Archive pour avril, 2011

Eucharistic Adoration

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quarta predica di quaresima di Padre Raniero Cantalamessa: « Un amore fattivo. La Rilevanza sociale del Vangelo »

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26352?l=italian

QUARTA PREDICA DI QUARESIMA DI PADRE RANIERO CANTALAMESSA

« Un amore fattivo. La Rilevanza sociale del Vangelo »

ROMA, venerdì, 15 aprile 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della quarta e ultima predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, pronunciata questo venerdì mattina nella Cappella “Redemptoris Mater” alla presenza di Papa Benedetto XVI.
Il tema delle meditazioni quaresimali è stato “Al di sopra di tutto vi sia la carità” (Colossesi 3, 14).
La prediche precedenti sono state tenute il 25 marzo, il 1° e l’8 aprile.

* * *
1. L’esercizio della carità
Nell’ultima meditazione abbiamo imparato da Paolo che l’amore cristiano deve essere sincero; in quest’ultima meditazione impariamo da Giovanni che esso deve essere anche fattivo: “ Ma se qualcuno possiede dei beni di questo mondo e vede suo fratello nel bisogno e non ha pietà di lui, come potrebbe l’amore di Dio essere in lui? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e in verità” ( 1Gv 3, 16-18). Ritroviamo lo stesso insegnamento, in forma più colorita, nella Lettera di Giacomo: “ Se un fratello o una sorella non hanno vestiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: ‘Andate in pace, scaldatevi e saziatevi’, ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che cosa serve?” (Gc 2, 16).
Nella comunità primitiva di Gerusalemme questa esigenza si traduce in condivisione. Dei primi cristiani si dice che “vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti 2,45), ma a spingerli a ciò non era un ideale di povertà, ma di carità; lo scopo non era di essere tutti poveri, ma che non ci fosse tra loro “alcun bisognoso” (Atti 4, 34). La necessità di tradurre l’amore in gesti concreti di carità non è estranea neppure all’apostolo Paolo che, abbiamo visto, insiste tanto sull’amore del cuore. Lo dimostra l’importanza che da alle collette a favore dei poveri, a cui dedica due interi capitoli della sua Seconda Lettera ai Corinzi (cf. 2 Cor 8-9).
La Chiesa apostolica non fa, su ciò, che raccogliere l’insegnamento e l’esempio del Maestro la cui compassione per i poveri, i malati e gli affamati non restava mai un vuoto sentimento ma si traduceva sempre in aiuto concreto e che fatto di questi gesti concreti di carità la materia del giudizio finale (cf. Mt 25).
Gli storici della Chiesa vedono in questo spirito di solidarietà fraterna uno dei fattori principali della “Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli”[1]. Esso si tradusse in iniziative – e più tardi in istituzioni – apposite per la cura degli infermi, sostegno alle vedove e agli orfani, aiuto ai carcerati, mense per i poveri, assistenza ai forestieri…Di questo aspetto della carità cristiana, nella storia e nell’oggi, si occupa la seconda parte dell’enciclica di papa Benedetto XVI “Deus caritas est” e, in maniera permanente, il Pontificio Consiglio “Cor Unum”.
2. L’emergenza del problema sociale
L’epoca moderna, soprattutto l’Ottocento, ha segnato su ciò una svolta, portando alla ribalta il problema sociale. Non basta provvedere caso per caso al bisogno dei poveri e degli oppressi, occorre agire sulle strutture che creano i poveri e gli oppressi. Che si tratti di un terreno nuovo, almeno nella sua tematizzazione, lo si deduce dal titolo stesso e dalle prime parole dell’enciclica di Leone XIII “Rerum novarum” del 15 maggio 1981, con la quale la Chiesa entra da protagonista nel dibattito. Vale la pena rileggere questo avvio dell’enciclica:
“L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto”.
In questo ordine di problemi si colloca la seconda enciclica del Santo Padre Benedetto XVI sulla carità: “Caritas in veritate”. Io non ho alcuna competenza in questa materia e perciò mi astengo doverosamente dall’entrare nel merito dei contenuti di questa come delle altre encicliche sociali. Quello che vorrei fare è di illustrare il retroterra storico e teologico, il cosiddetto “Sitz im Leben”, di questa nuova forma del magistero ecclesiastico: cioè come e perché si è cominciato a scrivere encicliche sociali e se ne scrivono periodicamente delle nuove. Questo infatti ci può aiutare a scoprire qualcosa di nuovo intorno al vangelo e all’amore cristiano. San Gregorio Magno dice che “la Scrittura cresce con coloro che la leggono” (cum legentibus crescit)[2], cioè mostra sempre nuovi significati a seconda delle domande che le vengono poste, e questo si rivela particolarmente vero nel presente ambito.
La mia sarà una ricostruzione, come si dice, “a volo di uccello”, per sommi capi, come si può fare in pochi minuti, ma le sintesi e i riassunti hanno anch’essi la loro utilità, specie quando, per diversità di compiti, non si ha la possibilità di approfondire di persona un certo problema.
Al momento in cui Leone XIII scrive la sua enciclica sociale, tre erano gli orientamenti dominanti sul significato sociale del vangelo. Vi era anzitutto l’interpretazione socialista e marxista. Marx non si era occupato del cristianesimo da questo punto di vista, ma alcuni suoi immediati seguaci (Engels da un punto di vista ancora ideologico e Karl Kautsky da un punto di vista storico) trattarono il problema, nell’ambito della ricerca sui “precursori del socialismo moderno”.
Le conclusioni a cui giunsero sono le seguenti. Il vangelo fu principalmente un grande annuncio sociale rivolto ai poveri; tutto il resto, il suo rivestimento religioso, è secondario, una “sovrastruttura”. Gesù fu un grande riformatore sociale, che volle redimere le classi inferiori dalla miseria. Il suo programma prevede l’uguaglianza di tutti gli uomini, l’affrancamento dal bisogno economico. Quello della primitiva comunità cristiana fu un comunismo ante litteram, di carattere ancora ingenuo non scientifico: un comunismo nel consumo, più che nella produzione dei beni.
In seguito la storiografia sovietica di regime rigetterà questa interpretazione che, secondo loro, concedeva troppo al cristianesimo. Negli anni 60’ del secolo trascorso l’interpretazione rivoluzionaria ricomparve, questa volta in chiave politica, con la tesi di Gesù capo di un movimento “zelota” di liberazione, ma ebbe vita breve ed esula in questo momento dal nostro campo. (Il Santo Padre ricorda questa interpretazione nel suo ultimo libro su Gesù, parlando della purificazione del tempio).
A una conclusione analoga a quella marxista, ma con tutt’altro intento, era giunto Nietzsche. Anche per lui il cristianesimo è nato come un movimento di riscossa delle classi inferiori, ma il giudizio da dare su ciò è del tutto negativo. Il vangelo incarna il “risentimento” dei deboli contro le nature vigorose; è l”’inversione di tutti i valori”, un tarpare le ali allo slancio umano verso la grandezza. Tutto quello che Gesù si prefiggeva era diffondere nel mondo, in opposizione alla miseria terrena, un “regno dei cieli”.
A queste due scuole – concordi nel modo di vedere, ma opposte nel giudizio da dare -, se ne affianca una terza che possiamo chiamare conservatrice. Secondo essa, Gesù non si è interessato affatto ai problemi sociali ed economici; attribuirgli questi interessi sarebbe diminuirlo, mondanizzarlo. Egli prende immagini dal mondo del lavoro e ha preso a cuore i miseri e i poveri, ma mai ha avuto di mira il miglioramento della condizione di vita della gente nella vita terrena.
3. La riflessione teologica: teologia liberale e dialettica
Queste sono le idee dominanti nella cultura del tempo, quando inizia sul problema una riflessione anche teologica da parte delle Chiese cristiane. Anch’essa si svolge in tre fasi e presenta tre orientamenti: quello della teologia liberale, quello della teologia dialettica e quello del magistero cattolico.
La prima risposta è quella della teologia liberale della fine del XIX e l’inizio del XX secolo, rappresentata in questo campo soprattutto da Ernst Troeltsch e Adolph von Harnack. Vale la pena soffermarsi un po’ sulle idee di questa scuola perché molte conclusioni da essa raggiunte, almeno in questo campo specifico, sono quelle alle quali, per altro verso, giunge anche il magistero sociale della Chiesa e sono tuttora attuali e condivisibili.
Troeltsch contesta il punto di partenza della interpretazione marxista, secondo cui il fattore religioso è sempre secondario rispetto a quello economico, una semplice sovrastruttura. Studiando l’etica protestante e l’inizio del capitalismo, egli dimostra che, se il fattore economico influisce su quello religioso, è vero anche che quello religioso influisce su quello economico. Si tratta di due ambiti distinti, non subordinati l’uno all’altro.
Harnack, dal canto suo, prende atto che il vangelo non ci fornisce un programma sociale diretto a combattere ed abolire il bisogno e la povertà, non esprime giudizi sulla organizzazione del lavoro, e altri aspetti della vita per noi oggi importanti, come l’arte e la scienza. Ma per fortuna, aggiunge, che è così! Guai se avesse fatto altrimenti e avesse cercato di dare regole sui rapporti tra le classi, le condizioni del lavoro, e via dicendo. Per essere concrete, le sue regole sarebbero state fatalmente legate alle condizioni del mondo di allora (come lo sono molte istituzioni e precetti sociali dell’Antico Testamento), quindi anacronistiche in seguito e anzi un “inutile ingombro” per il vangelo. La storia, anche quella del cristianesimo, dimostra quanto sia pericoloso legarsi ad assetti sociali e istituzioni politiche di una certa epoca e quanto sia difficile poi liberarsene.
“Eppure, prosegue lo Harnack, non c’è altro esempio di una religione che sia sorta con un verbo sociale così poderoso come la religione del vangelo. E ciò perché? Perché le parole “ama il prossimo tuo come te stesso” qui sono veramente prese sul serio, perché con queste parole Gesù illuminò tutta la realtà della vita, tutto il mondo della fame e della miseria…Al socialismo fondato su interessi antagonistici, esso vuole sostituire un socialismo che si fonda sulla coscienza di una unità spirituale…La massima speciosa del ‘libero gioco delle forze’, del ‘vivere e lasciar vivere’ –meglio sarebbe dire: vivere e lascia morire – è in aperta opposizione con il vangelo”[3].
La posizione del messaggio evangelico si oppone, come si vede, sia alla riduzione del vangelo a proclama sociale e a lotta di classe, sia alla posizione del liberalismo economico del libero gioco delle forze. Il teologo evangelico si lascia andare a tratti a un certo entusiasmo: “Uno spettacolo nuovo – scrive – si presentava al mondo; fino allora la religione o se n’era stata alle cose del mondo, adattandosi facilmente allo statu quo, oppure si era accampata nelle nubi, mettendosi in diretta opposizione con tutto. Ora invece le si presentava un nuovo dovere da compiere, tenere a vile il bisogno e la miseria di questa terra, e similmente la terrena prosperità, pur sollevando miserie e bisogni di ogni genere; levare la fronte al cielo nel coraggio che viene dalla fede, e lavorare con cuore, con la mano e con la voce per i fratelli di questa terra”[4].
Che cos’è che la teologia dialettica, succeduta a quella liberale dopo la prima guerra mondiale, ha da rimproverare a questa visione liberale? Soprattutto il suo punto di partenza, la sua idea del regno dei cieli. Per i liberali esso è di natura essenzialmente etica; è un sublime ideale morale, che ha come fondamenti la paternità di Dio e il valore infinito di ogni anima; per i teologi dialettici (K. Barth, R. Bultmann, M. Dibelius), esso è di natura escatologica; è un intervento sovrano e gratuito di Dio, che non si propone di cambiare il mondo, quanto di denunciare il suo assetto attuale (“critica radicale”), annunciarne la fine imminente (“escatologia conseguente”), lanciando l’appello alla conversione (“imperativo radicale”).
Il carattere di attualità del vangelo consiste nel fatto che “tutto ciò che viene richiesto non viene richiesto in generale, da tutti e per tutti i tempi, ma da quest’uomo e forse da lui solo, in questo momento e forse solo in questo momento; e viene richiesto non sulla base di un principio etico, ma a causa della situazione di decisione in cui Dio ha posto lui e forse lui soltanto ora e qui”[5]. L’influsso del vangelo nel sociale avviene attraverso il singolo, non attraverso la comunità o l’istituzione ecclesiale.
La situazione che interpella il credente in Cristo oggi è quella creata dalla rivoluzione industriale con le mutazioni che ha portato al ritmo della vita e del lavoro, con conseguente disprezzo della persona umana. Di fronte ad essa non si danno soluzioni “cristiane”, ogni credente è chiamato a rispondere ad essa sotto la propria responsabilità, nell’obbedienza all’appello che Dio gli fa giungere nella situazione concreta in cui vive, anche se trova un criterio di fondo nel precetto dell’amore del prossimo. Non deve rassegnarsi pessimisticamente davanti alle situazioni, ma neppure farsi illusione sul cambiamento del mondo.
Si può ancora parlare, in questa prospettiva, di una rilevanza sociale del vangelo? Si, ma solo di metodo, non di contenuto. Mi spiego. Questa visione riduce il significato sociale del vangelo a un significato “formale”, escludendo ogni significato “reale”, o di contenuto. In altre parole, il vangelo da il metodo, o l’impulso, per un retto atteggiamento e un retto agire cristiano nel sociale, non altro.
Qui è il punto debole di questa visione. Perché attribuire ai racconti e alle parabole evangeliche un significato solamente formale (“come accogliere l’appello alla decisione che viene a me, ora e qui”) e non anche un significato reale ed esemplare. È lecito, per esempio, a proposito della parabola del ricco epulone, ignorare le indicazioni concrete e chiare ivi contenute circa l’uso e l’abuso della ricchezza, il lusso, il disprezzo del povero, per attenersi solo a “l’imperativo dell’ora” che risuona attraverso la parabola? Non è per lo meno strano che Gesù intendesse dire semplicemente che lì, davanti a lui, occorreva decidersi per Dio e che, per dire questo, abbia messo in piedi un così complesso e dettagliato racconto che svierebbe, anziché concentrare, l’attenzione dal centro dell’interesse?
Una tale soluzione che scarnifica il messaggio di Cristo muove dal presupposto sbagliato che non vi siano delle esigenze comuni nella parola di Dio che si pongono al ricco di oggi, come si ponevano al ricco – e al povero – del tempo di Gesù. Quasi che la decisione chiesta da Dio fosse qualcosa di vuoto e di astratto – un puro decidersi – e non un decidersi su qualcosa. Tutte le parabole a sfondo sociale vengono definite “parabole del regno” e così il loro contenuto è appiattito su un unico significato, quello escatologico.
4. La dottrina sociale della Chiesa
La dottrina sociale della Chiesa cattolica, come sempre, cerca la sintesi più che la contrapposizione, il metodo dell’ et – et, anziché dell’aut – aut. Essa mantiene al vangelo la sua “doppia illuminazione”: quella escatologica e quella morale. In altre parole: è d’accordo con la teologia dialettica sul fatto che il regno di Dio predicato da Cristo non è di natura essenzialmente etica, cioè un ideale che trae la sua forza dalla universale validità e perfezione dei suoi principi, ma è una iniziativa nuova e gratuita di Dio che, con Cristo, fa irruzione dall’alto.
Si distacca invece dalla visione dialettica nel modo di concepire il rapporto tra questo regno di Dio e il mondo. Tra i due non c’è solo opposizione e inconciliabilità, come non c’è opposizione tra l’opera della creazione e quella della redenzione e come – abbiamo visto nella prima meditazione – non c’è opposizione tra agape ed eros. Gesù ha paragonato il regno di Dio al lievito posto nella massa per farla fermentare, al seme gettato in terra, al sale che da sapore ai cibi; dice di non essere venuto a giudicare il mondo, ma a salvare il mondo. Questo consente di vedere l’influsso del vangelo nel sociale in una luce diversa e molto più positiva.
Ci sono, però, nonostante tutte le differenze di impostazione, alcune conclusioni comuni che emergono da tutta la riflessione teologica sul rapporto tra il vangelo e il sociale. Le possiamo riassumere così. Il vangelo non fornisce soluzioni dirette ai problemi sociali (guai, abbiamo visto, se avesse tentato di farlo!); contiene però dei principi che si prestano a elaborare risposte concrete alle diverse situazione storiche. Siccome le situazioni e i problemi sociali cambiano di epoca in epoca, il cristiano è chiamato a incarnare di volta in volta i principi del vangelo nella situazione del momento.
L’apporto delle encicliche sociali dei papi è precisamente questo. Perciò esse si susseguono, riprendendo ognuna il discorso dal punto in cui l’hanno lasciato le precedenti (nel caso dell’enciclica di Benedetto XVI, dalla “Populorum progressio” di Paolo VI) e lo aggiornano in base alle istanze nuove emerse in una società (in questo caso, il fenomeno della globalizzazione) e anche in base a una interrogazione sempre nuova della parola di Dio.
Il titolo dell’enciclica sociale di Benedetto XVI, “ Caritas in veritate”, indica quali sono, in questo caso, i fondamenti biblici su cui si intende fondare il discorso sul significato sociale del vangelo: la carità e la verità. “La verità – scrive – preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia[…]. Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali”[6].
La diversità non sta solo nelle cose dette e nelle soluzioni proposte, ma anche nel genere adottato e nell’autorità della proposta. Consiste, in altre parole, nel passaggio dalla libera discussione teologica al magistero e da un intervento nel sociale di natura esclusivamente “individuale” (come quello proposto dalla teologia dialettica) a un intervento comunitario, come Chiesa e non solo come individui.
5. La nostra parte
Terminiamo con uno spunto pratico che interpella tutti, anche quelli tra noi che non sono chiamati a operare direttamente nel sociale. Abbiamo visto l’idea che aveva Nietzsche della rilevanza sociale del vangelo. Esso era, sì, per lui il frutto di una rivoluzione, ma una rivoluzione in negativo, una involuzione rispetto alla grecità; era la rivincita dei deboli contro i forti. Uno dei punti da lui più presi di mira era la preferenza data al servire sul dominare, al farsi piccoli sul volere emergere e aspirare a cose grandi.
Egli accusava il cristianesimo per uno dei doni più belli che aveva fatto al mondo. Uno dei principi con i quali il vangelo maggiormente e più beneficamente influisce sul sociale è infatti proprio quello del servizio. Non per nulla esso occupa un posto importante nella dottrina sociale della Chiesa. Gesù ha fatto del servizio uno dei cardini del suo insegnamento, (Lc 22,25); lui stesso dice di essere venuto per servire e non per essere servito (Mc 10,45).
Il servizio è un principio universale; si applica a ogni aspetto della vita: lo stato dovrebbe essere a servizio dei cittadini, il politico a servizio dello stato, il medico a servizio dei malati, l’insegnante a servizio degli alunni…Si applica però in maniera tutta speciale ai servitori della Chiesa. Il servizio non è, in sé stesso, una virtù (in nessun catalogo delle virtù, o dei frutti dello Spirito, si menziona nel Nuovo Testamento, la diakonia), ma scaturisce da diverse virtù, soprattutto dall’umiltà e dalla carità. E’ un modo di manifestarsi di quell’amore che “non cerca il proprio interesse, ma anche quello degli altri” (Fil 2,4), che dona senza cercare il contraccambio.
Il servizio evangelico, all’opposto di quello del mondo, non è proprio dell’inferiore, del bisognoso, ma piuttosto del superiore, di chi è posto in alto. Gesù dice che, nella sua Chiesa, è soprattutto “chi governa” che deve essere “come colui che serve” (Lc 22, 26), il primo deve essere ”il servo di tutti” (Mc 10,44). Ci stiamo preparando alla beatificazione di Giovanni Paolo II. Nel suo libro Dono e mistero, egli esprime con un’immagine forte questo significato dell’autorità nella Chiesa. Si tratta di alcuni versi da lui composti a Roma al tempo del concilio:
“Sei tu, Pietro. Vuoi essere qui il Pavimento
su cui camminano gli altri… per giungere là
dove guidi i loro passi
- come la roccia sostiene lo zoccolare di un gregge”.
Terminiamo ascoltando come rivolte a noi ora e qui le parole che Gesù disse ai suoi discepoli subito dopo aver loro lavato i piedi: “Capite quello che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io” (Gv 13 12-15).

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1) A. von Harnack, Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten drei Jahrhunderten, Lipsia 1902.
2) S. Gregorio Magno, Commento a Giobbe, XX,1 (CCL 143°,p.1003).
3) A. von Harnack, Das Wesen des Christentums, Lipsia 1900. Trad. ital. L’essenza del cristianesimo, Brescia, Queriniana 1980.
4) A. von Harnack, Il cristianesimo e la società, Mendrisio 1911, pp. 12-15.
5) M. Dibelius, Das soziale Motiv im Neuen Testament, in Botschaft und Geschichte, Tubinga 1953, pp. 178-203.
6) Benedetto XVI, “Caritas in veritate”, n. 5.
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Terza predica di quaresima di Padre Raniero Cantalamessa: « La carità sia senza finzione »

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TERZA PREDICA DI QUARESIMA DI PADRE RANIERO CANTALAMESSA

« La carità sia senza finzione »

ROMA, venerdì, 8 aprile 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della terza predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, pronunciata questo venerdì mattina nella Cappella “Redemptoris Mater” alla presenza di Papa Benedetto XVI.
Il tema delle meditazioni quaresimali è “Al di sopra di tutto vi sia la carità” (Colossesi 3, 14).
La due prediche precedenti hanno avuto luogo il 25 marzo, e il 1° aprile.

* * *
1. Amerai il prossimo tuo come te stesso
È stato notato un fatto. Il fiume Giordano, nel suo corso, forma due mari: il mare di Galilea e il mar Morto, ma mentre il mare di Galilea è un mare brulicante di vita, tra le acque più pescose della terra, il mar Morto è appunto un mare “morto”, non c’è traccia di vita in esso e intorno ad esso, solo salsedine. Eppure si tratta della stessa acqua del Giordano. La spiegazione, almeno in parte, è questa: il mare di Galilea riceve le acque del Giordano, ma non le trattiene per se, le fa defluire in modo che esse possano irrigare tutta la valle del Giordano.
Il mar Morto riceve le acque e le trattiene per se, non ha emissari, da esso non esce una goccia d’acqua. È un simbolo. Per riceve amore da Dio, dobbiamo darne ai fratelli e più ne diamo, più ne riceviamo. È su questo che vogliamo riflettere in questa meditazione.
Dopo aver riflettuto nelle prime due meditazioni sull’amore di Dio come dono, è venuto il momento di meditare anche sul dovere di amare, e in particolare sul dovere di amare il prossimo. Il legame tra i due amori è espresso in maniera programmatica dalla parola di Dio: “Se Dio ci ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Gv 4,11).
“Amerai il prossimo tuo come te stesso” era un comandamento antico, scritto nella legge di Mosè (Lev 19,18) e Gesù stesso lo cita come tale (Lc 10, 27). Come mai dunque Gesù lo chiama il “suo” comandamento e il comandamento “nuovo”? La risposta è che con lui sono cambiati l’oggetto, il soggetto e il motivo dell’amore del prossimo.
È cambiato anzitutto l’oggetto, cioè chi è il prossimo da amare. Esso non è più solo il connazionale, o al massimo l’ospite che abita con il popolo, ma ogni uomo, anche lo straniero (il Samaritano!), anche il nemico. È vero che la seconda parte della frase “Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico” non si trova alla lettera nell’Antico Testamento, ma essa ne riassume l’orientamento generale, espresso nella legge del taglione “occhio per occhio, dente per dente” (Lev 24,20), soprattutto se messo in confronto con ciò che Gesù esige dai suoi:
“Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete? Non fanno lo stesso anche i pubblicani?  E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno anche i pagani altrettanto?” (Mt 5, 44-47).
È cambiato anche il soggetto dell’amore del prossimo, cioè il significato della parola prossimo. Esso non è l’altro; sono io; non è colui che sta vicino, ma colui che si fa vicino. Con la parabola del buon samaritano Gesù dimostra che non bisogna attendere passivamente che il prossimo spunti sulla mia strada, con tanto di segnalazione luminosa, a sirene spiegate. Il prossimo sei tu, cioè colui che tu puoi diventare. Il prossimo non esiste in partenza, si avrà un prossimo solo se si diventa prossimo di qualcuno.
È cambiato soprattutto il modello o la misura dell’amore del prossimo. Fino a Gesù il modello era l’amore di se stessi: “come te stesso”. È stato detto che Dio non poteva assicurare l’amore del prossimo a un “piolo” meglio confitto di questo; non avrebbe ottenuto lo stesso scopo neppure se avesse detto: “Amerai il prossimo tuo come il tuo Dio!”, perché sull’amore di Dio – cioè, su cos’è amare Dio – l’uomo può ancora barare, ma sull’amore di sé, no. L’uomo sa benissimo cosa significa, in ogni circostanza, amare se stesso; è uno specchio che ha sempre davanti a sé, non lascia scappatoie[1].
E invece una scappatoia la lascia ed è per questo che Gesù sostituisce ad esso un altro modello e un’altra misura: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12). L’uomo può amare se stesso in modo sbagliato, cioè desiderare il male, non il bene, amare il vizio, non la virtù. Se un simile uomo ama gli altri come se stesso e vuole per gli altri le cose che vuole per se stesso, poveretta la persona che è amata così! Sappiamo invece dove ci porta l’amore di Gesù: alla verità, al bene, al Padre. Chi segue lui “non cammina nelle tenebre”. Egli ci ha amato dando la vita per noi, quando eravamo peccatori, cioè nemici (Rom 5, 6 ss).
Si capisce in questo modo cosa vuol dire l’evangelista Giovanni con la sua affermazione apparentemente contraddittoria: “Carissimi, non vi scrivo un comandamento nuovo, ma un comandamento vecchio che avevate fin da principio: il comandamento vecchio è la parola che avete udita. E tuttavia è un comandamento nuovo che io vi scrivo” (1 Gv 2, 7-8). Il comandamento dell’amore del prossimo è “antico” nella lettera, ma “nuovo” della novità stessa del vangelo. Nuovo – spiega il papa in un capitolo del suo nuovo libro su Gesù – perché non è più solo “legge”, ma anche, e prima ancora, “grazia”. Si fonda sulla comunione con Cristo, resa possibile dal dono dello Spirito.[2]
Con Gesù si passa dalla legge del contrappasso, o tra due attori: “Quello che l’altro fa a te, tu fallo a lui”, alla legge del trapasso, o a tre attori: “Quello che Dio ha fatto a te, tu fallo all’altro”, o, partendo dalla direzione opposta: “Quello che tu avrai fatto con l’altro, è quello che Dio farà con te”. Non si contano le parole di Gesù e degli apostoli che ripetono questo concetto: “Come Dio ha perdonato voi, così perdonatevi gli uni gli altri”: “Se non perdonerete di cuore ai vostri nemici, neppure il padre vostro perdonerà a voi”. È tagliata alla radice la scusa: “Ma lui non mi ama, mi offende…”.Questo riguarda lui, non te. A te deve interessare solo quello che fai all’altro e come ti comporti di fronte a quello che l’altro fa a te.
Resta sospesa la domanda principale: perché questo singolare dirottamento dell’amore da Dio al prossimo? Non sarebbe più logico aspettarsi: “Come io ho amato voi, così voi amate me”?, anziché: “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri”? Qui sta la differenza tra l’amore puramente di eros e l’amore di eros e agape insieme. L’amore puramente erotico è a circuito chiuso: “Amami, Alfredo, amami quant’io t’amo”: così canta Violetta nella Traviata di Verdi: io amo te, tu ami me. L’amore di agape è a circuito aperto: viene da Dio e torna a lui, ma passando per il prossimo. Gesù ha inaugurato lui stesso questo nuovo genere di amore: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (Gv 15, 9).
Santa Caterina da Siena ha dato, del motivo di ciò, la spiegazione più semplice e convincente. Ella fa dire a Dio:
“Io vi chiedo di amarmi con lo stesso amore con cui io amo voi. Questo non lo potete fare a me, perché io vi amai senza essere amato. Tutto l’amore che avete per me è un amore di debito, non di grazia, in quanto siete tenuti a farlo, mentre io vi amo con amore di grazia, non di debito. Voi non potete dunque rendere a me l’amore che io richiedo. Per questo vi ho messo accanto il vostro prossimo: affinché facciate ad esso quello che non potete fare a me, cioè di amarlo senza considerazione di merito e senza aspettarvi alcuna utilità. E io reputo che facciate a me quello che fate ad esso”[3].
2. Amatevi di vero cuore
Dopo queste riflessioni generali sul comandamento dell’amore del prossimo, è venuto il momento di parlare della qualità che deve rivestire questo amore. Esse sono fondamentalmente due: esso deve essere un amore sincero e un amore fattivo, un amore del cuore e un amore, per così dire, delle mani. Questa volta ci soffermiamo sulla prima qualità e lo facciamo lasciandoci guidare dal grande cantore della carità che è Paolo.
La seconda parte della Lettera ai Romani è tutto un susseguirsi di raccomandazioni circa l’amore vicendevole all’interno della comunità cristiana: “La carità non abbia finzioni [...]; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda…” (Rm 12, 9 ss). “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole, perché chi ama il suo simile ha adempiuto alla legge” (Rm 13, 8).
Per cogliere l’anima che unifica tutte queste raccomandazioni, l’idea di fondo, o, meglio, il “sentimento” che Paolo ha della carità bisogna partire da quella parola iniziale: “La carità non abbia finzioni!” Essa non è una delle tante esortazioni, ma la matrice da cui derivano tutte le altre. Contiene il segreto della carità. Cerchiamo di cogliere, con l’aiuto dello Spirito, tale segreto.
Il termine originale usato da san Paolo e che viene tradotto “senza finzioni”, è anhypòkritos, cioè senza ipocrisia. Questo vocabolo è una specie di luce-spia; è, infatti, un termine raro che troviamo impiegato, nel Nuovo Testamento, quasi esclusivamente per definire l’amore cristiano. L’espressione “amore sincero” (anhypòkritos) ritorna ancora in 2 Corinzi 6, 6 e in 1 Pietro 1, 22. Quest’ultimo testo permette di cogliere, con tutta certezza, il significato del termine in questione, perché lo spiega con una perifrasi; l’amore sincero – dice – consiste nell’amarsi intensamente “di vero cuore”.
San Paolo, dunque, con quella semplice affermazione: “la carità sia senza finzioni!”, porta il discorso alla radice stessa della carità, al cuore. Quello che si richiede dall’amore è che sia vero, autentico, non finto. Come il vino, per essere “sincero”, deve essere spremuto dall’uva, così l’amore dal cuore. Anche in ciò l’Apostolo è l’eco fedele del pensiero di Gesù; egli, infatti, aveva indicato, ripetutamente e con forza, il cuore, come il “luogo” in cui si decide il valore di ciò che l’uomo fa, ciò che è puro, o impuro, nella vita di una persona (Mt 15, 19).
Possiamo parlare di un’intuizione paolina, a riguardo della carità; essa consiste nel rivelare, dietro l’universo visibile ed esteriore della carità, fatto di opere e di parole, un altro universo tutto interiore, che è, nei confronti del primo, ciò che è l’anima per il corpo. Ritroviamo questa intuizione nell’altro grande testo sulla carità, che è 1 Corinzi 13. Ciò che san Paolo dice lì, a osservare bene, si riferisce tutto a questa carità interiore, alle disposizioni e ai sentimenti di carità: la carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si adira, tutto copre, tutto crede, tutto spera… Nulla che riguardi, per sé e direttamente, il fare del bene, o le opere di carità, ma tutto è ricondotto alla radice del volere bene. La benevolenza viene prima della beneficenza.
È l’Apostolo stesso che esplicita la differenza tra le due sfere della carità, dicendo che il più grande atto di carità esteriore – il distribuire ai poveri tutte le proprie sostanze – non gioverebbe a nulla, senza la carità interiore (cf. 1 Cor 13, 3). Sarebbe l’opposto della carità “sincera”. La carità ipocrita, infatti, è proprio quella che fa del bene, senza voler bene, che mostra all’esterno qualcosa che non ha un corrispettivo nel cuore. In questo caso, si ha una parvenza di carità, che può, al limite, nascondere egoismo, ricerca di sé, strumentalizzazione del fratello, o anche semplice rimorso di coscienza.
Sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro carità del cuore e carità dei fatti, o rifugiarsi nella carità interiore, per trovare in essa una specie di alibi alla mancanza di carità fattiva. Del resto, dire che, senza la carità, “a niente mi giova” anche il dare tutto ai poveri, non significa dire che ciò non serve a nessuno e che è inutile; significa piuttosto dire che non giova “a me”, mentre può giovare al povero che la riceve. Non si tratta, dunque, di attenuare l’importanza delle opere di carità (lo vedremo, dicevo, la prossima volta), quanto di assicurare a esse un fondamento sicuro contro l’egoismo e le sue infinite astuzie. San Paolo vuole che i cristiani siano “radicati e fondati nella carità” (Ef 3, 17), cioè che l’amore sia la radice e il fondamento di tutto.
Amare sinceramente significa amare a questa profondità, là dove non puoi più mentire, perché sei solo davanti a te stesso, solo davanti allo specchio della tua coscienza, sotto lo sguardo di Dio. “Ama il fratello –scrive Agostino – colui che, davanti a Dio, là dove egli solo vede, rassicura il suo cuore e si chiede nell’intimo se veramente agisce così per amore del fratello; e quell’occhio che penetra nel cuore, là dove l’uomo non può giungere, gli rende testimonianza”[4]. Era amore sincero perciò quello di Paolo per gli ebrei se poteva dire: “Dico la verità in Cristo, non mento; poiché la mia coscienza me lo conferma per mezzo dello Spirito Santo ho una grande tristezza e una sofferenza continua nel mio cuore; io stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne” (Rom 9,1-3).
Per essere genuina, la carità cristiana deve, dunque, partire dall’interiore, dal cuore; le opere di misericordia dalle “viscere di misericordia” (Col 3, 12). Tuttavia, dobbiamo subito precisare che qui si tratta di qualcosa di molto più radicale della semplice “interiorizzazione”, cioè di uno spostare l’accento dalla pratica esteriore della carità alla pratica interiore. Questo è solo il primo passo. L’interiorizzazione approda alla divinizzazione! Il cristiano – diceva san Pietro – è colui che ama “di vero cuore”: ma con quale cuore? Con “il cuore nuovo e lo Spirito nuovo” ricevuto nel battesimo!
Quando un cristiano ama così, è Dio che ama attraverso di lui; egli diventa un canale dell’amore di Dio. Avviene come per la consolazione che altro non è se non una modalità dell’amore: “Dio ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor 1, 4). Noi consoliamo con la consolazione con cui siamo consolati da Dio, amiamo con l’amore con cui siamo amati da Dio. Non con uno diverso. Questo spiega la risonanza, apparentemente sproporzionata, che ha talvolta un semplicissimo atto di amore, spesso perfino nascosto, la speranza e la luce che crea all’intorno.
3. La carità edifica
Quando si parla della carità negli scritti apostolici, non se ne parla mai in astratto, in modo generico. Lo sfondo è sempre l’edificazione della comunità cristiana. In altre parole, il primo ambito di esercizio della carità deve essere la Chiesa e più concretamente ancora la comunità in cui si vive, le persone con cui si hanno relazioni quotidiane. Così deve avvenire anche oggi, in particolare nel cuore della Chiesa, tra coloro che lavorano a stretto contatto con il Sommo Pontefice.
Per un certo tempo nell’antichità si usò designare con il termine carità, agape, non solo il pasto fraterno che i cristiani prendevano insieme, ma anche l’intera Chiesa[5]. Il martire sant’Ignazio di Antiochia saluta la Chiesa di Roma come quella che “che presiede alla carità (agape)”, cioè alla “fraternità cristiana”, all’insieme di tutte le chiese[6]. Questa frase non afferma solo il fatto del primato, ma anche la sua natura, o il modo di esercitarlo: cioè nella carità.
La Chiesa ha urgente bisogno di una vampata di carità che risani le sue fratture. In un suo discorso Paolo VI diceva: “La Chiesa ha bisogno di sentire rifluire per tutte le sue umane facoltà l’onda dell’amore, di quell’amore che si chiama carità, e che appunto è diffusa nei nostri cuori proprio dallo Spirito Santo che a noi è stato dato” [7]. Solo l’amore guarisce. È l’olio del samaritano. Olio anche perché deve galleggiare al di sopra di tutto come fa appunto l’olio rispetto ai liquidi. “Al di sopra di tutto vi sia la carità che è il vincolo della perfezione” (Col 3, 14). Al di sopra di tutto, super omnia! Dunque anche della fede e della speranza, della disciplina, dell’autorità, anche se, evidentemente, la stessa disciplina e autorità può essere un’espressione della carità. Non c’è unità senza la carità e, se ci fosse, sarebbe solo un’unità di poco valore per Dio.
Un ambito importante su cui lavorare è quello dei giudizi reciproci. Paolo scriveva ai Romani: “Perché giudichi il tuo fratello? Perché disprezzi il tuo fratello?… Cessiamo dunque dal giudicarci gli uni gli altri” (Rm 14, 10.13). Prima di lui Gesù aveva detto: “Non giudicate, per non essere giudicati. [...] Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?” (Mt 7, 1-3). Paragona il peccato del prossimo (il peccato giudicato), qualunque esso sia, a una pagliuzza, in confronto al peccato di colui che giudica (il peccato di giudicare) che è una trave. La trave è il fatto stesso di giudicare, tanto esso è grave agli occhi di Dio.
Il discorso sui giudizi è certamente delicato e complesso e non si può lasciare a metà, senza che appaia subito poco realistico. Come si fa, infatti, a vivere del tutto senza giudicare? Il giudizio è implicito in noi perfino in uno sguardo. Non possiamo osservare, ascoltare, vivere, senza dare delle valutazioni, cioè senza giudicare. Un genitore, un superiore, un confessore, un giudice, chiunque ha una qualche responsabilità su altri, deve giudicare. Talvolta, anzi, come è il caso di molti qui in Curia, il giudicare è, appunto, il tipo di servizio che uno è chiamato a prestare alla società o alla Chiesa.
Difatti, non è tanto il giudizio che si deve togliere dal nostro cuore, quanto il veleno dal nostro giudizio! Cioè l’astio, la condanna. Nella redazione di Luca, il comando di Gesù: “Non giudicate e non sarete giudicati” è seguito immediatamente, come per esplicitare il senso di queste parole, dal comando: “Non condannate e non sarete condannati” (Lc 6, 37). Per sé, il giudicare è un’azione neutrale, il giudizio può terminare sia in condanna che in assoluzione e in giustificazione. Sono i giudizi negativi che vengono ripresi e banditi dalla parola di Dio, quelli che insieme con il peccato condannano anche il peccatore, quelli che mirano più alla punizione che alla correzione del fratello.
Un altro punto qualificante della carità sincera è la stima: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12, 10). Per stimare il fratello, bisogna non stimare troppo se stessi, non essere sempre sicuri di sé; bisogna – dice l’Apostolo – “non farsi un’idea troppo alta di se stessi” (Rm 12, 3). Chi ha un’idea troppo alta di se stesso è come un uomo che, di notte, tiene davanti agli occhi una fonte di luce intensa: non riesce a vedere nient’altro al di là di essa; non riesce a vedere le luci dei fratelli, i loro pregi e i loro valori.
“Minimizzare” deve diventare il nostro verbo preferito, nei rapporti con gli altri: minimizzare i nostri pregi e i difetti altrui. Non minimizzare i nostri difetti e i pregi altrui, come, invece, siamo portati a fare spesso, che è la cosa diametralmente opposta! C’è una favola di Esopo al riguardo; nella rielaborazione che ne fa La Fontaine suona così:
“Quando viene in questa valle
porta ognuno sulle spalle
una duplice bisaccia.
Dentro a quella che sta innanzi
volentieri ognun di noi
i difetti altrui vi caccia,
e nell’altra mette i suoi”[8].
Dovremmo semplicemente rovesciare le cose: mettere i nostri difetti sulla bisaccia che abbiamo davanti e i difetti degli altri su quella di dietro. San Giacomo ammonisce: “Non sparlate gli uni degli altri” (Gc 4,11). Il pettegolezzo ha cambiato nome, si chiama gossip e sembra diventato una cosa innocente, invece è una delle cose che più inquinano il vivere insieme. Non basta non sparlare degli altri; bisogna anche impedire che altri lo facciano in nostra presenza, far loro capire, magari silenziosamente, che non si è d’accordo. Che aria diversa si respira in un ambiente di lavoro e in una comunità quando si prende sul serio l’ammonizione di san Giacomo! In molti locali pubblici una volta c’era la scritta: “Qui non si fuma”, o anche “Qui non si bestemmia”. Non sarebbe male sostituirle, in alcuni casi, con la scritta: “Qui non si fa pettegolezzo!”
Terminiamo ascoltando come rivolta a noi l’esortazione dell’Apostolo alla comunità di Filippi da lui tanto amata: “Rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento.  Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri.  Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 2-5).

————
1) Cf. S. Kierkegaard, Gli atti dell’amore, Milano, Rusconi, 1983, p. 163.
2) Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II Parte, Libreria Editrice Vaticana 2011, pp. 76 s.
3) S. Caterina da Siena, Dialogo 64.
4) S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 6,2 (PL 35, 2020).
5) Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961, p. 8
6) S. Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Romani, saluto iniziale.
7) Discorso all’udienza generale del 29 Novembre 1972 (Insegnamenti di Paolo VI, Tipografia Poliglotta Vaticana, X, pp. 1210s.).
8) J. de La Fontaine, Favole, I, 7
| Mor

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Achillea x lewisii ‘King Edward’

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Omelia (15-04-2011)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/22126.html

Omelia (15-04-2011)

Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
Se non compio le opere del Padre mio non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre.

Come vivere questa Parola?
Il fuoco dell’odio divampa sempre più allo scoperto. Qui gli oppositori di Gesù hanno già portato le pietre per lapidarlo. Sembra di cogliere nello sguardo del Signore il guizzo della sottile ironia che pure è nella sua domanda: « Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio; per quale di esse mi volete lapidare? » Essi però vengono ancora recriminando. La grande accusa è in ordine al loro pieno accecamento. Secondo loro quel Gesù che si dice Figlio di Dio bestemmia: « perché tu che sei uomo, ti fai Dio » – gli gridano in faccia. Invece il mistero è proprio l’opposto. Avrebbero dovuto cadere in ginocchio e, aprendo gli occhi accecati, proclamare: « Tu, che sei Dio, ti fai uomo per nostro amore ». Alla loro protervia Gesù oppone l’argomento delle opere che viene compiendo: quelle opere sono talmente del Padre da fargli dire che il Padre è in Lui e Lui nel Padre. E che cosa sono le opere del Padre attraverso Gesù, se non verità, giustizia, misericordia, guarigione, ogni bontà e risurrezione?

Oggi, nella mia pausa contemplativa, mi lascio interpellare nel profondo da queste parole. La credibilità di Gesù non furono solo le sue parole ma più ancora le sue opere, il suo agire. E io sono credibile, cioè ispiro fiducia come uomo, come donna come cristiano/a? Oppure c’è qualche dissociazione tra quello che professo di essere e quello che di fatto sono e opero?

Signore Gesù, ti prego, per i misteri che stiamo per commemorare, fa’ che vinca ogni incoerenza perché, abitato dal Padre da Te dallo Spirito Santo, io operi con voi il bene, e non scivoli nell’incoerenza, nel male.

La voce di una testimone
Voglio quello che vuoi tu, senza chiedermi se posso, senza chiedermi se mi piace, senza chidermi se lo voglio.

Madaleine Delbrêl

Tutti i Santi icona greca 1700 ca.

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http://www.webalice.it/giovanni.fabriani/icone/testi/feste_mobili.htm

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CATECHESI DI BENEDETTO XVI SULLA CHIAMATA ALLA SANTITÀ

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26315?l=italian
 
CATECHESI DI BENEDETTO XVI SULLA CHIAMATA ALLA SANTITÀ

In occasione dell’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 6 aprile 2011 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito la meditazione sulla santità a cui ogni cristiano è chiamato, tenuta questo mercoledì da Papa Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro.

* * *
Cari fratelli e sorelle,
nelle Udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti Santi e Sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I Santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo « non vivo più io, ma Cristo vive in me » (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, « ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla Fonte e dal Capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del Popolo di Dio » (Conc. Ec. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium 50). Al termine di questo ciclo di catechesi, vorrei allora offrire qualche pensiero su che cosa sia la santità.
Che cosa vuol dire essere santi? Chi è chiamato ad essere santo? Spesso si è portati ancora a pensare che la santità sia una meta riservata a pochi eletti. San Paolo, invece, parla del grande disegno di Dio e afferma: « In lui – Cristo – (Dio) ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità » (Ef 1,4). E parla di noi tutti. Al centro del disegno divino c’è Cristo, nel quale Dio mostra il suo Volto: il Mistero nascosto nei secoli si è rivelato in pienezza nel Verbo fatto carne. E Paolo poi dice: « E’ piaciuto infatti a Dio che abiti in Lui tutta la pienezza » (Col 1,19). In Cristo il Dio vivente si è fatto vicino, visibile, ascoltabile, toccabile affinché ognuno possa attingere dalla sua pienezza di grazia e di verità (cfr Gv 1,14-16). Perciò, tutta l’esistenza cristiana conosce un’unica suprema legge, quella che san Paolo esprime in una formula che ricorre in tutti i suoi scritti: in Cristo Gesù. La santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua. E’ l’essere conformi a Gesù, come afferma san Paolo: « Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo » (Rm 8,29). E sant’Agostino esclama: « Viva sarà la mia vita tutta piena di Te » (Confessioni, 10,28). Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Chiesa, parla con chiarezza della chiamata universale alla santità, affermando che nessuno ne è escluso: « Nei vari generi di vita e nelle varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e … seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria » (n. 41).
Ma rimane la questione: come possiamo percorrere la strada della santità, rispondere a questa chiamata? Posso farlo con le mie forze? La risposta è chiara: una vita santa non è frutto principalmente del nostro sforzo, delle nostre azioni, perché è Dio, il tre volte Santo (cfr Is 6,3), che ci rende santi, è l’azione dello Spirito Santo che ci anima dal di dentro, è la vita stessa di Cristo Risorto che ci è comunicata e che ci trasforma. Per dirlo ancora una volta con il Concilio Vaticano II: « I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta » (ibid., 40). La santità ha dunque la sua radice ultima nella grazia battesimale, nell’essere innestati nel Mistero pasquale di Cristo, con cui ci viene comunicato il suo Spirito, la sua vita di Risorto. San Paolo sottolinea in modo molto forte la trasformazione che opera nell’uomo la grazia battesimale e arriva a coniare una terminologia nuova, forgiata con la preposizione « con »: con-morti, con-sepolti, con-risucitati, con-vivificati con Cristo; il nostro destino è legato indissolubilmente al suo. « Per mezzo del battesimo – scrive – siamo stati sepolti insieme con lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti… così anche noi possiamo camminare in una vita nuova » (Rm 6,4). Ma Dio rispetta sempre la nostra libertà e chiede che accettiamo questo dono e viviamo le esigenze che esso comporta, chiede che ci lasciamo trasformare dall’azione dello Spirito Santo, conformando la nostra volontà alla volontà di Dio.
Come può avvenire che il nostro modo di pensare e le nostre azioni diventino il pensare e l’agire con Cristo e di Cristo? Qual è l’anima della santità? Di nuovo il Concilio Vaticano II precisa; ci dice che la santità cristiana non è altro che la carità pienamente vissuta. « «Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16). Ora, Dio ha largamente diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Lui. Ma perché la carità, come un buon seme, cresca nell’anima e vi fruttifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e, con l’aiuto della sua grazia, compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’Eucaristia e alla santa liturgia; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, al servizio attivo dei fratelli e all’esercizio di ogni virtù. La carità infatti, vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr Col 3,14; Rm 13,10), dirige tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Forse anche questo linguaggio del Concilio Vaticano II per noi è ancora un po’ troppo solenne, forse dobbiamo dire le cose in modo ancora più semplice. Che cosa è essenziale? Essenziale è non lasciare mai una domenica senza un incontro con il Cristo Risorto nell’Eucaristia; questo non è un peso aggiunto, ma è luce per tutta la settimana. Non cominciare e non finire mai un giorno senza almeno un breve contatto con Dio. E, nella strada della nostra vita, seguire gli « indicatori stradali » che Dio ci ha comunicato nel Decalogo letto con Cristo, che è semplicemente l’esplicitazione di che cosa sia carità in determinate situazioni. Mi sembra che questa sia la vera semplicità e grandezza della vita di santità: l’incontro col Risorto la domenica; il contatto con Dio all’inizio e alla fine del giorno; seguire, nelle decisioni, gli « indicatori stradali » che Dio ci ha comunicato, che sono solo forme di carità. Perciò il vero discepolo di Cristo si caratterizza per la carità verso Dio e verso il prossimo » (Lumen gentium, 42). Questa è la vera semplicità, grandezza e profondità della vita cristiana, dell’essere santi.
Ecco perché sant’Agostino, commentando il capitolo quarto della Prima Lettera di san Giovanni, può affermare una cosa coraggiosa: « Dilige et fac quod vis », « Ama e fa’ ciò che vuoi ». E continua: « Sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; vi sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene » (7,8: PL 35). Chi è guidato dall’amore, chi vive la carità pienamente è guidato da Dio, perché Dio è amore. Così vale questa parola grande: « Dilige et fac quod vis », « Ama e fa’ ciò che vuoi ».
Forse potremmo chiederci: possiamo noi, con i nostri limiti, con la nostra debolezza, tendere così in alto? La Chiesa, durante l’Anno Liturgico, ci invita a fare memoria di una schiera di Santi, di coloro, cioè, che hanno vissuto pienamente la carità, hanno saputo amare e seguire Cristo nella loro vita quotidiana. Essi ci dicono che è possibile per tutti percorrere questa strada. In ogni epoca della storia della Chiesa, ad ogni latitudine della geografia del mondo, i Santi appartengono a tutte le età e ad ogni stato di vita, sono volti concreti di ogni popolo, lingua e nazione. E sono tipi molto diversi. In realtà devo dire che anche per la mia fede personale molti santi, non tutti, sono vere stelle nel firmamento della storia. E vorrei aggiungere che per me non solo alcuni grandi santi che amo e che conosco bene sono « indicatori di strada », ma proprio anche i santi semplici, cioè le persone buone che vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di ogni giorno vedo la verità della fede. Questa bontà, che hanno maturato nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità.
Nella comunione dei Santi, canonizzati e non canonizzati, che la Chiesa vive grazie a Cristo in tutti i suoi membri, noi godiamo della loro presenza e della loro compagnia e coltiviamo la ferma speranza di poter imitare il loro cammino e condividere un giorno la stessa vita beata, la vita eterna.
Cari amici, come è grande e bella, e anche semplice, la vocazione cristiana vista in questa luce! Tutti siamo chiamati alla santità: è la misura stessa della vita cristiana. Ancora una volta san Paolo lo esprime con grande intensità, quando scrive: « A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo… Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo » (Ef 4,7.11-13). Vorrei invitare tutti ad aprirsi all’azione dello Spirito Santo, che trasforma la nostra vita, per essere anche noi come tessere del grande mosaico di santità che Dio va creando nella storia, perché il volto di Cristo splenda nella pienezza del suo fulgore. Non abbiamo paura di tendere verso l’alto, verso le altezze di Dio; non abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, ma lasciamoci guidare in ogni azione quotidiana dalla sua Parola, anche se ci sentiamo poveri, inadeguati, peccatori: sarà Lui a trasformarci secondo il suo amore. Grazie.
 

La Pasqua, cuore della vita cristiana (Enzo Bianchi)

dal sito:

http://www.messaggerosantantonio.it/messaggero/pagina_articolo.asp?IDX=1342IDRX=130

La Pasqua, cuore della vita cristiana

di Enzo Bianchi

«Nella Pasqua è importante ricordarci che la vita è più forte della morte, ma solo se è nutrita d’amore».

«Alla Pasqua a Bose – spiega Enzo Bianchi, priore di questa comunità monastica – partecipano  numerosi ospiti. Viene celebrata secondo la tradizione della liturgia cattolica, però arricchita da elementi (canti e segni) della liturgia monastica e si snoda per tre giorni: dal giovedì santo alla notte pasquale, in modo che si possa seguire davvero il cammino di Gesù, dalla passione alla risurrezione. La Pasqua dovrebbe essere il momento centrale della nostra fede, anche se per molti è una delle tante feste che si celebrano. Ma la Pasqua per noi è davvero l’essenza, il nucleo di tutta la vita cristiana. Posso dire che le persone che hanno vissuto in maniera intensa e forte tutto il cammino del Triduo pasquale, non dimenticano questa esperienza, che spesso si traduce in  un cambiamento della loro vita».
Vivere la settimana santa a Bose, comunità monastica di uomini e donne provenienti da Chiese cristiane diverse, è davvero un’esperienza molto intensa. È bello per gli ospiti assaporare il silenzio, assecondare i ritmi dei monaci con le preghiere del mattino, di mezzogiorno e della sera; ascoltare la lectio divina sul Vangelo della Passione per giungere insieme al culmine del Triduo, che è la veglia pasquale (alle 22,00 di sabato 15 aprile). È il momento in cui ospiti e monaci accompagnano «il Giusto» nella sua morte e nella grande festa della risurrezione.
«Credo che nella Pasqua – dice ancora il priore Bianchi –, sia importante ricordarci che la vita è più forte della morte, ma la vita, per essere più forte della morte, deve essere una vita nutrita d’amore, nella quale si ama e si accetta di essere amati. Perché solo l’amore è degno di sconfiggere la morte e va oltre la morte».
A Enzo Bianchi, che è un monaco sempre molto attento a quello che succede nella società e che da sempre cerca il dialogo interreligioso, chiediamo come legga i fatti di questi ultimi tempi che vedono, invece, un inasprimento dei conflitti interreligiosi.
«La cosa mi preoccupa – risponde – perché in questi ultimi anni, all’interno della nostra società, soprattutto di quella italiana, avanza la barbarie: ci sono persone che non sanno quello che dicono e stanno “incendiando” i rapporti tra noi e il mondo dei musulmani. Tutto questo è davvero pericoloso e rischia di aprire una contrapposizione, destinata a diventare uno scontro vero e proprio, non tanto di religioni, ma tra modi di vivere: l’occidentale e il loro. Non dimentichiamoci che spesso persone dei Paesi più poveri, sentondosi emarginate, diventano musulmane proprio per rivoltarsi contro l’Occidente. La religione permette di trovare un’identità quando non esistono più riferimenti culturali. Ma non si dica che questo è scontro tra cristianesimo e islam. È contrapposizione tra situazioni politiche e sociali che non vogliono assolutamente aprirsi al dialogo, a un confronto fecondo che escluda la guerra».
«Credo che si debba, da un lato, fare attenzione a quelli che, all’interno del mondo islamico, sono convinti della possibilità di un confronto con il nostro Occidente, senza ricorrere al terrorismo, senza percorrere la via della violenza e dello scontro di civiltà. È quindi necessario rendere costoro davvero partner del confronto, del dialogo, e cercare che abbiano una voce all’interno del concerto delle Nazioni. Quindi occorre cercare di porre un freno alle persone che, tra noi, sono favorevoli a una nuova crociata. Bisogna avere il coraggio di dire la verità: a volte queste persone aggressive, che vogliono lo scontro, mi fanno più paura dei mondi musulmani, lontani. Quindi non si continui a gridare che l’islam fa paura. Fanno paura alcune persone di casa nostra che non vogliono il dialogo e che vogliono, a ogni costo, la guerra contro altri Paesi e altre culture».

Publié dans:feste - Pasqua, feste del Signore |on 14 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Sacra Sindone – antica illustrazione

Sacra Sindone - antica illustrazione dans immagini sacre sacra_sindone_antica_illustrazione_02

http://www.thecropcircles.eu/sacra_sindone.htm

Publié dans:immagini sacre |on 13 avril, 2011 |Pas de commentaires »

AL MATTINO PRESTO (GIANFRANCO RAVASI 2003)

dal sito:

http://www.avvenire.it/GiornaleWEB2008/Templates/Pages/ArticlesListColumn.aspx?IdRubrica=.mattutino&TitoloRubrica=Il%20mattutino&AutoreRubrica=Gianfranco%20Ravasi

GIANFRANCO RAVASI

IL Mattutino: 03/04/2003

AL MATTINO PRESTO

È buona cosa pregare al mattino presto, prima che il mondo si riempia di sciocchezze. La vita ci rende tutti guerrieri. Per vivere dobbiamo usare l’arma più potente. Quest’arma è la preghiera. Ho appaiato in questa nostra riflessione una coppia di massime di due maestri della tradizione giudaica dei Chassidim, « i pii », corrente mistica mitteleuropea. Il primo detto è attribuito a Pinchas di Korec (1726-1791), un rabbino lituano che si oppose alle eccessive disquisizioni teologiche, insegnando umiltà, semplicità e preghiera. Quanto ha ragione a proposito delle nostre giornate, colme di « sciocchezze », di idiozie, di chiacchiere e così povere di sostanza! Per questo è necessario, al mattino presto, quando ancora lo spazio della giornata è pulito, sostare in preghiera. È bello che molti lo facciano: mi colpisce sempre vedere quanta gente, sia pure per pochi minuti, varchi al mattino le porte del duomo di Milano e stia in preghiera, prima di gettarsi nel tumulto degli uffici e della quotidianità. La vita giornaliera, soprattutto quella contemporanea, è una lotta. Siamo assediati, tentati, travolti, confusi, disorientati. Ecco, allora, il secondo monito dell’altro maestro, Nachman di Brazlav (1772-1811), rabbino ucraino, cantore della fede e dell’orazione. Per saper resistere alle attrattive ingannevoli, all’immoralità negli affari, agli attacchi ingiusti, alle amarezze, bisogna essere armati di preghiera. Scriveva san Pietro nella sua Prima Lettera: «Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente, va in giro, cercando di divorare. Resistetegli saldi nella fede» (5, 8-9).

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 13 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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