Le poche semplici cose della liturgia cristiana

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Le poche semplici cose della liturgia cristiana

Attorno al volgere del secolo IV, vengono poste ad Agostino alcune domande di carattere liturgico. Ben oltre la soluzione delle questioni di allora, due lettere di Agostino (la 54 e la 55 del suo epistolario) gettano luce su come oggi il mistero cristiano debba essere concepito e possa essere amato 

di Lorenzo Cappelletti
 
Sant’Ambrogio celebra la messa in suffragio di san Martino, particolari di una scena del mosaico absidale, basilica di Sant’Ambrogio, Milano 
 
      Colpisce sempre la modernità di Agostino, ovvero la corrispondenza alla sensibilità odierna del suo modo di essere cristiano. Tanto è vero che a volte bastano le parole di Agostino a suscitare l’interesse gratuito di persone che altrimenti resterebbero del tutto indifferenti a Cristo, nonostante l’affanno di chi per mestiere si interessa a Cristo e a loro. Come testimoniano, per esempio, le recenti sorprendenti dichiarazioni di Gérard Dépardieu (cfr. 30Giorni n.9, settembre 2002, p. 63). Confidando in questa forza delle parole di Agostino, le lasciamo riecheggiare ancora una volta.
      Attorno al volgere del secolo IV, un tale di cui non sappiamo che il nome, Januarius, pone ad Agostino questioni di carattere liturgico. Ben oltre la soluzione delle questioni di allora, due lettere di Agostino (la 54 e la 55 del suo epistolario) gettano luce su come oggi il mistero cristiano debba essere concepito e possa essere amato.
      «Che cosa bisogna fare il giovedì dell’ultima settimana di Quaresima [il giovedì santo]?» chiede Januarius. «Si deve offrire il sacrificio al mattino e di nuovo la sera dopo la cena per il fatto che si legge “Allo stesso modo dopo aver cenato…”, oppure bisogna digiunare e celebrare solo dopo aver cenato? Oppure si deve digiunare e, come siamo soliti fare, cenare dopo il sacrificio?» (Lettera 54,5,6).
      Agostino, prima di entrare nello specifico, nega anzitutto che quello proposto sia un problema e pone il criterio di ogni pratica cristiana: «Anzitutto voglio che tu tenga per fermo che Nostro Signore Gesù Cristo, come dice egli stesso nel Vangelo, ci ha sottoposti al suo giogo soave e a un carico leggero e perciò ha voluto stabilire, come vincoli del nuovo popolo, sacramenti in numero limitatissimo, facilissimi a praticarsi, e di sublime significato: come il battesimo, consacrato nel nome della Trinità, la comunione col suo corpo e il suo sangue e tutti gli altri mezzi raccomandati nelle scritture canoniche, abbandonando quei riti di cui si legge nei cinque libri di Mosè che servivano alla schiavitù dell’antico popolo e convenivano alle disposizioni del loro cuore e di quel tempo profetico» (Lettera 54,1,1; corsivo nostro). Nella Lettera successiva (55,7,13), Agostino non solo parlerà di nuovo del limitato numero dei sacramenti, ma anche delle pochissime, semplici cose che ne costituiscono la materia: «Ci serviamo di un numero assai limitato di cose, come l’acqua, il frumento, il vino e l’olio».
      Ci sono però anche delle disposizioni non scritte – continua Agostino nella Lettera 54 – ma trasmesse per tradizione, che sono osservate da tutta la Chiesa perché raccomandate e stabilite dagli apostoli o dai concili plenari «la cui autorità nella Chiesa è così utile» (54,1,1), come la celebrazione annuale dei misteri della passione, della resurrezione, dell’ascensione, della discesa dello Spirito Santo. Anche su questo non ci può essere difformità.
      Ma ci sono pratiche che variano a seconda dei luoghi, per le quali non si può far ricorso alla Scrittura o a prescrizioni degli apostoli o dei concili plenari. In questi casi, e tale è anche il caso proposto da Januarius, la loro osservanza è lasciata alla libertà di ciascuno e se c’è un obbligo è quello di conformarsi all’uso della Chiesa in cui ci si viene a trovare, «perché tutto ciò che non può provarsi essere contro la fede e contro i costumi deve essere considerato indifferente e si deve osservare per rispetto verso coloro fra i quali si vive» (54,2,2). Agostino ricorda quando, solo per far piacere alla madre Monica, scandalizzata perché a Milano il sabato non si digiunava come a Roma, chiese consiglio ad Ambrogio, il quale gli disse quello che faceva lui: a Roma digiunava e a Milano no. A quel consiglio Agostino dice di aver ripensato più volte tenendolo quasi come un oracolo. Si capisce che quel consiglio di Ambrogio fu per lui qualcosa d’altro dalla soluzione di un problema, che fra l’altro all’epoca non era il suo, visto che talia non curabat (54,2,3). Questa contingenza fu per Agostino l’incontro con una sconosciuta e sorprendente libertà.
      L’altro esempio portato da Agostino riguarda la pratica della comunione quotidiana. L’importante, afferma, non è accostarsi o non accostarsi quotidianamente all’eucaristia, ma l’onore che si rende al sacramento della nostra salvezza. In fondo, sia Zaccheo, accogliendolo, sia il centurione, dichiarandosi indegno di riceverlo, hanno onorato il Salvatore: «Zaccheo e il centurione non litigarono fra loro e nessuno dei due si ritenne superiore all’altro, perché l’uno pieno di gioia ricevette il Signore nella propria casa e l’altro disse “non sono degno che tu entri sotto il mio tetto”. Tutti e due onorarono il Signore in modo diverso e per così dire contrario. Ambedue erano miserabili peccatori, ambedue ottennero misericordia» (54,3,4). Solo una cosa di fronte a questo cibo va evitata, secondo Agostino, il disprezzo, cioè – continua citando la prima Lettera ai Corinzi – il non distinguerlo dagli altri cibi attraverso la venerazione ad esso solo dovuta (veneratione singulariter debita). Da una parte qui si apprezza a pieno la magnanimità pastorale della disposizione con cui Pio X nel lontano 1910 volle condizionare a quest’unico elemento la ricezione della prima comunione: la capacità di distinguere il cibo eucaristico da quello comune. Dall’altra parte qui si riconosce il richiamo apostolico, che torna di prepotente attualità, e cioè di essere attenti a non mangiare e bere la propria condanna.
      Ma torniamo ad Agostino. Di fronte a usi diversi, dunque, si tratta di non importare né di esportare usi che come tali non si potrebbero giustificare che in termini soggettivi, di pura curiosità. La conseguenza sarebbe, anzi è, come egli con grande pena ha potuto constatare, il turbamento dei deboli. «Soltanto in vista della fede o dei costumi bisogna correggere un’usanza contraria al bene o istituirne un’altra prima inesistente. Infatti ogni cambiamento di usanze, anche se aiuta perché utile, porta scompiglio, con la sua novità; ecco perché un cambiamento che non è utile, per il fatto stesso che produce un infruttuoso scompiglio è nocivo» (54,5,6). Perciò, se un determinato uso non è attestato dalla Scrittura né dalla univoca Tradizione della Chiesa tutta, si è liberi di osservarlo o meno perché evidentemente non ne va della fede né della vita morale.
      Eppure Agostino non assolutizza neppure questa sua stessa posizione, che potremmo dire liberale. E ci sembra che qui stia un aspetto della sua genialità cristiana.
      Infatti, nella successiva Lettera 55, si sbilancia: da una parte afferma che riguardo a salmi e inni cantati, sebbene si riscontri una grande diversità in questa pratica, non c’è assolutamente niente di meglio, niente di più utile, niente di più santo da fare, quando i cristiani si radunano, perché questo muove l’animo alla devozione e infiamma il cuore d’amore per Dio (senza contare che si potrebbero trovare esempi e precetti del Signore e degli apostoli che la inculcano).
      Dall’altra parte dice che ci sono pratiche le quali, seppure non si possa dimostrare in che modo siano contrarie alla fede, tuttavia lo sono per il semplice fatto che moltiplicano gli obblighi, tanto da far sembrare più tollerabile la condizione dei Giudei che almeno obbediscono alla Legge mosaica e non a umane invenzioni: «Quanto poi ad altre pratiche che si introducono fuori dalla consuetudine e che si prescrive di rispettare quasi si trattasse di sacramenti, non posso approvarle» dice Agostino «sebbene non oso riprovare apertamente molte di queste cose per evitare lo scandalo di persone sante o turbolente. Ma quel che più mi addolora è che mentre si trascurano molte cose prescritte salutarmente nelle Scritture, tutto è riempito di una tale congerie di invenzioni che si arriva a rimproverare più aspramente un neofita che durante l’Ottava di Pasqua stia a piedi nudi, di uno che abbia affogato la mente nell’ubriachezza. Penso dunque che, avendone facoltà, si debbano senz’altro sopprimere tutte le usanze che non siano fondate sull’autorità delle Sacre Scritture, che non si trovino stabilite da sinodi episcopali o che non siano state confermate dall’uso della Chiesa intera; usanze che conoscono infinite variazioni in base alle diverse sensibilità di ogni luogo al punto che è difficile o del tutto impossibile trovare le cause per cui furono stabilite. Infatti, benché non si possa dimostrare in che modo siano contrarie alla fede, esse tuttavia opprimono con legami servili proprio la religione che la misericordia di Dio ha voluto fosse libera da ogni celebrazione che non fosse quella di pochissimi e ben determinati sacramenti. Tanto che si direbbe più tollerabile la condizione dei Giudei che, pur non avendo riconosciuto il tempo della libertà, sono tuttavia sottoposti alle imposizioni della Legge, non a umane invenzioni» (55,18,34-19,35; corsivi nostri).
      Ma proprio perché chiamati a una legge di libertà, l’ultima parola ce l’hanno la pazienza e la carità: «Ma la Chiesa di Dio, che si trova a vivere in mezzo a molta paglia e a molta zizzania, tollera molte cose» (55,19,35).

Publié dans : liturgia |le 2 janvier, 2011 |Pas de Commentaires »

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