Archive pour février, 2011

Ascension

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painting of the Ascension above the sanctuary.
Saint Mary’s of the Barrens Church, in Perryville, Missouri.

http://www.romeofthewest.com/2008/01/photos-of-saint-marys-of-barrens-church.html

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Bellezza e salvezza: Il pane e le rose

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=148

Bellezza e salvezza

Il pane e le rose

sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 13 gennaio 2001
Oggi l’approccio alla bellezza ha un carattere prevalentemente soggettivistico. Molti ritengono che, al posto dei difficili discorsi razionali elaborati da filosofi e teologi, occorra far leva, come via regale per andare a Dio, sulla via pulchritudinis, sulla via della bellezza. Se vogliamo parlare ai giovani dobbiamo abbandonare, si dice, la presentazione oggettiva e razionale della verità cristiana, e far breccia sulla loro affettività, prendendo in considerazione quegli aspetti che, come la bellezza, possano parlare alla loro soggettività.
Non credo che si possa andare a Dio per questa strada. L’attuale soggettivizzazione del religioso, o il prendere dalle religioni solo ciò che possa soddisfare e gratificare il mio personale bisogno di senso non porta tanto a Dio quanto a se stessi. Dio diventa un momento della mia soggettività. La scoperta della dimensione religiosa spesso si presenta come tormento, come ricerca faticosa esistenziale e anche intellettuale. Non è solo gratificazione immediata.
La bellezza, più che un cammino verso Dio, diventa un sostituto (debole) di Dio nell’epoca della eclisse e del silenzio di Dio, come alcuni anni fa era un sostituto (forte) di Dio la militanza, l’impegno politico, l’utopia totalizzante.
In un mondo del disincanto, l’unico incanto possibile sembra essere quello delle cose belle di cui possiamo sempre più abbondantemente circondare la nostra vita.

la bellezza come strada regale per andare a Dio
Nel « Simposio » di Platone c’è un testo molto noto che riporta un discorso riguardante cosa è l’amore, o meglio l’eros, il desiderio. E’ un testo che esprime una concezione che, battezzata, è servita da base sino a Lutero per tutta la spiritualità cristiana.
Dio è visto come bellezza, come bellezza sussistente, e l’uomo è eros, desiderio di questa bellezza. E’ un desiderio che inizialmente si ignora e viene attivato da ciò che vede attorno a sé (nel Simposio sono i corpi dei giovinetti). Da questo punto di partenza il desiderio viene mosso da oggetti sempre più ricchi di bellezza (dal corpo singolo, alla universalità dei corpi, dall’anima, alle leggi…). La ragion d’essere dell’eros o desiderio, che noi siamo, è d’essere fatto per il punto finale, per il divino come bellezza. Dio, in quanto bellezza, è il punto terminale, il fine di ciò che noi siamo.
Aristotile allargherà questa visione dal soggetto umano a tutto il cosmo. Dio, motore immobile, attira tutto a sé.

eros platonico e Dio creatore
Ma il Dio biblico non è il terminale di un cammino da parte del desiderio umano, il Dio biblico è il protagonista del rapporto con l’uomo. Dio nella bibbia non è l’amato che affascina e attira, ma è l’amante. E’ lui che assume in libertà l’iniziativa, è lui che ha creato e eletto un popolo.
I teologi cristiani, fino a Lutero, hanno assunto la visione platonica, introducendo in essa la visione del Dio creatore, del Dio che liberamente ha deciso di creare e che crea tutte le cose belle. Nell’idea del Dio creatore viene incorporata la filosofia platonica del rapporto tra l’uomo come desiderio e Dio come fine e compimento del desiderio.
Ma questa idea di creazione inserita nella visione platonica è estrinseca al movimento del cammino verso Dio. Il fatto che le cose belle siano anche create non modifica a fondo la visione: ciò che muove il mio cuore è la bellezza delle cose, non il fatto che siano create. La logica resta ancora quella platonica.

un desiderio infinito
Si è sostenuto allora che l’essere belle delle cose coincide con il loro essere create da Dio. E’ la concezione della creazione come partecipazione: tutte le cose partecipano dell’essere e della bellezza di Dio. In ogni cosa che conosciamo implicitamente conosciamo Dio e in ogni cosa che amiamo implicitamente amiamo Dio (Tommaso d’Aquino). E poiché il mio cuore è fatto per l’infinito, non può fermarsi alla bellezza delle cose. Il desiderio è di natura sua infinito.
Se però osserviamo i nostri desideri (analisi fenomenologica), nulla ci dice che il nostro desiderio sia desiderio di infinito. Il nostro desiderio non è mai contento, che è tutt’altra cosa dall’affermare che è desiderio di infinito.
La caratteristica del desiderio è quella di tenersi vivo in forza dell’assenza dell’oggetto. Raggiunto l’oggetto il desiderio appassisce, si logora e si desiderano altri oggetti. E’ la logica del desiderio di volere sempre di più, ma non un sempre « oltre », verso oggetti sempre più ricchi di bellezza.

un Dio in cerca dell’uomo
La rivelazione biblica indica un asse discendente: non l’uomo in cerca di Dio, ma Dio in cerca dell’uomo. Soprattutto il Nuovo Testamento per parlare dell’amore si usa il termine agape, che non deve essere confuso con eros. Eros e agape sono termini non inconciliabili, ma irriducibili, nel senso che la radice o è l’eros o è l’agape, e sulla radice dell’uno può poi innestarsi l’altro. Nella visione biblica la radice di tutto è l’agape, l’amore con cui Dio ha assunto l’iniziativa libera, la decisione di creare il mondo e di creare l’uomo e di stringere con questo un’alleanza.
L’agape non è sulla corda del desiderio. Dio ha creato l’uomo, non perché desiderasse avere un amico fedele (avrebbe creato ben altro!), ma per amore gratuito, senza nessun altra ragione che l’amore stesso, perché l’uomo fosse felice.
Il destinatario dell’agape non è Dio, ma l’uomo. E l’uomo ha il compito di aprirsi all’agape, di accoglierlo (è la fede). Dio ci chiede di lasciarci amare, più che di amarlo. O meglio ci chiede anche l’amore, ma per gli altri, nella logica dell’agape.

per un’estetica biblica
La creazione è certamente sette volte buona e bella. Ma le cose sono belle e buone innanzitutto in se stesse, non in quanto suscitano e colmano i nostri desideri, anzi proprio perché sono buone e belle in se stesse, suscitano e colmano i nostri desideri.
dietro la bellezza delle cose c’è la bellezza dell’amore
Le cose create sono belle e buone perché non tradiscono, perché dentro e dietro loro c’è l’amore di Dio che le dona. Le cose sono segni, concrezioni dell’amore di Dio.
Come non c’è un legame necessario tra il valore intrinseco di un oggetto-dono che ricevo e il valore dell’amore della persona che me lo ha donato, allo stesso modo l’oggetto creato non è partecipazione alla bellezza di Dio, ma segno del suo amore.
Nel mondo del disincanto posso benissimo esaurire la mia esperienza nella fruizione dell’oggetto bello (può essere la musica, la poesia, l’amicizia, un tramonto…). Ma da questa dimensione non passo necessariamente ad un’altra dimensione. Se passo ad un’altra dimensione, alla dimensione religiosa o di fede, è perché scopro che in quella poesia, in quell’amicizia, in quel tramonto, in tutto ciò che vivo c’è un amore che conferisce senso.
Nel salmo 136 si loda Dio per tutti i suoi interventi: dalla creazione alla liberazione di Israele. Ma il salmo si dilata a cantare il gesto della sollecitudine universale di Dio, che « dà il pane ad ogni uomo ». Il pane della tavola, dato e condiviso, è il punto di arrivo nella quotidianità, di tutta la bontà e bellezza della creazione e della liberazione. In questo salmo si contempla la bellezza che sta dietro-dentro le cose.
« Svegliati mio cuore, sveglierò l’aurora » si dice nei salmi 57 e 108. Come è possibile svegliare l’aurora, se è l’aurora che ci sveglia? Il rapporto biblico col mondo non parte dal mondo ma parte da Dio. E’ la parola di Dio che sveglia e costituisce il nostro cuore, il nostro centro decisionale, ed è il nostro cuore, svegliato dalla parola di Dio, che sveglia e fa cantare il mondo.

importanza della lode
Facciamo cantare il mondo a partire da ciò che ci canta nel nostro cuore. Se ci canta la parola di Dio, allora scaturisce la lode. Non lode della bellezza di Dio in sé e per sé, ma lode per la bellezza di Dio manifestatasi nella sua creazione e nella sua alleanza con gli umani.
La lode è la fede che canta. (Oltre alla fede che canta c’è anche la fede paziente e fiduciosa dei momenti di tormento e di deserto).

un eros rigenerato
L’accogliere l’amore di Dio e la bellezza dell’amore di Dio non espelle l’eros, ma lo reintegra e gli dà una nuova base. Il desiderio non è cancellato dalla fede o dall’amore di solidarietà verso gli altri, ma viene rifondato, rinverdito, rigenerato. La fede che loda ha la capacità di tener viva l’effervescenza dell’eros, di ritrovare ogni mattina la bellezza delle Alpi, di svegliare l’aurora, di ritornare ogni giorno al dono della luce, di mettersi nel mattino della creazione e di vedere le cose con quello sguardo con cui Dio vide che erano sette volte buone e belle. In questo modo il desiderio non si logora mai.

la bellezza dell’uomo e il dono della legge
Anche noi umani siamo creati e siamo creati ad immagine di Dio, in quanto Dio ha fatto alleanza con l’uomo, e, con il dono della legge, lo ha chiamato a essere suo partner, a stare di fronte a lui, a vivere l’alleanza.
La bellezza propriamente umana sta nell’essere chiamati ad essere immagine di Dio, nell’accogliere il dono della legge, o nel vivere l’esperienza etico-religiosa (viene da Dio e chiama ad una libera e responsabile obbedienza).
La bellezza propria degli umani è di coloro che vivono in conformità alla volontà dei Dio.
È la bellezza dei gesti santi: è la bellezza di don Puglisi che sorride a chi lo sta uccidendo, è la bellezza dei gesti di Gino Strada, il chirurgo che ha messo a disposizione il suo bisturi e le sue competenze a favore di chi è ferito e colpito dalla sciagura della guerra.
È la bellezza dell’uomo giusto.

la bellezza del crocifisso
La bellezza di Gesù è la bellezza del crocifisso. Non è la bellezza che affascina e che attira le folle. Il fascino di Gesù non ha portato molto lontano. Nel momento critico della passione scappano via tutti. Gesù rifiuta il « come è bello stare qui » del momento della Trasfigurazione, per rinviare alla passione e alla morte.
La bellezza del crocifisso è dello stesso tipo della bellezza di don Puglisi che sorride all’uccisore.
Dalla fonte della croce di Gesù sono poi sgorgati altri frutti.
E’ il significato anche del film di Benigni « La vita è bella »: dalla morte viene la risurrezione, dal finto gioco e dal martirio del padre riprende la vita del bambino.

il pane e le rose
Si risponde al dono della creazione, non trattenendola, ma facendola circolare. Tutto quanto abbiamo ricevuto è una specie di debito che dobbiamo pagare non direttamente a Dio, ma a Dio colmando il bisogno dei nostri fratelli: è la bellezza dell’amore gratuito in quanto amore dovuto.
La bellezza dell’amore nella quotidianità diventa la bellezza della fraternità, della solidarietà.
La bellezza biblica delle cose è farle arrivare ad essere quello che sono: segni concreti dell’amore di Dio e della nostra risposta all’amore di Dio nella solidarietà e condivisione.
Non sono la stessa cosa avere e custodire i granai pieni o condividere con tutti il pane sulla tavola: imboscare il grano è negare la sua bellezza ultima, la quale è affermata, invece, nel farlo arrivare lì dove serve, facendolo giungere al suo compimento.

Publié dans:meditazioni |on 28 février, 2011 |Pas de commentaires »

Il beato Giovanni Duns Scoto, teologo dell’Eucarestia

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25744?l=italian

Il beato Giovanni Duns Scoto, teologo dell’Eucarestia

ROMA, lunedì, 28 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un estratto dal volumetto di Girolamo Pica, Il beato Giovanni Duns Scoto. Dottore dell’Immacolata (Elledici-Velar).

* * *

Il beato Giovanni Duns Scoto, frate minore morto nel 1308 a Colonia, non ci ha lasciato opere specifiche sul Mistero Eucaristico, come le stupende pagine che ci ha regalato san Bonaventura nel suo trattato sulla preparazione alla Messa, o san Tommaso d’Aquino, con i suoi inni eucaristici nell’ufficio del Corpus Domini. Tutto ciò che noi abbiamo del beato Giovani Duns Scoto sono le lezioni universitarie su questo sacramento, contenute nel suo ultimo Commentario alle Sentenze di Pietro Lombardo, opera meglio nota col nome di Ordinatio.
Tuttavia, quando si vede il numero di questioni affrontate nel trattare l’argomento, e soprattutto l’ampiezza delle tematiche svolte e la profondità con cui ogni punto viene analizzato, allora ci si accorge subito di trovarsi dinnanzi ad un mirabile capolavoro di dottrina. A quel punto non sorprende più che alcuni abbiano definito Duns Scoto non soltanto il “Teologo del Verbo Incarnato” e il “Dottore dell’Immacolata” ma anche, e a buon diritto, il “Teologo dell’Eucarestia”.
Scoto definisce l’Eucarestia «un segno sensibile che, per istituzione divina significa efficacemente la grazia di Dio o effetto gratuito di Dio, ordinato alla salvezza dell’uomo viatore».
Però questo non basta. L’Eucaristia si distingue dagli altri sacramenti. Mentre questi consistono in un’azione fugace per conferire la grazia divina, nell’Eucaristia quel che si consegna all’uomo è lo stesso Autore della grazia. Cristo appare nell’Eucaristia come donazione dell’amore più grande di Dio all’uomo. Non un segno che passa, ma permanente, un segno sensibile, spiega Scoto, che «dopo la consacrazione, secondo il rito, della materia appropriata, contiene veramente il corpo e sangue di Cristo».
Questo fa dell’Eucarestia il più nobile dei sacramenti, nel quale tutti gli altri sacramenti trovano la loro pienezza.
Nell’Eucarestia Cristo offre ancora un altro gesto estremo, segno del Suo immenso amore per noi. Egli cioè non solo ha sofferto e dato la Sua vita sulla croce per la nostra salvezza, ma in questo sacramento Egli vuole rimanere ancora con noi, vuole farsi nostro compagno di viaggio e fonte di forza nel cammino della nostra vita, come lui stesso ha detto nel Vangelo: «Ecco che io sono con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Il Cristo eucaristico presentato da Duns Scoto, inoltre, è strettamente connesso con il Cristo centro del Creato, che abbiamo già presentato nelle pagine precedenti. Vuol dire che lui, il Cristo, Verbo Incarnato, con il Corpo e Sangue che furono causa della nostra redenzione, continuerà tra noi nel mondo, e non come un mero segno sensibile, ma nella sua realtà. In questo modo, dice Scoto, «ci sentiremo più impegnati nel mostrare a Cristo la nostra riverenza e devozione».
Vi è una stretta relazione fra Cristo e la creazione, la quale acquisisce il suo senso originale nel piano di Dio che l’ha voluta, dalla materia fino all’uomo, in relazione al Summum Opus del Suo amore. Il sommo amore che è Cristo davanti al Padre ci coinvolge tutti. L’Eucaristia costituisce in questo contesto esistenziale l’espressione più profonda, più vicina e pura dell’amore divino. In una parola, insuperabile. Un amore puro, senza condizionamenti, che Scoto propose nella sua visione originale della predestinazione di Cristo.
Dio, spiega il beato Giovanni Duns Scoto, non può ricevere né desiderare alcun vantaggio dall’amore di un altro essere. Soltanto può compiacersi della possibilità di comunicare questo amore e questa beatitudine ad altri: vuole che vi siano degli altri co-amanti. E nella sua liberalità predestina il primo e supremo amatore: Cristo, il Verbo Incarnato e Somma opera di Dio. Anche Lui vorrà altri co-amanti, perché l’amore non è chiusura, ma apertura nella comunione. E in vista di lui avrà l’esistenza tutto il Creato coinvolto in questa diffusione d’amore, della quale saranno espressione cosciente gli uomini. Questo è il mistero dell’amore nella grazia e nella carità data da Dio attraverso Cristo. E Cristo, segno visibile della divinità nel Suo Corpo umano durante la vita vuole continuare, realmente presente nell’Eucaristia: sacramento di Lui stesso e, con Lui, centro di tutto il Creato e donazione suprema dell’amore di Dio nella sua purezza e liberalità originale.
Il nostro Beato spiega che l’istituzione di questo sacramento da parte di Cristo ha per noi una molteplicità di finalità. Esso, ad esempio, ci aiuta a rendere a Dio il giusto culto di adorazione, ricordandoci sensibilmente che noi siamo in rapporto con un Dio personale.
E ancora, dal momento che per ricevere l’Eucaristia bisogna prima purificarsi dai peccati con la penitenza, è per noi anche un modo per ricordare di prenderci cura della nostra anima, tenendola libera dal peccato. Inoltre, l’Eucaristia serve per nutrire la nostra vita spirituale, per alimentare cioè quella grazia che noi abbiamo ricevuto all’inizio nel battesimo, così come fa il cibo materiale per il nostro corpo.
Alla luce di quanto sino ad ora spiegato, appare chiara allora anche un’altra verità che sta molto a cuore a Duns Scoto: la relazione tra il sacramento dell’Eucaristia e la Chiesa.
Nel punto in cui il nostro Beato parla della necessità di confessarsi prima di ricevere l’Eucaristia, egli sottolinea un motivo molto importante per cui è necessario ricevere il Corpo di Cristo degnamente e cioè, non soltanto per farsi perdonare da Dio, ma anche per «riconciliarsi con la Chiesa, e così poter ricevere il sacramento dell’unità ecclesiastica».
Così definisce Scoto l’Eucaristia: il «Sacramento dell’unità della Chiesa». Chiesa che più avanti chiama Corpo mistico di Cristo, di quel Cristo che secondo lui riassume in sé tutto il Creato «fatto in vista di Lui». La stessa “perpetuità temporale della Chiesa” nel tempo viene legata alla presenza in essa dell’Eucaristia. Il testo di san Paolo ai Corinzi 11, 26: «Tutte le volte che voi mangiate questo pane e bevete a questo calice, annunziate la morte del Signore finché Egli venga (alla fine dei tempi)». La stessa promessa di Gesù «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20) Scoto la vede adempiuta nella presenza eucaristica.
Infine, un ultimo mirabile testo di Scoto ci mostra allo stesso tempo non solo l’amore di Scoto per il mistero eucaristico, ma ancor più il suo profondo rispetto per quanto la Chiesa cattolica insegna su questo mirabile Mistero. Questo riguarda la transustanziazione del pane e del vino nel vero Corpo e il vero Sangue di Cristo durante la consacrazione.
Questo mistero, dice Scoto, non è pienamente comprensibile alla mente umana e certamente è qualcosa che solo Dio può compiere, fare cioè che la sostanza del pane e del vino diventino il Corpo e Sangue di Cristo, pur conservando visibilmente ancora gli “accidenti” di pane e vino.
Tuttavia, dice il nostro Beato, quando la Chiesa, come si vede nel Canone della Messa, prega affinché il pane e il vino diventino il Corpo e il Sangue di Cristo, non prega per l’impossibile. Dunque si deve sostenere che la sostanza del pane cessa di essere. «E questo – ribadisce Scoto – lo sostengo principalmente per l’autorità della Chiesa, che non sbaglia nelle cose di fede e costumi.
Quindi, si deve credere che il significato del Corpo di Cristo ci sia soltanto negli accidenti o specie senza la sostanza. E questo in virtù della transustanziazione».
E qui viene quel che ci rivela l’opzione più decisiva per Scoto. «E se mi domandi, perché la Chiesa volle scegliere una concezione così difficile di questo articolo [di fede], […] ti dico che la Chiesa ha formulato e spiegato questo dogma secondo lo spirito con cui è stato scritto o stabilito. E secondo questo spirito, la Chiesa cattolica lo ha trasmesso, cioè istruita dallo Spirito della Verità. E se ha scelto questo concetto di transustanziazione è perché è il vero. Non è che la Chiesa abbia la potestà di fare che una cosa sia vera o non vera, piuttosto è Dio quel che lo stabilisce. La Chiesa soltanto spiega lo stabilito da Dio, guidata in questo, come si crede, dallo Spirito della Verità». Ecco come Scoto vede il mistero dell’Eucaristia nel mistero della Chiesa e la Chiesa nel mistero dell’Eucaristia.
A questo punto dovrebbe esserci chiaro il profondo legame che, secondo Scoto, unisce intimamente il mistero del Verbo Incarnato, l’Immacolata, la Chiesa e l’Eucarestia. Tutti debbono la ragione della loro esistenza a quel più grande mistero che è l’amore di Dio per le Sue creature. E non soltanto lo manifestano visibilmente, costituendo così la via per cui Dio-Amore viene a noi; ma allo stesso tempo, nell’eterno e imperscrutabile piano di Dio, sono anche la via per la quale noi possiamo giungere a partecipare di questo Amore infinito.
«Ma la carità o l’amore di Cristo si manifesta in modo speciale non soltanto sul Calvario, ma anche nel Santissimo Sacramento dell’Eucaristia, senza il quale “scomparirebbe ogni pietà nella Chiesa, né si potrebbe – se non attraverso la venerazione del medesimo – tributare a Dio il culto di latria”.
Questo sacramento inoltre è sacramento di unità e di amore; per mezzo di esso siamo indotti ad amarci scambievolmente e ad amare Dio come bene comune e ad essere co-amato dagli altri.
E come questo amore, questa carità, fu l’inizio di ogni cosa, così anche solo nell’amore, nella carità, consisterà la nostra beatitudine: “La vita eterna, beata e perfetta, è semplicemente volizione o dilezione”.
Avendo noi, fin dall’inizio del nostro servizio, predicato soprattutto la carità, che è Dio stesso, constatiamo con gioia che la dottrina di questo Beato assegna un posto singolare a questa verità, e riteniamo che ai nostri tempi essa debba essere investigata e insegnata al massimo» (Benedetto XVI, Lettera Apostolica Laetare Colonia).

Publié dans:EUCARESTIA (SULL), Teologia |on 28 février, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia per il 28 febbraio 2011

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/18576.html

Omelia (24-05-2010)

Monaci Benedettini Silvestrini

Le ricchezza del mondo e quelle di Dio

Da quando abbiamo addentato temerariamente quella famosa mela, convinti di poter così saziare completamente le nostre brame e addirittura diventare come Dio, ci è rimasta dentro una fame e una sete insaziabili. Quell’innato anelito di bene, che Dio stesso aveva infuso nella nostra natura, facendoci somiglianti a lui, si è trasformato in ricerca spasmodica di umane sicurezze, cercate sulla terra nella ricchezza, nella gloria, nel piacere. Il denaro, in modo particolare, ci da l’illusione dell’onnipotenza, ci convince di poter appagare ogni nostro desiderio, di poter comprare anche la felicità. San Paolo nel suo famoso inno alla carità ci ammonisce: « se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova ». Ecco che ci viene prospettata una dimensione ben diversa della felicità. Gesù stesso nel proclamare la carta magna del cristianesimo, sconvolge letteralmente le nostre umane e false valutazioni della gioia. Egli proclama beati i poveri, gli afflitti, i puri di cuore, i perseguitati per causa della giustizia e tutti coloro che nella vita ripetono sostanzialmente la sua storia. Il giovane apparentemente giusto, equilibrato, generoso, chiede a Cristo cosa deve fare per avere la vita eterna. L’osservanza dei comandamenti è la base su cui costruire la nostra rampa di lancio e il giovane dice che sin dalla sua infanzia li ha osservati. Il Signore gli chiede qualcosa di più, indispensabile per conseguire l’ideale della perfezione cristiana: si tratta proprio del distacco dalle cose del mondo: «Una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». È una regola d’oro quella che Gesù scandisce con queste parole: per conseguire i beni di Dio, occorre distaccarsi dai beni della terra. Questi rassomigliano a dei pesi che vengono attaccati alle nostre ali, alle ali del nostro spirito e non ci permettono di librarci verso l’alto. Restiamo anche noi disillusi alle parole conclusive di questo episodio evangelico: « A queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni ». Ancora una volta i beni predominano sul vero bene. Ancora una valutazione sbagliata, ma, ahimè, ancora tanto frequente. «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Dobbiamo prestare attenzione perché ricco non è solo chi possiede molti beni, ma anche chi lega il suo cuore a povere cose che trasforma in idoli. Gesù così ci esorta: « Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore ».

Cristo (Andrej Rublev)

Cristo (Andrej Rublev) dans immagini sacre Cristo_Rublev

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/arte/belcristorubl.htm

Publié dans:immagini sacre |on 26 février, 2011 |Pas de commentaires »

IL CIBO DELLA VITA VERA (Omelia VIII domenica del T.O.)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25719?l=italian

IL CIBO DELLA VITA VERA

VIII Domenica del Tempo Ordinario, 27 febbraio 2011

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 25 febbraio 2011 (ZENIT.org).- In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neppure Salomone, con tutta la sua gloria vestiva, come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi, dunque, dicendo: ‘Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?’. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,24-34).
Le preoccupazioni cui Gesù esorta oggi a non dar corda, non sono solamente quelle relative alle naturali esigenze del corpo, quali il cibo e il vestito. L’evangelista Giovanni, racconta che, trovandosi Gesù a mezzogiorno in Samaria presso il pozzo di Giacobbe, ai discepoli che lo esortavano a sfamarsi risponde: “Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete” (Gv 4,8). Continuando a ragionare in termini di calorie, i discepoli si chiedono: “Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?”. Allora Gesù dice loro: “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,31-34).
Con questa affermazione, il Signore indica anche a noi quale debba essere il nostro nutrimento profondo, capace di alimentare e saziare la vita di amore e di gioia.
Per Gesù, la sazietà del corpo è meno essenziale di quella dell’anima, il cui cibo specifico è uno solo: “fare la volontà” di Dio. Infatti, ogni atto di accettazione e di obbedienza al Padre, comunica all’anima quel “dono di Dio” (Gv 4,10) che Gesù rivela al cuore insaziabile della donna samaritana, trasformandola in una discepola finalmente sazia del vero amore e della vera gioia (Gv 4,28-29).
Nell’affermazione “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato” sta anche la chiave di comprensione del Vangelo di oggi: “Guardate gli uccelli del cielo..il Padre vostro li nutre..osservate come crescono i gigli del campo..non preoccupatevi..Il Padre vostro sa che ne avete bisogno..tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,26.28.31.33).
Parole facilmente “smentibili”, se ci mettiamo dal punto di vista dei milioni di adulti e bambini che continuano a morire di fame, nudi e senza un tetto; o da quello delle innumerevoli vittime dei disastri naturali e delle tragedie causate dalla cattiveria umana. E non meno incomprensibile risulta la prima delle assicurazioni di Gesù: “non preoccupatevi per la vostra vita” (Mt 6,25a), se guardiamo anche a quei milioni di bambini uccisi nel grembo materno (cibo, vestito e dimora che Dio ha preparato per ogni uomo), la cui sorte non è migliore di quella dell’“erba del campo che oggi c’è e domani si getta nel forno” (Mt 6,30).
Che dire poi degli esseri umani concepiti nel vetro, manipolati e distrutti, la cui dignità elementare di persone viene così brutalmente disprezzata? Non valgono forse anch’essi infinitamente di più degli uccelli del cielo e dei gigli del campo?
Eppure anche a questi suoi piccolissimi figli Dio dice: “Non preoccupatevi per la vostra vita”; e: “Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33).
Queste divine parole sono equivalenti a quelle con cui il Signore risponde ai discepoli preoccupati per il suo nutrimento: “Mio cibo è fare la volontà di Dio e compiere la sua opera” (Gv 4,31-34).
Cercare “il regno di Dio e la sua giustizia”, significa sforzarsi di conoscere e di fare la volontà di Dio Padre, la sola cosa necessaria per capire la verità e realizzare la felicità di ogni uomo sulla terra. Al riguardo, si deve anzitutto ricordare che ognuno di noi uomini, comunque concepito, è persona sin dal primo istante di vita.
Ne parla l’Istruzione “Dignitas personae”: “Per il solo fatto di esistere, ogni essere umano deve essere pienamente rispettato. Si deve escludere l’introduzione di criteri di discriminazione, quanto alla dignità, in base allo sviluppo biologico, psichico, culturale o allo stato di salute. Nell’uomo, creato ad immagine di Dio, si riflette in ogni fase della sua esistenza, “il volto del suo Figlio Unigenito”..In definitiva, la vita umana è sempre un bene, poiché “essa è nel mondo manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della sua gloria” (Evangelium vitae, 34)”. (Dignitas personae, n. 8).
Quando perciò il concepito umano viene ucciso dopo solo poche ore di vita, davanti a Dio che lo ha creato egli non è vissuto inutilmente, né la sua brevissima vita risulta priva di senso e di realizzazione. Morendo così, senza consapevolezza di sé, il concepito ha trovato subito “il regno di Dio e la sua giustizia”, senza dover intraprendere quella ricerca che gli sarebbe stata necessaria in vita, da adulto cosciente.
Lo fa intendere il beato Giovanni Paolo II con queste parole: “La vita che Dio dona all’uomo è ben più di un esistere nel tempo. E’ tensione verso una pienezza di vita; è germe di un’esistenza che va oltre i limiti stessi del tempo: “Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità; lo fece a immagine della propria natura” (Sap 2,23)”. (Enciclica Evangelium vitae, 34).
“Dio creò l’uomo a sua immagine” (Gen 1,27): lo crea tale fin dal primo istante di vita creando la sua anima nel corpo, comunque concepito; lo crea persona ontologicamente rivolta a Lui, che è l’Amore sussistente in Tre Persone.
Perciò, chiunque non si precluda volontariamente il raggiungimento di questo fine creaturale, anche se non potesse esercitare il dono della libertà per conseguirlo (come il concepito ucciso, nel grembo o fuori del grembo), ugualmente ottiene la pienezza della vita (“il Regno di Dio e della sua giustizia”): la raggiunge per l’intrinseca, essenziale tensione divina della persona umana e per mezzo di Cristo concepito e risorto, nel Quale tutti “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28), sin dal nostro concepimento.
Così, ogni figlio dell’uomo al quale non è dato vedere la luce di questo mondo, approda subito nella Vita di Dio, realizzando ugualmente il fine della propria breve esistenza. Si compie allora anche per lui quella volontà del Padre che ha creato l’uomo per un destino di eterna e beata comunione con Sé.

———
* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
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PER GIOVANNI PAOLO II IL PRIMO COMPITO DI UN PAPA È PREGARE

dal sito:

http://www.zenit.org/article-25723?l=italian

PER GIOVANNI PAOLO II IL PRIMO COMPITO DI UN PAPA È PREGARE

Parla il postulatore della causa di beatificazione di Karol Woityla

di Chiara Santomiero

ROMA, venerdì, 25 febbraio 2011 (ZENIT.org).- “Una conferma della totale trasparenza della sua vita come uomo e come sacerdote”: ha sintetizzato così mons. Slawomir Oder, postulatore della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, il processo canonico che ha verificato le virtù eroiche del venerabile servo di Dio Karol Woityla aprendo la strada alla beatificazione del 1° maggio prossimo.
L’occasione è stata una conferenza svoltasi questo venerdì a Roma all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. “Non vi fu – ha proseguito Oder – un Woityla pubblico e uno privato: l’opinione che il mondo aveva maturato nei suoi riguardi negli oltre 26 anni del suo pontificato, si è dimostrata vera”.
Di conseguenza “la sua simpatia, il fervore della preghiera, la spontaneità del raccontarsi, la capacità di intessere rapporti, non erano semplici attributi di un’immagine mediatica, ma costituivano la reale essenza della sua persona”. Piuttosto il “vero tesoro” del processo è “la conferma certa della fonte della sua coerenza, energia, entusiasmo, profondità e naturalezza” che è “l’incontro con Dio, il suo essere innamorato di Cristo e sentirsi amato da Lui”.
“Cercano di capirmi dal di fuori – aveva confidato una volta Woityla – ma io posso essere compreso solo dal di dentro”. Da qui “quell’autentico dono e gusto e gioia della preghiera” a cui Woityla “è rimasto sempre fedele, fino alle ore della sua agonia”. Una preghiera che costituiva “l’aria che respirava, l’acqua che beveva, il cibo che lo nutriva”. Come risulta da più testimonianze, per Giovanni Paolo II “il primo compito del Papa verso la Chiesa e il mondo è quello di pregare”
“Il percorso mistico di Woityla – ha spiegato Oder – si è profilato come un progressivo fare di se stesso un anawim, il ‘povero d’Israele’ che non ha altra speranza e altro punto di riferimento se non Dio”. “E’ dalla preghiera – ha aggiunto Oder – che nasceva la fecondità del suo agire”. Non per niente, ai collaboratori che invitati a suggerire delle soluzioni a particolari problemi ammettevano di non averle ancora trovate, era solito ripetere: “Si troveranno quando avremo pregato di più”. Dalla preghiera nasceva anche “la capacità di dire la verità senza paura poiché chi è solo davanti a Dio non ha paura degli uomini”.
Una straordinaria libertà interiore che si esprimeva, innanzitutto, nel rapporto con i beni materiali. “Anche da Papa – ha affermato Oder – egli è stato uomo di radicale povertà”. “Commuove – ha raccontato il sacerdote polacco – la testimonianza delle persone a lui vicine a Cracovia che per fargli rinnovare il guardaroba dovevano ricorrere allo stratagemma di lavare i nuovi indumenti più volte in modo da farli sembrare usati perché sapevano che altrimenti li avrebbe subito donati a una persona bisognosa”.
Tuttavia, uno degli aspetti più toccanti della sua scelta di povertà, secondo Oder è “aver lasciato la parola poetica per accogliere il Verbo”, superando, con la scelta del sacerdozio, “l’attrazione che esercitava su di lui un’altra vocazione, quella per il teatro”.
La libertà interiore si esercitava anche nei confronti degli altri e se “sapeva ascoltare e accettare la critica, prediligendo la collaborazione” tuttavia “non rinunciava a prendere posizioni difficili e scomode” per timore “delle reazioni delle autorità ostili alla Chiesa negli anni in Polonia” o per “l’incomprensione dell’opinione pubblica predominante negli anni del suo Pontificato”. Il suo obiettivo, infatti non era “il proprio successo o una sua autonoma realizzazione” ma “annunciare la verità del Vangelo e difendere la verità sull’uomo”. Da questa libertà che si fonda sul rapporto con Dio “nasce il grido ‘Non abbiate paura’, inizio e cifra del suo pontificato”.
Forse proprio la ricerca di vicinanza ad ogni uomo “nel desiderio di essere solidale con le sue gioie e i suoi dolori, di cercare e di vivere la verità dell’essere uomo” ha reso Woityla “così caro e amato dal popolo di Dio”. Si è verificato, secondo Oder “un fenomeno singolare: Woityla che ha perso ben presto la sua famiglia naturale, aveva un forte senso della famiglia, sapeva donare il calore umano”.
Come attestano le lettere che continuano ad arrivare all’ufficio del postulatore e in cui ci si rivolge a Giovanni Paolo II come “il nostro Papa, Lolek, Karol, zio, nonno, padre”. Un fenomeno che non è limitato ai cattolici: “in un incontro occasionale – ha raccontato Oder – una donna ebrea mi disse di aver perso il padre due volte; la prima quando le era morto il padre naturale e la seconda con la morte di Giovanni Paolo II”.
Un altro tratto essenziale della personalità di Woityla non va dimenticato: “la presenza della croce nella sua vita, portata con dignità e, alla fine, in un silenzio che parlava più della parola” rivendicando “il diritto all’esistenza che la società dell’effimero nasconde con vergogna”. “Milioni di persone nel mondo – ha ricordato Oder – conservano nella memoria l’immagine trasmessa dalla tv, del Papa di spalle nella sua cappella privata, abbracciato alla croce durante la celebrazione del Venerdì santo”.
“Sono convinto – ha affermato Oder – che celebrare il processo sia stato utile”. Lungi dall’essere “il burocratico esame di un’esistenza” ha, invece, “consentito di restituire intensità e vigore agli aspetti già noti della vicenda umana di Papa Woityla insieme agli episodi inediti offerti alla condivisione comune”. Se “scopo della Chiesa, come affermava Woityla, è portare il più grande numero di persone alla santità”, il popolo dei devoti “non ha dubbi – ha concluso Oder – sulla singolarità del suo esempio, spinto fino all’estremo sacrificio
”.

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II |on 26 février, 2011 |Pas de commentaires »

buona notte

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Iridaceae

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Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 25 février, 2011 |Pas de commentaires »

Omelia per il 26 febbraio 2011

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/12748.html

Omelia (24-05-2008)

a cura dei Carmelitani

Commento Marco 10,13-16

1) Preghiera

Il tuo aiuto, Padre misericordioso,
ci renda sempre attenti alla voce dello Spirito,
perché possiamo conoscere
ciò che è conforme alla tua volontà
e attuarlo nelle parole e nelle opere.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Marco 10,13-16
In quel tempo, presentavano a Gesù dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano.
Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: « Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso ».
E prendendoli fra le braccia e imponendo loro le mani, li benediceva.

3) Riflessione
• Il vangelo dell’altro ieri indicava i consigli di Gesù sulla relazione degli adulti con i piccoli e gli esclusi (Mc 9,41-50). Il vangelo di ieri indicava i consigli sulla relazione tra uomo e donna, marito e moglie (Mc 10,1-12). Il vangelo di oggi indica i consigli sulla relazione tra genitori e figli. Con i piccoli e gli esclusi Gesù chiedeva la massima accoglienza. Nella relazione uomo-donna, chiedeva la massima uguaglianza. Ora, con i figli e le loro madri, chiede la massima tenerezza.
• Marco 10,13-16: Ricevere il Regno come un bambino. Portavano i bambini da Gesù, affinché lui li toccasse. I discepoli volevano impedirglielo. Perché? Il testo non lo dice. Forse perché secondo le norme rituali dell’epoca, i bambini piccoli con le loro mamme, vivevano quasi costantemente dell’impurità legale. Toccarli voleva dire diventare impuri! Se loro toccavano Gesù, lui diventava impuro! Ma Gesù non si scomoda con queste norme rituali della purezza legale. Corregge i discepoli ed accoglie le madri con i bambini. Li tocca, li abbraccia dicendo: « Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il Regno di Dio ». E commenta: « In verità vi dico: chi non accoglie il Regno di Dio come un bambino non entrerà in esso. » E poi Gesù abbraccia i bambini e li benedice, mettendo la mano su di loro. Cosa significa questa frase?
(a) I bambini ricevono tutto dai genitori. Loro non riescono a meritare ciò che ricevono, ma vivono di amore gratuito.
(b) I genitori ricevono i figli come un dono di Dio e li curano con tutto l’amore possibile. La preoccupazione dei genitori non è di dominare i figli, ma di amarli, educarli in modo che crescano e si realizzino!
•Un segno del Regno: Accogliere i piccoli e gli esclusi. Ci sono molti segni della presenza attuante del Regno nella vita e nell’attività di Gesù. Una di esse è il modo di accogliere i bambini ed i piccoli. Oltre all’episodio del vangelo di oggi, ci sono altri momenti di accoglienza ai piccoli e bambini:
a) Accogliere e non scandalizzare. Una delle parole più dure di Gesù è contro coloro che causano scandalo nei piccoli, cioè, che sono il motivo per cui i piccoli non credono più in Dio. Per loro è meglio avere una mola al collo ed essere gettati nel fondo del mare (Mc 9,42; Lc 17,2; Mt 18,6).
b) Identificarsi con i piccoli. Gesù abbraccia i piccoli e si identica con essi. Chi riceve un bambino « riceve me » (Mc 9,37). « Ed ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me » (Mt 25,40).
c) Diventare come bambini. Gesù chiede ai discepoli di diventare come bambini ed accettare il Regno come loro. Altrimenti non è possibile entrare nel Regno (Mc 10,15; Mt 18,3; Lc 9,46-48). Rende i bambini professori degli adulti! E ciò non è una cosa normale. Generalmente facciamo il contrario.
d) Difendere il diritto che i bambini hanno di gridare. Quando Gesù, entrando nel Tempio, rovescia i tavoli dei cambiavalute, sono i bambini coloro che più gridano: « Osanna al figlio di Davide! » (Mt 21,15). Criticati dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, Gesù li difende ed in sua difesa invoca le Scritture (Mt 21,16).
e) Essere grati per il Regno presente nei piccoli. La gioia di Gesù è grande, quando percepisce che i bambini, i piccoli, capiscono le cose del Regno che lui annunciava alla gente. « Padre, io ti ringrazio! » (Mt 11,25-26) Gesù riconosce che i piccoli capiscono meglio dei dottori le cose del Regno!
f) Accogliere e curare. Sono molti i bambini ed i giovani che lui accoglie, cura o risuscita: la figlia di Giairo, di 12 anni (Mc 5,41-42), la figlia della donna cananea (Mc 7,29-30), il figlio della vedova di Naim (Lc 7, 14-15), il ragazzo epilettico (Mc 9,25-26), il figlio del Centurione (Lc 7,9-10), il figlio del funzionario pubblico (Gv 4,50), il bambino con i cinque pani ed i due pesci (Gv 6,9).

4) Per un confronto personale
• Nella nostra società e nella nostra comunità, chi sono i piccoli e gli esclusi? Come li accogliamo?
• Nella mia vita, cosa ho imparato dai bambini sul Regno di Dio?

5) Preghiera finale
Signore, a te grido, accorri in mio aiuto;
ascolta la mia voce quando t’invoco.
Come incenso salga a te la mia preghiera,
le mie mani alzate come sacrificio della sera. (Sal 140)

buona notte

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Publié dans:immagini sacre |on 24 février, 2011 |Pas de commentaires »
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