Sabato Santo

dal sito:
http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/preghiamo_con_giovanni_xxiii_1.htm
PREGHIAMO CON PAPA GIOVANNI XXIII
IN TE LA VIA, LA VERITÀ, LA VITA
O Principe della pace,
Gesù Risorto,
guarda benigno all’umanità intera.
Essa da te solo
aspetta l’aiuto e il conforto
alle sue ferite.
Come nei giorni
del tuo passaggio terreno,
tu sempre prediligi i piccoli,
gli umili, i doloranti;
sempre vai a cercare i peccatori.
Fa’ che tutti ti invochino e ti trovino,
per avere in te
la via, la verità, la vita.
Conservaci la tua pace,
o Agnello immolato per la nostra salvezza:
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi,
dona nobis pacem!
Allontana dal cuore degli uomini
ciò che può mettere in pericolo la pace,
e confermali nella verità,
nella giustizia, nell’ amore dei fratelli.
Illumina i reggitori dei popoli,
affinché, accanto alle giuste sollecitudini
per il benessere dei loro fratelli,
garantiscano e difendano
il grande tesoro della pace;
accendi le volontà di tutti
a superare le barriere che dividono,
a rinsaldare i vincoli della mutua carità,
a essere pronti a comprendere,
a compatire, a perdonare,
affinché nel tuo nome le genti si uniscano,
e trionfi nei cuori,
nelle famiglie, nel mondo
la pace, la tua pace.
dal sito:
http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=20996
Si fa vedere e toccare perché riconoscano la realtà della Sua carne
Nei sermoni del periodo pasquale Agostino ripete più volte che è stato Cristo stesso a voler togliere ogni dubbio agli apostoli sulla realtà della Sua risurrezione. Intervista con Nello Cipriani, professore ordinario dell’Istituto Patristico Augustinianum
Intervista con Nello Cipriani di Lorenzo Cappelletti
«Resurrexit tertia die
sicut apostoli,
suis etiam sensibus,
probaverunt»
(Agostino, De civitate Dei XVIII, 54, 1)
Abbiamo parlato con padre Nello Cipriani, in questi giorni di Pasqua, di come, facendosi vedere e toccare, Gesù ha voluto Lui stesso rendere testimonianza agli apostoli della realtà della Sua risurrezione.
In quali opere di Agostino si trova commentata con maggior ampiezza la risurrezione del Signore nel suo vero corpo?
NELLO CIPRIANI: Ne parla in più luoghi, ma soprattutto nei numerosi sermoni del periodo pasquale, periodo in cui Agostino predicava ogni giorno. In questi sermoni vengono trattati diversi aspetti del mistero della risurrezione dai morti. Ciò che più colpisce è che Agostino cerca di far capire ai fedeli che è Cristo stesso che ha voluto eliminare i dubbi degli apostoli i quali pensavano di vedere un fantasma: «Perché siete turbati e sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi, palpatemi e guardate», dice il Signore (Lc 24, 38s). E Agostino, quasi in persona Christi, commenta, nel Sermone 237: «Se vi par poco osservarmi, stendete la mano. Se vi par poco osservarmi e non vi basta nemmeno toccarmi, palpatemi. Non disse infatti solamente che lo toccassero, ma li invitò a palparlo e a tastarlo. Lo verifichino le vostre mani, se i vostri occhi vi ingannano. Toccatemi e vedete. Le mani vi facciano da occhi. Ma palpare e vedere che cosa? Che un fantasma non ha carne e ossa come invece vedete che io ho. Eri incappato [Agostino usa qui un “tu” generico] nel medesimo errore dei discepoli: ravvediti insieme con i discepoli! È umano errare, è vero. Anche Pietro e gli altri apostoli l’hanno fatto: credevano di vedere un fantasma. Ma in tale errore non persistettero. Perché tu sappia che era del tutto falso quel che avevano nel cuore, il medico non li lasciò andar via così, ma avvicinatosi applicò loro la medicina. Vedeva le ferite dei cuori e al fine di curare queste ferite del cuore, recava ancora nel suo corpo le cicatrici».
Sono parole che fanno capire meglio di tanti ragionamenti che è il Signore stesso, facendosi vedere e toccare, a costituire gli apostoli testimoni della sua risurrezione.
CIPRIANI: In un altro sermone (Sermone 242) Agostino risponde a una critica di Porfirio, il filosofo neoplatonico del III secolo autore del Contro i cristiani. Costui, tra i tanti argomenti contro il cristianesimo, avanzava anche quello contro la risurrezione dei corpi, che per un neoplatonico è assolutamente inaccettabile. Porfirio criticava anche il racconto evangelico di Luca, ponendo una specie di dilemma: o Cristo risorto ha chiesto da mangiare perché aveva bisogno di mangiare e allora non ha un corpo incorruttibile, oppure, se non aveva bisogno di mangiare, perché lo avrebbe chiesto? Agostino risponde citando innanzitutto le parole di Gesù risorto: «“Avete qui qualcosa da mangiare? Ed essi gli offrirono una porzione di pesce arrostito e un favo di miele. Egli ne mangiò e offrì loro gli avanzi [così suonava il testo latino in mano ad Agostino]” (cfr. Lc 24, 41s). Ecco l’obiezione che ci viene mossa: se il corpo risorge incorruttibile, perché Cristo Signore si mise a mangiare? In effetti avete letto che egli mangiò. Ma avete forse letto che ebbe fame? Il mangiare fu un gesto dimostrativo del suo potere, non di un suo bisogno». E poco più avanti, all’ulteriore obiezione che, se non si risorge con dei difetti, non si capisce perché allora il Signore abbia conservato le cicatrici delle ferite, Agostino risponde di nuovo che quello del Signore «fu un gesto di potere, non di necessità. Ha voluto risorgere così, così si volle mostrare ad alcuni che dubitavano [sic resurgere voluit, sic se voluit quibusdam dubitantibus exhibere]. La cicatrice della ferita rimasta sulla sua carne servì a guarire la ferita dell’incredulità».
Riprende la motivazione già esposta nel Sermone 237. Non è una carenza, dunque, non è una necessità quella che porta il Signore a chiedere da mangiare, ma la sua volontà di autocertificare, si potrebbe dire, la sua risurrezione.
CIPRIANI: Certo, il corpo risuscitato non ha più bisogno di mangiare, è spirituale; il risorto non ha più fame. Ma Cristo ha voluto dare questa prova per convincere i discepoli della realtà della risurrezione. C’è un altro sermone, il Sermone 246, che somiglia un po’ al Sermone 237. Come abbiamo già visto, nel Vangelo di Luca (Lc 24, 38s) Cristo dice: «Perché siete turbati e sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi, palpatemi e guardate». E Agostino commenta: «Era forse già asceso al Padre quando diceva: “Palpatemi e vedete”? Si lascia toccare dai suoi discepoli, anzi, non solo toccare ma palpare, per offrire una prova alla fede nella realtà della sua carne, nella realtà del suo corpo [ut fides fiat verae carnis veri corporis]. La fondatezza della realtà doveva infatti essere resa evidente anche attraverso il tatto dell’uomo [ut exhibeatur etiam tactibus humanis soliditas veritatis]. Si lascia quindi toccare con mano dai discepoli». Poi, facendo riferimento alla donna cui il Signore comanda invece di non toccarlo perché non è ancora asceso al cielo, Agostino passa a dire: «Cos’è questa incongruenza? Gli uomini non potevano toccarlo se non qui in terra, mentre le donne l’avrebbero potuto toccare asceso al cielo? Ma che significa toccare se non credere? Con la fede tocchiamo Cristo. Ed è meglio non toccarlo con la mano e toccarlo con la fede che palpare con la mano e non toccarlo con la fede». La prova che Cristo offre, in altre parole, mira alla fede dei discepoli. Spesso poi – ripeto – Agostino risponde alle obiezioni dei pagani, soprattutto dei filosofi neoplatonici, e in particolare di Porfirio. Porfirio in realtà aveva una certa ammirazione per Cristo. Cristo sì che era un uomo sapiente, egli dice, i cristiani sono invece persone inqualificabili, impostori, sono gli apostoli e gli evangelisti che hanno inventato la risurrezione, che hanno creato questo mito.
Mi vengono in mente quei paragrafi della Città di Dio alla fine del libro XVIII in cui Agostino prende in esame la favola, fatta propria peraltro dai dotti (sui quali Agostino ironizza), che siano state le arti magiche di Pietro a consentire lo sviluppo e il progresso del cristianesimo.
CIPRIANI: Di fronte alla obiezione che il cristianesimo non sia altro che frutto di magia, Agostino ribatte che il cristianesimo è nato e si è sviluppato per grazia divina: illa superna gratia factum esse (cfr. De civitate Dei XVIII, 53, 2). A questo proposito, nel Sermone 247, sempre del periodo pasquale, in cui commenta l’apparizione del Signore ai discepoli la sera di Pasqua a porte chiuse (cfr. Gv 20, 19ss), Agostino scrive: «Ci sono alcuni che da questo fatto sono talmente frastornati che vacillano o quasi, portando, contro i miracoli operati da Dio, i pregiudizi delle loro argomentazioni [afferentes contra miracula divina praeiudicia ratiocinationum suarum]. Ragionano così: se era corpo, se era carne e ossa, se ciò che risorse dal sepolcro non era altro che ciò che era stato appeso al patibolo, come poté passare attraverso porte chiuse? Se era impossibile bisogna concludere che non è accaduto. Se invece lo poté fare, come è stato possibile? Se se ne comprende il modo non è più un miracolo, e d’altronde, se non lo ritieni un miracolo, sei prossimo a negare la risurrezione dal sepolcro. Volgi il pensiero ai miracoli compiuti dal tuo Signore fin dagli inizi, spiegami il perché di ciascuno. L’uomo non interviene e la Vergine concepisce. Spiegami come una vergine abbia potuto concepire senza il concorso del maschio. Dove vien meno la ragione, lì costruisce la fede. Ecco, dunque, un miracolo nella concezione del Signore, ma ascoltane un altro nel parto: partorisce da vergine e vergine rimane. Fin da allora quindi, ben prima che risorgesse, il Signore, nascendo, passò per delle porte chiuse». Insomma, è la potenza divina la causa vera della risurrezione. Se si prescinde dalla potenza e dall’azione di Dio, ogni miracolo è inconcepibile, tanto più la risurrezione del Signore.
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/17757.html
Omelia (29-03-2010)
padre Lino Pedron
In questo brano è accentrato il contrasto tra la generosa dimostrazione d’amore di Maria e la gretta irritazione di Giuda Iscariota.
Gesù era stato a Betania qualche giorno prima per risuscitare Lazzaro e se ne era allontanato dopo la decisione del sinedrio di ucciderlo. Ora la famiglia degli amici fa una cena un onore di Gesù. Maria, ungendo i piedi di Gesù, fa un gesto di squisita cortesia, secondo l’usanza giudaica, come segno di omaggio all’ospite.
Una libbra corrisponde a 330 grammi e il prezzo di trecento denari allo stipendio di trecento giornate lavorative.
L’intervento di Giuda mette in risalto la fede e l’amore di Maria per il Signore. Questa donna, in uno slancio di generosità, si è prodigata in un gesto di tenerezza senza badare a spese; al contrario Giuda Iscariota; con la sua contestazione, manifesta la grettezza del suo cuore. Egli non era preoccupato delle necessità dei poveri, ma desiderava che quella somma finisse nella cassa comune della comunità di Gesù, di cui era amministratore, per rubarla (v. 6).
« Lasciatela fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura » (v. 7) Con questa frase Gesù vuole spiegare che il gesto della donna ha un significato profetico, perché preannuncia l’unzione del suo corpo prima della sepoltura.
« I poveri li avete sempre con voi ». Con queste parole Gesù non vuole scoraggiare l’assistenza e il soccorso ai poveri, ma vuole ricordare il primato che si deve riservare a Dio in tutte le circostanza della vita.
Con la frase « non sempre avete me » (v. 8) evidentemente Gesù parla della sua vita terrena che avrà termine tra qualche giorno. La sua presenza come risorto, invisibile ma reale, non cesserà mai (cfr Gv 14,16; Mt 28,20).
Dinanzi al comportamento del popolo che crede in Gesù, la reazione dei sommi sacerdoti rasenta la follia, perché decretano di uccidere anche Lazzaro per far scomparire questa testimonianza così eloquente a favore della divinità di Gesù. L’ostinazione dei capi nel male raggiunge il parossismo.
dal sito:
http://www.zenit.org/article-26347?l=italian
NELLA PASSIONE DEL SERVO LE DIRETTIVE DEL FINE VITA
Domenica delle Palme, 17 aprile 2011
di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 15 aprile 2011 (ZENIT.org).- Il Signore mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato,..sapendo di non restare confuso (Is 50,4-7).
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al disopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sottoterra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è il Signore!”, a gloria di Dio Padre (Fil 2,5-11).
Nella Domenica della Passione del Signore, è Gesù in persona a prendere la parola per bocca di Isaia: “Il Signore mi ha dato una lingua da discepolo…Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,..non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi” (Is 50,6). Gesù riconosce le proprie sembianze in questa figura sofferente del “Servo”, quasi a dirci: “ho imparato ad obbedire come un discepolo alla scuola della sofferenza, ma non sono stato costretto a subire l’accanimento della violenza sul mio corpo e del disprezzo sul mio volto, anzi: ho desiderato ardentemente i colpi dei miei torturatori, sapendo così di camminare verso la completa vittoria sul male e sulla morte, interamente abbandonato alla volontà del Padre”.
Ma oggi è anche per bocca di Paolo che Gesù ci parla. L’inno di Fil 2,6-11, infatti, è una sintesi perfetta del Mistero Pasquale di Cristo: dall’umiliazione dell’obbedienza “fino alla morte di croce” (2,8), all’esaltazione della vittoria totale e definitiva sulla morte. E’ in questo testo mirabile che vogliamo contemplare oggi la Passione del Signore. L’inno non è solamente una “perla teologica”, ma anche una mini enciclica di carattere pastorale. Lo comprendiamo dal contesto concreto della comunità cui Paolo si rivolge. Esso, infatti, è preceduto da una accorata esortazione all’unità tra i credenti: “Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù…” (Fil 2,1-5).
Paolo ha chiamato la comunità di Filippi “mia gioia e mia corona” (4,1), ma essa non è una comunità perfetta, ideale. L’armonia della fede è turbata dagli atteggiamenti di alcuni che fanno mostra di superiorità nei confronti di altri, rivelando così la presenza di uno spirito di parte e vanagloria. Paolo freme, ma non si rassegna, sforzandosi di rincuorare, confortare ed esortare tutti; quasi in ginocchio scongiura i fedeli di non litigare, di non mordersi, di non dividersi. Avendo in mente questo intento, per realizzarlo l’apostolo parte dalla storia di Gesù, nel quale tutti i credenti sono innestati, sin dal Battesimo, per quel dono dello Spirito che li fa essere membra solidali di un solo Corpo: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Tale unità profonda è manifestata concretamente dalla comunione operativa, segno di conformità alla stessa coscienza di Cristo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù..” (Fil 2,5).
Per giungere a questa altissima meta, afferma Paolo, è imprescindibile camminare nell’umiltà, imitando l’esempio sublime del Signore (cfr anche 1Pt 2,21-25).
Per comprendere, allora, la profonda umiltà di Gesù, occorre partire dalle prime parole dell’inno. Osserva un esperto: “L’inno inizia con un participio che descrive il modo di essere di Gesù Cristo prima della sua nascita: ‘Il quale, essendo nella condizione di Dio’. La parola ‘pur’ in greco manca, c’è un semplice ‘de’, che può venir tradotto all’opposto di ‘pur’, cioè con ‘proprio’; quindi non ‘pur essendo nella condizione di Dio’, ma ‘proprio essendo nella condizione di Dio’”. Il termine ‘condizione’, ‘modo di essere’ (morphe), è la realtà profonda di una persona che poi si manifesta concretamente all’esterno, è l’apparire esterno che però corrisponde all’essere, che manifesta al di fuori la natura intima di una realtà” (don Lorenzo Zani).
Che il Figlio di Dio si sia fatto servo, incarcerandosi nei limiti peccaminosi della condizione umana fino a subire l’ignominia della croce, è un comportamento di un’umiltà sconcertante, che tuttavia non deve stupire perché è del tutto conforme alla natura di Dio. Infatti “Dio è amore” (1Gv 4,8), e l’umiltà è il volto più vero, amabile e radicale dell’amore.
L’umile non è geloso e non suscita gelosia: per questo “Cristo Gesù…non ritenne un privilegio l’essere come Dio” (Fil 2,6). Gesù non ha voluto preservare gelosamente il suo rango divino, ma si è comportato come un re pronto a far sedere sul suo trono un mendicante, scambiando volentieri la propria regalità con la povertà di quello. Il Re divino ha fatto questo per ognuno di noi. Tale è stata la sua compassione per noi, da essere angosciato finché non ha sofferto la Passione di sangue che ci ha redenti. Ha così mostrato che l’umile non desidera trattenere nulla, nemmeno la propria vita, poiché è libero dal proprio io e dal possesso delle creature. Il dono sincero di sé e la compassione per la sofferenza altrui sono il suo modo di sentire, di pensare e di esistere.
Paolo ci dice oggi che questa meravigliosa umiltà è divina. Infatti, proprio essendo di natura divina Gesù ha scelto di nascere e vivere nel nascondimento, di non agire con spettacolarità, di donarsi agli uomini nel segreto fino a morire per loro sulla croce, solo e ignorato da tutti. Per questo già all’inizio della sua vita pubblica, Gesù ha ritenuto tentazione satanica la prospettiva di avvalersi dei suoi poteri e della sua uguaglianza con Dio (Mt 4,1-11), preferendo sempre la sottomissione al Padre e rifuggendo da ogni esibizione di sé. Evidentemente, però, l’incarnazione del Figlio di Dio non ha comportato la rinuncia alla divinità, ma ha nascosto il suo modo divino di essere, come l’obbedienza ad un altro fa nascondere la propria volontà.
Così Gesù “dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,7b-8). Che Gesù si sia voluto umiliare fino all’obbrobrio della croce non dice meschinità, servilismo, disonore della dignità personale, ma solo l’abisso inconcepibile della sua umiltà, che noi possiamo contemplare ed imparare in due direzioni.
Nei confronti di Dio, l’umiltà è la totale sottomissione della nostra alla sua volontà, attiva e pronta obbedienza accompagnata da fiducia totale, come Maria: “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38). Nei confronti degli uomini, l’umiltà è la volontà che si fa bambina, che si abbassa al livello dei poveri in statura morale e sociale, i “piccoli”, per condividerne la sorte e dar loro sollievo nella sofferenza. Così intesa, l’umiltà non è tanto una condizione sociale, o un’apparenza, o un comportamento (anche se la Bibbia non manca di alludere all’uomo povero, senza peso nella società), ma è un modo di essere e di esistere, uno stile di vita che procede dal cuore dell’uomo, dalla sua coscienza, e che mette spontaneamente in moto la volontà di servire e beneficare tutti. Una simile umiltà è sempre obbediente e riconoscente, direi “eucaristica”. Gesù è umile perché è mite, obbediente; Gesù è Eucaristia.
Egli è stato obbediente al Padre dal concepimento “fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,8). L’obbedienza di Gesù non si è fermata nemmeno di fronte all’esperienza umana più dolorosa, più ignominiosa. E morire, per Gesù, è stato infinitamente più tremendo che per ogni altra persona, in quanto egli è il Signore della vita.
L’umiltà del Figlio di Dio, iniziata con la decisione di non conservare gelosamente le proprie prerogative divine, trova sulla croce il suo culmine e la sua massima rivelazione: qui Gesù ha condiviso la sorte di ogni ultimo fra gli ultimi degli uomini, ma proprio per questo“Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,9). L’esaltazione del Crocifisso ha questo scopo: che “ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!” (Fil 2,11).
E’ il grido riconoscente della vita, grido di gioia che scaturisce dalla fede nella Risurrezione; fede che vince continuamente le forze della morte perché ci fa partecipi della vittoria di Cristo, diventata nostra. Tutto ciò è vero anzitutto per la nostra morte (ecco le vere “direttive” che riguardano la fine e il fine della nostra vita, anticipate dalla risurrezione di Gesù!), ma è vero anche per ogni giorno della nostra vita, in cui possiamo essere vincitori sulle forze della morte, vale a dire su tutto ciò che ci porta alla tristezza, allo scoraggiamento, all’angoscia di continuare a vivere senza che apparentemente “ne valga la pena”.
E’ una “pena” che vale infinitamente, poiché la fede ci rende partecipi delle sofferenze di Cristo, e per ciò stesso anche della gloria della sua Risurrezione.
———
* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/22142.html
Omelia (17-04-2011)
mons. Gianfranco Poma
Davvero costui era Figlio di Dio
Il racconto della Passione di Gesù è il tesoro più prezioso che la Chiesa possieda, che conserva e venera con la più grande cura.
Il Padre Martini, nel ormai lontano settembre del 1977, in un corso di esercizi spirituali da lui guidato, iniziava la meditazione sulla Passione con questa preghiera: « Signore, noi vogliamo guardare Te per conoscere il Padre. Tu ci riveli il Padre dalla croce. Rivela, o Signore, a noi, il mistero della Croce, fa’ che non ne abbiamo paura, fa’ che in esso conosciamo Dio, conosciamo Te, Figlio del Padre, conosciamo noi stessi, peccatori salvati. Donaci quella particella di intelligenza del mistero della Croce che hai stabilito per ciascuno di noi. Fa’ che la nostra vita segua coerente con ciò che Tu ci fai conoscere, e se vuoi farci prima praticare che conoscere, farci prima amare che comprendere, donaci il tuo Spirito attraverso la tua morte e risurrezione gloriosa. Ti adoriamo presente tra noi, vivo, risorto, glorioso nei secoli dei secoli. Amen. »
E’ così ricco il racconto della Passione di Gesù, così inesauribile il mistero che ci viene annunciato che noi non possiamo che pregare perché il Signore ci doni il suo Spirito che ce ne faccia comprendere almeno una particella. Possiamo percorrere diverse vie nella lettura di queste pagine del Vangelo, ma quella centrale è la via indicata dal P. Martini, quella che guarda alla Passione come all’evento in cui si compie la rivelazione somma del mistero di Dio: si tratta di guardare alla Croce per arrivare alla conoscenza di Lui, per entrare nel mistero trinitario del Padre che ci dona il Figlio, nel mistero della morte di Dio. E’ il grande teologo Hans Urs Von Balthasar che ha approfondito teologicamente questo tema, praticamente fermo dal 1500. Entrando nella meditazione della Passione, con tutto ciò che essa significa per noi, egli fa riferimento alla piccola Apocalisse di Isaia (24,17-23): « Terrore, fossa e laccio ti sovrastano, o abitante della terra…Certo barcollerà la terra come un ubriaco, vacillerà come una tenda; peserà su di essa la sua iniquità, cadrà e non si rialzerà. Arrossirà la luna, impallidirà il sole, perché il Signore regna sul monte Sion e in Gerusalemme e davanti ai suoi anziani sarà glorificato ». Si sente costretto ad evocare queste parole, il teologo, entrando nel tema più oscuro della storia, la Morte di Dio, ed aggiunge: « Se Dio muore, tutto muore, se la Parola rivelante di Dio ad un certo punto tace, tutto il mondo tace », facendoci capire la drammaticità e la serietà di questa riflessione quando, fatta con estrema verità, implica l’impostazione di tutta la nostra vita.
Von Balthasar inizia il commento teologico al racconto della Passione, ricollegandosi alla domanda che i Padri della Chiesa già si ponevano: « Perché questo sangue è stato versato? ». E dopo aver percorso la storia della teologia con le sue diverse risposte, ritorna a porre la Passione al centro, al termine dell’opera di Dio, ma sottolineando con maggiore consapevolezza la difficoltà e la fatica anche teologica di chi vuole indagare il mistero della rivelazione della gloria di Dio nella morte di Cristo. E anche noi ci troviamo di fronte alla Croce e come il centurione del Vangelo, siamo presi dal timore che deriva dall’esperienza del mistero: i due termini che a noi appaiono antitetici, la rivelazione di Dio nell’annientarsi di Dio sono il cuore del mistero.
Come ogni anno, nella settimana santa, la Liturgia continua a leggere per due volte il racconto della Passione, nella domenica delle Palme (uno dei tre sinottici) e il venerdì santo (il Vangelo di Giovanni). All’uomo moderno che pensa di essere cresciuto e di poter bastare a se stesso, di avere strumenti sufficienti per fare a meno di Dio, di avere nelle proprie mani ormai strumenti così potenti da non aver bisogno della potenza di Dio, la Liturgia continua ad offrire il racconto della Passione di Gesù, la rivelazione ultima del volto di Dio che si annienta per noi. L’uomo moderno ritiene di poter fare a meno di Dio: fa a meno del Dio potente che si è costruito con la propria mente. Ma Dio non è così: l’uomo può anche fare a meno di un Dio potente ma non di un Dio che si annienta per lui, che si abbassa, che lo serve, che gli dona tutto nel silenzio, che continua ad amarlo. Di fronte alla Croce di Cristo, l’uomo è messo di fronte al mistero di un Dio che non ostacola, non è geloso della potenza dell’uomo, ma proprio come Dio lo serve e lavando i piedi della sua creatura, si rivela nell’intimo di sé. La Croce di Cristo suscita in noi (e a questo punto ci guida in particolare il Vangelo di Giovanni) il desiderio di una penetrazione amorosa del mistero di Dio che si rivela attraverso il farsi niente, perché l’uomo viva.
E’ illuminante per noi l’esperienza della Passione di Gesù vissuta da Pietro: Pietro aveva seguito Gesù con entusiasmo, per lui avrebbe donato la vita. Pietro amava Gesù. Quando inizia il dramma della Passione, dice Matteo (26,56) « tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono ». Ma Pietro lo aveva seguito da lontano (26,58): lui amava Gesù, ma ora è confuso, non sa più chi è Gesù e ha perso anche la sicurezza per se stesso. Non ha il coraggio di seguire Gesù ma neanche lo vuole abbandonare: è ormai in pieno smarrimento. Alla donna che lo interroga ripetutamente risponde imprecando e giurando: « Io non conosco quell’uomo ». « Ma subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola di Gesù: Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte. E uscito fuori, pianse amaramente ». Pietro « si ricordò »: ha una percezione nuova della realtà, dunque tutto è secondo il progetto di Dio. Ha una conoscenza nuova di Cristo, di Dio e di se stesso: finalmente si spezza il velo e Pietro incomincia a capire tra le lacrime che Dio si rivela nel Cristo schiaffeggiato, insultato, rinnegato da lui. Pietro, che avrebbe voluto morire per Cristo, comincia a capire che è Cristo che muore per lui: comincia a capire quello che per tutta la vita non aveva capito, che Dio gli vuole donare la vita, l’amore, che lui invece respinge.
Il racconto della Passione continua a mostrarci la debolezza di Dio, la sua vulnerabilità. Matteo ci mostra la reazione di tutti coloro che passano sotto la Croce e insultano Gesù e ci conduce al momento della sua morte. « Verso mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». E’ misteriosissimo questo ultimo grido che non ha neppure parole: le parole del salmo e tutto ciò che il Vangelo descrive cerca di esprimere l’indicibile. Di fronte alla morte di Gesù non c’è che il silenzio, che ha delle risonanze cosmiche che nella fede diventano significative. Il velo del tempio si spezza, la terra trema, si spezzano le pietre… Il centurione e quelli che erano più vicini cominciano a dire: Davvero quest’uomo era Figlio di Dio. Nella maniera più lontana da quello che ci saremmo aspettato, si manifesta il paradosso di Dio. Quelli che hanno avuto il coraggio di guardare la fragilità, la vulnerabilità di Gesù, hanno visto cadere tutti i pregiudizi, anche teologici, con cui avevano pensano a Dio, al suo modo di agire…Tutte le riserve mentali si sono dissolte a contatto con la sguarnita verità con cui Dio si è manifestato. Se abbiamo il coraggio di fare il passo che ci tiene lontani dalla Croce, di superare il cerchio di coloro che gridano, giudicano, e di lasciare che il suo amore faccia cadere il muro di paura, superbia, ipocrisia con cui rimaniamo chiusi nella nostra fragilissima potenza, allora cade la nostra antica conoscenza di Dio, la sua intangibilità, l’alterità assoluta, l’inaccessibilità: in Cristo debole, povero, vulnerabile, Dio può entrare nel cuore di ognuno di noi e diventare l’esperienza che ci cambia.
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/14992.html
Omelia (04-04-2009)
Eremo San Biagio
Dalla Parola del giorno
“Li libererò da tutte le ribellioni con cui hanno peccato, li purificherò e saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio.”
Come vivere questa Parola?
È bello, nell’approssimarsi della settimana santa, sentire rinnovata solennemente, attraverso la voce del profeta Ezechiele, l’Alleanza nuziale che Dio stipulò con Abramo e con tutto Israele, anzi con ogni uomo. Dice infatti subito dopo: “Farò con loro un’alleanza di pace che sarà un’alleanza eterna” (v.26).
Il peccato ci ha tallonato di continuo, dentro ogni nostra opposizione (lucida e voluta) a ciò che Dio vuole da noi. Ma il Signore, ecco, ci vuole liberare da queste ribellioni. E più consolante ancora è per noi apprendere che il patto di Alleanza si risolve anche, concretamente, in un’azione purificatoria nei confronti del nostro peccato.
Tutto il sangue versato da Gesù lungo l’itinerario del Golgota, tutta la forza redentiva di quella sua passione e morte che stiamo per celebrare nei prossimi giorni, è un tale detergente che nulla regge al suo confronto. E così capisco perché si parla di “Alleanza di pace” di “Alleanza eterna” che, da parte di Dio, non sarà mai tradita
Oggi contemplo la tua croce gloriosa, Gesù, da cui sgorgano fiumi di grazia. Mi espongo. Chiedo di essere purificato. E mi rendo conto, comunque, che pur nell’assoluta gratuità il tuo patto di alleanza chiede ch’io corrisponda con un’attenzione amorosa a non cadere in quella stoltezza che è la ribellione a Dio, al suo volere e dunque al mio bene vero
Signore, concedimi un’anima vigilante! Ch’io mi renda conto e accetti con gioia tutto l’impeto di grazia che mi viene da te. Ch’io riconosca subito gli adescamenti al male che mi distolgono da te e turbano la pace della tua alleanza.
La voce di un dottore della Chiesa
Tutti siamo nati col peccato: tutti, vivendo, aggiungiamo qualcosa a ciò che eravamo quando siamo nati […]. Dove saremmo noi, se non fosse venuto colui che non aveva peccato, per assolvere ogni peccato? In quanto non credevano a lui, i giudei giustamente si sentirono dire: «Morrete nel vostro peccato». Vi è impossibile essere senza peccato, dato che col peccato siete nati: ma tuttavia – egli dice in sostanza – se in me crederete pur essendo nati nel peccato, non morrete nel vostro peccato.
S. Agostino