Archive pour avril, 2011

Immagine dalla festa di Cristo Re dell’Universo

Immagine dalla festa di Cristo Re dell'Universo dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 27 avril, 2011 |Pas de commentaires »

PRIMO LEVI: SE QUESTO È UN UOMO

forse l’ho già messo, ma a volte desidero rileggere, dal sito:

http://www.commentiamo.com/2009/01/se-questo-un-uomo.html

PRIMO LEVI: SE QUESTO È UN UOMO

Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
(Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947)

E’ fin troppo ovvio dire che in questa poesia, che fa da preludio all’omonimo romanzo, Primo Levi sollecita i lettori a riflettere sullo sterminio dei lager nazisti: lo sanno tutti. Certo, a differenza di altre poesie presenti nel blog, in questo caso è praticamente impossibile slegare il commento dal momento storico ma, considerato il fatto che purtroppo i genocidi avvengono anche ai giorni nostri, vedrò di fare una riflessione che in parte contenga anche spunti validi per ogni epoca: in fondo ogni poesia ha più valore perché è potenzialmente eterna.
La poesia apre con un appello diretto a tutti quelli che hanno la coscienza tranquilla, che vivono quasi senza prendere posizione su nulla: l’aggettivo tiepida, riferito alla casa, esprime bene questo stato di situazione intermedia, né calda né fredda, perfetta nella sua medietà, completata da cibi caldi e amicizie famigliari.
Dopo i primi quattro versi, arriva il pugno dello stomaco: considerate, dice il Primo Levi. Un verbo quasi scientifico, non dice ancora « pensateci », « dite la vostra »: invita a guardare il più oggettivamente possibile e a fare una reale considerazione di uno stato vivendi a cui è costretto un individuo. Non sta parlando dell’uomo con la U maiuscola, della specie umana, ma proprio di colui che nel campo di concentramento fatica (« il lavoro rende liberi » è il motto del lager di Auschwitz), che si ammazza per un pezzetto di pane, che non trova quiete in niente e che infine può morire per un sì o per un no. Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto: un’affermazione e un diniego. Siamo lontani anni luce dal tepore sereno e neutro dei primi quattro versi, siamo davanti ad una situazione « decisa », in il libero arbitrio non trova spazio.
Dopo la descrizione dell’uomo, ecco quella della donna, privata della sua bellezza fisica e della sua memoria, annichilita persino nel suo nome e nell’istinto materno e ridotta a scheletro di rana. Uomini e donne, quindi, defraudati delle loro caratteristiche umane e rimasti soli, tristi particelle corporali da vivisezionare: il lager ha rubato l’anima è ha lasciato solo corpi sofferenti.
Successivamente alla considerazione di tale scempio, non resta che un imperativo: è giunto il momento della riflessione, il momento del ricordo. Tutto quello che prima era considerato in maniera quasi analitica, forse per precepirne quella che chiamerei « assurdità reale », deve essere portato dentro il cuore, la ragione deve elevarsi a sentimento sotteso ad ogni azione quotidiana.
E’ di nuovo un quadro famigliare quello che si presenta alla conclusione della poesia: l’inizio e la fine della giornata, il dialogo con i figli. Il comando è quello di custodire il ricordo della degenerazione umana, di ripeterselo nella mente come un rosario pagano. E’ un’esigenza imprescindibile che sfocia in una maledizione contro tutti quelli che ne negano la necessità, che chiudono gli occhi e fanno finta di niente: la condanna all’indifferenza è fortissima, o almeno sembra tale, con i suoi strali che predicono malattia e disgrazie. Ma se pensiamo all’inferno descritto prima, quello inciso nel finale è comunque un disastro minore, un terremoto dentro un paradiso di normalità.
Sotto tale luce, lasciatemi una conclusione in tono sommesso, in un quadro generico e, se vogliamo, fuori contesto: non dico che ci sarebbe di giovamento se ci cadesse il soffitto in testa in testa, ma ogni tanto possiamo provare a fare crollare la Casa del Grande Fratello, seppellire la Talpa, fare sprofondare l’Isola dei Famosi, bruciare La Fattoria. Al loro posto, un attimo di pausa, a televisore spento, per guardarci negli occhi con chi ci sta vicino e ricordarci che esiste la realtà, con i suoi aspetti più scuri e con i suoi lati più luminosi, quella realtà dove ci siamo noi e altri come noi, di qualsiasi razza e condizione, ma sempre degni di essere uomini.

Publié dans:ebraismo |on 27 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Galileo Galilei: Lo scienziato e la cicala

dal sito:

http://digilander.libero.it/campanac/galilei.htm

GALILEO GALILEI

Lo scienziato e la cicala

da Il Saggiatore, 1623, edizione liberamente disponibile sul sito www.liberliber.it, pag.35 .

  Parmi d’aver per lunghe esperienze osservato, tale esser la condizione umana intorno alle cose intellettuali, che quanto altri meno ne intende e ne sa, tanto più risolutamente voglia discorrerne; e che, all’incontro, la moltitudine delle cose conosciute ed intese renda più lento ed irresoluto al sentenziare circa qualche novità. Nacque già in un luogo assai solitario un uomo dotato da natura d’uno ingegno perspicacissimo e d’una curiosità straordinaria; e per suo trastullo allevandosi diversi uccelli, gustava molto del lor canto, e con grandissima meraviglia andava osservando con che bell’artificio, colla stess’aria con la quale respiravano, ad arbitrio loro formavano canti diversi, e tutti soavissimi. Accadde che una notte vicino a casa sua sentì un delicato suono, né potendosi immaginar che fusse altro che qualche uccelletto, si mosse per prenderlo; e venuto nella strada, trovò un pastorello, che soffiando in certo legno forato e movendo le dita sopra il legno, ora serrando ed ora aprendo certi fori che vi erano, ne traeva quelle diverse voci, simili a quelle d’un uccello, ma con maniera diversissima. Stupefatto e mosso dalla sua natural curiosità, donò al pastore un vitello per aver quel zufolo; e ritiratosi in se stesso, e conoscendo che se non s’abbatteva a passar colui, egli non avrebbe mai imparato che ci erano in natura due modi da formar voci e canti soavi, volle allontanarsi da casa, stimando di potere incontrar qualche altra avventura. Ed occorse il giorno seguente, che passando presso a un piccol tugurio, sentì risonarvi dentro una simil voce; e per certificarsi se era un zufolo o pure un merlo, entrò dentro, e trovò un fanciullo che andava con un archetto, ch’ei teneva nella man destra, segando alcuni nervi tesi sopra certo legno concavo, e con la sinistra sosteneva lo strumento e vi andava sopra movendo le dita, e senz’altro fiato ne traeva voci diverse e molto soavi. Or qual fusse il suo stupore, giudichilo chi participa dell’ingegno e della curiosità che aveva colui; il qual, vedendosi sopraggiunto da due nuovi modi di formar la voce ed il canto tanto inopinati, cominciò a creder ch’altri ancora ve ne potessero essere in natura. Ma qual fu la sua meraviglia, quando entrando in certo tempio si mise a guardar dietro alla porta per veder chi aveva sonato, e s’accorse che il suono era uscito dagli arpioni e dalle bandelle nell’aprir la porta? Un’altra volta, spinto dalla curiosità, entrò in un’osteria, e credendo d’aver a veder uno che coll’archetto toccasse leggiermente le corde d’un violino, vide uno che fregando il polpastrello d’un dito sopra l’orlo d’un bicchiero, ne cavava soavissimo suono. Ma quando poi gli venne osservato che le vespe, le zanzare e i mosconi, non, come i suoi primi uccelli, col respirare formavano voci interrotte, ma col velocissimo batter dell’ali rendevano un suono perpetuo, quanto crebbe in esso lo stupore, tanto si scemò l’opinione ch’egli aveva circa il sapere come si generi il suono; né tutte l’esperienze già vedute sarebbono state bastanti a fargli comprendere o credere che i grilli, già che non volavano, potessero, non col fiato, ma collo scuoter l’ali, cacciar sibili così dolci e sonori. Ma quando ei si credeva non potere esser quasi possibile che vi fussero altre maniere di formar voci, dopo l’avere, oltre a i modi narrati, osservato ancora tanti organi, trombe, pifferi, strumenti da corde, di tante e tante sorte, e sino a quella linguetta di ferro che, sospesa fra i denti, si serve con modo strano della cavità della bocca per corpo della risonanza e del fiato per veicolo del suono; quando, dico, ei credeva d’aver veduto il tutto, trovossi più che mai rinvolto nell’ignoranza e nello stupore nel capitargli in mano una cicala, e che né per serrarle la bocca né per fermarle l’ali poteva né pur diminuire il suo altissimo stridore, né le vedeva muovere squamme né altra parte, e che finalmente, alzandole il casso del petto e vedendovi sotto alcune cartilagini dure ma sottili, e credendo che lo strepito derivasse dallo scuoter di quelle, si ridusse a romperle per farla chetare, e che tutto fu in vano, sin che, spingendo l’ago più a dentro, non le tolse, trafiggendola, colla voce la vita, sì che né anco poté accertarsi se il canto derivava da quelle: onde si ridusse a tanta diffidenza del suo sapere, che domandato come si generavano i suoni, generosamente rispondeva di sapere alcuni modi, ma che teneva per fermo potervene essere cento altri incogniti ed inopinabili.

Publié dans:Scienziati |on 27 avril, 2011 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno euphorbia_longifolia_477

Was known as Euphorbia donii

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Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 26 avril, 2011 |Pas de commentaires »

La predicazione di Paolo apostolo a Creta. dal muro di Varvara lavoro da Claudio S. Noullani, pittore. 2008

La predicazione di Paolo apostolo a Creta. dal muro di Varvara lavoro da Claudio S. Noullani, pittore. 2008 dans immagini sacre

http://www.imga.gr/apostolos_pavlos.htm

Publié dans:immagini sacre |on 26 avril, 2011 |Pas de commentaires »

« Lectio divina ». Il papa riporta tutti a scuola (Sandro Magister)

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347134

« Lectio divina ». Il papa riporta tutti a scuola

Ai parroci di Roma Benedetto XVI ha insegnato come si leggono le Sacre Scritture. E così ai seminaristi. Ma la sua lezione è per tutti. E l’ha messa in pratica nel suo libro su Gesù

di Sandro Magister

ROMA, 17 marzo 2011 – Nel secondo volume di « Gesù di Nazaret », come già nel primo, Benedetto XVI propone una lettura dei Vangeli non solamente storico-critica, né soltanto spirituale, ma storica e teologica insieme: l’unica lettura a suo giudizio capace di far incontrare il Gesù « reale ».
« Si tratta di riprendere finalmente – scrive nella prefazione del libro – i principi metodologici per l’esegesi formulati dal Concilio Vaticano II in ‘Dei Verbum’ 12. Un compito finora purtroppo quasi per nulla affrontato ».
Questi principi, papa Joseph Ratzinger li aveva richiamati con forza intervenendo al sinodo dei vescovi del 2008, dedicato proprio alla lettura delle Sacre Scritture.
E li ha ribaditi nell’esortazione apostolica postsinodale « Verbum Domini », diffusa lo scorso anno a consuntivo di quel sinodo.
Benedetto XVI ha talmente a cuore questo tipo di lettura delle Sacre Scritture che lo adotta sempre più di frequente anche negli incontri che ha con i sacerdoti e i seminaristi.
Nei giorni scorsi l’ha fatto due volte: il 4 marzo con gli studenti del Pontificio Seminario Romano e il 10 marzo con i preti della diocesi di Roma.
Papa Ratzinger usa riunire attorno a sé i preti di Roma ad ogni inizio di Quaresima. Negli anni passati aveva risposto alle loro domande. Quest’anno, invece, ha tenuto loro una « lectio divina », a commento di un passo degli Atti degli Apostoli.
Che cosa sia una « lectio divina », Benedetto XVI l’ha rispiegato nella « Verbum Domini ». È una « lettura orante » delle Sacre Scritture che si compone di quattro momenti fondamentali:

– la « lectio »: che cosa dice il testo biblico in sé;
– la « meditatio »: che cosa dice il testo biblico a noi;
– la « oratio »: che cosa diciamo noi a Dio in risposta alla sua Parola;
– la « contemplatio »: la conversione della mente, del cuore e della vita che Dio chiede a noi.

Agli studenti del Pontificio Seminario Romano, cioè ai futuri nuovi sacerdoti della diocesi di Roma, incontrati la sera del 4 marzo, Benedetto XVI ha tenuto una « lectio divina » su un passo del capitolo 4 della lettera di Paolo agli Efesini.
Il papa si è soffermato su alcune parole chiave, nella loro lingua originale: la chiamata (che in greco, ha detto, ha la stessa radice del « Paraclito », lo Spirito Santo), l’umiltà (la stessa parola greca che san Paolo adopera per indicare l’abbassamento del Figlio di Dio fino a farsi uomo e a morire sulla croce), la dolcezza (la stessa parola greca che si ritrova nelle Beatitudini).

Il testo integrale della « lectio divina » del papa con i seminaristi di Roma è ora nel sito del Vaticano, in più lingue:

> « Sono molto felice di essere qui… »

Ai preti di Roma, invece, papa Ratzinger ha commentato il cosiddetto « testamento pastorale » di san Paolo, il suo commovente discorso d’addio ai cristiani di Efeso e di Mileto, riportato negli Atti degli Apostoli al capitolo 20.
La « lectio » è stata tenuta nell’Aula della Benedizione, dietro la fronte superiore della basilica di San Pietro, quella da cui i papi si affacciano dopo che sono stati eletti e per le benedizioni solenni.
Benedetto XVI ha parlato per oltre un’ora, a braccio, con davanti semplicemente un foglio con degli appunti.
La trascrizione, con i necessari controlli, ha quindi richiesto tempo. E così, quando è stata resa pubblica, era ormai ritenuta dai media troppo « vecchia » per fare notizia.
Di conseguenza quasi nessuno, oltre i sacerdoti presenti, ne ha saputo qualcosa.
Eppure la « lectio divina » tenuta nell’occasione dal papa è di quelle che meritano di essere lette e gustate per intero. È un esempio di prim’ordine di aderenza sia alla lettera che allo spirito delle Sacre Scritture, sulla scia di Origene, Ambrogio, Agostino, Gregorio, dei Padri della Chiesa e dei grandi teologi medievali. Con un’attenzione viva alle sfide del tempo presente e all’incidenza della Parola di Dio sulla nostra vita.

Eccone qui di seguito alcuni passaggi, con lo stile tipico del linguaggio parlato.
_________

« NON UN CRISTIANESIMO ‘À LA CARTE’, SECONDO I PROPRI GUSTI… »

di Benedetto XVI

Cari fratelli, [...] abbiamo ascoltato il brano degli Atti degli Apostoli (20, 17-38), nel quale san Paolo parla ai presbiteri di Efeso, raccontato volutamente da san Luca come testamento dell’apostolo, come discorso destinato non solo ai presbiteri di Efeso, ma ai presbiteri di ogni tempo. San Paolo parla non solo con coloro che erano presenti in quel luogo, egli parla realmente con noi. Cerchiamo quindi di capire un po’ quanto dice a noi, in quest’ora. [...]
“Ho servito il Signore con tutta umiltà” (v. 19). “Umiltà” è una parola-chiave del Vangelo, di tutto il Nuovo Testamento. [...] Nella lettera ai Filippesi, san Paolo ci ricorda che Cristo, il quale era sopra a noi tutti, era realmente divino nella gloria di Dio, si è umiliato, è sceso facendosi uomo, accettando tutta la fragilità dell’essere umano, andando fino all’obbedienza ultima della croce (2, 5-8). Umiltà non vuol dire una falsa modestia – siamo grati per i doni che il Signore ci ha dato –, ma indica che siamo consapevoli che tutto quanto possiamo fare è dono di Dio, è donato per il Regno di Dio. In questa umiltà, in questo non voler apparire, noi lavoriamo. Non chiediamo lode, non vogliamo “farci vedere”, non è per noi criterio decisivo pensare a che cosa diranno di noi sui giornali o altrove, ma che cosa dice Dio. Questa è la vera umiltà: non apparire davanti agli uomini, ma stare sotto lo sguardo di Dio e lavorare con umiltà per Dio, e così realmente servire anche l’umanità e gli uomini.
“Non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi” (v. 20). San Paolo ritorna, dopo alcune frasi, di nuovo su questo punto e dice: “Non mi sono sottratto al dovere di annunciarvi tutta la volontà di Dio” (v. 27). Questo è importante: l’apostolo non predica un cristianesimo “à la carte”, secondo i propri gusti, non predica un Vangelo secondo le proprie idee teologiche preferite; non si sottrae all’impegno di annunciare tutta la volontà di Dio, anche la volontà scomoda, anche i temi che personalmente non piacciono tanto.
È la nostra missione di annunciare tutta la volontà di Dio, nella sua totalità e ultima semplicità. [...] E penso che il mondo di oggi sia curioso di conoscere tutto. [...] Questa curiosità dovrebbe essere anche la nostra: [...] di conoscere veramente tutta la volontà di Dio e di conoscere come possiamo e come dobbiamo vivere, qual è la strada della nostra vita. Quindi dovremmo far conoscere e capire – per quanto possiamo – il contenuto del « Credo » della Chiesa, dalla creazione fino al ritorno del Signore, al mondo nuovo. La dottrina, la liturgia, la morale, la preghiera – le quattro parti del Catechismo della Chiesa Cattolica – indicano questa totalità della volontà di Dio.
E anche è importante non perderci nei dettagli, non creare l’idea che il cristianesimo sia un pacchetto immenso di cose da imparare. Ultimamente è semplice: Dio si è mostrato in Cristo. Entrare in questa semplicità – io credo in Dio che si mostra in Cristo e voglio vedere e realizzare la sua volontà – ha dei contenuti e, a seconda delle situazioni, possiamo poi entrare nei dettagli o meno, ma è essenziale che si faccia capire anzitutto la semplicità ultima della fede. Credere in Dio come si è mostrato in Cristo è anche la ricchezza interiore di questa fede, dà le risposte alle nostre domande, anche le risposte che in un primo momento non ci piacciono e che sono tuttavia la strada della vita, la vera strada. Quando entriamo in queste cose anche non così piacevoli per noi, possiamo capire, cominciamo a capire che è realmente la verità. E la verità è bella. La volontà di Dio è buona, è la bontà stessa.
Poi l’apostolo dice: “Ho predicato in pubblico e nelle case, testimoniando a giudei e greci la conversione a Dio e la fede nel Signore Nostro Gesù” (v. 20-21). Qui c’è un riassunto dell’essenziale: conversione a Dio, fede in Gesù. Ma rimaniamo un attimo sulla parola “conversione”, che è la parola centrale o una delle parole centrali del Nuovo Testamento, [...] in greco “metànoia”, cambiamento del pensiero, [...] cioè reale cambiamento della nostra visione della realtà.
Siccome siamo nati nel peccato originale, per noi realtà sono le cose che possiamo toccare, sono i soldi, sono la mia posizione, sono le cose di ogni giorno che vediamo nel telegiornale: questa è la realtà. E le cose spirituali appaiono un po’ dietro la realtà. “Metànoia”, cambiamento del pensiero, vuol dire invertire questa impressione. Non le cose materiali, non i soldi, non l’edificio, non quanto posso avere è l’essenziale, è la realtà. La realtà delle realtà è Dio. Questa realtà invisibile, apparentemente lontana da noi, è la realtà.
Imparare questo, e così invertire il nostro pensiero, giudicare veramente come il reale che deve orientare tutto è Dio, questo è la parola di Dio. Questo è il criterio, Dio, il criterio di tutto quanto faccio. Questo realmente è conversione: se il mio concetto di realtà è cambiato, se il mio pensiero è cambiato. E questo deve poi penetrare tutte le singole cose della mia vita: nel giudizio di ogni singola cosa prendere come criterio che cosa dice Dio su questo. Questa è la cosa essenziale, non quanto ricavo adesso per me, non il vantaggio o lo svantaggio che avrò, ma la vera realtà, orientarci a questa realtà.
Dobbiamo proprio – mi sembra – nella Quaresima, che è cammino di conversione, esercitare ogni anno di nuovo questa inversione del concetto di realtà, cioè che Dio è la realtà, Cristo è la realtà e il criterio del mio agire e del mio pensare; esercitare questo nuovo orientamento della nostra vita.

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La trascrizione integrale della « lectio divina » tenuta da Benedetto XVI ai preti di Roma, il 10 marzo 2011:

> « È per me una grande gioia… »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno himantoglossum_hircinum_233e

Himantoglossum hircinum -Orchidaceae

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Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 25 avril, 2011 |Pas de commentaires »

San Marco Evangelista

San Marco Evangelista dans immagini sacre st_marc_joelle

http://www.enluminure.fr/joelle_marc.html

Publié dans:immagini sacre |on 25 avril, 2011 |Pas de commentaires »

25 aprile – San Marco Evangelista

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/20850

25 aprile – San Marco Evangelista
 
sec. I

Ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da famiglia benestante. San Pietro, che lo chiama «figlio mio», lo ebbe certamente con sè nei viaggi missionari in Oriente e a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. Oltre alla familiarità con san Pietro, Marco può vantare una lunga comunità di vita con l’apostolo Paolo, che incontrò nel 44, quando Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme la colletta della comunità di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sè il giovane nipote Marco, che più tardi si troverà al fianco di san Paolo a Roma. Nel 66 san Paolo ci dà l’ultima informazione su Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo: «Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi». L’evangelista probabilmente morì nel 68, di morte naturale, secondo una relazione, o secondo un’altra come martire, ad Alessandria d’Egitto. Gli Atti di Marco (IV secolo) riferiscono che il 24 aprile venne trascinato dai pagani per le vie di Alessandria legato con funi al collo. Gettato in carcere, il giorno dopo subì lo stesso atroce tormento e soccombette. Il suo corpo, dato alle fiamme, venne sottratto alla distruzione dai fedeli. Secondo una leggenda due mercanti veneziani avrebbero portato il corpo nell’828 nella città della Venezia. (Avvenire)

Patronato: Segretarie
Etimologia: Marco = nato in marzo, sacro a Marte, dal latino
Emblema: Leone

Martirologio Romano: Festa di san Marco, Evangelista, che a Gerusalemme dapprima accompagnò san Paolo nel suo apostolato, poi seguì i passi di san Pietro, che lo chiamò figlio; si tramanda che a Roma abbia raccolto nel Vangelo da lui scritto le catechesi dell’Apostolo e che abbia fondato la Chiesa di Alessandria.

La figura dell’evangelista Marco, è conosciuta soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di s. Pietro e s. Paolo; non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo, che secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l’arresto nell’orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo; i soldati cercarono di afferrarlo ed egli sfuggì nudo, lasciando il lenzuolo nelle loro mani.
Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l’annesso orto degli ulivi.
Nella grande sala della loro casa, fu consumata l’Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale “mio figlio”.

Discepolo degli Apostoli e martirio
Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò.
Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagnae del Tauro, Giovanni Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà e se ne tornò a Gerusalemme.
Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo.
Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi della figuraccia, volle seguirli di nuovo ad Antiochia; quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco.
In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro salutando i cristiani dell’Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò di seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio, l’apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di “Marco, il nipote di Barnaba” ai Colossesi; e a Timoteo chiese nella sua seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco “perché mi sarà utile per il ministero”.
Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch’egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro, senza elaborarla o adattarla a uno schema personale, cosicché il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza di un racconto popolare.
Affermatosi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo e segretario, ad evangelizzare l’Italia settentrionale; ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e dopo averlo lasciato, s’imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: “Pax tibi Marce evangelista meus” e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell’ultimo giorno.
Secondo un’antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d’Egitto, qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
Nella zona di Alessandria subì il martirio, sotto l’imperatore Traiano (53-117); fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante.
Dopo una notte in carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l’anno 72, secondo gli “Atti di Marco” all’età di 57 anni; ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.

Il Vangelo
Il Vangelo scritto da Marco, considerato dalla maggioranza degli studiosi come “lo stenografo” di Pietro, va posto cronologicamente tra quello di s. Matteo (scritto verso il 40) e quello di s. Luca (scritto verso il 62); esso fu scritto tra il 50 e il 60, nel periodo in cui Marco si trovava a Roma accanto a Pietro.
È stato così descritto: “Marco come fu collaboratore di Pietro nella predicazione del Vangelo, così ne fu pure l’interprete e il portavoce autorizzato nella stesura del medesimo e ci ha per mezzo di esso, trasmesso la catechesi del Principe degli Apostoli, tale quale egli la predicava ai primi cristiani, specialmente nella Chiesa di Roma”.
Il racconto evangelico di Marco, scritto con vivacità e scioltezza in ognuno dei sedici capitoli che lo compongono, seguono uno schema altrettanto semplice; la predicazione del Battista, il ministero di Gesù in Galilea, il cammino verso Gerusalemme e l’ingresso solenne nella città, la Passione, Morte e Resurrezione.
Tema del suo annunzio è la proclamazione di Gesù come Figlio di Dio, rivelato dal Padre, riconosciuto perfino dai demoni, rifiutato e contraddetto dalle folle, dai capi, dai discepoli. Momento culminante del suo Vangelo, è la professione del centurione romano pagano ai piedi di Gesù crocifisso: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”, è la piena definizione della realtà di Gesù e la meta cui deve giungere anche il discepolo.

Le vicende delle sue reliquie – Patrono di Venezia
La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud (680-689).
E in questo luogo nell’828, approdarono i due mercanti veneziani Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s’impadronirono delle reliquie dell’Evangelista minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l’arenarsi su una secca.
Le reliquie furono accolte con grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello; e riposte provvisoriamente in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro di San Marco.
Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata a termine nell’832 dal fratello Giovanni suo successore; Dante nel suo memorabile poema scrisse. “Cielo e mare vi posero mano”, ed effettivamente la Basilica di San Marco è un prodigio di marmi e d’oro al confine dell’arte.
Ma la splendida Basilica ebbe pure i suoi guai, essa andò distrutta una prima volta da un incendio nel 976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976) che lì si era rifugiato insieme al figlio; in quell’occasione fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale.
Nel 976-978, il doge Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo che la Basilica; l’attuale ‘Terza San Marco’ fu iniziata invece nel 1063, per volontà del doge Domenico I Contarini e completata nei mosaici e marmi dal doge suo successore, Domenico Selvo (1071-1084).
La Basilica fu consacrata nel 1094, quando era doge Vitale Falier; ma già nel 1071 s. Marco fu scelto come titolare della Basilica e Patrono principale della Serenissima, al posto di s. Teodoro, che fino all’XI secolo era il patrono e l’unico santo militare venerato dappertutto.
Le due colonne monolitiche poste tra il molo e la piazzetta, portano sulla sommità rispettivamente l’alato Leone di S. Marco e il santo guerriero Teodoro, che uccide un drago simile ad un coccodrillo.
La cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell’Evangelista, delle quali non si conosceva più l’ubicazione.
Dopo la Messa celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di un pilastro della navata destra, a lato dell’ambone e comparve la cassetta contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per la Basilica.
Venezia restò indissolubilmente legata al suo Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia un libro con la già citata scritta: “Pax tibi Marce evangelista meus”, divenne lo stemma della Serenissima, che per secoli fu posto in ogni angolo della città ed elevato in ogni luogo dove portò il suo dominio.
San Marco è patrono dei notai, degli scrivani, dei vetrai, dei pittori su vetro, degli ottici; la sua festa è il 25 aprile, data che ha fatto fiorire una quantità di detti e proverbi.

Autore: Antonio Borrelli 

Publié dans:Santi Evangelisti |on 25 avril, 2011 |Pas de commentaires »

Giovanni Paolo II: Cantico cfr Ef 1,3-10 – Dio salvatore (2004)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2004/documents/hf_jp-ii_aud_20040218_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 18 febbraio 2004

Cantico cfr Ef 1,3-10 – Dio salvatore
Vespri del lunedì della 1a settimana (Lettura: Ef 1,3-6)

1. Lo splendido inno di «benedizione», che apre la Lettera agli Efesini e viene proclamato ogni lunedì nella Liturgia dei Vespri, sarà oggetto di una serie di meditazioni lungo il nostro itinerario. Per ora ci accontentiamo di uno sguardo d’insieme a questo testo solenne e ben strutturato, quasi come una maestosa costruzione, destinata ad esaltare la meravigliosa opera di Dio, attuata per noi in Cristo.
Si parte da un «prima» che antecede il tempo e la creazione: è l’eternità divina nella quale già prende vita un progetto che ci supera, una «pre-destinazione», cioè il disegno amoroso e gratuito di un destino di salvezza e di gloria.
2. In questo progetto trascendente, che ingloba la creazione e la redenzione, il cosmo e la storia umana, Dio aveva prestabilito, «nella sua benevolenza», di «ricapitolare in Cristo», cioè di riportare a un ordine e a un senso profondo tutte le realtà, quelle celesti e quelle terrene (cfr 1,10). Certo, Egli è «capo della Chiesa, la quale è il suo corpo» (1,22-23), ma è anche il principio vitale di riferimento dell’universo.
La signoria di Cristo si estende, perciò, sia al cosmo sia a quell’orizzonte più specifico che è la Chiesa. Cristo svolge una funzione di «pienezza», così che in Lui si riveli il «mistero» (1,9) nascosto nei secoli e tutta la realtà realizzi – nel suo ordine specifico e nel suo grado – il disegno concepito dal Padre fin dall’eternità.
3. Come avremo occasione di vedere in seguito, questa sorta di Salmo neotestamentario fissa l’attenzione soprattutto sulla storia della salvezza che è espressione e segno vivo della «benevolenza» (1,9), del «beneplacito» (1,6) e dell’amore divino.
Ecco, allora, l’esaltazione della «redenzione mediante il sangue» della croce, la «remissione dei peccati», l’abbondante effusione «della ricchezza della grazia» (1,7). Ecco la filiazione divina del cristiano (cfr 1,5) e la «conoscenza del mistero della volontà» di Dio (1,9), mediante la quale si entra nell’intimo della stessa vita trinitaria.
4. Dato questo sguardo d’insieme all’inno che apre la Lettera agli Efesini, noi ora ascoltiamo san Giovanni Crisostomo, straordinario maestro e oratore, interprete fine della Sacra Scrittura, vissuto nel IV secolo e divenuto anche Vescovo di Costantinopoli, in mezzo a difficoltà di ogni genere, e sottoposto persino all’esperienza di duplice esilio.
Nella sua Prima omelia sulla Lettera agli Efesini, commentando questo Cantico, egli riflette con riconoscenza sulla «benedizione» con cui siamo stati benedetti «in Cristo»: «Che cosa ti manca, infatti? Sei diventato immortale, sei diventato libero, sei diventato figlio, sei diventato giusto, sei diventato fratello, sei diventato coerede, con lui regni, con lui sei glorificato. Tutto ci è stato donato e – come sta scritto – « come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? » (Rm 8,32). La tua primizia (cfr 1Cor 15,20.23) è adorata dagli angeli, dai cherubini, dai serafini: che cosa ti manca, ormai?» (PG 62, 11).
Dio ha fatto tutto questo per noi, continua il Crisostomo, «secondo il beneplacito della sua volontà». Che cosa significa questo? Significa che Dio appassionatamente desidera e ardentemente brama la nostra salvezza. «E perché ci ama in tal modo? Per quale motivo ci vuol tanto bene? Per sola bontà: la « grazia », infatti, è propria della bontà» (ibidem, 13).
Appunto per questo, conclude l’antico Padre della Chiesa, san Paolo afferma che tutto fu compiuto «a lode e gloria della sua grazia che ci ha dato nel suo Figlio diletto». Dio infatti «non solo ci ha liberati dai peccati, ma ci ha resi anche amabili..: ha ornato la nostra anima e l’ha resa bella, desiderabile e amabile». E quando Paolo dichiara che Dio lo ha fatto mediante il sangue del suo Figlio, san Giovanni Crisostomo esclama: «Nulla è più grande di tutto ciò: che il sangue di Dio sia stato versato per noi. Più grande dell’adozione a figli e degli altri doni, è che neppure sia stato risparmiato il Figlio (cfr Rm 8,32); grande, infatti, è che siano stati rimessi i peccati: ma più grande ancora è che ciò sia avvenuto mediante il sangue del Signore» (ibidem, 14).

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II, San Paolo |on 25 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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