Rm 8,37

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“Tota pulchra”. La “via pulchritudinis” e la luce di Maria assunta in cielo
ROMA, sabato, 18 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione pronunciata il 16 dicembre da mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, durante la quindicesima seduta pubblica delle Pontificie Accademie svoltasi presso la sede del Pontificio Consiglio della Cultura.
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1. La “via pulchritudinis” e la “Tota Pulchra”. La bellezza è l’evento di una donazione, in cui il Tutto infinitamente al di là di ogni nostra cattura viene a farsi presente in un frammento: nella finitezza di una forma l’Infinito si affaccia; nella fragilità di un evento l’Eterno viene a narrarsi nel tempo. Il Tutto si offre nel frammento! Questo è bellezza, perché – come scrive Hans Urs von Balthasar – “l’esperienza estetica è data dall’unità della massima concretezza della forma singola con la massima universalità del suo significato”[1]. Attraverso il frammento in cui si offre, il bello costituisce una via privilegiata di accesso al significato ultimo dell’esistenza umana, una finestra sulla profondità del vero, che illumina e salva. Con la crisi delle presunzioni totalizzanti della ragione moderna e la caduta dei mondi ideologici da essa prodotti, questa via di approccio alla verità è stata fatta oggetto di una generale riscoperta. Il bello come splendore del vero si risveglia nelle anime! “In un mondo senza bellezza – dichiarava von Balthasar – anche il bene perde la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto… In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica”[2]. In alternativa a un pensiero che pretendeva di essere totalmente trasparente a se stesso e di abbracciare la realtà intera, si apprezza il valore di ciò che tiene insieme il minimo e l’Infinito, avvicinando quanto è immensamente lontano pur senza annullare le differenze. La bellezza apre all’intelligenza del simbolo (da “syn-bállein”), eccedenza di senso nella pur permanente continuità del significato, tale da tener insieme i distanti senza confonderli. Un pensiero senza ombre o rimanenze non è più ricco di un pensiero simbolico: l’ideale non assorbe il reale, deve anzi riconoscerne l’eccedenza; il concetto è chiamato a trascendersi verso spazi più vasti. Come osserva il teologo ortodosso Pavel Evdokimov, “non è la conoscenza che illumina il mistero, è il mistero che illumina la conoscenza. Noi possiamo conoscere solo grazie alle cose che non conosceremo mai”[3].
L’approccio estetico e la conoscenza simbolica – che risultano dunque oggi più che mai necessari nella ricerca di orizzonti di senso – appaiono adatti in modo peculiare alla riflessione credente intorno alla Madre del Signore, che la narrazione evangelica descrive come la “symbállousa”, colei che tiene insieme nel suo cuore le lontananze senza confonderle: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole (symbállousa) nel suo cuore” (Lc 2,19). Colei che fra tutte le creature è la più prossima al mistero del Verbo incarnato, dove una volta per sempre il Tutto divino si offrì nel frammento di una vicenda umana, non può non essere plasmata da questa vicinanza. La Vergine Madre tiene insieme il cielo e la terra, il Totalmente Altro e il Totalmente Dentro: il disegno dell’Altissimo, cui ella acconsente, la trascende ed insieme la pervade; ad esso ella si apre nell’“eccomi” della fede, accogliendo il dono della pura Grazia. La relazione di Maria col Mistero può essere dunque espressa al meglio proprio da un pensiero simbolico, che non è concorrente o alternativo rispetto a quello storico-critico, ma dipende da esso, sviluppandone l’efficacia. La lettera e lo spirito, lungi dall’opporsi, si richiamano e si arricchiscono reciprocamente nel discorso di fede sulla Madre del Signore, la Tutta Bella abitata dalla grazia dell’Altissimo. Si comprende allora come la via della verità e la via della bellezza, il racconto argomentativo e la ragione simbolica, vengano ad integrarsi quando si parla di Maria nella luce della fede.
Lo aveva intuito magistralmente Paolo VI: “La via della verità, cioè della speculazione biblico-storico-teologica, concerne l’esatta collocazione di Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa… la via della bellezza (è quella) alla quale conduce, alla fine, la dottrina misteriosa, meravigliosa e stupenda… su Maria e lo Spirito Santo. Infatti, Maria è la creatura ‘tota pulchra’; è lo ‘speculum sine macula’; è l’ideale supremo di perfezione che in ogni tempo gli artisti hanno cercato di riprodurre nelle loro opere; è ‘la donna vestita di sole’ (Ap 12,1), nella quale i raggi purissimi della bellezza umana si incontrano con quelli sovrumani, ma accessibili, della bellezza soprannaturale”[4]. Come nell’esperienza del bello il tutto si fa presente nel frammento per via dell’armonia delle forme e delle proporzioni o mediante l’irruzione e l’evocazione dell’infinito nel finito, così in Maria la totalità del Mistero si relaziona a noi grazie all’elezione gratuita di cui Dio l’ha fatta oggetto[5]: nell’umile serva Egli ha fatto grandi cose; nella sua piccolezza si riflette la battaglia cosmica che attraversa la storia intera, nella quale Dio abbatterà i potenti dai troni e innalzerà gli umili.
La via della bellezza e la via della verità, pertanto, conducono entrambe a riconoscere in Maria il valore di un’icona, che rimanda densamente alla Trascendenza entrata nell’immanenza del mondo proprio nel Suo grembo di Vergine Madre. Chi abbia preso sul serio l’avventura della modernità ed il complesso insorgere del post-moderno, avvertirà come l’incontro di queste due vie sia tutt’altro che insensato o marginale: una mariologia simbolico – narrativa[6] spezza il cerchio di ogni presunzione di totalità ideologica, e attraverso i concreti eventi della storia della salvezza si approssima alle insondabili profondità del Mistero, offerte in Maria per la salvezza del mondo. Il discorso argomentativo si congiunge alla narrazione e all’inno: la ragione prigioniera di se stessa si apre nello stupore a ciò che infinitamente la supera. Nella Vergine Madre il bello appare più che mai come lo splendore del vero…
2. La “Tota Pulchra”: Maria, frammento abitato dall’Eterno. Nel grembo della Madre di Dio una volta per sempre il Tutto dell’Eterno si è offerto nel tempo: proprio così, Maria è nel suo essere Vergine, Sposa e Madre il frammento vivente in cui ci è offerta l’infinita bellezza. Afferma San Giovanni Damasceno, che l’Oriente ama chiamare il “sigillo dei Padri”: “Il solo nome della Madre di Dio contiene tutto il mistero dell’economia dell’Incarnazione”[7]. Questa frase riassume una convinzione costante della fede cristiana riguardo alla Vergine Madre: in lei, la “Tota pulchra”, si affaccia nel tempo l’infinita bellezza di Dio e del Suo progetto sull’uomo. Proprio per questo artisti e poeti l’hanno celebrata: un esempio altissimo è costituito da Dante, che nel XXXIII Canto del Paradiso presenta l’incontro paradossale di umiltà e grandezza, di creaturalità e grazia, di tempo ed eternità, compiutosi in Maria: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’eterno consiglio…”. Prima di lui, San Pietro Celestino aveva celebrato la bellezza di Maria con linguaggio corposo: “Vergine gloriosa, Madre de pietate, / fonte de omne bellezza, giglio de castitate, / castello de Amore, foco de caritate, / altezza de virtude, radice de sanctitate, / scola de sapientia, armario de veritate…”. Francesco Petrarca si rivolge così a Maria: “Vergine bella, che di sol vestita, / coronata di stelle, al sommo Sole / piacesti sí, che ‘n te Sua luce ascose”. Infine, per citare solo due voci dell’epoca moderna, Paul Claudel esclama: “Semplicemente perché tu esisti, madre di Gesù, che tu sia ringraziata”, e il poeta romantico tedesco Novalis dice: “Chi, Madre, t’ha veduta una volta, non subirà mai più l’incanto del male”.
La ragione profonda che conduce la sensibilità di artisti, poeti e mistici a riconoscere in Maria la “tutta bella” sta precisamente nel suo essere il frammento, in cui l’Infinito è venuto a mettere la sua tenda fra noi. È già la testimonianza biblica a far intravedere come in Lei la totalità venga ad offrirsi nell’umiltà della Sua vicenda: da una parte, risulta evidente che non si può parlare di lei che in rapporto al Figlio e all’economia totale della salvezza in lui realizzata; dall’altra, i testi biblici mostrano la concretezza della Sua storia di donna, vergine, madre e sposa. È insomma dal Figlio suo – l’Universale concreto, norma e archetipo dell’umano – che la Vergine Madre riceve una sua specifica e singolare partecipazione all’universalità del disegno salvifico, “benedetta fra tutte le donne” come è “benedetto il frutto del suo grembo”, Gesù (cf. Lc 1,42). Si può dire, allora, che la storia di Maria è “la storia del mondo in compendio, la sua teologia in una sola parola”, e che ella è “il dogma vivente, la verità sulla creatura realizzata”[8]. Maria, insomma, è la “tutta bella” perché è la donna, icona del Mistero: il riferimento al Suo essere donna evidenzia la densa realtà del frammento di cui si parla, la storicità di questa giovane della casa d’Israele, cui è stato dato di diventare la madre del Messia. Maria non è un mito, né un’astrazione, come mostrano i tratti della sua personalità di donna ebrea, che ha saputo vivere nel modo più alto la spiritualità dello “shemà”, dell’ascolto nutrito dalla fede e dalla speranza messianica, sperimentandone in se stessa il compimento e il nuovo inizio. Confermano la storicità della sua figura l’umiltà della sua condizione, la quotidianità delle sue fatiche nella famiglia di Nazaret, l’oscurità dell’itinerario di fede in cui è avanzata, i condizionamenti ricevuti dall’ambiente circostante, l’aver conosciuto in prima persona gli stati differenti dell’esperienza femminile di vergine, madre e sposa.
Il significato universale di Maria sta o cade con la sua singolarità di donna concreta, di “Virgo singularis”: quanto più questo aspetto sarà colto, tanto più il valore di archetipo della “Tota Pulchra” per tutto l’essere umano e per ogni essere umano si lascerà percepire e il mistero in lei riposto si farà scandagliare. È questo gioco di visibile concretezza e di invisibile profondità, che fa parlare di lei come di una icona: Maria è tale perché in lei si attua il duplice movimento, che ogni icona tende a trasmettere, la discesa e l’ascesa, l’antropologia di Dio e la teologia dell’uomo. In lei risplende l’elezione dell’Eterno e il libero consenso della fede in Lui. Come “l’icona è la visione delle cose che non si vedono”[9], così la Vergine Madre si offre allo sguardo della fede come il luogo della divina Presenza, l’arca dell’alleanza, coperta dall’ombra dello Spirito (cf. Lc 1,35 e 39-45. 56), la dimora santa del Verbo tra gli uomini. Guardare a Maria “icona” significa, allora, rivolgere al dato biblico che la riguarda un’attenzione aperta a sondare le profondità divine che in esso si comunicano, così come ha saputo leggerle l’ininterrotta tradizione credente della Chiesa, a partire dalle sue prime origini. Meditando Maria nella Scrittura, diventa possibile rileggere la Scrittura in Maria, cogliere cioè nella concreta figura biblica della Madre del Signore l’intera economia dell’alleanza narrata nello splendore di questo umile e meraviglioso frammento.
3. Il Tutto divino in Maria: la Vergine Madre Sposa e la Trinità. Frammento vivo e vero di umanità, Maria è inseparabilmente il terreno d’avvento del Tutto divino. Proprio così la si può definire donna icona del Mistero: gloria nascosta sotto i segni della storia[10], il mistero implica contemporaneamente la visibilità degli eventi in cui si compie e la profondità invisibile dell’opera divina che in essi si realizza. Il mistero appare già nella scena dell’annunciazione, dove la Trinità si lascia riconoscere come il grembo adorabile che accoglie la Vergine santa, al tempo stesso in cui Maria si offre come il grembo del Figlio di Dio[11]. Fra Maria e la Trinità è stabilito un rapporto di profondità unica: ella è “il santuario e il riposo della santissima Trinità”[12]. La Trinità si fa presente in Lei nella ricchezza delle relazioni che la legano alle tre Persone divine secondo i vari aspetti della sua vicenda terrena: in quanto Vergine, ella sta davanti al Padre come recettività pura e si offre perciò come icona di Colui che nell’eternità è puro ricevere, il Generato, l’Amato, il Figlio eterno, la Parola uscita dal Silenzio. In quanto Madre, Maria si rapporta al Verbo incarnatosi in lei quale sorgente di amore che dona la vita, ed è perciò icona materna di Colui che da sempre e per sempre ha iniziato ad amare, il Generante, l’eterno Amante, il Padre. In quanto arca dell’alleanza nuziale fra il cielo e la terra, Sposa in cui l’Eterno unisce a sé la storia e la ricolma del suo dono, Maria si offre come icona dello Spirito Santo, che è nuzialità eterna, vincolo di carità infinita ed apertura permanente del Dio vivo alla storia degli uomini. Nella Vergine Madre viene così a specchiarsi il mistero stesso delle relazioni divine: nell’unità della sua persona riposa l’impronta dell’unico Dio tripersonale.
Proprio così, Maria è anche la donna Chiesa, la figlia di Sion del tempo messianico giunto al suo inaudito compimento. “Fra la Chiesa e la Vergine, i legami non sono soltanto numerosi e stretti: sono essenziali”[13]. Se da una parte la vita di Maria è “sostanza e rivelazione del mistero della Chiesa”, dall’altra “veramente la Chiesa è la Maria della storia universale”[14]. Come nella Madre del Verbo incarnato, così nel mistero della Chiesa si riflette la comunione trinitaria: icona della Trinità, la comunione ecclesiale trova nell’adorabile mistero la sua origine, il suo modello e la sua patria. Il rapporto fra Maria e la Chiesa è di un’identità simbolica, intuita già dalla testimonianza della fede delle origini, come rivela la scena del dialogo del Crocifisso con Maria e Giovanni ai piedi della Croce: la Donna e il Discepolo amato, figura di ogni discepolo, si coappartengono profondamente. La divina bellezza li avvolge entrambi ed in entrambi vuole risplendere. Come Maria, la Chiesa riflette la bellezza divina: nella notte del mondo, essa è – secondo l’intuizione dei Padri – la luna che accoglie e irradia i raggi del solo Sole, Cristo[15].
Infine, Maria è anche semplicemente la creatura umana davanti a Dio: su di lei scende l’ombra dello Spirito, evocando la prima creazione, quando “lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gen 1,2); in lei è evocata la figura della donna delle origini (cf. Gen 3,15 e l’uso del termine “donna” per designare Maria nel quarto Vangelo); è la serva del Signore, beata perché “ha creduto all’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,45), l’umile, cui l’Onnipotente ha rivolto lo sguardo, compiendo in lei grandi cose (cf. Lc 1,48s). Nel “sì” di Maria risplende il capolavoro dell’azione creatrice di Dio: la dignità della creatura, resa capace di dare l’assenso libero al progetto dell’Eterno e di diventare perciò in qualche modo collaboratrice di Dio. Questa antropologia di Dio – rivelata nell’annunciazione – manifesta quello che fu il disegno dell’Eterno sin dal primo mattino del mondo. La Vergine Madre si offre come icona dell’uomo, chiamato ad acconsentire all’opera della divina bellezza nella libertà e nella generosità del dono. Per l’eccezionale sua vicinanza all’uomo nuovo e perfetto, Gesù, la biografia totale di Maria – dall’immacolato concepimento all’assunzione corporea nella gloria di Dio – rivela in pienezza il progetto divino sulla creatura umana. Modello e Madre, Maria aiuta in ciascuno dei discepoli il compimento del disegno dell’Eterno, manifestato in lei. La sua bellezza chiama e aiuta la nostra: in entrambe viene a parteciparsi l’infinita bellezza di Dio, Trinità Amore. L’essere umano, rivelato nella donna Maria, è sete del bello, che solo l’eterna bellezza potrà veramente appagare.
4. La “via pulchritudinis” e la luce di Maria assunta in cielo. Maria è dunque l’icona pura dell’infinita bellezza di Dio perché in lei, nella concretezza del suo essere donna, il Figlio eterno è venuto ad abitare nella carne come il Tutto in un frammento. La bellezza di Lei non è che l’irradiazione purissima della presenza di Lui, “il bel Pastore” (Gv 10,11), nel suo grembo accogliente. La verginità perpetua e la maternità divina sono in questo senso il punto di partenza di ogni affermazione circa la “Tota Pulchra”, come peraltro di ogni prerogativa e funzione di Maria. Da queste verità di fede – definite dai due dogmi mariani del primo millennio – si irradiano – come esplicitazione luminosa – le definizioni dogmatiche del secondo millennio riguardo all’immacolata concezione e alla gloriosa assunzione. Non è difficile cogliere la continuità profonda fra le quattro formulazioni dogmatiche, che rinviano tutte all’unità del mistero che si compie in Maria: se “la fede della Chiesa nella Divina Maternità e Verginità di Maria è inscindibilmente collegata con la fede in Cristo e la sua formulazione storico-dogmatica”[16], la formulazione dei cosiddetti dogmi “moderni”, partendo dallo stesso orizzonte cristologico, si muove all’interno del primario interesse antropologico dell’età moderna. Come la concentrazione sulla cristologia nei dibattiti della Chiesa antica reagiva al duplice riduzionismo, rispettivamente dell’umano e del divino in Cristo, propri delle eresie doceta e adozionista, così la domanda antropologica, che anima la riflessione teologica moderna si muove fra i due opposti estremismi della celebrazione della gloria di Dio a prezzo della negazione dell’uomo, caratteristica della Riforma, e della celebrazione della gloria dell’uomo a prezzo della morte di Dio, propria del “secolo dei Lumi”.
La continuità fra le quattro definizioni dogmatiche sta nel mantenimento dello scandalo cristologico quale riferimento normativo e fontale per ogni affermazione della fede: come il dogma dell’età patristica non ha dissolto il Cristo, ma ha mantenuto alto e puro il paradosso della convergenza in Lui della divinità con una umanità integra e vera nell’unità della persona divina, così il dogma mariano dell’età moderna non annulla la rivelazione e l’opera del Cristo, perché mantiene alto e puro il paradosso del rapporto fra l’umano e il divino che in Lui ci è stato partecipato. Se il dogma dell’Immacolata Concezione celebra l’assoluta gratuità dell’elezione divina, affermando in Maria – caso assolutamente singolare ed esemplare – la certezza che Dio viene sempre prima ed è sempre più grande, e reagisce così ad ogni presunzione totalizzante da parte della ragione umana, il dogma dell’assunzione della Vergine nella gloria celeste mostra l’altissima destinazione finale della creatura umana presso il Signore, e perciò la dignità e la responsabilità della persona, che nella libertà può accettare o meno di conseguire questa meta. Il paradosso cristologico è mantenuto intatto; la continuità è sostanziale, pur nella diversità di prospettive e di linguaggio.
Lo sviluppo del dogma mariano è allora “proprio uno sviluppo e non una ‘evoluzione’, cioè un cambiamento eterogeneo… Immacolata Concezione e Assunzione non sono il frutto di un nuovo messaggio di Dio, ma un’integrazione dei dati della storia della salvezza e del destino di Maria, secondo la luce dello Spirito, che illumina la pienezza di quel che Cristo ha insegnato (Gv 14,26 e 16,13)”[17], riguardo all’uomo e al suo destino. Come scrive Giovanni Paolo II nell’Enciclica Redemptoris Mater (1987) “col mistero dell’assunzione al Cielo si sono definitivamente attuati in Maria tutti gli effetti dell’unica mediazione di Cristo … A lui singolarmente unita nella sua prima venuta, per la sua continuata cooperazione con lui lo sarà anche in attesa della seconda: redenta nel modo più sublime in vista dei meriti del Figlio suo, ella ha anche quel ruolo, proprio della madre, di mediatrice di clemenza nella venuta definitiva, quando tutti coloro che sono di Cristo saranno vivificati, e ‘l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte’ (1Cor 15,26). A tale esaltazione dell’‘eccelsa figlia di Sion’ mediante l’assunzione al Cielo, è connesso il mistero della sua eterna gloria” (n. 41). Nella varietà delle sue formulazioni dogmatiche, la fede della Chiesa riguardo a Maria contempla in Lei l’unico mistero salvifico dell’offrirsi del Tutto divino nel frammento della sua persona e della sua storia veramente umana: è la bellezza che deriva alla “Tota Pulchra” dal Suo Figlio che viene celebrata, tanto nell’affermarne la perpetua verginità e la divina maternità, quanto nell’attestarne l’immacolata concezione e l’assunzione in cielo.
In particolare, nel dogma dell’Assunta viene confessata la biografia totale di Maria, che dall’umiltà della scena dell’annunciazione giunge a partecipare in pienezza alla gloria del Dio tre volte Santo: la bellezza che si affacciava a Nazaret nella giovane donna coperta dall’ombra dell’Altissimo, risplende ora nella Sposa delle nozze eterne. Scriveva ancora Giovanni Paolo II: “Colei che all’annunciazione si è definita ‘serva del Signore’, è rimasta per tutta la vita terrena fedele a ciò che questo nome esprime… Per questo, Maria è diventata la prima tra coloro che, servendo a Cristo anche negli altri, con umiltà e pazienza conducono i loro fratelli al Re, servire al quale è regnare, ed ha conseguito pienamente quello stato di libertà regale, proprio dei discepoli di Cristo: servire vuol dire regnare! Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre, è entrato nella gloria del suo Regno… Maria, serva del Signore, ha parte in questo Regno del Figlio. La gloria di servire non cessa di essere la sua esaltazione regale: assunta in Cielo, ella non termina quel suo servizio salvifico, in cui si esprime la mediazione materna, fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti” (ib.).
La Tutta Bella, assunta in cielo, si offre in tal modo ai credenti ed all’umanità intera quale segno di sicura speranza e pegno della partecipazione futura alla bellezza eterna, che in Lei si è resa accessibile nel Figlio. Maria ci mostra la meta, cui dobbiamo tendere, e la via, che lei per prima ha percorso: “In realtà, l’incarnazione del Verbo non può essere pensata a prescindere dalla libertà di questa giovane donna che con il suo assenso coopera in modo decisivo all’ingresso dell’Eterno nel tempo. Ella è la figura della Chiesa in ascolto della Parola di Dio che in lei si fa carne… ascolto attivo, che interiorizza, assimila, ed in cui la Parola diviene forma della vita” (Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Post-sinodale Verbum Domini, 2010, 27). Attraverso l’ascolto della Vergine – Madre il Verbo entra nel tempo: e sarà grazie alla fede di cui Lei è modello che il tempo potrà entrare nell’eternità, come vi è entrata Lei in pienezza nella sua assunzione corporea, quale segno e profezia per tutti noi. Perciò la Chiesa guarda all’Assunta come alla Madre della speranza, alla stella che orienta la navigazione dei pellegrini della fede sul grande mare della storia verso il porto dell’eternità.
“Con un inno dell’VIII/IX secolo – scrive Benedetto XVI concludendo l’Enciclica Spe salvi (2007) – la Chiesa saluta Maria, la Madre di Dio, come ‘stella del mare’: Ave maris stella. La vita umana è un cammino. Verso quale meta? Come ne troviamo la strada? La vita è come un viaggio sul mare della storia, spesso oscuro ed in burrasca, un viaggio nel quale scrutiamo gli astri che ci indicano la rotta. Le vere stelle della nostra vita sono le persone che hanno saputo vivere rettamente. Esse sono luci di speranza. Certo, Gesù Cristo è la luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno anche di luci vicine – di persone che donano luce traendola dalla sua luce ed offrono così orientamento per la nostra traversata. E quale persona potrebbe più di Maria essere per noi stella di speranza – lei che con il suo ‘sì’ aprì a Dio stesso la porta del nostro mondo?” (n. 49). A Lei, assunta negli splendori eterni, “Madre della speranza”, si rivolge perciò Benedetto XVI, facendosi voce dell’invocazione di tutti i credenti, pellegrini verso la patria: “Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via verso il suo regno! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino!” (n. 50). A Maria, associata alla gloria del Figlio, contemplata nella sua biografia totale, canta così la fede della Chiesa nei secoli: “Tota pulchra es, Maria / Et macula originalis non est in Te / Vestimentum tuum candidum quasi nix, / et facies tua sicut sol / Tu gloria Ierusalem / Tu laetitia Israel / Tu honorificentia populi nostri / Tu advocata peccatorum” – “Tutta bella sei, Maria, / e il peccato originale non è in te / La tua veste è bianca come la neve / e il Tuo volto come il sole / Tu gloria di Gerusalemme, / tu letizia d’Israele, / tu onore del nostro popolo, / tu avvocata dei peccatori”.
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1) Gloria. 1. La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1975, 217.
2) Ib., 11
3) La donna e la salvezza del mondo, Jaca Book, Milano 1980, 13.
4) Paolo VI, Discorso per la chiusura del VII Congresso mariologico e l’inizio del XIV Congresso mariano, Roma 16.5.1975.
5) Cf. Images et visages de Marie. Étude pluridisciplinaire sur la «via pulchritudinis», in Études mariales 32-33 (1975-1976) 5-84; D. M. Turoldo – S. De Fiores, Bellezza, in NDM 222-231.
6) Ho cercato di offrirne un esempio nel mio volume Maria la donna icona del Mistero. Saggio di mariologia simbolico – narrativa, Milano 19892.
7) S. Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, III, 12: PG 94,1O29 C.
8) P. Evdokimov, La donna e la salvezza del mondo, o.c., 54 e 216.
9) P. Evdokimov, La donna e la salvezza del mondo, o.c., 133. Cf. dello stesso, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona , Paoline, Roma 19823.
10) Cf. Rm 16,25; 1Cor 2,7s; Ef 1,9; 3,3; 6,19; Col 1,25-27; 1Tm 3,16.
11) Si tratta di una scena di significato trinitario: “La sua struttura narrativa rivela in un modo assolutamente chiaro per la prima volta la Trinità di Dio”: H. Urs von Balthasar, Maria nella dottrina e nel culto della Chiesa, in J. Ratzinger – H. Urs von Balthasar, Maria Chiesa nascente, Paoline, Roma 1981, 48s.
12) S. Luigi M. Grignion da Montfort, Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, in Id., Opere, 1, Edizioni Monfortane, Roma 1990, n. 5.
13) H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, Paoline, Milano 1965, 392s.
14) H. Rahner, Maria e la Chiesa, Paoline, Milano 1974, 79 e 68.
15) Cf. H. Rahner, Mysterium Lunae, in Id., L’ecclesiologia dei Padri. Simboli della Chiesa, Paoline, Roma 1971, 145-287.
16) G. Söll, Storia dei dogmi mariani, LAS, Roma 1981, 17.
17) R. Laurentin, La Vergine Maria, o.c., 187s.
dal sito:
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Seconda Predica di Avvento: la risposta cristiana al secolarismo
Del Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa
ROMA, sabato, 11 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la seconda Predica d’Avvento tenuta questo venerdì da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., Predicatore della Casa Pontificia, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico Vaticano.
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“VI ANNUNCIAMO LA VITA ETERNA” (1 GV 1,2)
1. Secolarizzazione e secolarismo
In questa meditazione ci occupiamo del secondo scoglio che incontra l’evangelizzazione nel mondo moderno occidentale, la secolarizzazione. Nel Motu Proprio con cui il papa ha istituito il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione si dice che esso “è a servizio delle Chiese particolari, specialmente in quei territori di antica tradizione cristiana dove con maggiore evidenza si manifesta il fenomeno della secolarizzazione”.
La secolarizzazione è un fenomeno complesso è ambivalente. Può indicare l’autonomia delle realtà terrene e la separazione tra regno di Dio e regno di Cesare e, in questo senso, essa non solo non è contro il Vangelo ma trova in esso una delle sue radici profonde; può, però, indicare anche tutto un insieme di atteggiamenti contrari alla religione e alla fede per il quale si preferisce usare il termine di secolarismo. Il secolarismo sta alla secolarizzazione come lo scientismo sta alla scientificità e il razionalismo alla razionalità.
Occupandoci degli ostacoli o delle sfide che la fede incontra nel mondo moderno, noi ci riferiamo esclusivamente a questa accezione negativa della secolarizzazione. Anche così delimitato, però, la secolarizzazione presenta molte facce a seconda dei campi in cui si manifesta: la teologia, la scienza, l’etica, l’ermeneutica biblica, la cultura in generale, la vita quotidiana. Nella presente meditazione prendo il termine nel suo significato primordiale. Secolarizzazione, come secolarismo, derivano infatti dalla parola “saeculum” che nel linguaggio comune ha finito per indicare il tempo presente (“l’eone attuale”, secondo la Bibbia), in opposizione all’eternità (l’eone futuro, o “i secoli dei secoli”, della Bibbia). In questo senso, secolarismo è un sinonimo di temporalismo, di riduzione del reale alla sola dimensione terrena..
La caduta dell’orizzonte dell’eternità, o della vita eterna, ha sulla la fede cristiana l’effetto che ha la sabbia gettata su una fiamma: la soffoca, la spegne. La fede nella vita eterna costituisce una delle condizioni di possibilità dell’evangelizzazione. “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita –esclama san Paolo – siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,19).
2. Ascesa e declino dell’idea di eternità
Richiamiamo per sommi capi la storia della credenza in una vita oltre la morte; ci aiuterà a misurare la novità recata dal Vangelo in questo campo. Nella religione ebraica dell’Antico Testamento tale credenza si afferma solo tardivamente. Soltanto dopo l’esilio, di fronte al fallimento delle attese temporali, si fa strada l’idea della risurrezione della carne e di una ricompensa ultraterrena dei giusti, e anche allora non presso tutti (i Sadducei, si sa, non condividevano tale credenza).
Questo smentisce clamorosamente la tesi di coloro (Feuerbach, Marx, Freud) che spiegano la credenza in Dio con il desiderio di una ricompensa eterna, come proiezione nell’aldilà delle attese terrene deluse. Israele ha creduto in Dio, molti secoli prima che in una ricompensa eterna nell’aldilà! Non è, dunque, il desiderio di una ricompensa eterna che ha prodotto la fede in Dio, ma è la fede in Dio che ha prodotto la credenza in una ricompensa ultraterrena.
La piena rivelazione della vita eterna si ha, nel mondo biblico, con la venuta di Cristo. Gesù non fonda la certezza della vita eterna sulla natura dell’uomo, l’immortalità dell’anima, ma sulla “potenza di Dio”, che è un “Dio dei vivi e non dei morti” (Lc 20,27-38). Dopo la Pasqua, a questo fondamento teologico, gli apostoli aggiungeranno quello cristologico: la risurrezione di Cristo da morte. Su di essa l’Apostolo fonda la fede nella risurrezione della carne e nella vita eterna: “Se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dai morti?…Ora Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor 15, 12.20).
Anche nel mondo greco–romano si assiste a una evoluzione nella concezione dell’oltretomba. L’idea più antica è che la vita vera termina con la morte; dopo di essa c’è solo una parvenza di vita, in un mondo di ombre. Una novità si registra con la comparsa della religione orfico-pitagorica. Secondo essa, il vero io dell’uomo è l’anima che, liberata dalla prigione (sema) del corpo (soma), può finalmente vivere la sua vera vita. Platone darà a questa scoperta una dignità filosofica, basandola sulla natura spirituale, e dunque immortale, dell’anima[1].
Questa credenza rimarrà, tuttavia, largamente minoritaria, riservata agli iniziati ai misteri e ai seguaci di particolari scuole filosofiche. Presso la massa persisterà la convinzione antica che la vita vera termina con la morte. Sono note le parole che l’imperatore Adriano rivolge a se stesso prossimo alla morte:
Piccola anima smarrita e soave,
Compagna e ospite del corpo,
ora t’appresti a ascendere in luoghi
incolori, ardui e spogli,
ove non avrai più gli svaghi consueti.
Un istante ancora
Guardiamo insieme le rive familiari,
le cose che certamente non rivedremo mai più…[2].
Si capisce su questo sfondo l’impatto che doveva avere l’annuncio cristiano di una vita dopo la morte infinitamente più piena e più gioiosa di quella terrena; si capisce anche perché l’idea e i simboli della vita eterna sono così frequenti nelle sepolture cristiane delle catacombe.
Ma che è successo all’idea cristiana di una vita eterna per l’anima e per il corpo, dopo che aveva trionfato sull’idea pagana del “buio oltre la morte”? A differenza del momento attuale in cui l’ateismo si esprime soprattutto nella negazione dell’esistenza di un Creatore, nel secolo XIX esso si è espresso di preferenza nella negazione di un aldilà. Raccogliendo l’affermazione di Hegel, secondo cui “i cristiani sprecano in cielo le energie destinate alla terra”, Feuerbach e soprattutto Marx hanno combattuto la credenza in una vita dopo morte, sotto pretesto che essa aliena dall’impegno terreno. All’idea di una sopravvivenza personale in Dio, si sostituisce l’idea di una sopravvivenza nella specie e nella società del futuro.
A poco a poco, con il sospetto, è caduto sulla parola eternità l’oblio e il silenzio. Il materialismo e il consumismo hanno fatto il resto nelle società opulente, facendo perfino apparire sconveniente che si parli ancora di eternità fra persone colte e al passo con i tempi. Tutto questo ha avuto un chiaro contraccolpo sulla fede dei credenti che si è fatta, su questo punto, timida e reticente. Quando abbiamo sentito l’ultima predica sulla vita eterna? Continuiamo a recitare nel Credo: “Et expecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi”: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, ma senza dare troppo peso a queste parole. Aveva ragione Kierkegaard quando scriveva: “L’aldilà è diventato uno scherzo, un’esigenza così incerta che non solo nessuno più la rispetta, ma anzi neppure più la prospetta, al punto che ci si diverte perfino al pensiero che c’era un tempo in cui quest’idea trasformava l’intera esistenza”[3].
Qual è la conseguenza pratica di questa eclisse dell’idea di eternità? San Paolo riferisce il proposito di coloro che non credono nella risurrezione da morte: “Mangiamo, beviamo, domani moriremo” (l Cor 15,32). Il desiderio naturale di vivere sempre , distorto, diventa desiderio, o frenesia, di vivere bene , cioè piacevolmente, anche a spese degli altri, se necessario. La terra intera diventa quello che Dante diceva dell’Italia del suo tempo: “l’aiuola che ci fa tanto feroci”. Caduto l’orizzonte dell’eternità, la sofferenza umana appare doppiamente e irrimediabilmente assurda.
3. L’eternità: una speranza e una presenza
Anche a proposito del secolarismo, come per lo scientismo, la risposta più efficace non consiste nel combattere l’errore contrario, ma nel far risplendere di nuovo davanti agli uomini la certezza della vita eterna, facendo leva sulla forza intrinseca che possiede la verità quando è accompagnata dalla testimonianza della vita. “A un’idea, scriveva un antico Padre, si può sempre opporre un’altra idea e a una opinione un’altra opinione; ma cosa si potrà opporre a una vita?”
Dobbiamo far leva anche sulla corrispondenza di tale verità al desiderio più profondo, anche se represso, del cuore umano. A un amico che gli rimproverava, quasi fosse una forma di orgoglio e di presunzione, il suo anelito all’eternità, Miguel de Unamuno, che non era certo un apologeta della fede, rispose in una lettera:
“Non dico che meritiamo un aldilà, né che la logica ce lo dimostri; dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d’eternità, e che senza questa tutto mi è indifferente. Ne ho bisogno, ne ho bisogno! Senza di essa non c’è più gioia di vivere e la gioia di vivere non ha più nulla da dirmi. E troppo facile affermare: ‘Bisogna vivere, bisogna accontentarsi della vita’. E quelli che non se ne accontentano?”[4].
Non è chi desidera l’eternità, aggiungeva nella stessa occasione, che mostra di disprezzare il mondo e la vita di quaggiù, ma al contrario chi non la desidera: “Amo tanto la vita che perderla mi sembra il peggiore dei mali. Non amano veramente la vita coloro i quali se la godono, giorno per giorno, senza curarsi di sapere se dovranno perderla del tutto o no”. Sant’Agostino diceva la stessa cosa: “Cui non datur semper vivere, quid prodest bene vivere?”, “A che giova vivere bene, se non è dato vivere sempre?”[5]. “Tutto, tranne l’eterno, al mondo è vano”, ha cantato un nostro poeta [6].
Agli uomini del nostro tempo che coltivano in fondo al cuore questo bisogno di eternità, senza forse avere il coraggio di confessarlo agli altri e neppure a se stessi, noi possiamo ripetere ciò che Paolo diceva agli ateniesi: “Ciò che voi cercate senza conoscerlo, io ve lo annuncio” (cf. Atti 17,23).
La risposta cristiana al secolarismo nel senso che lo intendiamo qui, non si fonda, come per Platone, su un’idea filosofica –l’immortalità dell’anima -, ma su un evento. L’illuminismo aveva posto il celebre problema come si possa attingere l’eternità, mentre si è nel tempo e come si possa dare un punto di partenza storico per una coscienza eterna[7]. In altre parole: come si possa giustificare la pretesa della fede cristiana di promettere una vita eterna e di minacciare una pena ugualmente eterna, per atti compiuti nel tempo.
L’unica risposta valida a questo problema è quella che si fonda sulla fede nell’incarnazione di Dio. In Cristo, l’eterno è entrato nel tempo, si è manifestato nella carne; davanti a lui è possibile prendere una decisione per l’eternità. È così che l’evangelista Giovanni parla della vita eterna: “Vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che si manifestò a noi” (1 Gv 1, 2).
Per il credente, l’eternità non è, come si vede, solo una speranza, è anche una presenza. Ne facciamo l’esperienza ogni volta che facciamo un vero atto di fede in Cristo, perché chi crede in lui “ possiede già la vita eterna “ (cfr. 1Gv 5,13); ogni volta che riceviamo la comunione, in cui “ci viene dato il pegno della gloria futura” (“futurae gloriae nobis pignus datur”); ogni volta che ascoltiamo le parole del Vangelo che sono “parole di vita eterna” (cfr. Gv 6,68). Anche san Tommaso d’Aquino dice che “la grazia è l’inizio della gloria”[8].
Questa presenza dell’eternità nel tempo si chiama lo Spirito Santo. Egli è definito “ la caparra della nostra eredità “ (Ef 1,14; 2Cor 5,5), e ci è stato donato perché, avendo ricevuto le primizie, noi aneliamo alla pienezza. “ Cristo – scrive sant’ Agostino – ci ha dato la caparra dello Spirito Santo con la quale lui, che comunque non ci potrebbe ingannare, ha voluto renderci sicuri del compimento della sua promessa. Che cosa ha promesso? Ha promesso la vita eterna di cui è caparra lo Spirito che ci ha dato”[9].
4. Chi siamo? Donde veniamo? Dove andiamo?
Tra la vita di fede nel tempo e la vita eterna c’è un rapporto analogo a quello che esiste tra la vita dell’embrione nel seno materno e quella del bambino, una volta venuto alla luce. Scrive il Cabasilas:
“Questo mondo porta in gestazione l’uomo interiore, nuovo, creato secondo Dio, finché egli, qui plasmato, modellato e divenuto perfetto, non sia generato a quel mondo perfetto che non invecchia. Al modo dell’embrione che, mentre è nell’esistenza tenebrosa e fluida, la natura prepara alla vita nella luce così è dei santi […]. Per l’embrione tuttavia la vita futura è assolutamente futura: non giunge a lui nessun raggio di luce, nulla di ciò che è di questa vita. Non così per noi, dal momento che il secolo futuro è stato come riversato e commisto a questo presente […] Perciò già ora è concesso ai santi non solo di disporsi e prepararsi alla vita, ma di vivere e di operare in essa”[10].
Esiste una storiella che illustra questo paragone. C’erano due gemellini, un maschietto e una femminuccia, così intelligenti e precoci che, ancora nel grembo della madre, parlavano già tra di loro. La bambina domandava al fratellino: “Secondo te, ci sarà una vita dopo la nascita?”. Lui rispondeva: “Non essere ridicola. Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa al di fuori di questo spazio angusto e buio nel quale ci troviamo? La bimba, facendosi coraggio, insisteva: “Chissà, forse esiste una madre, qualcuno insomma che ci ha messi qui e che si prenderà cura di noi.”. E lui: “Vedi forse una madre tu da qualche parte? Quello che vedi è tutto quello che c’è”. Lei di nuovo: “Ma non senti anche tu a volte come una pressione sul petto che aumenta di giorno in giorno e ci spinge in avanti?”. “A pensarci bene, rispondeva lui, è vero; la sento tutto il tempo”. “Vedi, concludeva trionfante la sorellina, questo dolore non può essere per nulla. Io penso che ci sta preparando per qualcosa di più grande di questo piccolo spazio”.
Potremmo utilizzare questa simpatica storiella quando dobbiamo annunciare la vita eterna a persone che hanno smarrito la fede in essa, ma ne conservano la nostalgia e forse aspettano che la Chiesa, come quella bambina, li aiuti a credere in essa.
Ci sono domande che gli uomini non cessano di porsi da che mondo è mondo e gli uomini di oggi non fanno eccezione: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo”. Nella sua Storia ecclesiastica del popolo inglese, il Venerabile Beda racconta come la fede cristiana fece il suo ingresso nel nord dell’Inghilterra. Quando i missionari venuti da Roma arrivarono nel Northumberland, il re Edwino convocò un consiglio dei dignitari per decidere se permettere loro, o meno, di diffondere il nuovo messaggio. Si alzò uno di loro e disse:
“Immagina, o re, questa scena. Tu siedi a cena con i tuoi ministri e condottieri: è inverno, il fuoco arde nel mezzo e riscalda la stanza, mentre fuori mugghia la tempesta e cade la neve. Un uccellino, entra da una apertura della parete e subito esce dall’altra. Mentre è dentro, è al riparo dalla tempesta invernale; ma dopo aver goduto del breve tepore, subito scompare dalla vista, perdendosi nel buio inverno da cui è venuto. Tale ci appare la vita degli uomini sulla terra: noi ignoriamo del tutto ciò che la segue e ciò che la precede. Se questa nuova dottrina ci reca qualcosa di più sicuro su ciò, dico che la si deve accogliere”[11].
Chissà che la fede cristiana non possa ritornare in Inghilterra e nel continente europeo per la stessa ragione per cui vi fece il suo ingresso: come l’unica che ha una risposta sicura da dare ai grandi interrogativi della vita terrena. L’occasione più propizia per far giungere questo messaggio sono i funerali. In essi le persone sono meno distratte che in altri riti di passaggio (battesimo, matrimonio), si interrogano sul proprio destino. Quando si piange su un caro defunto, si piange anche su di sé.
Ho ascoltato una volta un interessante programma della BBC inglese sui cosiddetti “funerali secolari”, con la registrazione dal vivo dello svolgimento di uno di essi. A un certo punto si sentiva l’officiante che diceva ai presenti: “Non dobbiamo essere tristi. Vivere una buona vita, appagante, per settantotto anni (l’età della defunta) è qualcosa di cui si deve essere grati”. Grati a chi?, mi domandavo. Un tale funerale non fa che rendere più evidente la disfatta totale dell’uomo di fronte alla morte.
Sociologi e uomini di cultura, chiamati a spiegare il fenomeno dei funerali secolari o “umanistici”, vedevano la causa del diffondersi di questa pratica in alcuni paesi del nord Europa, nel fatto che i funerali religiosi implicano nei presenti una fede che essi non si sentono di condividere. La proposta che avanzavano era: la Chiesa, nei funerali, eviti ogni accenno a Dio, alla vita eterna, a Gesù Cristo morto e risorto, e limiti il suo ruolo a quello di “naturale e sperimentato organizzatore dei riti di passaggio”! In altre parole, si rassegni alla secolarizzazione anche della morte!
5. Andremo alla casa del Signore!
Una rinnovata fede nell’eternità non ci serve solo per l’evangelizzazione, cioè per l’annuncio da fare agli altri; ci serve, prima ancora, per imprimere un nuovo slancio al nostro cammino verso la santità. L’affievolirsi dell’idea di eternità agisce anche sui credenti, diminuendo in essi la capacità di affrontare con coraggio la sofferenza e le prove della vita.
Pensiamo a un uomo con una bilancia in mano: una di quelle bilance che si reggono con una sola mano e hanno da un lato il piatto su cui mettere le cose da pesare e dall’altro una barra graduata che regge il peso o la misura. Se cade a terra, o si smarrisce la misura, tutto quello che si mette sul piatto fa sollevare in alto la barra e fa inclinare a terra la bilancia. Tutto ha il sopravvento, anche un pugno di piume..
Così siamo noi quando smarriamo il peso, la misura di tutto che è l’eternità: le cose e le sofferenze terrene gettano facilmente la nostra anima a terra. Tutto ci sembra troppo pesante, eccessivo. Gesù diceva: “Se la tua mano ti è di ostacolo, tagliala; se il tuo occhio ti è di ostacolo, cavalo; è meglio entrare nella vita con una mano sola o con un occhio solo, anziché con tutti e due essere gettato nel fuoco eterno” (cfr. Mt 18,8-9). Ma noi, avendo perso di vista l’eternità, troviamo già eccessivo che ci si chieda di chiudere gli occhi davanti a uno spettacolo immorale.
San Paolo osa scrivere: “Il momentaneo, leggero peso della tribolazione ci procura un peso smisurato ed eterno di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor 4,17-18). Il peso della tribolazione è “ leggero proprio perché momentaneo, quello della gloria è smisurato proprio perché eterno. Per questo lo stesso Apostolo può dire: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18).
Il cardinal Newman che abbiamo scelto come maestro speciale in questo Avvento ci obbliga ad aggiungere una verità mancante nelle riflessioni svolte fin qui sull’eternità. Lo fa con il poemetto “Il sogno di Geronzio”, posto in musica dal grande compositore inglese Edgar Elgar. Un vero capolavoro per profondità di pensieri, afflato lirico e corale drammaticità.
Descrive il sogno di un anziano (questo significa il nome Geronzio) che si sente prossimo alla fine. Ai suoi pensieri sul senso della vita, della morte, sull’abisso del nulla in cui sta precipitando, si sovrappongono i commenti degli astanti, la voce orante della Chiesa: “Parti da questo mondo, anima cristiana“ (“proficiscere, anima christiana”), le voci contrastanti di angeli e demoni che soppesano la sua vita e reclamano la sua anima. Particolarmente bella e profonda la descrizione del momento del trapasso e del risveglio in un altro mondo:
“Mi addormentai; ed ora sono rianimato.
È uno strano ristoro; poiché sento in me
Una leggerezza indicibile, ed un senso
Li libertà, come se fossi me stesso finalmente,
e mai lo fossi stato prima. Quanta pace!
Non odo più l’incessante battito del tempo,
no, né il mio respiro ansimante, né il polso affannoso;
non un momento differisce da quello che viene dopo”[12].
Le ultime parole che l’anima pronuncia nel poema sono quelle con cui si avvia serena, e anzi impaziente, al Purgatorio:
Là canterò il mio Signore ed il mio Amore assenti: -
portatemi via,
perché più presto possa sorgere, ed ascendere lassù.
E vede Lui nella verità del giorno sempiterno”[13].
Per l’imperatore Adriano, la morte era il passaggio dalla realtà alle ombre, per il cristiano John Newman essa è il passaggio dalle ombre alla realtà, “ex umbris et imaginibus in veritatem”, come volle fosse scritto sulla sua tomba.
Qual è, allora, la verità mancante che Newman ci obbliga a non tacere? Che il passaggio dal tempo all’eternità non è rettilineo e uguale per tutti. C’è un giudizio da affrontare e un giudizio che può avere due esiti molto diversi, l’inferno o il paradiso. Quella di Newman è una spiritualità austera, perfino a tratti rigorista, come quella del Dies irae, ma quanto salutare in un’epoca incline a prendere tutto alla leggera e a scherzare, come diceva Kierkegaard, con il pensiero dell’eternità!
Indirizziamo dunque con rinnovato slancio i nostri pensieri verso l’eternità, ripetiamo a noi stessi con le parole del poeta: “Tutto, tranne l’eterno, al mondo è vano”. Nel salterio ebraico c’è un gruppo di salmi, detti “salmi delle ascensioni”, o “cantici di Sion”. Erano i salmi che cantavano i pellegrini israeliti quando “salivano” in pellegrinaggio verso la città santa, Gerusalemme. Uno di essi comincia così: “Quale gioia quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore” (Sal 122, 1). Questi salmi delle ascensioni sono diventati ormai i salmi di coloro che, nella Chiesa, sono in cammino verso la Gerusalemme celeste; sono i nostri salmi. Commentando quelle parole iniziali del salmo, sant’Agostino diceva ai suoi fedeli:
“Corriamo perché andremo alla casa del Signore; corriamo perché tale corsa non stanca; perché arriveremo a una meta dove non esiste stanchezza. Corriamo alla casa del Signore e la nostra anima gioisca per coloro che ci ripetono queste parole. Essi hanno visto prima di noi la patria, l’hanno vista gli apostoli e ci hanno detto: Correte, affrettatevi, veniteci dietro! “Andiamo alla casa del Signore!”[14].
Abbiamo davanti a noi, in questa cappella, una splendida rappresentazione musiva della Gerusalemme celeste, con Maria, gli apostoli e una lunga teoria di santi orientali e occidentali. Essi ci ripetono silenziosamente questo invito. Accogliamolo e portiamolo con noi in questa giornata e in tutta la vita.
[1] Cf. M. Pohlenz, L’uomo greco, Firenze 1967, p. 173ss.
[2] Animula vagula, blandula, traduzione di Lidia Storoni Mazzolani.
[3] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva, 4, in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972, p. 458.
[4] Miguel de Unamuno, “Cartas inéditas de Miguel de Unamuno y Pedro Jiménez Ilundain,” ed. Hernán Benítez, Revista de la Universidad de Buenos Aires, vol. 3, no. 9 (Gennaio-Marzo 1949), pp. 135. 150.
[5] S. Agostino, Trattati sul Vangelo di Giovanni, 45, 2 (PL, 35, 1720).
[6] Antonio Fogazzaro, “A Sera,” in Le poesie, Milano, Mondadori, 1935, pp. 194–197.
[7] G.E. Lessing, Über den Beweis des Geistes und der Kraft, ed. Lachmann, X, p.36.
[8] S. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, II-IIae, q. 24, art.3, ad 2.
[9] S. Agostino, Sermo 378,1 (PL, 39, 1673).
[10] N. Cabasilas, Vita in Cristo, I,1-2, ed. a cura di U. Neri, Torino, UTET, 1971, pp.65-67.,
[11] Beda il Venerabile, Historia ecclesiastica Anglorum, II, 13.
[12] Il sogno di Geronzio, in Newman Poeta, a cura di L. Obertello, Jaka Book, Milano 2010, p.124
[13] Ib, p. 156.
[14] S. Agostino, Enarrationes in Psalmos 121,2 (CCL, 40, p. 1802).
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/11805.html
Omelia (20-12-2007)
Messa Meditazione
Il primo Angelus
La storia è azione di Dio, che passa dentro le vicende umane riscattandole dalla loro dispersione e dalla loro disperazione o dalla loro nullità e povertà. Il re Acaz, giovane e senza figli, sta per essere travolto dalle potenze straniere; la promessa della discendenza davidica sembra condannata al fallimento. Arriva insperata e desiderata una nuova promessa di Dio, che sfida l’impossibile con l’annuncio della nascita di un figlio dalla giovane sposa. Oltre il tempo di Acaz, la promessa si realizzerà nel modo più alto e imprevisto in Maria: ecco veramente la ‘verginé che darà alla luce l’Emanuele.
E’ giunta l’ora. « Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria ». Dio riprende in mano decisamente l’iniziativa. Ricomincia dal nulla, avendo però di fronte non l’argilla informe dalla quale creare l’uomo, ma una ragazza promessa sposa. « Colui che ci ha creati senza di noi, non ci salva senza di noi ». La creazione è opera esclusiva di Dio, mentre la storia si svolge nel dialogo con la creatura e nella sua libera partecipazione. E tuttavia la creatura con la quale Dio agisce non è lasciata sola. La povera serva di Nazaret convoca nel suo grembo tutta la ricchezza di predilezione che Dio ha riversato sul suo popolo. E’ una ‘figlia di Sion’, una rappresentante del popolo d’Israele, che ne ha raccolto tutta l’attesa, e ha ricevuto tutta la grazia e tutta la promessa di Dio. E’ stata riversata su di lei un’ulteriore abbondanza, fino al punto che l’appellativo ‘piena di grazia’ diventa il nome con il quale viene chiamata.
Di fronte a questo improvviso saluto che la rivela a se stessa secondo la misura donata da Dio, Maria rimane turbata. Il saluto non la inorgoglisce, ma le incute un sacro timore per la grandezza di Dio. La promessa che le viene consegnata è in certo modo adeguata a lei, poiché Dio le ha preparato il cuore e l’anima. Colui che nascerà è discendente di Davide e Figlio dell’Altissimo. Maria si colloca sulla linea di Davide e sulla linea di Dio; è vergine e madre, viene avvolta dall’ombra dell’Altissimo, per la potenza dello Spirito genera un frutto secondo la misura di Dio: un figlio umano che è figlio di Dio. Questa è la vocazione di Maria, la sposa promessa. Dio, rispettando la sua condizione di donna, la rende capace di un frutto divino.
Rallegrati o piena di grazia, il Signore è con te… La preghiera dell’Angelus, con l’Ave Maria, va pronunciata oggi con verità e cuore, ripensando all’intensità e alla verità del saluto dell’Angelo Gabriele.
Voglio vivere la giornata di oggi con fiducia nell’opera di Dio e nella sua iniziativa. Nel vivere la mia vocazione, nello stabilire i programmi della mia vita e persino della mia giornata, riconosco che la mia speranza è il Signore, grande protagonista della storia.
Commento a cura di don Angelo Busetto