Mat-21,01-Entre_a_Jerusalem

dal sito:
http://www.zenit.org/article-26347?l=italian
NELLA PASSIONE DEL SERVO LE DIRETTIVE DEL FINE VITA
Domenica delle Palme, 17 aprile 2011
di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 15 aprile 2011 (ZENIT.org).- Il Signore mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato,..sapendo di non restare confuso (Is 50,4-7).
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al disopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sottoterra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è il Signore!”, a gloria di Dio Padre (Fil 2,5-11).
Nella Domenica della Passione del Signore, è Gesù in persona a prendere la parola per bocca di Isaia: “Il Signore mi ha dato una lingua da discepolo…Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,..non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi” (Is 50,6). Gesù riconosce le proprie sembianze in questa figura sofferente del “Servo”, quasi a dirci: “ho imparato ad obbedire come un discepolo alla scuola della sofferenza, ma non sono stato costretto a subire l’accanimento della violenza sul mio corpo e del disprezzo sul mio volto, anzi: ho desiderato ardentemente i colpi dei miei torturatori, sapendo così di camminare verso la completa vittoria sul male e sulla morte, interamente abbandonato alla volontà del Padre”.
Ma oggi è anche per bocca di Paolo che Gesù ci parla. L’inno di Fil 2,6-11, infatti, è una sintesi perfetta del Mistero Pasquale di Cristo: dall’umiliazione dell’obbedienza “fino alla morte di croce” (2,8), all’esaltazione della vittoria totale e definitiva sulla morte. E’ in questo testo mirabile che vogliamo contemplare oggi la Passione del Signore. L’inno non è solamente una “perla teologica”, ma anche una mini enciclica di carattere pastorale. Lo comprendiamo dal contesto concreto della comunità cui Paolo si rivolge. Esso, infatti, è preceduto da una accorata esortazione all’unità tra i credenti: “Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù…” (Fil 2,1-5).
Paolo ha chiamato la comunità di Filippi “mia gioia e mia corona” (4,1), ma essa non è una comunità perfetta, ideale. L’armonia della fede è turbata dagli atteggiamenti di alcuni che fanno mostra di superiorità nei confronti di altri, rivelando così la presenza di uno spirito di parte e vanagloria. Paolo freme, ma non si rassegna, sforzandosi di rincuorare, confortare ed esortare tutti; quasi in ginocchio scongiura i fedeli di non litigare, di non mordersi, di non dividersi. Avendo in mente questo intento, per realizzarlo l’apostolo parte dalla storia di Gesù, nel quale tutti i credenti sono innestati, sin dal Battesimo, per quel dono dello Spirito che li fa essere membra solidali di un solo Corpo: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Tale unità profonda è manifestata concretamente dalla comunione operativa, segno di conformità alla stessa coscienza di Cristo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù..” (Fil 2,5).
Per giungere a questa altissima meta, afferma Paolo, è imprescindibile camminare nell’umiltà, imitando l’esempio sublime del Signore (cfr anche 1Pt 2,21-25).
Per comprendere, allora, la profonda umiltà di Gesù, occorre partire dalle prime parole dell’inno. Osserva un esperto: “L’inno inizia con un participio che descrive il modo di essere di Gesù Cristo prima della sua nascita: ‘Il quale, essendo nella condizione di Dio’. La parola ‘pur’ in greco manca, c’è un semplice ‘de’, che può venir tradotto all’opposto di ‘pur’, cioè con ‘proprio’; quindi non ‘pur essendo nella condizione di Dio’, ma ‘proprio essendo nella condizione di Dio’”. Il termine ‘condizione’, ‘modo di essere’ (morphe), è la realtà profonda di una persona che poi si manifesta concretamente all’esterno, è l’apparire esterno che però corrisponde all’essere, che manifesta al di fuori la natura intima di una realtà” (don Lorenzo Zani).
Che il Figlio di Dio si sia fatto servo, incarcerandosi nei limiti peccaminosi della condizione umana fino a subire l’ignominia della croce, è un comportamento di un’umiltà sconcertante, che tuttavia non deve stupire perché è del tutto conforme alla natura di Dio. Infatti “Dio è amore” (1Gv 4,8), e l’umiltà è il volto più vero, amabile e radicale dell’amore.
L’umile non è geloso e non suscita gelosia: per questo “Cristo Gesù…non ritenne un privilegio l’essere come Dio” (Fil 2,6). Gesù non ha voluto preservare gelosamente il suo rango divino, ma si è comportato come un re pronto a far sedere sul suo trono un mendicante, scambiando volentieri la propria regalità con la povertà di quello. Il Re divino ha fatto questo per ognuno di noi. Tale è stata la sua compassione per noi, da essere angosciato finché non ha sofferto la Passione di sangue che ci ha redenti. Ha così mostrato che l’umile non desidera trattenere nulla, nemmeno la propria vita, poiché è libero dal proprio io e dal possesso delle creature. Il dono sincero di sé e la compassione per la sofferenza altrui sono il suo modo di sentire, di pensare e di esistere.
Paolo ci dice oggi che questa meravigliosa umiltà è divina. Infatti, proprio essendo di natura divina Gesù ha scelto di nascere e vivere nel nascondimento, di non agire con spettacolarità, di donarsi agli uomini nel segreto fino a morire per loro sulla croce, solo e ignorato da tutti. Per questo già all’inizio della sua vita pubblica, Gesù ha ritenuto tentazione satanica la prospettiva di avvalersi dei suoi poteri e della sua uguaglianza con Dio (Mt 4,1-11), preferendo sempre la sottomissione al Padre e rifuggendo da ogni esibizione di sé. Evidentemente, però, l’incarnazione del Figlio di Dio non ha comportato la rinuncia alla divinità, ma ha nascosto il suo modo divino di essere, come l’obbedienza ad un altro fa nascondere la propria volontà.
Così Gesù “dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,7b-8). Che Gesù si sia voluto umiliare fino all’obbrobrio della croce non dice meschinità, servilismo, disonore della dignità personale, ma solo l’abisso inconcepibile della sua umiltà, che noi possiamo contemplare ed imparare in due direzioni.
Nei confronti di Dio, l’umiltà è la totale sottomissione della nostra alla sua volontà, attiva e pronta obbedienza accompagnata da fiducia totale, come Maria: “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38). Nei confronti degli uomini, l’umiltà è la volontà che si fa bambina, che si abbassa al livello dei poveri in statura morale e sociale, i “piccoli”, per condividerne la sorte e dar loro sollievo nella sofferenza. Così intesa, l’umiltà non è tanto una condizione sociale, o un’apparenza, o un comportamento (anche se la Bibbia non manca di alludere all’uomo povero, senza peso nella società), ma è un modo di essere e di esistere, uno stile di vita che procede dal cuore dell’uomo, dalla sua coscienza, e che mette spontaneamente in moto la volontà di servire e beneficare tutti. Una simile umiltà è sempre obbediente e riconoscente, direi “eucaristica”. Gesù è umile perché è mite, obbediente; Gesù è Eucaristia.
Egli è stato obbediente al Padre dal concepimento “fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,8). L’obbedienza di Gesù non si è fermata nemmeno di fronte all’esperienza umana più dolorosa, più ignominiosa. E morire, per Gesù, è stato infinitamente più tremendo che per ogni altra persona, in quanto egli è il Signore della vita.
L’umiltà del Figlio di Dio, iniziata con la decisione di non conservare gelosamente le proprie prerogative divine, trova sulla croce il suo culmine e la sua massima rivelazione: qui Gesù ha condiviso la sorte di ogni ultimo fra gli ultimi degli uomini, ma proprio per questo“Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,9). L’esaltazione del Crocifisso ha questo scopo: che “ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!” (Fil 2,11).
E’ il grido riconoscente della vita, grido di gioia che scaturisce dalla fede nella Risurrezione; fede che vince continuamente le forze della morte perché ci fa partecipi della vittoria di Cristo, diventata nostra. Tutto ciò è vero anzitutto per la nostra morte (ecco le vere “direttive” che riguardano la fine e il fine della nostra vita, anticipate dalla risurrezione di Gesù!), ma è vero anche per ogni giorno della nostra vita, in cui possiamo essere vincitori sulle forze della morte, vale a dire su tutto ciò che ci porta alla tristezza, allo scoraggiamento, all’angoscia di continuare a vivere senza che apparentemente “ne valga la pena”.
E’ una “pena” che vale infinitamente, poiché la fede ci rende partecipi delle sofferenze di Cristo, e per ciò stesso anche della gloria della sua Risurrezione.
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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/22142.html
Omelia (17-04-2011)
mons. Gianfranco Poma
Davvero costui era Figlio di Dio
Il racconto della Passione di Gesù è il tesoro più prezioso che la Chiesa possieda, che conserva e venera con la più grande cura.
Il Padre Martini, nel ormai lontano settembre del 1977, in un corso di esercizi spirituali da lui guidato, iniziava la meditazione sulla Passione con questa preghiera: « Signore, noi vogliamo guardare Te per conoscere il Padre. Tu ci riveli il Padre dalla croce. Rivela, o Signore, a noi, il mistero della Croce, fa’ che non ne abbiamo paura, fa’ che in esso conosciamo Dio, conosciamo Te, Figlio del Padre, conosciamo noi stessi, peccatori salvati. Donaci quella particella di intelligenza del mistero della Croce che hai stabilito per ciascuno di noi. Fa’ che la nostra vita segua coerente con ciò che Tu ci fai conoscere, e se vuoi farci prima praticare che conoscere, farci prima amare che comprendere, donaci il tuo Spirito attraverso la tua morte e risurrezione gloriosa. Ti adoriamo presente tra noi, vivo, risorto, glorioso nei secoli dei secoli. Amen. »
E’ così ricco il racconto della Passione di Gesù, così inesauribile il mistero che ci viene annunciato che noi non possiamo che pregare perché il Signore ci doni il suo Spirito che ce ne faccia comprendere almeno una particella. Possiamo percorrere diverse vie nella lettura di queste pagine del Vangelo, ma quella centrale è la via indicata dal P. Martini, quella che guarda alla Passione come all’evento in cui si compie la rivelazione somma del mistero di Dio: si tratta di guardare alla Croce per arrivare alla conoscenza di Lui, per entrare nel mistero trinitario del Padre che ci dona il Figlio, nel mistero della morte di Dio. E’ il grande teologo Hans Urs Von Balthasar che ha approfondito teologicamente questo tema, praticamente fermo dal 1500. Entrando nella meditazione della Passione, con tutto ciò che essa significa per noi, egli fa riferimento alla piccola Apocalisse di Isaia (24,17-23): « Terrore, fossa e laccio ti sovrastano, o abitante della terra…Certo barcollerà la terra come un ubriaco, vacillerà come una tenda; peserà su di essa la sua iniquità, cadrà e non si rialzerà. Arrossirà la luna, impallidirà il sole, perché il Signore regna sul monte Sion e in Gerusalemme e davanti ai suoi anziani sarà glorificato ». Si sente costretto ad evocare queste parole, il teologo, entrando nel tema più oscuro della storia, la Morte di Dio, ed aggiunge: « Se Dio muore, tutto muore, se la Parola rivelante di Dio ad un certo punto tace, tutto il mondo tace », facendoci capire la drammaticità e la serietà di questa riflessione quando, fatta con estrema verità, implica l’impostazione di tutta la nostra vita.
Von Balthasar inizia il commento teologico al racconto della Passione, ricollegandosi alla domanda che i Padri della Chiesa già si ponevano: « Perché questo sangue è stato versato? ». E dopo aver percorso la storia della teologia con le sue diverse risposte, ritorna a porre la Passione al centro, al termine dell’opera di Dio, ma sottolineando con maggiore consapevolezza la difficoltà e la fatica anche teologica di chi vuole indagare il mistero della rivelazione della gloria di Dio nella morte di Cristo. E anche noi ci troviamo di fronte alla Croce e come il centurione del Vangelo, siamo presi dal timore che deriva dall’esperienza del mistero: i due termini che a noi appaiono antitetici, la rivelazione di Dio nell’annientarsi di Dio sono il cuore del mistero.
Come ogni anno, nella settimana santa, la Liturgia continua a leggere per due volte il racconto della Passione, nella domenica delle Palme (uno dei tre sinottici) e il venerdì santo (il Vangelo di Giovanni). All’uomo moderno che pensa di essere cresciuto e di poter bastare a se stesso, di avere strumenti sufficienti per fare a meno di Dio, di avere nelle proprie mani ormai strumenti così potenti da non aver bisogno della potenza di Dio, la Liturgia continua ad offrire il racconto della Passione di Gesù, la rivelazione ultima del volto di Dio che si annienta per noi. L’uomo moderno ritiene di poter fare a meno di Dio: fa a meno del Dio potente che si è costruito con la propria mente. Ma Dio non è così: l’uomo può anche fare a meno di un Dio potente ma non di un Dio che si annienta per lui, che si abbassa, che lo serve, che gli dona tutto nel silenzio, che continua ad amarlo. Di fronte alla Croce di Cristo, l’uomo è messo di fronte al mistero di un Dio che non ostacola, non è geloso della potenza dell’uomo, ma proprio come Dio lo serve e lavando i piedi della sua creatura, si rivela nell’intimo di sé. La Croce di Cristo suscita in noi (e a questo punto ci guida in particolare il Vangelo di Giovanni) il desiderio di una penetrazione amorosa del mistero di Dio che si rivela attraverso il farsi niente, perché l’uomo viva.
E’ illuminante per noi l’esperienza della Passione di Gesù vissuta da Pietro: Pietro aveva seguito Gesù con entusiasmo, per lui avrebbe donato la vita. Pietro amava Gesù. Quando inizia il dramma della Passione, dice Matteo (26,56) « tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono ». Ma Pietro lo aveva seguito da lontano (26,58): lui amava Gesù, ma ora è confuso, non sa più chi è Gesù e ha perso anche la sicurezza per se stesso. Non ha il coraggio di seguire Gesù ma neanche lo vuole abbandonare: è ormai in pieno smarrimento. Alla donna che lo interroga ripetutamente risponde imprecando e giurando: « Io non conosco quell’uomo ». « Ma subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola di Gesù: Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte. E uscito fuori, pianse amaramente ». Pietro « si ricordò »: ha una percezione nuova della realtà, dunque tutto è secondo il progetto di Dio. Ha una conoscenza nuova di Cristo, di Dio e di se stesso: finalmente si spezza il velo e Pietro incomincia a capire tra le lacrime che Dio si rivela nel Cristo schiaffeggiato, insultato, rinnegato da lui. Pietro, che avrebbe voluto morire per Cristo, comincia a capire che è Cristo che muore per lui: comincia a capire quello che per tutta la vita non aveva capito, che Dio gli vuole donare la vita, l’amore, che lui invece respinge.
Il racconto della Passione continua a mostrarci la debolezza di Dio, la sua vulnerabilità. Matteo ci mostra la reazione di tutti coloro che passano sotto la Croce e insultano Gesù e ci conduce al momento della sua morte. « Verso mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». E’ misteriosissimo questo ultimo grido che non ha neppure parole: le parole del salmo e tutto ciò che il Vangelo descrive cerca di esprimere l’indicibile. Di fronte alla morte di Gesù non c’è che il silenzio, che ha delle risonanze cosmiche che nella fede diventano significative. Il velo del tempio si spezza, la terra trema, si spezzano le pietre… Il centurione e quelli che erano più vicini cominciano a dire: Davvero quest’uomo era Figlio di Dio. Nella maniera più lontana da quello che ci saremmo aspettato, si manifesta il paradosso di Dio. Quelli che hanno avuto il coraggio di guardare la fragilità, la vulnerabilità di Gesù, hanno visto cadere tutti i pregiudizi, anche teologici, con cui avevano pensano a Dio, al suo modo di agire…Tutte le riserve mentali si sono dissolte a contatto con la sguarnita verità con cui Dio si è manifestato. Se abbiamo il coraggio di fare il passo che ci tiene lontani dalla Croce, di superare il cerchio di coloro che gridano, giudicano, e di lasciare che il suo amore faccia cadere il muro di paura, superbia, ipocrisia con cui rimaniamo chiusi nella nostra fragilissima potenza, allora cade la nostra antica conoscenza di Dio, la sua intangibilità, l’alterità assoluta, l’inaccessibilità: in Cristo debole, povero, vulnerabile, Dio può entrare nel cuore di ognuno di noi e diventare l’esperienza che ci cambia.