per la conversione l’iniziativa è Sua, al di là di ogni nostro merito, di ogni nostro desiderio o pensiero.
Dio ci chiama e si compiace di manifestare a noi suo Figlio.
Questo è il primo aspetto del « come»: per grazia, per dono, perché piacque a Dio.
- Tutto gli è stato dato, nella conoscenza di Gesù. Abbiamo già visto, infatti, che Paolo descrive la conversione in termini di incontro (1 Cor 15, 8). Cristo è la rivelazione dell’iniziativa divina e misericordiosa per me. Cristo è l’incontro tra Paolo e Dio.
Poniamoci anche noi alcune domande
- Che cosa c’è in me di affine, di diverso o di analogo, all’esperienza di Paolo?
Come posso cogliere nella mia vita l’azione preveniente di Dio che mi fa essere ciò che sono?
- Come e in quale maniera Gesù, che è stato per Paolo la rivelazione della misericordia divina, è per me il punto di riferimento fondamentale per comprendere chi sono, che cosa sono, da dove vengo, a che cosa sono chiamato?
- Quali sono i possessi che mi impediscono di cogliere con libertà l’iniziativa divina verso di me?
Dobbiamo farci queste domande con amore: se le poniamo con spirito possessivo o autogiustificativo, risponderemo in fretta e non riusciremo a vedere in profondità la storia della nostra vita sotto lo sguardo di Dio. Ma se ci interroghiamo con amore e misericordia potrà emergere ciò che in noi è l’opera di Dio e ciò che in noi è la resistenza di Paolo all’opera di Dio.
Concludiamo rileggendo il racconto di 1 Tim 1,15 ss: « Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io ».
Il peccato fondamentale dell’uomo, che è alla radice di tutti i peccati è non riconoscere Dio come Dio, il non riconoscersi come dono suo, come frutto del suo amore: è l’atteggiamento satanico di opposizione dell’uomo a Dio. Paolo ha vissuto questo atteggiamento sotto colore di possesso di cose buone, ha vissuto il rifiuto della bontà di Dio su di lui. Tutti noi ci portiamo dentro l’incapacità a riconoscere Dio come Dio. « E di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua longanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna ».
È la giustificazione del nostro corso di Esercizi su Paolo che è stato ed è segno per altri, per la storia e per il mondo.
«Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli ». Dio. solo, unico meritevole di onore e di gloria per ciò che ha operato e opera in noi, ci conceda di vivere con questa lode nel cuore.

Publié dans:Cardinali, San Paolo |on 12 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Venerdì Santo

Venerdì Santo dans immagini sacre

http://www.comune.cagliari.it/portale/it/eventview.wp?contentId=EVN3217

Publié dans:immagini sacre |on 11 avril, 2011 |Pas de commentaires »

ABBIAMO VISTO IL SIGNORE

dal sito:

http://www.apostoline.it/riflessioni/nuovo_test/abbiamo_visto_il_signore.htm

ABBIAMO VISTO IL SIGNORE

di MARIA KO HA FONG, biblista

«Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credo”. Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù…» (Gv 20,24-26).

Perché non eri con noi? Come mai non c’eri? Dove sei stato? Sai cosa hai perso?… Nessuna domanda del genere, nessun rimprovero, nessun interrogatorio, nessun controllo, nessuna indagine di curiosità. Ai tuoi fratelli, o Tommaso, premeva soltanto una cosa: comunicarti una bella notizia, condividere con te l’esperienza straordinaria, farti provare l’emozione intensa di cui erano pervasi, coinvolgerti rimediando ciò che hai perso nella tua assenza, farti partecipe della gioia che spettava anche a te perché eri uno di loro.
Ti aspettavano con ansia. Non appena udirono avvicinarsi i tuoi passi, già volsero tutti lo sguardo verso quella porta chiusa. Come mettesti i piedi nella stanza, tutti accorsero da te dicendoti quasi a gara: “Abbiamo visto il Signore!”. Sui volti raggianti davanti a te non si trovò più nessuna traccia di quella tristezza che adombrava tutti nei giorni precedenti di angoscia e di dolore. Dalla loro voce era scomparsa quella nota di scoraggiamento e di delusione che tu conoscevi bene.
Ora tutti gli occhi erano fissi su di te aspettando la tua reazione. Aspettavano un grido di gioia, un’esclamazione di stupore. Aspettavano forse, che tu dicessi loro: «Ma davvero? Come è avvenuto? Dove? Quando? Come è apparso? Cosa ha detto? Raccontatemi!…». E invece niente di tutto ciò. Al posto degli “Ah!” e “Oh!” di meraviglia, uscì dalla tua bocca una litania fredda di “se non…”. Tu non credevi. Volevi vedere, toccare, constatare, esaminare. Volevi prove certe, concrete. Non ti bastava né l’emozione contagiante, né la testimonianza eloquente. Esigevi l’esperienza diretta, e questa non te la potevano dare i tuoi fratelli, pur con tutto il loro entusiasmo e con tutto il bene che ti volevano.
Trascorsero i giorni e la vita procedeva normale. Tu continuavi a stare insieme con i fratelli come prima, ma c’era qualcosa di cambiato in te e negli altri. Avvertivi una distanza creatasi misteriosamente tra te e loro. Essi erano buoni e cordiali con te come al solito, o forse, più ancora del solito; eppure tu ti sentivi estraneo, lontano, persino fuori posto in mezzo a loro. Ti accorgevi che essi avevano qualcosa che ti mancava. L’avvenimento di quella sera era stato qualcosa di decisivo, di trasformante. E quella sera tu non c’eri.
Avresti potuto lasciarti coinvolgere. Avresti potuto entrare in quel “noi” gridando insieme agli altri: “Abbiamo visto il Signore”, ma non l’hai voluto; e i tuoi fratelli ti rispettavano. Sapevano bene che il Signore amava manifestarsi in una varietà di tempi e di modi, sapevano pure che tu eri un tipo non facile da persuadere. In mezzo a loro tu ti distinguevi come uomo della concretezza, retto, sincero, ma un po’ rigido, testardo, unilaterale. Ben due volte hai frainteso persino Gesù per questa tua durezza di mente e di cuore (cf Gv 11,16; 14,5).
Diametralmente opposto rispetto a Giovanni, che possedeva una forte capacità d’intuizione e una spiccata sensibilità per il mistero, tu facevi fatica a lanciarti più in là e più in alto, oltre al visibile e tangibile. Diverso da Pietro, l’apostolo impulsivo, irruente, intraprendente, tu non ti compromettevi senza ragione, non ti fidavi senza prove. Eri diverso da Andrea, affabile, socievole, zelante e premuroso di far conoscere Gesù agli altri; diverso da Filippo, semplice, schietto e spontaneo; diverso da Matteo, da Giacomo, da Simone…
Insomma, voi non formavate un gruppo omogeneo. Non mancavano momenti di tensione e di disarmonia tra di voi, litigavate qualche volta per delle banalità. La domanda di Pietro a Gesù: “Quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me?” (Mt 18,21) forse non era una semplice domanda teorica. C’era persino un po’ di concorrenza tra di voi. Al contrario di quello che vi insegnava Gesù, ambivate di essere il primo, il più grande del gruppo.
Non eravate persone ideali, perfette. Non rappresentavate modelli indiscutibili, ma eravate uomini comuni di carattere diverso, di provenienza e professione diversa. Tutti però attirati dallo stesso Gesù, il quale, in tempi diversi e in circostanze diverse vi ha rivolto lo stesso invito: “Vieni e seguimi!”. Questo era ciò che vi univa ed era tutto ciò che contava.
Tu, Tommaso, davi molta importanza a questa unione fondata in Gesù, apprezzavi la fratellanza fra di voi. Anche nei giorni di disagio interiore dopo quella sera, tu rimanevi fedele alla comunità, alla comunione di preghiera e di carità. Non hai fatto come Cleopa e l’altro discepolo, i quali, stanchi, delusi, scoraggiati, lasciarono la comunità e presero la via per Emmaus, lontano da Gerusalemme, lontano dalla croce, lontano dai loro sogni frantumati, lontano dai fratelli. Il loro era un viaggio di fuga, di evasione, di regresso disperato. A quei due Gesù apparve lungo il cammino, con la sua parola riscaldò il loro cuore, allo spezzare del pane rivelò la novità più strepitosa della storia: Egli è il Risorto per sempre, l’eterno presente. I due ripartirono poi per Gerusalemme, ritornarono dai fratelli raccontando loro la gioia di quel meraviglioso incontro.
A te, invece, Gesù giunse in comunità. Otto giorni dopo arrivò anche per te l’occasione di vedere il Signore. La comunità divenne per te il luogo della visita del Risorto, il contesto in cui egli si rivelò per rinvigorire la tua fede, l’ambiente vitale della tua confessione di fede intensa e profonda: “Mio Signore e mio Dio!”.
Dal tuo tempo al nostro sono ormai passati quasi duemila anni. La tua comunità dovrebbe trovare un riflesso nelle nostre comunità cristiane. Che ne pensi, Tommaso, riusciamo a imitarvi? Le nostre comunità sanno essere risorsa vitale per ognuno di noi come la tua è stata per te? San Basilio scrisse una pagina splendida parlando della bellezza della vita di comunità: «Il primo e grande inconveniente di chi vive in completa solitudine è l’essere soddisfatto di sé. Costui non ha nessuno che giudica la sua condotta e ben presto penserà di essere arrivato alla perfezione della legge. Conservando le sue capacità inattive, non conoscerà ciò di cui ha bisogno e non potrà constatare se compie progressi nelle sue azioni, perché gli verrà meno l’occasione di praticare i comandamenti. In che cosa mostrerà la sua umiltà, se non ha nessuno davanti al quale abbassarsi? Verso chi userà misericordia una volta che si è escluso dai rapporti con gli altri? Come potrà esercitarsi alla mitezza se non ha nessuno che si oppone alla sua volontà? […] Tu che vivi solo con te stesso, a chi laverai i piedi? Dopo di chi ti metterai come ultimo? Chi servirai? Questa felicità e questa gioia d’essere numerosi fratelli che abitano insieme, simile – dice lo Spirito Santo – al profumo che scende dalla barba del grande sacerdote, come si può trovarla nella casa di chi vive da solo?».
Tu, Tommaso, che sei stato uno dei primi ad aver beneficiato della ricchezza di questo “habitare in unum” dei fratelli, pensi che le nostre comunità cristiane di oggi siano ancora capaci di diffondere l’entusiasmo contagioso dell’ “abbiamo visto il Signore”? I nostri fratelli e le nostre sorelle hanno la pazienza di rispettare i ritmi diversi e di aspettare con chi è nell’incertezza gli “otto giorni dopo”? Le nostre comunità cristiane potranno essere sostegno a chi è vacillante, ristoro a chi è ferito, speranza per chi è scoraggiato? Potranno diventare spazio e occasione per una confessione di fede autentica e profonda di ogni fratello?
Grazie, o Tommaso, per mezzo tuo, abbiamo una delle più belle beatitudini pronunciate dal Signore: “Beati quelli che credono pur non avendo visto”; per mezzo tuo, abbiamo una meravigliosa testimonianza della bellezza di seguire insieme Cristo e proclamare insieme: “abbiamo visto il Signore!”.

(da « Se vuoi »)

Publié dans:feste - Pasqua |on 11 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Fede, ragione e dialogo tra le religioni (Jean-Louis Tauran)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/295q05a1.html

(L’Osservatore Romano 23 dicembre 2010)

Fede, ragione e dialogo tra le religioni

Se conosciamo noi stessi possiamo confrontarci con gli altri

Pubblichiamo ampi stralci della lezione tenuta dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso in occasione del dottorato honoris causa che gli è stato conferito dall’Institut Catholic di Parigi.

di Jean-Louis Tauran

Ci sono coincidenze nella storia che in realtà sono appuntamenti. Il 25 agosto 1900, a Weimar, uno scrittore moriva nella follia, Friedrich Nietzche. Qualche tempo prima, aveva composto una sorta di biografia, Ecce Homo, rivelatrice dell’angoscia che lo attanagliava:  « Dov’è Dio? » si chiedeva. « Ve lo dirò io:  l’abbiamo ucciso, voi e io. Dio è morto, siamo noi ad averlo ucciso ». Nello stesso momento, a Roma, un vecchio Papa, Leone xiii (aveva allora 90 anni) redigeva quella che sarebbe stata l’enciclica Tametsi futura, resa pubblica il 1° novembre 1900. « Bisogna reintegrare il Signore Gesù nel suo ambito; molti sono lontani da Gesù Cristo, più per ignoranza che per perversità; numerosi sono quelli che studiano l’uomo e la natura, ben pochi quelli che studiano il Figlio di Dio. Supplichiamo quanti sono cristiani di fare tutto il possibile per conoscere il loro Redentore com’è veramente ».
L’accostamento dei due testi rivela il dramma spirituale che vivono ancora gli uomini e le donne di quel tempo. Da un lato, la ribellione dell’intelligenza e dall’altro l’adesione a un Dio che esercita la sua sovranità sulla mente di ognuno nella concretezza del quotidiano. Abbiamo sperimentato cos’è il mondo senza Dio:  l’inferno. L’umanità nel secolo scorso ha conosciuto la notte dei due totalitarismi che hanno generato gli eccessi che conosciamo fin troppo bene. Essi avevano annunciato la morte di Dio, organizzato la persecuzione dei credenti ed escluso definitivamente la religione dalla sfera pubblica.
Ma Dio, che era stato congedato, in realtà era sempre lì. Come poteva essere diversamente? L’ateismo insegnato e praticato non è mai riuscito a eliminare Dio dall’orizzonte dell’uomo. La ricerca di Dio nasce più forte che mai, il sacro interroga, la presenza di un islam europeo che si afferma, il successo delle sette, l’attrazione esercitata dalle forme di saggezza provenienti dall’Asia, il lungo Pontificato di Giovanni Paolo II che ha ridato alla Chiesa la sua visibilità e l’insegnamento di Papa Benedetto XVI che le dà la sua interiorità, hanno contribuito a farci ricordare che l’uomo è prima di tutto la creatura che s’interroga sul « senso del senso » (Paul Ricouer). È la coscienza – la facoltà di riflettere sul proprio destino, sul senso della vita e della morte – a distinguere l’uomo dai regni vegetale e animale. Egli è il solo a prevedere un aldilà. La religione non è un momento particolare della storia, essa appartiene alla natura dell’uomo. Nelle nostre società multiculturali e plurireligiose, credenti o non credenti, tutti, ci poniamo le tre domande fondamentali di Emmanuel Kant:  che cosa posso conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare?
Credenti o non credenti, aspettiamo qualcosa che dia senso alla nostra esistenza, che salvi la nostra vita dall’inutilità e dall’abisso. Alcuni lo trovano nella politica, altri nell’apparire, altri ancora nell’edonismo. Come ha così ben osservato Dostoevskij:  « L’uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa (…) se l’uomo rifiuta Dio, s’inginocchierà davanti a un idolo. Noi siamo tutti idolatri e non atei ». Il desiderio di credere è così forte nell’uomo che, dopo aver espulso Dio dalla propria vita, un’altra fede vi s’insedierà:  la fede in un altro assoluto che non è altro che l’uomo stesso:  « Homo homini deus » per dirla come Feuerbach. Ieri Dio era assente; oggi ci sono troppi dei!
È in questo contesto che si situa il dialogo interreligioso. Quando i credenti dialogano, cercano di conoscersi e di arricchirsi gli uni gli altri con il loro patrimonio spirituale, rispettando allo stesso tempo la libertà di ognuno, al fine di considerare quello che possono fare insieme per il bene della società. Il dialogo interreligioso non ha come fine la conversione dell’altro, sebbene spesso la favorisca. Il dialogo interreligioso sarà però autentico solo se ognuno resterà fedele alla propria fede. Non la si mette affatto fra parentesi; al contrario la si approfondisce per essere meglio in grado di darne conto.
Direi che tre atteggiamenti s’impongono:  il dovere dell’identità, avere un’identità spirituale (problema dell’ignoranza in materia di religione); il coraggio dell’alterità, gli altri credenti possono arricchirmi; la franchezza delle nostre intenzioni, testimoniamo, proponiamo, evitando gli eccessi del proselitismo. Ma il paradosso sta nel fatto che le religioni sono spesso percepite come un pericolo:  fanatismo, fondamentalismo, derive settarie, sono di frequente associate alla religione, e ciò soprattutto a causa di azioni terroristiche ispirate da motivi religiosi, perpetrate da adepti sviati e minoritari di una religione.
« Nessuna circostanza vale a giustificare tale attività criminosa, che copre di infamia chi la compie, e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una religione, abbassando così la pura verità di Dio alla misura della propria cecità e perversione morale ». Non conosco condanna più sferzante di quella di Benedetto XVI pronunciata davanti al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede all’inizio del 2006. In effetti le religioni – o piuttosto alcuni credenti – sono capaci del meglio come del peggio. Le religioni possono mettersi al servizio di un progetto di santità o di alienazione:  possono predicare la pace o la guerra. Da qui la necessità per i loro responsabili di coniugare fede e ragione.
Cosa possono apportare le religioni alla società? Sono una risorsa?
La mia risposta è evidentemente affermativa. Se esiste un umanesimo, esso affonda le sue radici nell’humus cristiano:  la persona umana come valore supremo, la sua dignità, i suoi diritti fondamentali, il principio di solidarietà e di sussidiarietà, la giustizia e la pace sono valori cristiani. La prima scuola nel continente europeo è fondata da un monaco, Alcuino, alla corte di Carlo Magno. È la Chiesa cattolica a fondare le prime università. Le élite del continente africano e di quello asiatico sono state formate in istituti d’istruzione cristiani. Ci sono pensatori e teologi all’origine del diritto delle genti.
È il Papato a realizzare le prime meditazioni di pace. Infine, bisogna ricordare che è stato il cristianesimo a riuscire a far inscrivere nelle società moderne la distinzione fra il fatto politico e il fatto religioso, principio che ha sconvolto le relazioni internazionali. Tutte le religioni ritengono la famiglia come l’ambito in cui s’impara a vivere insieme; che la terra, quella in cui sono nato, con la sua storia, modella la mia identità; che l’educazione è non solo conoscenza ma anche trasmissione di valori e che la politica e l’economia non sono il tutto dell’uomo; infine che la vita interiore è necessaria.
La grandezza dell’ebraismo, come quella dell’islam, consiste indubbiamente nel denunciare l’idolatria. La grandezza del cristianesimo nel ricordare che Dio si è fatto uomo affinché diventassimo suoi figli. Insieme dobbiamo denunciare ogni pretesa dell’uomo a farsi Dio. Non dimentichiamo mai che la tentazione del paganesimo è di divinizzare tutto.
Tutti i credenti dovrebbero poter unire le loro buone volontà quando si tratta di servire, di curare, di educare. Purtroppo però due grandi ostacoli condizionano il diffondersi dei credenti:  la crisi dell’intelligenza e la difficoltà della trasmissione dei valori.
La crisi dell’intelligenza:  siamo uomini e donne superinformati, ma abbiamo grandi difficoltà a pensare, a mettere in ordine le nostre idee, ad assaporare il silenzio. Ciò che manca di più all’uomo di oggi è una vita interiore. Pascal diceva:  « La grande disgrazia degli uomini è che non sanno stare a riposo nella propria stanza ».
La crisi della trasmissione dei valori:  siamo assicurati contro tutti gli infortuni, salvo la malattia e la morte, e ciò che importa è sentirsi senza vincoli, anche se per questo si deve sacrificare un amico, un parente, un collega. Si pratica un umanesimo sociale che si riduce a dire:  non facciamo il male, ma non abbiamo bisogno di Dio per fare il bene! È un mondo chiuso a Dio! L’uomo è capace di vere imprese; non si deve aspettare nulla da Dio!
Ora noi cristiani faremo sempre resistenza di fronte a questo mondo. Con le parole di Pascal:  « Al di fuori di Gesù Cristo non sappiamo né cos’è la vita, né cos’è la morte, né cos’è Dio, né cosa siamo noi stessi ». Ma è a questo mondo, al nostro mondo, che dobbiamo annunciare Gesù Cristo e il suo Vangelo, « con dolcezza e rispetto », come raccomanda Pietro. Di fatto l’unico problema esistente, e che è il valore fondamentale da trasmettere e da proporre, è di sapere se c’è stato un caso unico in cui un uomo ha avuto il diritto di dire di essere Dio; non perché quest’uomo si è fatto Dio, ma perché Dio si è fatto uomo. È tutto qui! Non è un’utopia!
Ecco cosa dobbiamo proporre, ecco cosa celebriamo. Se proviamo a volte qualche dubbio, un po’ di sconforto, ricordiamoci di quei due doni magnifici con cui Dio ci ha gratificati:  un’intelligenza per comprendere e un cuore per amare.
Non dobbiamo essere complessati. Si dice che siamo minoritari. Diciamo che siamo una minoranza che conta! Nel Collège des Bernardins, Benedetto XVI ha magistralmente ricordato la novità dell’annuncio cristiano. Questa novità non è altro che la possibilità di dire ora a tutti i popoli:  « Egli si è mostrato. Egli personalmente. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto:  Egli si è mostrato ». Il Papa proseguiva dicendo che i nostri contemporanei, nonostante le apparenze, sono essi stessi alla ricerca di Dio e devono essere messi in condizione di poter « cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui:  questo oggi non è meno necessario che in tempi passati ». E concludeva:  « Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi ». La ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo restano ancora oggi il fondamento di qualsiasi cultura vera.
Il dialogo interreligioso non può riposare su una base d’ignoranza globale. Noi abbiamo delle radici; dobbiamo conservare il patrimonio umano e spirituale che ci ha modellati. Abbiamo un ruolo da svolgere dal momento che tanti giovani sono eredi senza eredità e costruttori senza modello.
Nel 1905 Ferdinand Buisson non esitò a scrivere:  « Per l’educazione di un bambino che deve diventare uomo, è bene che sia, di volta in volta, messo a contatto con i versetti appassionati dei profeti d’Israele e con i filosofi greci, che abbia conosciuto e sentito qualcosa della Città antica. Sarà bene che gli si facciano conoscere e ascoltare le più belle pagine del Vangelo, come pure quelle di Marco Aurelio, che abbia sfogliato, come Michelet, tutte le Bibbie dell’umanità, che gli si faccia attraversare, non con pregiudizi e con spirito critico, ma con calorosa simpatia, tutte le forme di civiltà che si sono succedute. Ciò che risulterà da questo studio non sarà il disprezzo, l’odio, l’intolleranza, al contrario sarà una profonda simpatia, un’ammirazione rispettosa per tutte le manifestazioni del pensiero incessantemente in cammino verso un ideale incessantemente in crescita ».
Il secolo che inizia ha ereditato da quello che l’ha preceduto:  come lo scorso secolo anche questo è dominato dall’economia, dalle guerre e dalle disuguaglianze. Ma è anche arricchito dai progressi delle scienze e della tecnica. I nostri contemporanei sono più consapevoli delle loro responsabilità nella gestione delle risorse naturali e nell’uso da fare dei risultati della ricerca scientifica. Dopo aver dominato le realtà fisiche, ci si avventura ora nel dominio del vivente. Una domanda sorge spontanea:  andiamo verso uno scontro o verso un dialogo fra culture e religioni? Come cristiani quale sarà il nostro contributo? Saremo ispiratori o accompagnatori? È indubbiamente difficile rispondere, ma sono convinto che il cristianesimo, che non è mai stato tanto universale come lo è oggi, saprà, come ha saputo fare nel corso della sua lunga storia, approfittare della globalizzazione – che è un dato di fatto – per offrire il suo contributo a due necessità che quest’ultima non è stata in grado di assicurare:  la giustizia e la pace. Lo faremo nella Chiesa, questa Chiesa talora con il volto segnato, ma sempre nascente, che genera apostoli capaci di osare affinché questa terra non sia mai priva di speranza e di amore.
Si pone spesso la domanda:  il cristianesimo morirà? Personalmente mi pongo un’altra domanda; quando il cristianesimo inizierà a esistere?
Ciò che è allo stesso tempo magnifico e terrificante è che Dio ci lascia liberi. Noi possiamo dire « no » a Dio! Abbiamo il potere di salvarci o di perderci. Il problema non è né la morte, né l’assurdo, è la libertà. Tale è Dio, tale è l’uomo. Il che faceva dire al grande poeta tedesco contemporaneo di Goethe, Friedrich Hölderlin:  « Dio ha creato l’uomo, come il mare fa i continenti, ritirandosi ».

Publié dans:fede e ragione |on 11 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Joh-11,01-Lazarus_Resurrection

Joh-11,01-Lazarus_Resurrection dans immagini sacre 15%20GEERTGEN%20RESURRECTION%20DE%20LAZARE%20CC

http://www.artbible.net/Jesuschrist_fr.html

Publié dans:immagini sacre |on 9 avril, 2011 |Pas de commentaires »

L’insegnamento di Gesù sulla preghiera

dal sito:

http://www.santuariosantamariadegliangeli.it/

SANTUARIO SANTA MARIA DEGLI ANGELI

L’insegnamento di Gesù sulla preghiera
 
Qui tocchiamo un punto nevralgico dell’insegnamento sulla preghiera cristiana: la preghiera di Cristo è il vertice della preghiera biblica. Nei giorni della sua vita terrena, Cristo prega, sente cioè la necessità di un contatto intimo e frequente col Padre, e insegna a pregare anche ai suoi discepoli. Sarà opportuno analizzare tanto la preghiera di Gesù quanto il suo insegnamento sulla preghiera. 
 
7.1 La preghiera di Gesù
Sarà in primo luogo opportuno chiederci “come” Cristo ha pregato nella sua vita da uomo. Uno sguardo generale ai cenni evangelici sulla preghiera di Gesù ci permette di dire che Lui ha pregato frequentemente ritirandosi in luoghi deserti, preferibilmente la notte o prima dell’alba. Questa preghiera di Gesù scandisce la sua attività di evangelizzazione e non sembra avere scopi pratici aldilà di un ristoro del suo cuore nell’intimità con il Padre. Notiamo anche l’assenza di preghiera in occasione dei miracoli: Gesù non prega prima di operare il miracolo, tranne in due casi, la moltiplicazione dei pani e la risurrezione di Lazzaro. Oltre alla preghiera ordinaria che scandisce il ritmo delle sue attività apostoliche, vi è una preghiera circostanziale, ossia una preghiera dettata dal momento particolare che Cristo si trova a vivere; vediamo così Cristo in orazione prima di prendere le decisioni più importanti, come la scelta dei Dodici; oppure in momenti cardine del suo ministero, come il battesimo e la trasfigurazione (secondo Luca); quando gli Apostoli stanno per essere vagliati dalla bufera della Passione, Cristo prega in particolare per Pietro (cfr. Lc 22,31-34); infine Cristo prega per ottenere dal Padre la forza di affrontare il tempo della prova e di essere in grado di affrontare la morte.
Si può dire inoltre che Cristo ha praticato le forme più importanti di preghiera note all’AT: la preghiera di lode, di intercessione, di richiesta di perdono (anche se mai per Se Stesso), di domanda.
I caratteri della preghiera di GesùLa prima cosa che ci viene di notare in riferimento alla preghiera di Gesù è il suo pieno inserimento nell’esperienza religiosa di Israele. Cristo si reca di sabato nella sinagoga e lì prega insieme alla comunità ebraica: “Si recò a Nazaret ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga” (Lc 4,16). E ancora: “Gesù insegnava nelle loro sinagoghe” (Mt 4,23). La sinagoga e la preghiera comunitaria rappresentano quindi la prima tappa della manifestazione pubblica di Cristo. La comunità che si raduna in preghiera è sempre il primo e necessario riferimento del singolo credente, il quale impara a pregare dalla comunità che prega.
Più volte il Vangelo fa riferimento al fatto che Gesù soleva ritirarsi in luoghi solitari a pregare (Mt 14,13; Mc 1,35), ma non ci dice mai in cosa consistesse questa preghiera solitaria né quali contenuti avesse.    I discepoli hanno infatti desiderato sapere come Cristo pregasse, quindi hanno intuito nella preghiera di Cristo qualcosa di nuovo e di diverso da quel che tradizione ebraica aveva loro comunicato; e gli hanno chiesto esplicitamente di insegnare loro a pregare come pregava Lui. Sarà appunto questo l’argomento del successivo paragrafo. L’unico punto in cui potrebbe venire alla luce quel che la preghiera solitaria di Cristo poteva essere, è il capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, dove viene portata la lunga preghiera di Gesù che affida alla custodia del Padre gli Apostoli e la Chiesa futura. Si tratta di una preghiera piena di confidenza filiale, ma anche piena di una divina consapevolezza, per la quale Cristo può dire perfino, rivolgendosi al Padre: “Voglio che anche quelli che mi hai dato siano con Me” (Gv 17,24). La preghiera di Gesù conosce dunque sia l’adesione piena del Figlio al volere del Padre, sia la coscienza lucida dell’uguaglianza nella natura divina e nell’unica maestà, identica per il Padre e per il Figlio.
Cristo non mette sullo stesso piano la preghiera e l’attività apostolica, né si ritira a pregare solo quando non ha nulla da fare. Al contrario, Egli si ritira a pregare anche quando le folle lo cercano per ascoltare la sua Parola e ricevere al guarigione: “Folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro infermità. Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare” (Lc 5,15-16). Neppure l’incalzare della piena dei bisogni umani lo ferma dalla ricerca della solitudine e della intimità col Padre. Significa che la preghiera deve avere la priorità assoluta su ogni attività. Mentre lo cercano, Egli si ritira in luoghi solitari. Non sempre ci riesce, perché talvolta la folla intuisce dove sta per andare e lo precede. Qui Cristo si commuove e apre a chi lo cerca i tesori del suo Cuore (cfr. Mc 6,30-34). La notte è perciò l’unico tempo di preghiera che Lui riesce a ricavarsi senza interruzioni.I momenti più importanti e più determinanti dell’attività apostolica di Gesù sono scanditi dalla preghiera. Il Vangelo di Luca sottolinea la preghiera di Gesù nel battesimo e nella trasfigurazione, due grandi momenti teofanici che Cristo vive immerso nella preghiera e astratto dal mondo (cfr. Lc 3,21 e 9,28-29). Certe esperienze forti, insomma – quei momenti di incontro con Dio che sono orientati alla nostra crescita -, non possono essere vissute dal cristiano con l’animo distratto o svagato, o assente. Cristo stesso si è concentrato e ha messo in fuga distrazioni e superficialità nel giorno del suo battesimo e della sua trasfigurazione, quando il Padre lo ha accreditato dinanzi agli uomini come testimone verace.
Un altro momento cardine del ministero pubblico di Cristo è la scelta dei Dodici. Anche in questa circostanza Egli ha voluto sprofondarsi nella preghiera prima di prendere una decisione così importante e determinante per la vita della Chiesa: “In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno, chiamò a Sé i suoi discepoli e ne scelse dodici” (Lc 6,12-13). Non c’è dubbio che il cristiano debba sentirsi interpellato dinanzi a questo quadro: le svolte della vita, le grandi decisioni e le scelte definitive non possono essere prese nel rumore e nel trambusto della vita quotidiana, né possono prescindere da una consultazione del Signore nel silenzio e nella preghiera prolungata.
Come già dicevamo, nella preghiera personale di Gesù troviamo sia la preghiera di lode che quella di intercessione. La sua preghiera di lode è riportata in Lc 10,21: “In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: Io ti rendo lode Padre… che hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli”. La preghiera di lode di Gesù non è di origine cerebrale, intellettuale, ma non è neppure frutto di un moto sentimentale: si tratta di una esultanza nello Spirito Santo. Può giungere alla preghiera di lode solo chi giunge a provare la gioia dello Spirito, ossia a percepire intimamente che ciò che Dio comanda e vuole è qualcosa di meraviglioso che riempie di stupore; chi pensa che il Vangelo contiene una serie di idee belle e buone non è ancora arrivato a scoprire questa esultanza; essa non si prova dinanzi alle cose belle e buone, ma solo dinanzi alle cose divine. Chi arriva a sentire dentro di sé che il Vangelo è divino, che il modo di essere uomo personificato da Cristo è divino, che la Parola che risuona nella Chiesa non è solo “moralmente buona” ma è divina, allora costui può giungere alla preghiera di lode, che esprime l’esultanza dell’animo riempito di stupore dinanzi alla bellezza divina del Cristo.
La preghiera di intercessione di Gesù è riportata da Lc 22,31: “Simone, Simone, satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede”. Poco prima di essere arrestato, Gesù prepara l’Apostolo Pietro non solo avvertendolo della bufera che sta per scatenarsi, ma soprattutto pregando per lui così che la sua fede non venga annullata dalla persecuzione. Sarà infatti Pietro il punto di riferimento della comunità postpasquale e il kerygma cristiano comincerà proprio con lui nel giorno di Pentecoste (cfr. At 2).  L’altra grande preghiera di intercessione è quella riportata da Gv 17, dove Gesù, prima di essere arrestato, prega per la Chiesa che nascerà dalla predicazione apostolica e chiede al Padre di conservarla nell’unità della Trinità.
Tra il Getsemani e il GolgotaLa preghiera di Gesù raggiunge il vertice nel momento più delicato e drammatico della sua vita terrena: le ore oscure della Passione. Qui Gesù prega per ottenere dal Padre la forza di attraversare quel mare di odio che stava per riversarglisi addosso. Il messaggio è abbastanza chiaro anche per il cristiano: se è importante la preghiera nelle svolte e nelle grandi decisioni della vita, lo è soprattutto nella svolta più grande che è rappresentata dall’esperienza del dolore e dalla prossimità della morte. Cristo prega non solo in prossimità della morte, ma anche nelle ore lunghe dell’agonia, prima di perdere conoscenza.
Nel Getsemani, Gesù vuole la compagnia di tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. A loro chiede un particolare tipo di preghiera, che consiste semplicemente nel rimanere accanto a Lui: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con Me” (Mt 26,38). Cristo non chiede loro particolari formule da recitare, non chiede la proclamazione di qualche Salmo, ma semplicemente di restare con Lui. Restare e vegliare, ossia offrirgli una presenza non distratta ma attenta, concentrata sulla sua divina Persona. E’ in sostanza la preghiera di semplice sguardo che si fa davanti all’Eucaristia; una preghiera senza parole, ma carica di attenzione, dove la tensione del cuore è tutta nello sguardo. La preghiera di Gesù nel Getsemani è una preghiera essenziale, fatta di poche parole: “Se è possibile passi da Me questo calice! Però non come voglio Io, ma come vuoi Tu” (Mt 26,39). Queste stesse parole Gesù le ripete più volte (cfr. Mt 26,44); è quindi possibile che, in momenti particolarmente intensi, la preghiera del cristiano si componga anche di poche e brevi frasi, ripetute più volte. Come vedremo, Gesù mette esplicitamente in guardia i suoi discepoli dalla pratica di una preghiera parolaia, che non giunge di fatto al cuore di Dio. Serve solo a ingolfare la vita interiore del discepolo con le molte parole e i ragionamenti non necessari.
Gesù prega soprattutto mentre sulla croce sente che la vita a poco a poco gli sfugge. La sua preghiera è una preghiera di richiesta di perdono per tutti coloro che lo hanno colpito: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).  Ma è anche una preghiera di infinita fiducia in Colui che lo ha abbandonato (cfr. Mc 15,34) nelle mani dei nemici: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Anche qui c’è un intero programma per il cristiano, che non può giungere impreparato alla morte, né farne l’esperienza senza immedesimarsi profondamente nel mistero della croce. E ciò non può avvenire se non nella preghiera.
 
7.2 La preghiera insegnata da Gesù
Oltre alla preghiera personalmente fatta da Gesù nei giorni della sua vita terrena, c’è anche un insegnamento esplicito, sollecitato dai suoi discepoli: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: insegnaci a pregare” (Lc 11,1). L’insegnamento di Gesù sulla preghiera è riportato in diversi brani. Cominciamo col Vangelo di Matteo 6,5-15 e 7,7-11.
Il contesto prossimo ci conduce direttamente alla preghiera del cuore: è infatti tolta di mezzo ogni forma di preghiera che si esaurisca nel pronunciamento meccanico di determinate formule: “Quando preghi, entra nella tua camera…” (6,5). La propria “camera” è indubbiamente un’immagine finalizzata a un insegnamento, visto che la preghiera comunitaria e liturgica è sempre stata, fin dalla prima generazione cristiana, un elemento portante della vita della Chiesa. In sostanza, non si tratta di un invito di carattere privato e intimistico, quanto piuttosto di una qualità dell’incontro con Dio. La “camera” indica il dialogo del cristiano con il Padre, incontrato nella profondità della propria coscienza. La stessa preghiera comunitaria e liturgica si svuota completamente, e diventa pura esteriorità, quando i membri dell’assemblea, ciascuno per la propria parte, non hanno incontrato il Padre nelle profondità del proprio animo. Ancora peggio è quando la preghiera è fatta visibilmente, per dare un “tocco di classe” alla propria rispettabilità sociale (cfr. 6,5). Al giorno d’oggi, perfino i maghi ricorrono a questo stratagemma, circondandosi di crocifissi e di immagini sacre, per far credere alla gente che i loro “poteri” vengono da Dio. Perciò il discepolo non deve mai lasciarsi trarre in inganno dalle apparenze, perché Satana si traveste solitamente da angelo di luce (cfr. 2 Cor 11,14).L’insegnamento centrale sulla preghiera è però rappresentato dal Padre Nostro, che non si presenta come una “formula” di preghiera, bensì come un archetipo su cui modellare la preghiera cristiana. Il medesimo insegnamento è riportato nel Vangelo di Luca, dove la parabola dell’amico importuno è introdotta dalla preghiera del Padre Nostro, che Luca riporta in una maniera più breve di quella di Matteo (cfr Lc 11,1-4).  La diversità delle due redazioni di questa preghiera, dimostra che non si tratta di una “formula” ma, come abbiamo detto, di un modello di preghiera. Se si fosse trattato di una formula, sarebbe stata registrata parola per parola, tanto più che questa è l’unica preghiera insegnata direttamente dal Signore.
            Da questo modello risulta:
1.      La nostra preghiera è rivolta più alla Paternità di Dio che alla sua onnipotenza: “Quando pregate, dite: Padre…” (6,9).
2.      Non è giusto pregare per le proprie necessità umane, senza cercare prima la gloria di Dio: cfr vv. 9-103.      Non è autentica la preghiera di chi non è uomo di pace (cfr. v. 12) L’insegnamento di Gesù addita ai discepoli anche una preghiera ininterrotta. Uno dei discepoli, avendo notato che Gesù si ritirava spesso in solitudine a pregare, gli disse: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1). La preghiera è uno dei temi che l’evangelista Luca più ama sottolineare. Soprattutto è messa in evidenza la preghiera di Gesù nelle scelte più difficili (cfr Lc 6,12) o nei momenti più cruciali del suo ministero (cfr Lc 3,21 e 9,28). Queste due parabole si riferiscono alla preghiera dei cristiani, i quali a maggior ragione devono affidarsi a Dio nella preghiera, se Cristo non ha pensato di poterne fare a meno. Il Gesù storico si presenta allora anche come Maestro di preghiera. Queste due parabole non esauriscono l’insegnamento di Gesù sulla preghiera, ma ne sono soltanto una introduzione.
Occorre pregare senza stancarsiPrima di narrare la parabola del giudice iniquo, Luca ci fa sapere perché Cristo l’ha inserita nel proprio insegnamento: “Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi” (Lc 18,1).
La preghiera cristiana, secondo questo insegnamento, ha insomma bisogno di due principali caratteristiche: essere ininterrotta; non essere soggetta alla stanchezza.  Ma quale stanchezza?Cominciamo col secondo elemento: “pregare senza stancarsi”. Di che stanchezza si tratta? Certo, la preghiera esige concentrazione, lotta contro le distrazioni, in certo qual modo un affaticamento mentale. E’ questa la stanchezza di cui parla Gesù? Non ci sembra proprio. Non è in questione la stanchezza fisica o quella psicologica. Infatti, quando uno è stanco fisicamente o mentalmente, il suggerimento di Cristo è prima di tutto il riposo: cfr. Mc 6,31 e Mt 9,36.
Inoltre, se è una stanchezza di cui si può dire “non stancarti”, allora è di diversa natura da quella fisico-psichica. L’unica stanchezza di cui si può dire “non ti stancare” è infatti quella stanchezza che risulta dall’affievolimento della fede. La stanchezza che non dobbiamo avere è quella del dubbio, del cedimento interiore della certezza dell’aiuto di Dio. In tal modo la preghiera sarebbe indebolita in partenza e sterilizzata alla radice. Ecco perché se la preghiera vuole essere efficace non può e non deve essere soggetta alla “stanchezza” della fede.
E’ possibile pregare ininterrottamente?Più difficile a capirsi (oltre che a farsi) ci sembra quest’altra esigenza della preghiera cristiana. Pregare ininterrottamente! Ma come si fa con tutti gli impegni che ci sommergono appena ci alziamo dal letto?
Per capire cosa sia la “preghiera continua” occorre ampliare la prospettiva sull’intera rivelazione biblica, dal momento che la preghiera ininterrotta è richiesta anche ai Patriarchi, e precisamente ad Abramo. Ci riferiamo al brano di Gen 17,1, dove incontriamo il primo insegnamento biblico sulla preghiera ininterrotta: “Io sono Dio onnipotente: cammina davanti a Me e sii integro”. Da qui comprendiamo una cosa essenziale: la preghiera non consiste nel parlare con Dio, ma nel vivere ogni istante della vita quotidiana alla sua Presenza. Questo insegnamento ritorna chiaramente nel racconto della Passione; nell’orto degli Ulivi, Gesù dice ai suoi discepoli: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate” (Mc 14,34). Gesù non chiede che i discepoli si mettano lì a conversare con Lui, ma chiede solo la loro presenza. Pregare significa infatti essere presenti a Colui che è Presente. In definitiva, pregare è amare. E non si ama con le parole. Nell’amore le parole esprimono “una disposizione di dono” della persona; ma talvolta può esserci la “disposizione di dono” senza le parole. Come nella vita di coppia, non sempre si parla, ma ciò che conta è la disposizione personale del reciproco dono.
Chi giunge a vivere la propria giornata “alla presenza di Dio”, si può dire che ha attuato l’insegnamento evangelico della preghiera continua, ripreso anche dall’Apostolo Paolo: cfr. Ef 6,18 e 1 Ts 5,17, ma anche nell’intendere il vivere cristiano, cioè la quotidianità, e non solo la preghiera liturgica, come un culto spirituale reso a Dio (cfr. Rm 12,1-2).
              “Quale padre darà una pietra al figlio che gli chiede un pane?” (cfr Lc 11,9-13)
Prima di parlare della preghiera, Cristo tiene a precisare chi è Colui a cui la nostra preghiera si rivolge. Al discepolo che gli chiede “insegnaci a pregare”, Gesù risponde: “Quando pregate, dite: Padre…” (11,2). Il tema della paternità di Dio è poi ripreso dopo la parabola dell’amico importuno: un uomo può anche soccorrere un amico solo per la sua insistenza, ma un padre non ha bisogno dell’insistenza dei figli, per beneficarli, perché li ama. Anche un uomo malvagio può fare del bene solo per essere lasciato in pace (Lc 18,4-5), ma al proprio figlio non darà un sasso se gli chiede del pane (11,13). Nella stessa maniera il Padre celeste dà il necessario all’uomo, ma soprattutto gli dà il regalo che in senso assoluto è necessario: lo Spirito Santo (v. 13). Ma è proprio su questo terreno che si gioca l’autenticità della preghiera cristiana. Cfr. anche 1 Re 3,5-15.
Un altro elemento di estrema importanza nell’insegnamento di Gesù è la fede che deve accompagnare la preghiera. La mancanza di fede o il tarlo del dubbio rischiano di vanificare l’efficacia della preghiera cristiana: “Se avrete fede e non dubiterete… direte a questo monte levati di lì e gettati nel mare, e ciò avverrà. Tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete” (Mt 21,21-22). E il passo parallelo di Marco: “Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: Lèvati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato. Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato” (Mc 11,22.24). In altre parole, la mancanza di fede, che poi altro non è se non sfiducia in Dio, o mancanza di aspettative, come se Dio non fosse abbastanza buono o abbastanza potente da soccorrerci nelle nostre necessità, la mancanza di fede, insomma
, sterilizza la preghiera che così rischia di ridursi a una vuota recitazione di formule.

Publié dans:preghiera (sulla) |on 9 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia (10-04-2011): Gesù è Risurrezione e vita

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/22103.html

Omelia (10-04-2011)

don Roberto Rossi

Gesù è Risurrezione e vita

Il racconto della risurrezione di Lazzaro è una delle « storie di segni » che racconta san Giovanni. Si tratta qui di presentare Gesù, vincitore della morte. Il racconto culmina nella frase di Gesù su se stesso: « Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me non morrà in eterno ». Che Dio abbia il potere di vincere la morte, è già la convinzione dei racconti tardivi dell’Antico Testamento. La visione che ha Ezechiele della risurrezione delle ossa secche – immagine del ristabilimento di Israele dopo la catastrofe dell’esilio babilonese – presuppone questa fede. Nella sua « Apocalisse », Isaia si aspetta che Dio sopprima la morte per sempre, che asciughi le lacrime su tutti i volti. E, per concludere, il libro di Daniele prevede che i morti si risveglino – alcuni per la vita eterna, altri per l’orrore eterno. Ma il nostro Vangelo va oltre questa speranza futura, perché vede già date in Gesù « la risurrezione e la vita » che sono così attuali. Colui che crede in Gesù ha già una parte di questi doni della fine dei tempi. Egli possiede una « vita senza fine » che la morte fisica non può distruggere. In Gesù, rivelazione di Dio, la salvezza è presente, e colui che è associato a lui non può più essere consegnato alle potenze della morte.
«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Non è esagerato affermare che in queste parole di Gesù è contenuto il più grande annunzio della storia. Egli, non solo preannuncia la sua gloriosa risurrezione, ma si autodefinisce risurrezione e vita. Significa che nella sua divinità e nella sua umanità è insito un germe di immortalità e una fonte inesauribile di vita. Significa ancora che la sua stessa forza egli la vuole trasfondere nell’uomo come dono, vuole essere il garante della vita e la certezza della risurrezione per tutti noi. È l’annuncio di una vittoria totale ed insperata, una vera e propria rigenerazione dell’uomo, una vita nuova; è il superamento della paura della morte e del chiuso di una tomba e l’apertura piena del cielo e l’indicazione chiara della nostra meta finale. In una preghiera liturgica noi ringraziamo Dio perché ci dona molto di più di quanto osiamo sperare: come è vero ciò quanto riflettiamo sul dono dalla risurrezione e della vita! Il Signore pone una condizione indispensabile perché ognuno possa godere di questi suoi doni: dobbiamo vivere e credere in Lui. Ci vengono richieste le virtù della fede e dell’amore. È l’impegno a vivere in intimità di comunione con Cristo per passare dalla vita alla Vita. Il miracolo della risurrezione di Lazzaro nel contesto, lo leggiamo come un segno ed un aiuto per trovare ulteriore conferma nella fede. Sappiamo già ormai che Cristo è padrone e signore della vita, sappiamo che egli ha in se la forza di far tornare a vivere il suo amico, nel sepolcro da tre giorni e già preda di una incipiente corruzione del suo corpo. Non ci sorprende più che la sua voce, le sue parole abbiano il potere di far tornare in vita: già pregustiamo la gioia ben più profonda di una risurrezione universale e finale che risuonerà il mattino di Pasqua. Questa è la nostra fede, questo è il dono immenso che Dio ci ha fatto, questa è la sorte che ci attende, la vita eterna. Questo vangelo ci offre i motivi fondamentali come anticipazione della gioia pasquale. Nel racconto evangelico vi è un’atmosfera di dolore (nelle due sorelle, Marta e Maria di Betania) e di paura (nei discepoli, soprattutto in Tommaso). I due sentimenti non sono estra­nei a Gesù: anche Lui prova dolore e tristezza; ma fa vedere nella morte un significato di redenzione e di risurrezione; e chiama la morte «sonno»: «Il nostro amico Lazzaro si è ad­dormentato, ma vado a svegliarlo». «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato». La malattia di Lazzaro non solo rivela Dio Padre, ma rivela anche la gloria divina del Figlio, cioè la sua vittoria sulla morte. «Gesù quando vide Maria piangere si commosse profonda­mente». San Giovanni è tutto rivolto a guardare il volto di Cristo per leggervi l’alterazione così umana dei suoi linea­menti: Gesù si turba; Gesù freme; Gesù piange; Gesù alza gli oc­chi; Gesù grida; Gesù si lascia contagiare dal dolore. Gesù pian­se: in certe ore le lacrime sono l’unica maniera che ci resta di amare e di pregare. A Betania, Gesù ha dato un valore di­vino alle lacrime dell’amicizia: «Vedete come l’amava». Gesù era così: fraterno e fedele; sensibile e delicato; assaporava le gioie dell’amicizia; rischiò la vita per testimoniare la sua fe­deltà agli amici di Betania. Dal suo volto traspariva la luce di Dio-Amore. Lazzaro, amato da Gesù, è malato, muore, è sepolto: tutto è segno della morte totale in cui ci immerge il peccato. II Battesimo (e il suo prolungamento che è la Confessione o Sacramento della Ri­conciliazione) è la potenza di Gesù, che è Risurrezione e Vita. Lazzaro esce dal sepolcro svincolato «dalle fasce e dai lega­mi della morte» (Sal 115,3) più vivo di prima: così appariva il neo-battezzato quando risaliva dalla vasca battesimale; e co­sì appare ogni cristiano quando ha ricevuto la grazia sa­cramentale. Cristo può far risorgere i morti alla Grazia.

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