Venerdì Santo

dal sito:
http://www.apostoline.it/riflessioni/nuovo_test/abbiamo_visto_il_signore.htm
ABBIAMO VISTO IL SIGNORE
di MARIA KO HA FONG, biblista
«Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credo”. Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù…» (Gv 20,24-26).
Perché non eri con noi? Come mai non c’eri? Dove sei stato? Sai cosa hai perso?… Nessuna domanda del genere, nessun rimprovero, nessun interrogatorio, nessun controllo, nessuna indagine di curiosità. Ai tuoi fratelli, o Tommaso, premeva soltanto una cosa: comunicarti una bella notizia, condividere con te l’esperienza straordinaria, farti provare l’emozione intensa di cui erano pervasi, coinvolgerti rimediando ciò che hai perso nella tua assenza, farti partecipe della gioia che spettava anche a te perché eri uno di loro.
Ti aspettavano con ansia. Non appena udirono avvicinarsi i tuoi passi, già volsero tutti lo sguardo verso quella porta chiusa. Come mettesti i piedi nella stanza, tutti accorsero da te dicendoti quasi a gara: “Abbiamo visto il Signore!”. Sui volti raggianti davanti a te non si trovò più nessuna traccia di quella tristezza che adombrava tutti nei giorni precedenti di angoscia e di dolore. Dalla loro voce era scomparsa quella nota di scoraggiamento e di delusione che tu conoscevi bene.
Ora tutti gli occhi erano fissi su di te aspettando la tua reazione. Aspettavano un grido di gioia, un’esclamazione di stupore. Aspettavano forse, che tu dicessi loro: «Ma davvero? Come è avvenuto? Dove? Quando? Come è apparso? Cosa ha detto? Raccontatemi!…». E invece niente di tutto ciò. Al posto degli “Ah!” e “Oh!” di meraviglia, uscì dalla tua bocca una litania fredda di “se non…”. Tu non credevi. Volevi vedere, toccare, constatare, esaminare. Volevi prove certe, concrete. Non ti bastava né l’emozione contagiante, né la testimonianza eloquente. Esigevi l’esperienza diretta, e questa non te la potevano dare i tuoi fratelli, pur con tutto il loro entusiasmo e con tutto il bene che ti volevano.
Trascorsero i giorni e la vita procedeva normale. Tu continuavi a stare insieme con i fratelli come prima, ma c’era qualcosa di cambiato in te e negli altri. Avvertivi una distanza creatasi misteriosamente tra te e loro. Essi erano buoni e cordiali con te come al solito, o forse, più ancora del solito; eppure tu ti sentivi estraneo, lontano, persino fuori posto in mezzo a loro. Ti accorgevi che essi avevano qualcosa che ti mancava. L’avvenimento di quella sera era stato qualcosa di decisivo, di trasformante. E quella sera tu non c’eri.
Avresti potuto lasciarti coinvolgere. Avresti potuto entrare in quel “noi” gridando insieme agli altri: “Abbiamo visto il Signore”, ma non l’hai voluto; e i tuoi fratelli ti rispettavano. Sapevano bene che il Signore amava manifestarsi in una varietà di tempi e di modi, sapevano pure che tu eri un tipo non facile da persuadere. In mezzo a loro tu ti distinguevi come uomo della concretezza, retto, sincero, ma un po’ rigido, testardo, unilaterale. Ben due volte hai frainteso persino Gesù per questa tua durezza di mente e di cuore (cf Gv 11,16; 14,5).
Diametralmente opposto rispetto a Giovanni, che possedeva una forte capacità d’intuizione e una spiccata sensibilità per il mistero, tu facevi fatica a lanciarti più in là e più in alto, oltre al visibile e tangibile. Diverso da Pietro, l’apostolo impulsivo, irruente, intraprendente, tu non ti compromettevi senza ragione, non ti fidavi senza prove. Eri diverso da Andrea, affabile, socievole, zelante e premuroso di far conoscere Gesù agli altri; diverso da Filippo, semplice, schietto e spontaneo; diverso da Matteo, da Giacomo, da Simone…
Insomma, voi non formavate un gruppo omogeneo. Non mancavano momenti di tensione e di disarmonia tra di voi, litigavate qualche volta per delle banalità. La domanda di Pietro a Gesù: “Quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me?” (Mt 18,21) forse non era una semplice domanda teorica. C’era persino un po’ di concorrenza tra di voi. Al contrario di quello che vi insegnava Gesù, ambivate di essere il primo, il più grande del gruppo.
Non eravate persone ideali, perfette. Non rappresentavate modelli indiscutibili, ma eravate uomini comuni di carattere diverso, di provenienza e professione diversa. Tutti però attirati dallo stesso Gesù, il quale, in tempi diversi e in circostanze diverse vi ha rivolto lo stesso invito: “Vieni e seguimi!”. Questo era ciò che vi univa ed era tutto ciò che contava.
Tu, Tommaso, davi molta importanza a questa unione fondata in Gesù, apprezzavi la fratellanza fra di voi. Anche nei giorni di disagio interiore dopo quella sera, tu rimanevi fedele alla comunità, alla comunione di preghiera e di carità. Non hai fatto come Cleopa e l’altro discepolo, i quali, stanchi, delusi, scoraggiati, lasciarono la comunità e presero la via per Emmaus, lontano da Gerusalemme, lontano dalla croce, lontano dai loro sogni frantumati, lontano dai fratelli. Il loro era un viaggio di fuga, di evasione, di regresso disperato. A quei due Gesù apparve lungo il cammino, con la sua parola riscaldò il loro cuore, allo spezzare del pane rivelò la novità più strepitosa della storia: Egli è il Risorto per sempre, l’eterno presente. I due ripartirono poi per Gerusalemme, ritornarono dai fratelli raccontando loro la gioia di quel meraviglioso incontro.
A te, invece, Gesù giunse in comunità. Otto giorni dopo arrivò anche per te l’occasione di vedere il Signore. La comunità divenne per te il luogo della visita del Risorto, il contesto in cui egli si rivelò per rinvigorire la tua fede, l’ambiente vitale della tua confessione di fede intensa e profonda: “Mio Signore e mio Dio!”.
Dal tuo tempo al nostro sono ormai passati quasi duemila anni. La tua comunità dovrebbe trovare un riflesso nelle nostre comunità cristiane. Che ne pensi, Tommaso, riusciamo a imitarvi? Le nostre comunità sanno essere risorsa vitale per ognuno di noi come la tua è stata per te? San Basilio scrisse una pagina splendida parlando della bellezza della vita di comunità: «Il primo e grande inconveniente di chi vive in completa solitudine è l’essere soddisfatto di sé. Costui non ha nessuno che giudica la sua condotta e ben presto penserà di essere arrivato alla perfezione della legge. Conservando le sue capacità inattive, non conoscerà ciò di cui ha bisogno e non potrà constatare se compie progressi nelle sue azioni, perché gli verrà meno l’occasione di praticare i comandamenti. In che cosa mostrerà la sua umiltà, se non ha nessuno davanti al quale abbassarsi? Verso chi userà misericordia una volta che si è escluso dai rapporti con gli altri? Come potrà esercitarsi alla mitezza se non ha nessuno che si oppone alla sua volontà? […] Tu che vivi solo con te stesso, a chi laverai i piedi? Dopo di chi ti metterai come ultimo? Chi servirai? Questa felicità e questa gioia d’essere numerosi fratelli che abitano insieme, simile – dice lo Spirito Santo – al profumo che scende dalla barba del grande sacerdote, come si può trovarla nella casa di chi vive da solo?».
Tu, Tommaso, che sei stato uno dei primi ad aver beneficiato della ricchezza di questo “habitare in unum” dei fratelli, pensi che le nostre comunità cristiane di oggi siano ancora capaci di diffondere l’entusiasmo contagioso dell’ “abbiamo visto il Signore”? I nostri fratelli e le nostre sorelle hanno la pazienza di rispettare i ritmi diversi e di aspettare con chi è nell’incertezza gli “otto giorni dopo”? Le nostre comunità cristiane potranno essere sostegno a chi è vacillante, ristoro a chi è ferito, speranza per chi è scoraggiato? Potranno diventare spazio e occasione per una confessione di fede autentica e profonda di ogni fratello?
Grazie, o Tommaso, per mezzo tuo, abbiamo una delle più belle beatitudini pronunciate dal Signore: “Beati quelli che credono pur non avendo visto”; per mezzo tuo, abbiamo una meravigliosa testimonianza della bellezza di seguire insieme Cristo e proclamare insieme: “abbiamo visto il Signore!”.
(da « Se vuoi »)
dal sito:
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/295q05a1.html
(L’Osservatore Romano 23 dicembre 2010)
Fede, ragione e dialogo tra le religioni
Se conosciamo noi stessi possiamo confrontarci con gli altri
Pubblichiamo ampi stralci della lezione tenuta dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso in occasione del dottorato honoris causa che gli è stato conferito dall’Institut Catholic di Parigi.
di Jean-Louis Tauran
Ci sono coincidenze nella storia che in realtà sono appuntamenti. Il 25 agosto 1900, a Weimar, uno scrittore moriva nella follia, Friedrich Nietzche. Qualche tempo prima, aveva composto una sorta di biografia, Ecce Homo, rivelatrice dell’angoscia che lo attanagliava: « Dov’è Dio? » si chiedeva. « Ve lo dirò io: l’abbiamo ucciso, voi e io. Dio è morto, siamo noi ad averlo ucciso ». Nello stesso momento, a Roma, un vecchio Papa, Leone xiii (aveva allora 90 anni) redigeva quella che sarebbe stata l’enciclica Tametsi futura, resa pubblica il 1° novembre 1900. « Bisogna reintegrare il Signore Gesù nel suo ambito; molti sono lontani da Gesù Cristo, più per ignoranza che per perversità; numerosi sono quelli che studiano l’uomo e la natura, ben pochi quelli che studiano il Figlio di Dio. Supplichiamo quanti sono cristiani di fare tutto il possibile per conoscere il loro Redentore com’è veramente ».
L’accostamento dei due testi rivela il dramma spirituale che vivono ancora gli uomini e le donne di quel tempo. Da un lato, la ribellione dell’intelligenza e dall’altro l’adesione a un Dio che esercita la sua sovranità sulla mente di ognuno nella concretezza del quotidiano. Abbiamo sperimentato cos’è il mondo senza Dio: l’inferno. L’umanità nel secolo scorso ha conosciuto la notte dei due totalitarismi che hanno generato gli eccessi che conosciamo fin troppo bene. Essi avevano annunciato la morte di Dio, organizzato la persecuzione dei credenti ed escluso definitivamente la religione dalla sfera pubblica.
Ma Dio, che era stato congedato, in realtà era sempre lì. Come poteva essere diversamente? L’ateismo insegnato e praticato non è mai riuscito a eliminare Dio dall’orizzonte dell’uomo. La ricerca di Dio nasce più forte che mai, il sacro interroga, la presenza di un islam europeo che si afferma, il successo delle sette, l’attrazione esercitata dalle forme di saggezza provenienti dall’Asia, il lungo Pontificato di Giovanni Paolo II che ha ridato alla Chiesa la sua visibilità e l’insegnamento di Papa Benedetto XVI che le dà la sua interiorità, hanno contribuito a farci ricordare che l’uomo è prima di tutto la creatura che s’interroga sul « senso del senso » (Paul Ricouer). È la coscienza – la facoltà di riflettere sul proprio destino, sul senso della vita e della morte – a distinguere l’uomo dai regni vegetale e animale. Egli è il solo a prevedere un aldilà. La religione non è un momento particolare della storia, essa appartiene alla natura dell’uomo. Nelle nostre società multiculturali e plurireligiose, credenti o non credenti, tutti, ci poniamo le tre domande fondamentali di Emmanuel Kant: che cosa posso conoscere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare?
Credenti o non credenti, aspettiamo qualcosa che dia senso alla nostra esistenza, che salvi la nostra vita dall’inutilità e dall’abisso. Alcuni lo trovano nella politica, altri nell’apparire, altri ancora nell’edonismo. Come ha così ben osservato Dostoevskij: « L’uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa (…) se l’uomo rifiuta Dio, s’inginocchierà davanti a un idolo. Noi siamo tutti idolatri e non atei ». Il desiderio di credere è così forte nell’uomo che, dopo aver espulso Dio dalla propria vita, un’altra fede vi s’insedierà: la fede in un altro assoluto che non è altro che l’uomo stesso: « Homo homini deus » per dirla come Feuerbach. Ieri Dio era assente; oggi ci sono troppi dei!
È in questo contesto che si situa il dialogo interreligioso. Quando i credenti dialogano, cercano di conoscersi e di arricchirsi gli uni gli altri con il loro patrimonio spirituale, rispettando allo stesso tempo la libertà di ognuno, al fine di considerare quello che possono fare insieme per il bene della società. Il dialogo interreligioso non ha come fine la conversione dell’altro, sebbene spesso la favorisca. Il dialogo interreligioso sarà però autentico solo se ognuno resterà fedele alla propria fede. Non la si mette affatto fra parentesi; al contrario la si approfondisce per essere meglio in grado di darne conto.
Direi che tre atteggiamenti s’impongono: il dovere dell’identità, avere un’identità spirituale (problema dell’ignoranza in materia di religione); il coraggio dell’alterità, gli altri credenti possono arricchirmi; la franchezza delle nostre intenzioni, testimoniamo, proponiamo, evitando gli eccessi del proselitismo. Ma il paradosso sta nel fatto che le religioni sono spesso percepite come un pericolo: fanatismo, fondamentalismo, derive settarie, sono di frequente associate alla religione, e ciò soprattutto a causa di azioni terroristiche ispirate da motivi religiosi, perpetrate da adepti sviati e minoritari di una religione.
« Nessuna circostanza vale a giustificare tale attività criminosa, che copre di infamia chi la compie, e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una religione, abbassando così la pura verità di Dio alla misura della propria cecità e perversione morale ». Non conosco condanna più sferzante di quella di Benedetto XVI pronunciata davanti al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede all’inizio del 2006. In effetti le religioni – o piuttosto alcuni credenti – sono capaci del meglio come del peggio. Le religioni possono mettersi al servizio di un progetto di santità o di alienazione: possono predicare la pace o la guerra. Da qui la necessità per i loro responsabili di coniugare fede e ragione.
Cosa possono apportare le religioni alla società? Sono una risorsa?
La mia risposta è evidentemente affermativa. Se esiste un umanesimo, esso affonda le sue radici nell’humus cristiano: la persona umana come valore supremo, la sua dignità, i suoi diritti fondamentali, il principio di solidarietà e di sussidiarietà, la giustizia e la pace sono valori cristiani. La prima scuola nel continente europeo è fondata da un monaco, Alcuino, alla corte di Carlo Magno. È la Chiesa cattolica a fondare le prime università. Le élite del continente africano e di quello asiatico sono state formate in istituti d’istruzione cristiani. Ci sono pensatori e teologi all’origine del diritto delle genti.
È il Papato a realizzare le prime meditazioni di pace. Infine, bisogna ricordare che è stato il cristianesimo a riuscire a far inscrivere nelle società moderne la distinzione fra il fatto politico e il fatto religioso, principio che ha sconvolto le relazioni internazionali. Tutte le religioni ritengono la famiglia come l’ambito in cui s’impara a vivere insieme; che la terra, quella in cui sono nato, con la sua storia, modella la mia identità; che l’educazione è non solo conoscenza ma anche trasmissione di valori e che la politica e l’economia non sono il tutto dell’uomo; infine che la vita interiore è necessaria.
La grandezza dell’ebraismo, come quella dell’islam, consiste indubbiamente nel denunciare l’idolatria. La grandezza del cristianesimo nel ricordare che Dio si è fatto uomo affinché diventassimo suoi figli. Insieme dobbiamo denunciare ogni pretesa dell’uomo a farsi Dio. Non dimentichiamo mai che la tentazione del paganesimo è di divinizzare tutto.
Tutti i credenti dovrebbero poter unire le loro buone volontà quando si tratta di servire, di curare, di educare. Purtroppo però due grandi ostacoli condizionano il diffondersi dei credenti: la crisi dell’intelligenza e la difficoltà della trasmissione dei valori.
La crisi dell’intelligenza: siamo uomini e donne superinformati, ma abbiamo grandi difficoltà a pensare, a mettere in ordine le nostre idee, ad assaporare il silenzio. Ciò che manca di più all’uomo di oggi è una vita interiore. Pascal diceva: « La grande disgrazia degli uomini è che non sanno stare a riposo nella propria stanza ».
La crisi della trasmissione dei valori: siamo assicurati contro tutti gli infortuni, salvo la malattia e la morte, e ciò che importa è sentirsi senza vincoli, anche se per questo si deve sacrificare un amico, un parente, un collega. Si pratica un umanesimo sociale che si riduce a dire: non facciamo il male, ma non abbiamo bisogno di Dio per fare il bene! È un mondo chiuso a Dio! L’uomo è capace di vere imprese; non si deve aspettare nulla da Dio!
Ora noi cristiani faremo sempre resistenza di fronte a questo mondo. Con le parole di Pascal: « Al di fuori di Gesù Cristo non sappiamo né cos’è la vita, né cos’è la morte, né cos’è Dio, né cosa siamo noi stessi ». Ma è a questo mondo, al nostro mondo, che dobbiamo annunciare Gesù Cristo e il suo Vangelo, « con dolcezza e rispetto », come raccomanda Pietro. Di fatto l’unico problema esistente, e che è il valore fondamentale da trasmettere e da proporre, è di sapere se c’è stato un caso unico in cui un uomo ha avuto il diritto di dire di essere Dio; non perché quest’uomo si è fatto Dio, ma perché Dio si è fatto uomo. È tutto qui! Non è un’utopia!
Ecco cosa dobbiamo proporre, ecco cosa celebriamo. Se proviamo a volte qualche dubbio, un po’ di sconforto, ricordiamoci di quei due doni magnifici con cui Dio ci ha gratificati: un’intelligenza per comprendere e un cuore per amare.
Non dobbiamo essere complessati. Si dice che siamo minoritari. Diciamo che siamo una minoranza che conta! Nel Collège des Bernardins, Benedetto XVI ha magistralmente ricordato la novità dell’annuncio cristiano. Questa novità non è altro che la possibilità di dire ora a tutti i popoli: « Egli si è mostrato. Egli personalmente. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato ». Il Papa proseguiva dicendo che i nostri contemporanei, nonostante le apparenze, sono essi stessi alla ricerca di Dio e devono essere messi in condizione di poter « cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati ». E concludeva: « Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi ». La ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo restano ancora oggi il fondamento di qualsiasi cultura vera.
Il dialogo interreligioso non può riposare su una base d’ignoranza globale. Noi abbiamo delle radici; dobbiamo conservare il patrimonio umano e spirituale che ci ha modellati. Abbiamo un ruolo da svolgere dal momento che tanti giovani sono eredi senza eredità e costruttori senza modello.
Nel 1905 Ferdinand Buisson non esitò a scrivere: « Per l’educazione di un bambino che deve diventare uomo, è bene che sia, di volta in volta, messo a contatto con i versetti appassionati dei profeti d’Israele e con i filosofi greci, che abbia conosciuto e sentito qualcosa della Città antica. Sarà bene che gli si facciano conoscere e ascoltare le più belle pagine del Vangelo, come pure quelle di Marco Aurelio, che abbia sfogliato, come Michelet, tutte le Bibbie dell’umanità, che gli si faccia attraversare, non con pregiudizi e con spirito critico, ma con calorosa simpatia, tutte le forme di civiltà che si sono succedute. Ciò che risulterà da questo studio non sarà il disprezzo, l’odio, l’intolleranza, al contrario sarà una profonda simpatia, un’ammirazione rispettosa per tutte le manifestazioni del pensiero incessantemente in cammino verso un ideale incessantemente in crescita ».
Il secolo che inizia ha ereditato da quello che l’ha preceduto: come lo scorso secolo anche questo è dominato dall’economia, dalle guerre e dalle disuguaglianze. Ma è anche arricchito dai progressi delle scienze e della tecnica. I nostri contemporanei sono più consapevoli delle loro responsabilità nella gestione delle risorse naturali e nell’uso da fare dei risultati della ricerca scientifica. Dopo aver dominato le realtà fisiche, ci si avventura ora nel dominio del vivente. Una domanda sorge spontanea: andiamo verso uno scontro o verso un dialogo fra culture e religioni? Come cristiani quale sarà il nostro contributo? Saremo ispiratori o accompagnatori? È indubbiamente difficile rispondere, ma sono convinto che il cristianesimo, che non è mai stato tanto universale come lo è oggi, saprà, come ha saputo fare nel corso della sua lunga storia, approfittare della globalizzazione – che è un dato di fatto – per offrire il suo contributo a due necessità che quest’ultima non è stata in grado di assicurare: la giustizia e la pace. Lo faremo nella Chiesa, questa Chiesa talora con il volto segnato, ma sempre nascente, che genera apostoli capaci di osare affinché questa terra non sia mai priva di speranza e di amore.
Si pone spesso la domanda: il cristianesimo morirà? Personalmente mi pongo un’altra domanda; quando il cristianesimo inizierà a esistere?
Ciò che è allo stesso tempo magnifico e terrificante è che Dio ci lascia liberi. Noi possiamo dire « no » a Dio! Abbiamo il potere di salvarci o di perderci. Il problema non è né la morte, né l’assurdo, è la libertà. Tale è Dio, tale è l’uomo. Il che faceva dire al grande poeta tedesco contemporaneo di Goethe, Friedrich Hölderlin: « Dio ha creato l’uomo, come il mare fa i continenti, ritirandosi ».