In missione con San Francesco e San Paolo (25 gennaio festa della Conversione di San Paolo)

dal sito:

http://www.ecodellemissioni.it/

In missione con San Francesco e San Paolo

Dal Convegno Nazionale servizio missioni ad gentes
“La missione evangelica nella regola francescana” Assisi, 26 aprile 2008
Per il C.A.M. erano presenti il Segretario, P. Corrado Trivelli,
P. Flavio Evangelisti e alcuni giovani collaboratori laici

Appunti di P. Dino Dozzi

Il 2008-2009 è stato scelto come ottavo centenario della protoregola di san Francesco (o Regola non bollata, Rnb) e come bimillenario della nascita di san Paolo. Non siamo certissimi né della prima né della seconda data, ma ciò che conta è l’opportunità che abbiamo di collegare due giganti del cristianesimo, nel denominatore comune della missione evangelica, indubbiamente centrale in entrambi i personaggi.

1. LA MISSIONE EVANGELICA NELLA REGOLA FRANCESCANA
Il Vangelo è la Regola delle regole per tutti, ma ogni spiritualità sottolinea qualche aspetto particolare, che viene poi chiamato il carisma specifico di quella spiritualità. Anche Francesco legge il Vangelo “a modo suo”, omettendo alcune cose e sottolineandone altre. Per quanto riguarda la missionarietà, che cosa Francesco omette e che cosa sottolinea dei Vangeli e di Paolo? In Rnb XIV-XVII Francesco presenta la “magna charta” della missionarietà.
1.1 – Annunciatori del Vangelo da minori
Tutti e quattro i brani evangelici di missione sottolineano con forza i poteri che Gesù dà ai suoi inviati per cacciare i demoni e guarire i malati (Mc 6,7b; Lc 9,1-2) e mettono in risalto il comando di Gesù di andare a predicare e annunciare il Regno di Dio. Anche nel “vangelo” di Paolo che troviamo nelle sue lettere, grande spazio viene dato alla predicazione (“Guai a me se non predicassi il vangelo!”: 1Cor 9,16).
In Rnb XIV-XVII tutti i poteri che Gesù dà agli apostoli vengono tralasciati. E viene relativizzato anche il comando di andare a predicare: certo, Francesco predica e Rnb XVII è un piccolo manuale di predicazione, ma egli preferisce la predica del buon esempio (“operibus praedicent”: Rnb XVII,3). Illuminante in proposito è l’esegesi di Ez 3,18.
Nella sua “magna charta” della missionarietà ecco invece quello che Francesco sottolinea: non portare nulla con sé se non lo Spirito del Signore, vivere come pecore in mezzo ai lupi per amore del Signore, non gloriarsi di alcun bene ma riferirlo-restituirlo solo a Dio.
Rnb XIV,1 presenta l’elenco evangelico delle cose da non portare con sé non solo nella vita apostolica e missionaria: tale elenco non attinge solo dai testi evangelici di missione (Mt 10,1-42; Lc 9,1-6.10; e 10,1-20; Mc 6,7-13.30-32), ma anche da Mt 5-7: i frati non dovranno portare con sé neppure il diritto di difendere i propri diritti. Una modalità fondamentale della sequela di Cristo sarà la testimonianza del Regno di Dio consistente nel non portare nulla con sé se non lo Spirito del Signore: l’efficacia dell’apostolato non deriva da ciò che si porta. Il “nihil portent per viam” se non lo Spirito del Signore, per Francesco è già in se stesso annuncio del Regno di Dio in quanto proclamazione gioiosa di incondizionata fiducia in Dio e fare spazio allo Spirito del Signore, l’unico evangelizzatore nostro e di tutti.
In Rnb XVI,1 leggiamo: “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi”. La frase è preceduta da un semplicissimo “dice il Signore”. Le pecore in mezzo ai lupi vengono sbranate; i fratelli debbono andare in mezzo ai “lupi” coscienti che “chi perderà la sua vita per me la salverà per l’eternità”. Se il Signore li invia come pecore in mezzo ai lupi, è perché lui stesso è già andato volontariamente “come pecora al macello” (Atti 8, 32) e ha verificato che è questa la strada per la vita eterna.
Il vivere come pecore in mezzo ai lupi per amore del Signore non è solo o tanto una conseguenza della sequela evangelica di Cristo e della testimonianza del Regno di Dio, ma è in se stesso sequela di Cristo e testimonianza del regno di Dio, perché sequela del Signore sulla via del Calvario, con la croce sulle spalle. È una modalità sconcertante, ma è quella scelta dal Signore per la salvezza dell’umanità e per questo proposta come fondamentale.
In Rnb XVII,5-6 tutti i fratelli, indipendentemente dal ruolo o dall’ufficio che hanno, vengono scongiurati di umiliarsi in tutto, di non gloriarsi, né di godere dentro di sé, né di esaltarsi interiormente “per le buone parole e opere, anzi per alcun bene che Dio fa o dice o opera talvolta in loro e per mezzo di loro”. Tutto il bene e ogni bene viene da Dio; i fratelli non sono altro che strumenti di cui Dio si serve per fare del bene. L’avverbio temporale “talvolta” relativizza ulteriormente l’importanza dello strumento. I fratelli dovranno restare al loro posto, senza neppure porsi il problema dei risultati: a questi, infatti, c’è un Altro che pensa. I frati dovranno seguire Cristo, annunciare il Regno di Dio e invitare alla penitenza-conversione non gloriandosi di alcun bene, ma riferendolo sempre e solo a Dio. E questa sarà vera vita evangelica alla sequela di Cristo e vera evangelizzazione in quanto testimonia Dio come sorgente unica di ogni bene, la sua signorìa totalmente accettata, la penitenza-conversione come un affidarsi incondizionato a lui.
Nel leggere il Vangelo Francesco tralascia ciò che si riferisce alla forza, al potere, ai risultati e sottolinea gli atteggiamenti e le parole di Gesù che fanno riferimento all’umiltà, alla povertà, alla minorità. I suoi frati li chiama “frati minori”.
1.2 – Annunciatori del Vangelo da fratelli
Per Francesco, la grande scelta è quella della fraternità, universale e incondizionata. Il programma evangelico di Francesco si può riassumere così: minori sempre e di tutti per essere fratelli sempre e di tutti. Le due eccezioni al divieto rigidissimo di ricevere denaro che troviamo nella Rnb – per i fratelli infermi e per i lebbrosi: Rnb VIII, 3.10 – rivelano che la fraternità è più importante della minorità, e la minorità è in funzione della fraternità. Francesco vuol vivere da minore sempre e di tutti per poter vivere da fratello sempre e di tutti. Questo rivela non solo una precisa gerarchia di valori, ma anche una concezione della fraternità che, volendo includere tutti e avendo bisogno di esprimersi concretamente nella condivisione di vita con tutti, non può far a meno di porre coraggiosamente i frati a livello degli ultimi.
Francesco propone una missionarietà fatta di vita da fratelli minori. Si tratta di un tipo di missionarietà sempre attuale. Nessuno mai ha visto Dio. Ma c’è uno specchio che riflette il mistero di Dio: è il nostro modo di stare con gli altri. Questo significa la frase di Paolo: “Vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi” (2Cor 13,11). Noi possiamo conoscere Dio nella misura in cui ci riconosciamo reciprocamente e rispettiamo le nostre diversità. Prima di parlare di Dio dobbiamo parlare di noi. La reale sfida odierna per tutti è quella della convivenza con l’alterità, con la diversità.
Dio è il grande Altro, il radicalmente diverso da noi: c’è una finestra che si apre sul mistero di questo grande Altro: è il volto dei tanti altri, dei tanti diversi da me, che incontro. La diversità è il luogo umano per conoscere il mistero di Dio. Il Dio della fede cristiana è uno ma non è solo, perché all’interno della sua unità c’è la sussistenza delle persone, cioè dell’alterità. La pace, al di là di tutte le accezioni a volte un po’ idealistiche, evanescenti e sentimentali di questa parola, è la convivenza rispettosa con tutti nell’alterità. Diventa allora comprensibile quella frase che può apparire scioccante: Quando devo insegnare chi è Dio, non devo parlare di Dio, devo parlare della pace che dobbiamo avere tra noi. Con Paolo possiamo dire che tutto il mistero di Dio, di Cristo, del vangelo e della Chiesa confluisce in un insieme di persone che, animate dalla fede, hanno tra di loro relazioni fraterne. Il problema biblico, teologico e pastorale fondamentale non è dunque la custodia del passato, ma l’incarnazione storica continua del vangelo in una concreta e visibile fraternità evangelica. Per questo la fraternità è così importante per Francesco.
L’uomo nuovo descritto da Paolo è figlio e fratello, capace di leggere se stesso e gli altri in un solo corpo animato da un solo Spirito, nella complementarietà e nella riconoscenza, con la vocazione-identità della comunione divina e fraterna. I rapporti fraterni non sono un “optional” per chi ha accolto il vangelo nella sua vita: accogliere il vangelo significa vivere la fraternità evangelica. Questa fraternità evangelica è il risultato, la conseguenza, il frutto dell’accoglienza del vangelo. È il vangelo, infatti, a darci la bella notizia che Dio è nostro Padre, ci ama e ci perdona, e che noi siamo figli suoi e fratelli tra di noi. Il vangelo presenta a tutti l’invito e la possibilità di vivere con gioia e riconoscenza da figli di Dio e da fratelli tra di noi.
Una comunità in comunione (una fraternità evangelica) è il frutto dell’azione evangelizzatrice di Dio e, proprio in quanto tale, diventa soggetto evangelizzatore: “Solo una comunità che vive e celebra in se stessa il mistero della comunione può essere soggetto di una efficace evangelizzazione” (Comunione e Comunità, 3). La missionarietà di Francesco si esprime anche nell’annuncio evangelico, ma soprattutto con una vita evangelica da fratelli minori.
1.3 – Annunciatori del vangelo nello “spirito di Assisi”
La sfida dell’Islam al cristianesimo c’era già nel secolo XIII. La risposta francescana fu di due tipi, che possiamo collegare a due città: Marrakech in Marocco e Damietta in Egitto. Siamo nel 1219. Da Siviglia i primi missionari francescani partono per il Marocco. Arrivano a Marrakech e, nella piazza della città, incominciano a predicare: “Maometto è un vile schiavo del diavolo: vi sta conducendo per la strada sbagliata e menzognera alla morte eterna, all’inferno dove egli è con tutti coloro che lo hanno ascoltato”. Berardo e i suoi compagni saranno i primi martiri francescani, i martiri di Marrakech.
Nello stesso anno 1219 Francesco si trova a Damietta in Egitto nel campo dei crociati, dove si sta combattendo contro “i figli del diavolo, la spazzatura da cui bisogna ripulire i luoghi santi e l’umanità”. Approfittando di una tregua, Francesco passa nel campo opposto e va a parlare direttamente al sultano, il quale non si converte, ma ascolta Francesco con attenzione e rispetto e lo lascia ripartire libero.
C’è un abisso tra Marrakech e Damietta. Per i frati del Marocco Maometto è il nemico, per Francesco i musulmani con cui va a dialogare sono dei fratelli separati. A Damietta Francesco non affronta un sistema, ma incontra delle persone. Il sultano lo riceve con grande cortesia. I cronisti del XIII secolo hanno trovato più facile esaltare il martirio dei frati a Marrakech che la via nuova aperta da Francesco a Damietta, e lungo i secoli i francescani hanno tentennato tra Marrakech e Damietta: molti frati sono vissuti in pace in mezzo ai musulmani, ma non hanno avuto gli onori della cronaca come altri più zelanti che trovarono così la palma del martirio.
I missionari cappuccini di oggi quel dei due stili vogliono scegliere tra Marrakesh e Damietta?
Ecco alcune piste per fare nostro lo stile di Francesco a Damietta.
Rinunciare definitivamente alla guerra santa e al razzismo religioso
Nell’orto degli ulivi Gesù dice che potrebbe chiedere dodici legioni di angeli, ma preferisce essere ucciso piuttosto che uccidere. Ai missionari tra i saraceni ed altri infedeli Francesco in Rnb XVII, 6 dice che “non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani”. Ne deriva uno stile missionario improntato alla tolleranza, al dialogo, alla minorità.
Uscire dalle mura
Il regno di Dio non si impone; il nostro scudo è la fede, dice san Paolo, e non un muro tra fedeli e infedeli. Francesco d’Assisi ha portato pace fra tante città dell’Italia centrale, ma ancor più ha scavalcato delle mura: quelle che tenevano fisicamente esclusi i lebbrosi, quelle che tenevano moralmente esclusi i briganti, quelle che tenevano spiritualmente esclusi gli infedeli. Per incontrare i lebbrosi, Francesco è andato al di là delle mura di Assisi, giù nella pianura; per incontrare i banditi è andato più lontano, nella foresta; per incontrare i musulmani è andato al di là del mare e della cristianità.
Aprire le porte alla cortesia di Dio
Il libro dei Fioretti fa dire a san Francesco che “la cortesia è un attributo di Dio”. Con la sua presenza tra i credenti musulmani Francesco apriva le porte alla cortesia di Dio che ci rispetta sempre. L’incontro dell’altro nella cortesia è un elemento costitutivo della missione e, anche senza troppe proclamazioni religiose, allarga la tenda del regno invisibile di Dio. A Damietta Francesco ha mancato il martirio per la cortesia; a Marrakech quei primi frati sono riusciti ad avere il martirio per l’oltraggio al Profeta dell’Islam. Quel martirio, in quei tempi di crociate, dalla maggioranza è stato apprezzato, ma questo non vuol dire che fosse più evangelico. A Damietta Francesco ha intuito che l’incontro era più importante del martirio. Damietta è l’incontro senza martirio; Marrakech è il martirio senza incontro. Marrakech è l’opposizione di due ghetti; Damietta è l’incontro sulla riva dell’altro.
Iniziare un cammino comune
A Damietta 1219 corrisponde Assisi 1986. Davanti alla Porziuncola, là dove Francesco aveva iniziato e concluso la sua avventura fraterna con i suoi fratelli e le sue sorelle minori, il Papa, circondato da tanti altri capi religiosi, così introdusse una delle giornate più importanti del secondo millennio: “Ho scelto Assisi come luogo della nostra giornata di preghiera per la pace per il significato particolare dell’uomo santo venerato qui, san Francesco, conosciuto e rispettato da tante persone nel mondo intero come un simbolo di pace, di riconciliazione e di fraternità”. Veniva restituita la visita: Damietta veniva ad Assisi, ad incontrare l’uomo dell’incontro, sulla sua riva. Il 28 settembre Giovanni Paolo II aveva detto: “Le nostre differenze sono numerose e profonde. In passato spesso sono state motivo di lotte dolorose. La fede comune in Dio ha un valore fondamentale: facendoci riconoscere tutte le persone come creature di Dio, essa ci fa scoprire la fraternità universale. Per questa ragione, con il nostro incontro di Assisi, vogliamo iniziare un cammino comune”.
Nella prospettiva del Vaticano II da rileggere e nello “spirito di Assisi”, ci viene affidato un compito estremamente impegnativo ed esaltante: annunciare il vangelo con lo stile di Francesco, nello “spirito di Assisi”.
1.4 – Dall’evangelo della paternità di Dio all’evangelo della figliolanza e della fraternità di tutti gli uomini
In tutti gli scritti san Francesco esprime la sua fede e la sua vita, il suo modo di leggere e di interpretare il vangelo. Ma c’è una pagina di questi scritti che possiamo chiamare il “Magnificat” di san Francesco, “il suo vangelo”. Si tratta del capitolo XXIII della sua prima regola, la Regola non bollata. È qui che Francesco canta il suo Dio, onnipotente, santo, creatore, salvatore, oltre il quale nient’altro si può desiderare e volere, nient’altro può piacere e soddisfare. “Per te stesso ti rendiamo grazie”, dice a Dio; e poi lo ringrazierà o lo magnificherà per le grandi cose che ha fatto, fa e farà per tutti. Troviamo qui il cammino di Francesco dall’evangelo della paternità di Dio, all’evangelo della figliolanza e della fraternità di tutti gli uomini: tutti figli dello stesso padre e dunque tutti fratelli tra di noi. Dall’evangelo della paternità di Dio deriva l’evangelo della figliolanza e della fraternità di tutti gli uomini. È questo cammino che troviamo espresso in Rnb XXIII, non in forma teorica e schematica, ma come frutto, come riflesso, come effetto, come esperienza, come profumo. Sono frutto, riflesso, effetto dell’incontro con l’evangelo la gioia traboccante, l’ammirazione sconfinata, il ringraziamento inarrestabile, la lode estasiata che permeano ogni parola di questo testo. Chi scrive è immerso nell’esperienza dell’evangelo: sente in ogni fibra del suo essere la paternità di Dio, la propria figliolanza, la fraternità universale. Le parole non gli bastano per esprimere e comunicare l’intensità dell’esperienza evangelica che sta vivendo.
Francesco “piccolo” (cf. Testamento 41.49: FF 127.131), e i suoi “frati minori, servi inutili”, hanno ricevuto la rivelazione evangelica di Gesù: hanno scoperto Dio come Padre e in lui hanno scoperto se stessi come figli. È il tesoro che hanno trovato, e le parole, pur tante e straordinarie che fluiscono dal cuore e dall’intelligenza, non sembrano bastare ad esprimere la preziosità di quanto hanno scoperto, e nasce allora l’esortazione: “Nient’altro dunque desideriamo, nient’altro vogliamo, nient’altro ci piaccia e ci soddisfi se non …” (Rnb XXIII, 27). Ed è tanta la gioia che non possono tenerla solo per se stessi: sentono la necessità e l’urgenza di comunicare a tutti questo evangelo, questa notizia straordinaria. L’elenco dettagliato e interminabile di Rnb XXIII, 16-22 (ma cf. anche l’inizio della Lettera ai Fedeli: FF 179) rivela la commovente preoccupazione che nel mondo intero qualcuno possa restare escluso dal venire a conoscenza di questa notizia straordinaria: Dio è Padre, noi siamo figli suoi e fratelli tra di noi.
1.5 – Dalla contemplazione all’evangelizzazione
Che cos’è la contemplazione? È vedere e sentire in questo modo Dio, la storia della salvezza, se stessi, i propri limiti, gli altri e tutto ciò che esiste.
Che cos’è l’evangelizzazione? È comunicare ciò che si vede e si sente nella contemplazione.
Rnb XXIII è un esempio di limpida e autentica contemplazione; ed è pure un esempio di evangelizzazione straordinariamente efficace.
La vera evangelizzazione avviene sempre per contagio di esperienza: la contemplazione fornisce l’esperienza di Dio, l’evangelizzazione è la partecipazione di tale esperienza. La contemplazione è condizione imprescindibile dell’evangelizzazione, perché solo se evangelizzati si può evangelizzare. Sempre, ma soprattutto oggi, più che di maestri si avverte il bisogno di testimoni.

2 – LA MISSIONE EVANGELICA IN SAN PAOLO
Pur nella distanza cronologica e culturale, quanti parallelismi si potrebbero scoprire tra la missione evangelica di Francesco e quella di Paolo. Alcuni esempi:
- L’uomo nuovo di Romani e l’uomo dal cuore nuovo di Rnb XXII: entrambi sono frutto della Parola e dello Spirito
- Paolo è un costruttore di comunità (Chiese),Francesco è un costruttore di fraternità
- “La preoccupazione per tutte le Chiese” (2Cor 11,28) è la stessa espressa da Francesco nell’inizio della sua lettera a tutti i fedeli: “Poiché sono servo di tutti, sono tenuto a servire tutti e ad amministrare le fragranti parole del mio Signore” (Lettera ai fedeli 2: FF 180). Stessa coscienza di essere servo di Gesù Cristo e suo strumento per far giungere la parola a tutti, stesso entusiasmo missionario, stessa coscienza che la parola continua a farsi carne nelle comunità cristiane.
Ma vorrei attirare l’attenzione solo un punto che Paolo stesso presenta come fondamentale per la sua missionarietà al servizio del vangelo.
Paolo: annunciatore del vangelo della croce
Paolo è l’apostolo per eccellenza, il primo grande missionario, il primo a verbalizzare il messaggio evangelico, colui che ha portato il messaggio di Cristo in quasi tutto il bacino del Mediterraneo. Questo grande apostolo e missionario nelle due lettere ai Corinzi (le lettere dell’apostolato) ci descrive il contenuto e la modalità del suo annuncio missionario, che potremmo riassumere nell’ossimoro “il vangelo della croce”.
La parola della croce viene giudicata debolezza-stoltezza da chi va in perdizione; ma per chi si salva è invece fortezza-potenza di Dio. Cristo crocifisso è scandalo per chi cerca miracoli (giudei) e stoltezza per chi cerca spiegazioni razionali (pagani), ma per i chiamati è potenza di Dio e sapienza di Dio. Possiamo riassumere così l’argomentazione serrata e i tanti ossimori di 1Cor 1,17-2,5: la croce di Cristo, simbolo del potente e sapiente progetto salvifico di Dio, ma espressione d’impotenza e d’infamante follia per gli uomini, costituisce il contenuto della predicazione cristiana, configura l’aspetto della comunità dei credenti, determina la forma del messaggio apostolico, qualifica la persona stessa del predicatore. Davvero “Dio ha scelto ciò che è debole per confondere i forti” (1Cor 1,27-28).
Mentre in 1Cor 1,18-2,5 la contrapposizione debole-forte si riferisce alle modalità salvatrici ed evangelizzatrici scelte da Dio (il Crocifisso, il vangelo della croce), in 2Cor 12,7-10 riguarda direttamente la persona stessa di Paolo e la sua autopercezione e, di riflesso, l’esperienza di ogni cristiano. Paolo sente tanto debilitante questa “spina nella carne” che: “Tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me”. La fortezza desiderata da Paolo consiste nel non avere questa “spina nella carne”. Ma il Signore gli risponde: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. È da questa risposta che si può mettere a fuoco tutto l’apostolato paolino. Paolo, pur partendo da un’esperienza personale, intende porre un principio generale che aveva già sostanzialmente presentato in 1Cor 1,17-2,5.
La risposta del Signore ha aperto gli occhi a Paolo e ha letteralmente capovolto il suo modo di giudicare le situazioni: quello che prima gli appariva debolezza e impedimento da cui chiedere la liberazione ora gli è stato rivelato “forte” in quanto condizione indispensabile per il manifestarsi della potenza di Dio. Per questo, Paolo può quindi vantarsi e compiacersi di quelle “debolezze”. Dalla “fortezza debole” precedente Paolo è passato alla “debolezza forte” attuale: “Quando sono debole, è allora che sono forte”. Ma di quale debolezza si tratta qui?
In 1Cor 1,18-2,5 Paolo mette in contrapposizione la debolezza forte di Dio e la fortezza debole dell’uomo. La croce di Cristo, il vangelo della croce, la chiamata di Dio e la predicazione di Paolo a Corinto esprimono la debolezza degli strumenti di cui Dio si serve, ma è una debolezza solo apparente; in realtà è una debolezza forte perché attraverso di essa arriviamo a Gesù Cristo, il solo che “per noi è sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (cf. 1Cor 1,30). Di fronte alla “debolezza forte” di Dio sta la “fortezza debole” dell’uomo, una fortezza basata sulle prove convincenti della logica o della storia; ma questa fortezza dell’uomo è solo apparente; in realtà è una fortezza debole perché impedisce di giungere a Gesù Cristo il solo che “per noi è sapienza, giustizia, santificazione e redenzione”.
In 2Cor 12,7-10 troviamo in contrapposizione la fortezza debole desiderata da Paolo e la debolezza forte da lui scoperta. Mentre in 1 Cor la contrapposizione è tra come vede le cose Dio e come le vede l’uomo, in 2Cor la contrapposizione è tra come vedeva le cose Paolo prima della rivelazione ricevuta e come le vede dopo la rivelazione. Ma quello che appare fondamentale non è tanto la realtà giudicata in modo diametralmente opposto (la croce di Cristo in 1 Cor e la “spina nella carne” di Paolo in 2Cor), quanto piuttosto l’occhio che guarda, cioè il criterio, la chiave di lettura. E questo occhio-criterio nei due brani è lo stesso, è quello della fede.
Paolo non si gloria di qualsiasi debolezza ma di quella debolezza che è letta con fede, cioè come umile riconoscimento della propria insufficienza e quindi come umile richiesta di salvezza. È solo questa la debolezza che permette alla potenza di Dio di esprimersi: è questo “il vangelo della croce”. E bisogna sottolineare anche “il vangelo della gratuità”, messo in evidenza dall’insistenza con cui Paolo ricorda che “Dio ha scelto” proprio ciò che umanamente appare debole, insignificante, inadatto, per rivelarsi e salvare.
1Cor 1,29 offre la spiegazione di questo sconcertante agire di Dio: “Perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio”. Paolo proclama qui la fine di ogni possibile umana autoglorificazione. D’ora in poi l’unica glorificazione-sapienza sarà nella croce di Cristo. La debolezza-inadeguatezza dello strumento fa risaltare la potenza di Dio. È questa gratuità che viene sottolineata anche in 1Cor 1,30: per opera di Dio “voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione”.
Ma è soprattutto “il vangelo della fede” che Paolo intende presentare. Tutto il brano 1Cor 1,17-2, 5 trova la sua conclusione nell’ultima frase, estremamente sintetica ed efficace: “Perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio”. 1Cor 1,31 riprende l’esortazione a gloriarsi non di sé ma solo del Signore: il concetto si trova già in Ger 9,22-23, e l’espressione verrà ripresa testualmente da Paolo in 2 Cor 10,17. Gloriarsi di sé significherebbe non riconoscere che la salvezza ci viene da fuori, da Dio, gratuitamente, in Cristo Gesù, e quindi significherebbe precludersi la possibilità stessa della salvezza.
In 1Cor 1,18 sono messe a confronto le due valutazioni opposte della “parola della croce”: stoltezza per quelli che vanno in perdizione, potenza di Dio per quelli che si salvano. La valutazione sembra dipendere dalla sorte (persi o salvati); in realtà, è la sorte che dipende dalla valutazione diversa della croce: giudicare la croce e il discorso su di essa “stoltezza” porta alla perdizione; giudicare la croce e il discorso su di essa “potenza di Dio” porta alla salvezza. Non riconoscere nella croce di Cristo la potenza di Dio che può salvarci, significa svuotarla proprio di quella stessa potenza. La fede è la chiave di lettura per riconoscere come provvidenziali le sconcertanti scelte di Dio.
La sconcertante possibilità provvidenziale del “vangelo della croce” offerto da Dio all’uomo diventa effettiva provvidenza divina solo nella fede, che permette di leggere la debolezza umana come spazio umilmente disponibile ad essere riempito dalla gratuita e salvifica ricchezza di Dio. Quando mi riconosco debole e sono umilmente riconoscente a Dio della mia debolezza, è allora che sono forte della fortezza che gratuitamente Dio esprime in me.
Paolo, il primo autore del Nuovo Testamento, sottolinea l’aspetto sconcertante dell’agire di Dio che ha voluto salvare l’uomo attraverso la croce di Cristo, simbolo di ogni crisi, di ogni debolezza, di ogni sconfitta, di ogni sofferenza. Ma è proprio e solo attraverso la croce di Cristo che arriva la salvezza per tutti. La fede è il luogo dove la croce di Cristo non viene vanificata, o considerata come incidente di percorso o male inevitabile, ma viene riconosciuta e accolta come vangelo, vangelo della croce. Il tema è profondamente collegato con i capisaldi della teologia paolina: la gratuità della salvezza offerta da Dio all’uomo in Cristo morto e risorto, e la fede come grande condizione per l’accoglienza di essa; ne sottolinea l’aspetto sconcertante, ma, infine, anche gratificante. “Quando sono debole è allora che sono forte” appare felice ed esperienziale traduzione paolina delle beatitudini evangeliche.

Conclusione
La missione evangelica di Paolo è caratterizzata dall’annuncio del vangelo della croce; la missione evangelica di Francesco è caratterizzata dalla vita evangelica di fratelli minori; come l’annuncio paolino non esclude certo la testimonianza della sua vita, così la vita evangelica di Francesco non esclude l’annuncio verbale. Nella vita e nell’annuncio evangelico di Paolo e di Francesco continua a rivivere Cristo: “Non son più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20)
P. Dino Dozzi è teologo e biblista, docente di Sacra scrittura presso diversi istituti teologici, direttore della rivista francescana Messaggero Cappuccino, autore di varie pubblicazioni di approfondimento e divulgazione sulla lettura biblica e sulla spiritualità francescana, tra cui “Così dice il Signore”, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2000.

Publié dans : FESTE DI SAN PAOLO APOSTOLO |le 24 janvier, 2011 |Pas de Commentaires »

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