Mat-01,01-Genealogy, Tree, Arbre

dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/21154.html
Omelia (19-12-2010)
mons. Antonio Riboldi
Ecco la Vergine concepirà un figlio
A pochi giorni dalla Solennità del Natale, viene da chiederci quali siano i sentimenti che ci animano. Dio non voglia che la gioia immensa di sapere che Gesù, Figlio di Dio, Dio stesso, ha rotto gli indugi e si fa tanto vicino a noi, da vestirsi della nostra umanità, tranne il peccato, ci lasci indifferenti! Ogni volta lo si pensa dovrebbe apparirci incredibile che Dio ci ami così tanto, fino a dimenticare il rifiuto del Suo Amore e prendere su di Sé la nostra miseria, per riscattarla con il solo ‘mezzo’ possibile, cioè farsi carico di ciò che siamo, della nostra misera povertà.
Impossibile a noi uomini, quando subiamo qualche offesa o rifiuto, scordarli, opponendo l’amore. Di solito noi ricambiamo il rifiuto con il rifiuto, l’offesa con l’offesa, l’indifferenza con l’indifferenza, la violenza con altra violenza.
Deve essere davvero immenso, invece, l’Amore del Padre che non dimentica mai che siamo usciti dal Suo Cuore, continua a farci dono della vita, e cerca in ogni modo di raggiungerci con il Suo Amore Misericordioso, anche quando continuiamo a respingerlo, facendoci sempre più del male. È difficile per noi uomini, o troppo istintivi o troppo razionali, ma sempre troppo poco spirituali, comprendere ed accogliere l’Amore che Dio ha per noi, e così ci priviamo di una gioia profonda e duratura… che è a portata di mano!
Accostandosi al Natale sono tante le riflessioni che sorgono nell’animo e, più ci addentriamo, più dovrebbero crescere la meraviglia e la gioia.
‘Ma è mai possibile – dovremmo chiederci – che Dio ci voglia così tanto Bene? Ne siamo degni? Come lo ricambiamo?’.
Sono pensieri e sentimenti che spuntano in chi ha fede e sente la sete di Dio.
Spesso mi domando: ‘Ma quando manca questa sete, di che cosa ci abbeveriamo?
Forse è proprio questa mancanza che ci porta a cercare di riempire il bisogno di amore, con tutte quelle iniziative di auguri e doni, che possono giungere a prendere il posto del vero Dono, che viene dal Cielo, Gesù, l’Unico che può colmare il ‘vuoto’ delle nostre anime ed esistenze.
C’era un tempo in cui le nostre case ci ricordavano questo Dono che stava per giungere con il presepe. Ricordo, quando ero piccolo, come in questi giorni andessimo tutti insieme in cerca di muschio per preparare il presepe. E il presepe era come un impegno a preparare la culla a Gesù che stava per nascere. Erano giorni di attesa e speranza, un tempo in cui si respirava una più intensa volontà di ‘essere buoni’, di amare tutti, come se il Cielo fosse già disceso su di noi e noi tutti potessimo diventare la grotta di Betlemme.
Poi venne il consumismo, il benessere, e oggi si rischia di fare del Natale un tempo di svago, una
pausa di vacanza, dove è assente ogni forma di fede e non si fa più spazio al Dono, Gesù… Il profeta Isaia oggi così ci richiama:
« In quei giorni il Signore parlò ad Acaz: ‘Chiedi un segno dal Signore tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure lassù in alto’. Ma Acaz rispose: ‘Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore’. Allora Isaia disse: ‘Ascoltate, casa di Davide! Non siete contenti di stancare la pazienza degli uomini, perché vogliate stancare anche quelle del mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la Vergine concepirà un figlio, che chiamerà Emmanuele, Dio-con-noi’. (Is. 7, 10-14)
Credo che il profeta voglia rimproverare anche noi, oggi, in cui sembra proprio che vogliamo ‘stancare la pazienza di Dio’! … nche se il Padre non si stancherà mai di volerci bene!!!
Diceva in un discorso Paolo VI, nostra guida nello scoprire la Bellezza della Parola:
« E’ interessante la questione dei segni dimostrativi della religione anche per la Chiesa discente, anche per il popolo di oggi, ma che è ancora suscettibile di vibrazioni spirituali e di richiami cristiani. Potremmo fortunatamente fare un elenco di fatti, che ancora parlano come segni del misterioso mondo religioso. Anzi alcune volte abbiamo notato che vi è gente così avida di avere segni di tale mondo religioso, che facilmente si illude di averli incontrati. Ma la storia dei convertiti – ed anche il nostro tempo registra magnifiche storie di conversioni alla fede cattolica – ci documentano l’esistenza, la verità, l’efficacia di alcuni segni, i quali hanno svelato segreti, indicato doveri, collaudato ragionamenti. Lo Spirito Santo vibra ancora nel tessuto dell’esperienza umana e di tanto in tanto ferisce con la sua amorosa Luce il cuore degli uomini, specialmente se questi sono in stato di ‘buona volontà’, cioè di retto ed onesto impiego delle loro facoltà spirituali ». (Gen. 1962)
Il Vangelo di oggi ci dona un esempio di ‘buona volontà’ in Giuseppe, messo alla prova.
« Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua Madre, Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, suo sposo, che era giusto, e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore, e gli disse: ‘Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quello che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: Egli salverà il suo popolo dai suoi peccati’. Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco la Vergine concepirà un figlio, che si chiamerà Emmanuele, che significa ‘Dio-con-noi’. Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa ». (Mt. 1, 18-24)
Il Vangelo di oggi ci propone la figura di Giuseppe, l’uomo ‘giusto’, che aveva accettato che Maria fosse sua sposa: sogni che Dio modifica in modo sostanziale.
Avendo saputo che Maria era incinta, nel suo profondo rispetto verso Colei che amava e con cui progettava il matrimonio, non se la sente di ripudiarla. Dio stesso allora manda un suo angelo a spiegargli l’origine di tale maternità e Giuseppe, prontamente, ‘fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa’.
« Cosa di lui sappiamo noi? – si chiede Paolo VI – Nessuna parola di Giuseppe è registrata nel Vangelo: il suo linguaggio è il silenzio, è l’ascolto di voci angeliche che gli parlano nel sonno, è l’obbedienza pronta e generosa a lui chiesta, è il lavoro manuale espresso nelle forme più modeste e faticose, quelle che valsero a Gesù la qualifica di ‘figlio del falegname’: e null’altro.
Si direbbe la sua vita è oscura, quella di un semplice artigiano, priva di qualsiasi accenno di personale grandezza. Il Vangelo lo definisce ‘giusto’: e lode più densa di virtù e più alta di merito non potrebbe essere attribuita ad un uomo di umile condizione sociale. Un uomo povero, onesto, laborioso, timido forse, ma che ha una insondabile sua vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi. Un uomo, come si dice ora, ‘impegnato’ per Maria, l’eletta fra tutte le donne della terra e della storia, sempre sua vergine sposa.
A lui i pesi, le responsabilità, i rischi, gli affanni della piccola e singolare sacra famiglia. S. Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini: è la prova che per essere buoni e autentici seguaci di Cristo, non occorrono ‘grandi cosé, ma si richiedono solo virtù umane, semplici, ma vere e autentiche. Esempio per noi dunque S. Giuseppe. Cerchiamo di imitarlo: e quale patrono lo invocheremo. La Chiesa inoltre lo invoca come protettore: lo invoca per un profondo e attualissimo desiderio di rinverdire la sua secolare esistenza di vere virtù evangeliche, quali in Giuseppe rifulgono: ed infine la Chiesa lo vuole come protettore per l’incrollabile fiducia che colui, al quale Cristo volle affidata la protezione della sua fragile infanzia umana, vorrà continuare dal cielo la sua missione tutelare a guida e difesa del suo Corpo Mistico, la Chiesa, sempre debole, sempre insidiata ». (19/3/’69) Quante virtù in questo semplice uomo, Giuseppe…
Lo immaginiamo, in questi giorni che ci separano dal Natale, in viaggio da Nazareth a Betlemme, per farsi registrare, conscio di dover proteggere e custodire Maria e il Bambino che porta in grembo.
Nulla trapela di lui nel Natale, se non la discrezione e la cura per tutto ciò che sta avvenendo in quella grotta, circondata dall’indifferenza del mondo. Sarà lui, nuovamente avvisato dall’angelo a portare in salvo la sua Famiglia, Maria e Gesù, fuggendo in Egitto, per salvarli dalla crudeltà di Erode. Lo ritroveremo a Gerusalemme, nella Pasqua, quando Gesù adolescente ‘si smarrisce’ nel tempio. Soffre con Maria per questa perdita – chissà forse sentendosi ‘colpevole’ di non aver vigilato abbastanza sul fanciullo – e sarà Maria a rimproverare Gesù: Tuo padre ed io eravamo angosciati Tornati a Nazareth, dove Gesù crescerà ‘in età, sapienza e grazia’, su Giuseppe cala quel silenzio adorante, che lo ha caratterizzato, rendendolo grande agli occhi di Dio… e anche ai nostri occhi.
Che uomo, Giuseppe! Ben diverso da tanti di noi che sembra vogliamo costruire nome, fama e altro, con le parole, ma essendo dentro… ‘vuoti’!
Davvero abbiamo bisogno della sua protezione su di noi, sulla Chiesa tutta, come fece con Gesù. Preghiamo il salmo 23, preghiera ispirata da Dio stesso, e che la Chiesa ci propone oggi. « Del Signore è la terra e quanto contiene
l’universo e i suoi abitanti.
È Lui che l’ha fondata sui mari e sui fiumi l’ha stabilita.
Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronuncia menzogna. Questi otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza. Ecco la generazione che lo cerca, che cerca il tuo Volto, Dio di Giacobbe. Alzatevi porte antiche ed entri il Re della gloria.
Chi è questo Re della gloria? Il Signore degli eserciti è il Re della gloria »
dal sito:
http://www.zenit.org/article-24872?l=italian
San Carlo da Sezze, il bue e l’asino: l’Infinito in una culla
ROMA, giovedì, 9 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Uno dei personaggi che possono aiutare a riscoprire e approfondire il significato del Presepe è certamente san Carlo da Sezze, un frate minore vissuto nella tradizione francescana che vide Francesco d’Assisi rivivere il Natale – nel 1223 a Greccio – facendo celebrare l’Eucaristia sopra una mangiatoia, tra il bue e l’asinello.
Il bue e l’asino, assenti nei Vangeli canonici, sono menzionati però dall’apocrifo Pseudo-Matteo che riprende Is 1,3: «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». Interpretati dai padri della Chiesa rispettivamente come il popolo d’Israele, che porta il giogo della legge, e le genti, ossia gli incirconcisi, che ignorano tali norme di vita, sono riuniti da Gesù che fin dalla sua nascita – come dice san Paolo – fa dei due un popolo solo, abbattendo il muro di framezzo che è l’inimicizia.
Tale avvenimento della vita di frate Francesco verrà narrato e trasmesso con ulteriori letture teologiche, tanto che nel 1581 il francescano spagnolo Juan Francisco Nuño, dimorante al Convento dell’Aracoeli di Roma, definì il Santo d’Assisi come l’inventore del presepe avendone realizzato il primo proprio a Greccio.
In tale lettura si colloca anche san Carlo da Sezze (1613-1670), tanto che nella sua Autobiografia afferma: «Venendo il tempo si sementare il grano, vedendo i bovi mi sentivo eccitare a devozione, avendo inteso che questa sorta di animali con i somarelli si erano ritrovati in quel mistero sì grande della capanna di Betlemme, quando nacque Gesù Cristo da Maria Vergine, riscaldandolo con il loro fiato, quando nel presepio giaceva sopra il fieno. Gli posi molto affetto, e fuori di modo mi rallegravo in vederli».
Considerando tutto ciò, e nella prospettiva del IV Centenario della nascita e battesimo del Santo (1613-2013), il Centro Studi San Carlo da Sezze, nell’ ambito dei progetti “Aspettando il Natale con San Carlo da Sezze” e “San Carlo da Sezze tra misticismo e storia”, ha scelto piazza San Lorenzo con l’omonima chiesa e la stessa casa natale di San Carlo, per una serie di interessanti iniziative, quali l’inaugurazione della mostra iconografica sulla Natività. Sono esposte, all’interno della casa natale di San Carlo, pregiate immagini sacre originali comprese in un periodo che va dalla fine del ‘700 ai nostri giorni che si distinguono per caratteristiche artistiche e di contenuto ed assumono, in diversi casi, anche un valore di supporto liturgico ed educativo.
Sempre all’interno della casa natale di San Carlo, è stato inaugurato un presepe che evidenzia il particolare legame che lo stesso san Carlo aveva con tale rappresentazione. Inoltre nel medesimo luogo per tutto il periodo natalizio sarà aperta la mostra fotografica “San Carlo e il suo paese…Sezze”.
In occasione della inaugurazione di tali mostre di valore artistico, che rimarranno aperte fino al 9 gennaio 2011, si è tenuta la conferenza “San Carlo da Sezze, il bue e l’asino: l’Infinito in una culla”, tenuta da padre Pietro Messa ofm, Preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani presso la Pontificia Università Antonianum in Roma.
Per informazioni: sancarlodasezze@sancarlodasezze.it, www.sancarlodasezze.it
dal sito:
http://www.catechesibg.it/blog/tag/novissimi/
Dai nostri “sì” quotidiani al nostro “sì” ultimo
Mons. Jean-Pierre Batut, Vescovo Ausiliare di Lyon
Ecco il testo integrale della conferenza tenuta da Mons. Jean-Pierre Batut a Lourdes all’inizio di giugno sulla fede cristiana in relazione ai “Novissimi”, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Nostra traduzione a cura di Liliana Moretti:
Spesso pensiamo che il nostro “sì” stia dietro di noi: per esempio, che si sia già realizzato quando abbiamo impegnato la nostra vita nel matrimonio, nella vita religiosa, ecc. In realtà, il nostro “sì” è sempre davanti a noi, poiché dobbiamo acconsentire fino alla fine con ciò che abbiamo scelto. E il “sì” più difficile è quello che conclude la nostra vita. Desidero parlarvi di ciò che si identifica a volte con le realtà ultime, cioè l’incontro di Dio che è lo scopo della nostra vita. Perché? Perché non ne parliamo abbastanza! Affermiamo, naturalmente, il fatto “attendo la resurrezione dei morti e la vita del modo che verrà; ritornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”…Ma non parliamo abbastanza del come. Quindi, occorre parlarne: se non lo facciamo, favoriamo ogni genere di credenze in sostituzione, come la reincarnazione, che vengono a riempire un vuoto, ma che non hanno niente a che vedere con la fede cristiana. Inoltre, i fini ultimi sono uno dei campi nei quali, come cristiani, abbiamo le cose più originali da dire. Abbiamo una quantità di cosa da dire in tanti altri campi: l’Europa, la crisi economica….Ma in questi settori altri possono dire le nostre stesse cose, e dirle perfino meglio. Sui fini ultimi, se noi tacciamo, nessuno potrà dire al posto nostro ciò che abbiamo da dire.
1. L’insegnamento della Chiesa conduce in primo luogo alla resurrezione.
La sola Scrittura è avara di dettagli su ciò che ci attende dopo la morte. Il teologo ortodosso Jean-Claude Larchet scrive: “La Scrittura sottolinea il carattere imprevedibile della morte (”voi non conoscete né il giorno né l’ora” Mt. 15,13). Essa ci dà delle indicazioni sulla sua origine (Rm 5,12). Ci annuncia la resurrezione futura dei corpi e la vita eterna del Regno che viene, ma non ci dà praticamente informazioni sul periodo che separa la morte di ogni persona dal giudizio finale e universale e dalla resurrezione alla fine dei tempi”. Lazzaro, in effetti, non ci ha lasciato delle memorie che ci raccontano ciò di cui aveva fatto esperienza al momento della sua morte e durante i suoi tre giorni nella tomba. Tuttavia, la tradizione della Chiesa ha chiarito il dato della Scrittura. Il Catechismo della Chiesa cattolica (CCC) raccoglie questa eredità.
Il CCC inizia con l’affermare la fede nella resurrezione, e cita San Paolo: “Se il Cristo non è resuscitato, vana è la nostra predicazione, vana anche la vostra fede” (1Cor 15, 12-14). Egli sottolinea poi che Gesù ha legato la fede nella resurrezione alla sua stessa persona (”Io sono la Resurrezione e la Vita” Gv 11, 25), così che essere testimone del Cristo porta ad essere testimone della sua resurrezione (cf. At 1,22).
Il CCC si pronuncia quindi sul come della resurrezione. Lo fa partendo dalla resurrezione del Cristo, e afferma due cose essenziali:
- il Cristo è resuscitato con il suo stesso corpo (Lc 24,39)
- la sua resurrezione non è il semplice ritorno a una vita terrena: egli ha ormai un “corpo di gloria” (Fil 3,21), un “corpo spirituale” (1Cor 15, 44)
Ciò che vale per il Cristo vale anche per noi. Siamo certi che al momento della resurrezione noi resusciteremo nel nostro corpo e non nel corpo di un altro: ognuno potrà riconoscere gli altri ed essere riconosciuto da loro, come ci riconosciamo in questa vita. Allo stesso tempo, vivremo con un corpo glorioso, sottratto alle leggi dello spazio e del tempo e alle leggi della corruzione.
Infine, nella fede cristiana, non potrebbe esserci che la resurrezione del mio corpo. Nell’intervallo tra la morte e la resurrezione, non andrò ad abitare altri corpi. Quando sarà terminato il corso unico della nostra vita terrestre, noi non torneremo più ad altre vite terrene: gli uomini non muoiono che una volta (Eb 9,27). Non c’è “reincarnazione” dopo la morte (CCC 1013).
2. La definizione della morte e la questione dell’anima
La medicina ha delle cose da dire a proposito della morte: essa la constata, con l’arresto della funzioni vitali, l’elettroencefalogramma, ecc. La filosofia ha tentato di definire la morte secondo altri criteri e la teologia non ha temuto di riprenderli. E’ così che la teologia, riprendendo una formula che risale a Platone, definisce la morte come “la separazione dell’anima e del corpo” (CCC 1005; 1016). Questa definizione fa parte della Tradizione della Chiesa. Si sono cercate altre definizioni, ma l’idea de “separazione dell’anima e del corpo” resta la più soddisfacente:
- perché essa dà conto del fatto che la morte riguarda il corpo: quest’ultimo non più che un cadavere;
- perché essa afferma allo stesso tempo che, nella morte, sopravvive qualcosa della persona.
Essa infatti non è totalmente annientata. Ciò è molto importante, perché significa che la resurrezione finale non sarà una nuova creazione a partire dal nulla (che sarebbe il caso se, una volta scomparso il corpo, non restasse nulla), ma la riunione di ciò che era stato separato: dell’anima immortale con un corpo ricreato certamente, ma che è il corpo di quest’anima, e non quello di un’altra. Di conseguenza, nel giorno finale io ritroverò il mio corpo. Ma cos’è questo “io”? Non il corpo, perché esso sarà scomparso nell’intervallo. E se è altra cosa che non il corpo, perché non chiamarlo anima?
§ Negli ultimi decenni si è constatato un’allergia alla parola “anima”, alla quale si rimprovera di essere troppo filosofica. Nella Scrittura si trovano degli equivalenti a tale parola. D’altra parte, se si sopprime l’anima, si è condotti ad affermare come sopra che Dio ricreerà un giorno un essere nuovo senza rapporto con il mio essere presente, oppure si è costretti a dire che il momento della morte è già quello della resurrezione, contro cui l’apostolo Paolo metteva già in guardia:
§ “Imeneo e Fileto….si sono allontanati dalla verità, pretendendo che la resurrezione è già avvenuta, rovesciando così la fede dei più” (2Tm 2,18).
Ma questo pone la domanda di sapere ciò che succede all’anima per il tempo che essa resta senza il suo corpo – quello che si chiama in termini classici “l’anima separata”.
3. La morte e il giudizio “singolo”
La morte è il momento dell’incontro, e questo incontro è un giudizio. Con ciò non bisogna intendere la nostra comparizione davanti a un tribunale, ma l’esperienza di vedere la nostra vita tutta insieme nella verità quando noi vedremo il Cristo. Un passaggio del vangelo di Matteo è particolarmente chiaro a tale proposito. Si tratta della profezia detta del “giudizio finale”, al capitolo 25, nella quale ogni essere umano, nell’incontro con il Cristo, prende coscienza dal fatto stesso che tutti gli atti della sua vita trovano il loro senso in riferimento al Cristo: “avevo fame e voi mi avete dato da mangiare…”. Prima del giudizio “finale”, questa stessa esperienza è fatta da ciascuno al momento della sua morte. E’ un giudizio nel quale la dimensione corporale non interviene e che si chiama il giudizio particolare (”particolare” nel senso di “individuale”).
Ogni uomo riceve nella sua anima immortale il suo riconoscimento eterno, dal momento della sua morte, in un giudizio particolare che riferisce la sua vita al Cristo attraverso la purificazione; per entrare immediatamente nella beatitudine del Cielo;
per dannarsi in eterno.
(CCC 1022)
Abbiamo un esempio di questo giudizio nel vangelo: si tratta del “buon ladrone” al quale Gesù dice: “oggi, tu sarai con me in paradiso” (Lc 22,43). Il “paradiso” significa due cose:
1/la beatitudine con il Cristo; 2/ non già la resurrezione, ma l’attesa della resurrezione.
Tutto questo significa che non c’è e non può esserci “sonno della morte”, se si intende con questo uno stato di incoscienza tra la morte e la fine del mondo. Come dice l’apostolo Paolo, i morti vivono nel Cristo.
4. Purgatorio, cielo e inferno
§ Il purgatorio
La Chiesa, in particolare nel Secondo Concilio di Lione (1274) ha stabilito la sua infallibilità sulla questione del purgatorio.
Anche se la parola “purgatorio” è introdotta solo a partire dal XII secolo, l’affermazione di una purificazione dopo la morte è già presente nel giudaismo. Essa si esprime indirettamente attraverso la preghiera per i defunti, come la si trova in 2Mac 12, 44-45 (e nel Nuovo Testamento: 1Cor 15,29 e 2Tm 1,18): se questa preghiera ha un senso, è proprio perché i defunti sono in un processo (e non in un luogo, poiché il purgatorio non è un luogo) di purificazione.
Allo stesso modo con cui dà conto del giudizio, l’incontro con il Cristo spiega questa purificazione: in effetti, questo incontro nella luce piena mi farà percepire in piena verità la differenza tra l’amore del Cristo e l’indigenza dell’amore che è stata presente nella mia vita. La percezione di una tale differenza è una fonte di sofferenza, ma si tratta di una sofferenza che nasce dal desiderio di rispondere pienamente all’amore di cui sono amato. Nel Credo, l’affermazione “disceso agli Inferi” corrisponde a quella del purgatorio: tra la morte del Cristo e la sua resurrezione, la discesa agli Inferi (cioè nel luogo di soggiorno dei morti, e non “nell’Inferno”) esprime l’atto con il quale il Cristo, nel mistero della sua morte, unisce ogni essere umano (che abbia conosciuto il Cristo o meno) alla sua per proporgli la salvezza. Poiché Cristo è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è realmente unica, cioè divina, dobbiamo considerare che lo Spirito Santo offre a tutti, nel modo che Dio conosce, la possibilità di essere associati al mistero pasquale (del Cristo – (Vaticano II, Gaudium et Spes, 22).
La predicazione sul purgatorio è oggi più urgente che mai: la credenza nella reincarnazione, che nello spirito di molti gioca il ruolo di una «seconda possibilità» data a qualcuno, (mentre nelle spiritualità orientali, dalle quali deriva, essa è piuttosto una fatalità) ha, in effetti, preso il posto del purgatorio molto più della resurrezione propriamente detta.
§ Il Cielo
Citiamo ancora il Catechismo:
Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono pienamente purificati, vivono per sempre con il Cristo. Sono per sempre simili a Dio perché lo vedono come esso è (cf. 1Gv 3,2), “faccia a faccia” (1Cor 13,12; Ap 22,4). Questa vita perfetta con la Trinità è chiamata il Cielo (CCC 1023-1024). Il Cielo non è rappresentabile più del purgatorio: più che un luogo, il Cielo è una Persona, il cui contatto rende beati e immortali. Questo mistero di comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono nel Cristo supera ogni comprensione e ogni rappresentazione. La Scrittura ci parla per immagini: vita, luce, pace, festa di nozze, vino del regno, casa del Padre, Gerusalemme celeste, paradiso: “Ciò che l’occhio non ha visto, ciò che l’orecchio non ha sentito, ciò che non è percepito dal cuore dell’uomo, tutto ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano” (1Cor 2,9; CCC 1027).
§ L’inferno
Gesù nel Vangelo parla della “Gheenna”, del “fuoco che non si spegne” (Mt 5,22; 29; 13,42-50). Nella profezia del giudizio finale, troviamo questa parola terribile: “allontanatevi da me, maledetti, nel fuoco eterno preparato per il demonio e i suoi angeli” (Mt 25,41). Il fatto che il Cristo stesso si preoccupi di parlarci dell’inferno come di un rischio reale per noi, deve farci riflettere. Le sue affermazioni ci rivelano l’abisso della nostra stessa libertà che, perché capace del meglio, è anche capace di dire a Dio un “no” irreversibile. Non c’è paragone fra il Cielo e l’inferno, poiché noi siamo fatti per il primo e non per il secondo; ma c’è una capacità di rifiuto già attuata nel “demonio e i suoi angeli” e della quale l’amore di Dio stesso non può che prendere atto. All’opposto della comunione per la quale noi siamo fatti, l’inferno è la solitudine assoluta, l’abisso insondabile di una separazione eterna da Dio e da tutti gli altri.
Occorre sottolineare che la Chiesa, quando ha proclamato molte persone “beati” o “santi”, non ha mai voluto dire niente di chi fosse dannato. La Chiesa, in effetti, deve riporre speranza per tutti: “La Chiesa prega perché nessuno si perda…Se è vero che nessuno può salvarsi da solo, è anche vero che “Dio vuole che tutti siano salvati” (1Tm 2,4) e che per Lui “tutto è possibile” (Mt 19,26)” – (CEC 1058).
5. La fine dei tempi e il giudizio finale
§ La differenza tra il giudizio particolare e il giudizio finale risiede nel fatto che il giudizio finale coincide con la fine dei tempi. Esso rappresenta la dimensione universale del giudizio. Il giudizio finale stesso sarà preceduto dalla venuta del Cristo nella gloria e dalla resurrezione (cf. Gv 5,28-29). Tutto il senso della storia sarà allora rivelato. Il giudizio finale interverrà con il ritorno glorioso del Cristo. Il Padre solo ne conosce il giorno, lui solo decide della sua venuta. Attraverso il Figlio Gesù-Cristo, pronuncerà allora la sua parola definitiva sulla storia. Conosceremo il senso ultimo di tutta l’opera della creazione e di tutta l’economia della salvezza, e comprenderemo i cammini mirabili attraverso i quali la sua Provvidenza avrà condotto ogni cosa verso il suo Fine Ultimo (CCC 1040).
§ Ciò che avverrà, allora, è quello che la Scrittura chiama “i cieli nuovi e la terra nuova” (Ap 21,1). Nelle immagini che ci presenta l’Apocalisse, colpisce vedere la dimensione comunitaria di ciò che è annunciato, così come l’insistenza sulla vittoria della Vita (Ap 21,2)
Di tutti questi punti, possiamo ricordare:
§ che la nostra intera vita, in un senso, è una preparazione alla morte
§ che allo stesso tempo non ne dovremmo sottostimare l’importanza e il valore, poiché tutto ciò che noi viviamo nella nostra vita sulla terra impegna per l’eternità.
§ che non sarebbe cristiano vedere nella morte il male assoluto: da un punto di vista cristiano, la morte è il momento in cui Dio chiama l’uomo verso di Lui. Essa è “nostra sorella morte corporale” (San Francesco d’Assisi)
§ che è legittimo, e non morboso, desiderare fin da ora come san Paolo “essere con il Cristo” (Fil 1,23), o ancora voler “vedere Dio”, secondo l’espressione di santa Teresa d’Avila. Sarebbe piuttosto allarmante che non ci pensassimo mai e che ci lasciasse indifferenti. “La vita cristiana intera è un’attesa. Il cristiano sa che è fatto per le cose più grandi…La vita cristiana è una vita nascosta. Ma, quando il mondo sarà ripiegato come una tenda, la realtà fino ad allora nascosta sarà manifestata. Per il cristiano questa vita consiste nel darsi poco a poco dei modi di vita divini. E l’educazione che si persegue fino all’ora della morte, perché tutta la vita umana non è che un’adolescenza, consiste, secondo la parola di Jean Guitton, “in questa disciplina attraverso la quale si prepara il bambino alla sua vita temporale, l’adulto alla sua vita eterna, perché ciò che egli vede egli abbia l’impressione di aver già visto”.
Non bisogna che siamo spaesati arrivando in cielo. La nostra vita è un apprendistato. Si tratta di imparare i rudimenti di ciò che un giorno dovremo esercitare. Quindi cerchiamo già nella preghiera di balbettare ciò che sarà più tardi la “conversazione celeste” con Dio e i suoi angeli; quindi occorre sgrossare la nostra intelligenza così incollata al mondo dello spazio e del tempo e acclimatarla poco a poco alle cose divine con l’azione dei doni dello Spirito Santo; quindi la carità è l’inizio maldestro di quella comunione completa che riunirà tutti i santi. Così facendo, cominciamo a fare ciò che dovremo fare per sempre. E’ la nostra vera vita che si abbozza. Tutto comincia” (Card. Jean DANIELOU, 1905-1974).
+ Jean-Pierre Batut
dal sito:
http://www.zenit.org/article-24817?l=italian
Prima Predica di Avvento: la risposta cristiana allo scientismo ateo
Del Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa
ROMA, sabato, 4 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la prima Predica d’Avvento tenuta questo venerdì da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., Predicatore della Casa Pontificia, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico Vaticano.
“QUANDO GUARDO I TUOI CIELI, LA LUNA E LE STELLE,
CHE COS’È MAI L’UOMO?” (Sal 8, 4-5)
1. Le tesi dello scientismo ateo
Le tre meditazioni di questo Avvento 2010 vogliono essere un piccolo contributo alla necessità della Chiesa che ha portato il Santo Padre Benedetto XVI a istituire il “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione” e a scegliere come tema della prossima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi il tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione delle fede cristiana”.
L’intento è quello di individuare alcuni nodi o ostacoli di fondo che rendono molti paesi di antica tradizione cristiana “refrattari” al messaggio evangelico, come dice il Santo Padre nel Motu Proprio con cui ha istituito il nuovo Consiglio[1]. I nodi o le sfide che intendo prendere in considerazione e a cui vorrei cercare di dare una risposta di fede sono lo scientismo, il secolarismo e il razionalismo. L’apostolo Paolo li chiamerebbe “i baluardi e le fortezze che si levano contro la conoscenza di Dio” (cf. 2 Cor 10,4).
In questa prima meditazione prendiamo in esame lo scientismo. Per comprendere cosa si intende con questo termine, possiamo partire dalla descrizione che ne ha fatto Giovanni Paolo II:
“Un altro pericolo è lo scientismo; questa concezione filosofica si rifiuta infatti di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e la teologia, sia il sapere etico ed estetico”[2].
Possiamo riassumere così le tesi principali di questa corrente di pensiero:
Prima tesi. La scienza, e in particolare la cosmologia, la fisica e biologia, sono l’unica forma oggettiva e seria di conoscenza della realtà. “Le società moderne, ha scritto Monod, sono costruite sulla scienza. Le devono la loro ricchezza, la loro potenza e la certezza che ricchezze e potenze ancora maggiori saranno in un domani accessibili all’uomo, se egli lo vorrà [...]. Provviste di ogni potere, dotate di tutte le ricchezze che la scienza offre loro, le nostre società tentano ancora di vivere e di insegnare sistemi di valori, già minati alla base da questa stessa scienza”[3].
Seconda tesi. Questa forma di conoscenza è incompatibile con la fede che si basa su presupposti che non sono né dimostrabili né falsificabili. In questa linea l’ateo militante R. Dawkins si spinge fino a definire “analfabeti” quegli scienziati che si professano credenti, dimenticando quanti scienziati ben più famosi di lui si sono dichiarati e continuano a dichiararsi credenti.
Terza tesi. La scienza ha dimostrato la falsità, o almeno la non necessità dell’ipotesi di Dio. È l’affermazione a cui hanno dato ampio risalto i media di tutto il mondo nei mesi scorsi, a causa di una affermazione dell’astrofisico inglese Stephen Hawkins. Questi, contrariamente a quanto aveva scritto in precedenza, nel suo ultimo libro The Grand Design, Il Grande disegno, sostiene che le conoscenze raggiunte dalla fisica rendono ormai inutile credere in una divinità creatrice dell’universo: “la creazione spontanea è la ragione per cui esiste qualcosa”.
Quarta tesi. La quasi totalità, o almeno la grande maggioranza degli scienziati sono atei. Questa è l’affermazione dell’ateismo scientifico militante che ha in Richard Dawkins, l’autore del libro God’s Delusion, L’illusione di Dio, il suo più attivo propagatore.
Tutte queste tesi si rivelano false, non in base a un ragionamento a priori o ad argomenti teologici e di fede, ma dall’analisi stessa dei risultati della scienza e delle opinioni di molti tra gli scienziati più illustri del passato e del presente. Uno scienziato del calibro di Max Planck, il fondatore della teoria dei “quanti”, dice, della scienza, quello Agostino, Tommaso d’Aquino, Pascal, Kierkegaard ed altri avevano affermato della ragione: “La scienza –dice – conduce a un punto oltre il quale non ci può più guidare”[4].
Io non insisto nella confutazione delle tesi enunciate che è stata fatta da scienziati e filosofi della scienza, con una competenza che io non ho. Cito, per esempio, la puntuale critica di Roberto Timossi, nel libro L’illusione dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio, che reca la presentazione del Card. Angelo Bagnasco (Edizioni San Paolo 2009). Mi limito a una osservazione elementare. Nella settimana in cui i media diffusero l’affermazione ricordata, secondo cui la scienza ha reso inutile l’ipotesi di un creatore, mi son trovato nella necessità, nell’omelia domenicale, di spiegare a dei cristiani molto semplici, in una cittadina del Reatino, dove è l’errore di fondo degli scienziati atei e perché non dovevano lasciarsi impressionare dallo scalpore suscitato da quell’affermazione. L’ho fatto con un esempio che forse può essere utile ripetere anche qui, in un contesto così diverso.
Ci sono uccelli notturni, come il gufo e la civetta, il cui occhio è fatto per vederci di notte al buio, non di giorno. La luce del sole li accecherebbe. Questi uccelli sanno tutto e si muovono a loro agio nel mondo notturno, ma non sanno nulla del mondo diurno. Adottiamo per un momento il genere delle favole, dove gli animali parlano tra di loro. Supponiamo che un’aquila faccia amicizia con una famiglia di civette e parli loro del sole: di come esso illumina tutto, di come, senza di lui, tutto piomberebbe nel buio e nel gelo, come il loro stesso mondo notturno non esisterebbe senza il sole. Cosa risponderebbe la civetta se non: “Tu racconti fandonie! Mai visto il vostro sole. Noi ci muoviamo benissimo e ci procuriamo il cibo senza di esso; il vostro sole è un’ipotesi inutile e dunque non esiste”.
È esattamente quello che fa lo scienziato ateo quando dice: “Dio non esiste”. Giudica un mondo che non conosce, applica le sue leggi a un oggetto che è fuori della loro portata. Per vedere Dio occorre aprire un occhio diverso, occorre avventurarsi fuori della notte. In questo senso, è ancora valida l’antica affermazione del salmista: “Lo stolto dice: Dio non esiste”.
2. No allo scientismo, sì alla scienza
Il rifiuto dello scientismo non ci deve naturalmente indurre al rifiuto della scienza o alla diffidenza nei confronti di essa. Fare diversamente sarebbe un far torto alla fede, prima ancora che alla scienza. La storia ci ha dolorosamente insegnato dove porta un simile atteggiamento.
Di un atteggiamento aperto e costruttivo verso la scienza ci ha dato un esempio luminoso il neo beato John Henry Newman. Nove anni dopo la pubblicazione dell’opera di Darwin sulla evoluzione delle specie, quando non pochi spiriti intorno a lui si mostravano turbati e perplessi, egli li rassicurava, esprimendo un giudizio che anticipava di un secolo e mezzo quello attuale della Chiesa sulla non incompatibilità di tale teoria con la fede biblica. Vale la pena riascoltare i brani centrali della sua lettera al canonico John Walker:
“Essa [la teoria di Darwin] non mi fa paura […] Non mi sembra filare logicamente che venga negata la creazione per il fatto che il Creatore, milioni di anni fa, abbia imposto leggi alla materia. Non neghiamo né circoscriviamo il Creatore per il fatto che abbia creato l’azione autonoma che ha dato origine all’intelletto umano, dotato quasi di un talento creativo; assai meno allora neghiamo o circoscriviamo il suo potere, se riteniamo che Egli abbia assegnato alla materia leggi tali da plasmare e costruire mediante la propria cieca strumentalità attraverso innumerevoli ère il mondo come lo vediamo[…]. La teoria del signor Darwin non necessariamente deve essere atea, che essa sia vera o meno; può semplicemente star suggerendo un’idea più allargata di Divina Prescienza e Capacità…. A prima vista non vedo come ‘l’evoluzione casuale di esseri organici’ sia incoerente con il disegno divino – È casuale per noi, non per Dio”[5].
La sua grande fede permetteva a Newman di guardare con grande serenità alle scoperte scientifiche presenti o future. “Quando un diluvio di fatti, accertati o presunti, ci si rovescia addosso, mentre infinti altri già cominciano a delinearsi, tutti i credenti, cattolici o no, si sentono sollecitati a esaminare quale significato abbiamo tali fatti”[6]. Egli vedeva in tali scoperte una “una attinenza indiretta con le opinioni religiose”. Un esempio di questa attinenza, io penso, è proprio il fatto che negli stessi anni in cui Darwin elaborava la teoria dell’evoluzione delle specie, egli, indipendentemente, enunciava la sua dottrina dello “sviluppo della dottrina cristiana”. Accennando all’analogia, su questo punto, tra l’ordine naturale e fisico e quello morale egli scriveva: ”Come il Creatore riposò il settimo giorno dopo l’opera compiuta, e tuttavia egli ‘opera ancora’, così egli comunicò una volta per tutte il Credo all’origine, eppure favorisce ancora il suo sviluppo e provvede al suo incremento”[7].
Dell’atteggiamento nuovo e positivo da parte della Chiesa cattolica nei confronti della scienza è espressione concreta l’Accademia Pontificia delle scienze, in cui eminenti scienziati di tutto il mondo, credenti e non credenti, si incontrano per esporre e dibattere liberamente le loro idee su problemi di comune interesse per la scienza e per la fede.
3. L’uomo per il cosmo o il cosmo per l’uomo?
Ma, ripeto, non è mio intendo impegnarmi qui in una critica generale dello scientismo. Quello che mi preme mettere in luce è un aspetto particolare di esso che ha un’incidenza diretta e decisiva sulla evangelizzazione: si tratta della posizione che occupa l’uomo nella visione dello scientismo ateo.
È ormai una gara tra gli scienziati non credenti, soprattutto tra biologi e cosmologi, a chi si spinge più avanti nell’affermare la totale marginalità e insignificanza dell’uomo nell’universo e nello stesso grande mare della vita. “L’antica alleanza è infranta – ha scritto Monod -; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo”[8]. “Ho sempre pensato –afferma un altro – di essere insignificante. Conoscendo le dimensioni dell’Universo, non faccio che rendermi conto di quanto lo sia davvero… Siamo solo un po’ di fango su un pianeta che appartiene al sole”[9].
Blaise Pascal ha confutato in anticipo questa tesi con un argomento che nessuno ha potuto finora e potrà mai confutare:
“L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne sa nulla”[10].
La visione scientista della realtà, insieme con l’uomo, toglie di colpo dal centro dell’universo anche Cristo. Egli viene ridotto, per usare le parole di M. Blondel, a “un incidente storico, isolato dal cosmo come un episodio posticcio, un intruso o uno spaesato nella schiacciante e ostile immensità dell’Universo”[11].
Questa visione dell’uomo comincia ad avere dei riflessi anche pratici, a livello di cultura e di mentalità. Si spiegano così certi eccessi dell’ecologismo che tendono a equiparare i diritti degli animali e perfino delle piante a quelli dell’uomo. E’ risaputo che ci sono animali accuditi e nutriti molto meglio di milioni di bambini. L’influsso si avverte anche in campo religioso. Vi sono forme diffuse di religiosità in cui il contatto e la sintonia con le energie del cosmo ha preso il posto del contatto con Dio come via di salvezza. Quello che Paolo diceva di Dio: “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17, 28), lo si dice qui del cosmo materiale.
Per certi aspetti, si tratta del ritorno alla visione pre-cristiana che aveva come schema: Dio – cosmo – uomo, e alla quale la Bibbia e il cristianesimo opposero lo schema: Dio – uomo – cosmo. In altre parole, il cosmo è per l’uomo, non l’uomo per il cosmo. Una delle accuse più violente che il pagano Celso rivolge a giudei e cristiani è di affermare che “c’è Dio e, subito dopo lui, noi, dal momento che siamo creati da lui a sua completa somiglianza; tutto ci è subordinato: la terra, l’acqua, l’aria, le stelle; tutto esiste per noi ed è ordinato al nostro servizio” [12].
C’è però anche una profonda differenza: nel pensiero antico, soprattutto greco, l’uomo, seppure subordinato al cosmo, riveste un’altissima dignità, come ha messo in luce l’opera magistrale di Max Pohlenz, “L’uomo greco”[13]; qui invece sembra che si prenda gusto a deprimere l’uomo e spogliarlo di ogni pretesa di superiorità sul resto della natura. Più che di “umanesimo ateo”, almeno da questo punto di vista, di dovrebbe parlare, a mio parere, di anti-umanesimo, o addirittura di disumanesimo ateo.
Veniamo ora alla visione cristiana. Celso non si sbagliava nel farla derivare dalla grande affermazione di Genesi 1, 26 sull’uomo creato “a immagine e somiglianza” di Dio[14]. La visione biblica ha trovato la sua più splendida espressione nel Salmo 8:
Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai disposte,
che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi?
Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura?
Eppure tu l’hai fatto solo di poco inferiore a Dio,
e l’hai coronato di gloria e d’onore.
Tu lo hai fatto dominare sulle opere delle tue mani,
hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi.
La creazione dell’uomo a immagine di Dio ha delle implicazioni per certi versi sconvolgenti sulla concezione dell’ uomo che il dibattito attuale che ci spinge a portare alla luce. Tutto si fonda sulla rivelazione della Trinità recata da Cristo. L’uomo è creato a immagine di Dio, il che vuol dire che egli partecipa all’intima essenza di Dio che è relazione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Solo l’uomo, in quanto persona capace di relazioni, partecipa alla dimensione personale e relazionale di Dio.
Questo significa che egli, nella sua essenza, anche se ad un livello creaturale, è ciò che, a livello increato, sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, nella loro essenza. La persona umana è “persona” proprio per questo nucleo razionale che la rende capace di accogliere la relazione che Dio vuole stabilire con essa e allo stesso tempo diventa generatore delle relazioni verso gli altri e vero il mondo. E’ evidente che c’ è un fossato ontologico tra Dio e la creatura umana. Tuttavia, per grazia (mai dimenticare questa precisazione!), questo fossato è colmato, così che esso è meno profondo di quello esistente tra l’ uomo e il resto del creato.
4. La forza della verità
Proviamo a vedere come si potrebbe tradurre sul piano dell’evangelizzazione questa visione cristiana del rapporto uomo-cosmo. Anzitutto una premessa. Riassumendo il pensiero del maestro, un discepolo di Dionigi Areopagita ha enunciato questa grande verità: “Non si devono confutare le opinioni degli altri, né si deve scrivere contro una opinione o una religione che sembra non buona. Si deve scrivere solo a favore della verità e non contro gli altri”[15].
Non si può assolutizzare questo principio (a volte può essere utile e necessario confutare delle dottrine false), ma è certo che l’esposizione positiva della verità è spesso più efficace che non la confutazione dell’errore contrario. È importante, credo, tener conto di questo criterio nell’evangelizzazione e in particolare nei confronti dei tre ostacoli menzionati: scientismo, secolarismo e razionalismo. Più efficace che la polemica contro di essi è, nella evangelizzazione, la esposizione irenica della visione cristiana, facendo assegnamento sulla forza intrinseca di essa quando è accompagnata da intima convinzione e viene fatta, come inculcava San Pietro, “con dolcezza e rispetto” (1 Pt 3,16).
L’espressione più alta della dignità e della vocazione dell’uomo secondo la visione cristiana si è cristallizzata nella dottrina della divinizzazione dell’uomo. Questa dottrina non ha avuto lo stesso rilievo nella Chiesa ortodossa e in quella latina. I Padri greci, superando tutte le ipoteche che l’uso pagano aveva accumulato sul concetto di deificazione (theosis), fecero di essa il fulcro della loro spiritualità. La teologia latina ha insistito meno su di essa. “Lo scopo della vita per i cristiani greci – si legge nel “Dictionnaire de Spiritualité” – è la divinizzazione, quello dei cristiani d’occidente è l’acquisizione della santità…Il Verbo si è fatto carne, secondo i greci, per restituire all’uomo la somiglianza con Dio perduta in Adamo e per divinizzarlo. Secondo i latini, egli si è fatto uomo per redimere l’umanità…e per pagare il debito dovuto alla giustizia di Dio”[16]. Potremmo dire, semplificando al massimo, che la teologia latina, dietro Agostino, insiste di più su ciò che Cristo è venuto a togliere – il peccato -, quella greca insiste di più su ciò che egli è venuto a dare agli uomini: l’immagine di Dio, lo Spirito Santo e la vita divina.
Non si deve forzare troppo questa contrapposizione, come a volte si tende a fare da parte di autori ortodossi. La spiritualità latina esprime a volte lo stesso ideale anche se evita il termine divinizzazione che, giova ricordarlo, è estraneo al linguaggio biblico. Nella Liturgia delle ore della notte di Natale riascolteremo la vibrante esortazione di san Leone Magno che esprime la stessa visione della vocazione cristiana: “Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati chi è il tuo Capo e di quale Corpo sei membro”[17].
Purtroppo certi autori ortodossi sono rimasti fermi alla polemica del secolo XIV tra Gregorio Palamas e Barlaam e sembrano ignorare la ricca tradizione mistica latina. La dottrina di san Giovanni della Croce, per esempio, secondo cui il cristiano, redento da Cristo e reso figlio nel Figlio, è immerso nel flusso delle operazioni trinitarie e partecipa della vita intima di Dio, non è meno elevata di quella della divinizzazione, anche se espressa in termini diversi. Anche la dottrina sui doni di intelletto e di sapienza dello Spirito Santo, così cara a san Bonaventura e agli autori medievali, era animata dallo stesso afflato mistico.
Non si può tuttavia non riconoscere che la spiritualità ortodossa ha qualcosa da insegnare su questo punto al resto della cristianità, alla teologia protestante ancor più che alla teologia cattolica. Se c’è infatti qualcosa di veramente opposto alla visione ortodossa del cristiano deificato dalla grazia, questo è la concezione protestante, e in particolare luterana, della giustificazione estrinseca e forense, per cui l’uomo redento è “nello stesso tempo giusto e peccatore”, peccatore in sé stesso, giusto davanti a Dio.
Soprattutto possiamo imparare dalla tradizione orientale a non riservare questo ideale sublime della vita cristiana a una elite spirituale chiamata a percorre le vie della mistica, ma a proporla a tutti i battezzati, a farne oggetto di catechesi al popolo, di formazione religiosa nei seminari e nei noviziati. Se ripenso agli anni della mia formazione vi scorgo una insistenza quasi esclusiva su una ascetica che puntava tutto sulla correzione dai vizi e l’acquisto delle virtù. Alla domanda del discepolo sullo scopo ultimo della vita cristiana un santo russo, san Serafino di Sarov, rispondeva senza esitare: “Il vero fine della vita cristiana, è l’acquisizione dello Spirito Santo di Dio. Quanto alla preghiera, il digiuno, le veglie, l’elemosina e ogni altra buona azione fatta nel nome di Cristo, sono solo mezzi per acquisire lo Spirito Santo”[18].
5. “Tutto è stato fatto per mezzo di lui”
Il Natale è l’occasione ideale per riproporre a noi stessi e agli altri questo ideale che è patrimonio comune della cristianità. È dall’incarnazione del Verbo che i Padri greci fanno derivare la possibilità stessa della divinizzazione. Sant’Atanasio non si stanca di ripetere: “Il Verbo si è fatto uomo affinché noi potessimo essere deificati”[19]. “Egli si è incarnato e l’uomo è divenuto Dio, poiché è unito a Dio”, scrive a sua volta san Gregorio Nazianzeno [20]. Con Cristo viene restaurato, o riportato alla luce quell’essere“ a immagine di Dio” che fonda la superiorità dell’uomo sul resto del creato.
Notavo sopra come l’emarginazione dell’uomo porta con sé automaticamente l’emarginazione di Cristo dal cosmo e dalla storia. Anche da questo punto di vista il Natale è l’antitesi più radicale alla visione scientista. In esso sentiremo proclamare solennemente: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,3); “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1, 16). La Chiesa ha raccolto questa rivelazione e nel Credo ci fa ripetere: “Per quem omnia facta sunt”: Per mezzo di lui tutto è stato creato.
Riascoltare queste parole mentre intorno a noi non si fa che ripetere: “Il mondo si spiega da solo, senza bisogno dell’ipotesi di un creatore”, oppure “siamo frutto del caso e della necessità”, provoca indubbiamente uno shock, ma è più facile che una conversione e una fede sbocci da uno shock del genere che da una lunga argomentazione apologetica. La domanda cruciale è: saremo capaci, noi che aspiriamo a rievangelizzare il mondo, di dilatare la nostra fede a queste dimensioni da capogiro? Crediamo noi davvero, con tutto il cuore, che “tutto è stato fatto per mezzo di Cristo e in vista di Cristo”?
Nel suo libro di tanti anni fa Introduzione al cristianesimo lei, Santo Padre, scriveva: “Con il secondo articolo del ‘Credo’ siamo davanti all’autentico scandalo del cristianesimo. Esso è costituito dalla confessione che l’uomo-Gesú, un individuo giustiziato verso l’anno 30 in Palestina, sia il ‘Cristo’ (l’unto, l’eletto) di Dio, anzi addirittura il Figlio stesso di Dio, quindi centro focale, il fulcro determinante dell’intera storia umana…Ci è davvero lecito aggrapparci al fragile stelo d’un singolo evento storico? Possiamo correre il rischio di affidare l’intera nostra esistenza, anzi, l’intera storia, a questo filo di paglia d’un qualsiasi avvenimento, galleggiante nello sconfinato oceano della vicenda cosmica?”[21].
A queste domande, Santo Padre, noi rispondiamo senza esitazione come fa lei in quel libro e come non si stanca di ripetere oggi, nella veste di Sommo Pontefice: Sì, è possibile, è liberante ed è gioioso. Non per le nostre forze, ma per il dono inestimabile della fede che abbiamo ricevuto e di cui rendiamo infinte grazie a Dio.
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1) Benedetto XVI, Motu Proprio “Ubicunque et semper”, n.
2) Giovanni Paolo II, Parole sull’uomo, Rizzoli, Milano 2002, p. 443; cf. anche Enc. “Fides et ratio”, n. 88
3) J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 1970, pagg. 136-7.
4) M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, p. 155, (cit. da Timossi, op.cit. p. 160)
5) J.H. Newman, Lettera al canonico J. Walker (1868), in The Letters and Diaries, vol. XXIV, Oxford 1973, pp. 77 s. (Trad. ital. Di P. Zanna).
6) J.H. Newman, Apologia pro vita sua, Brescia 1982, p.277
7) J.H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Bologna 1967, p. 95.
8) Monod, op. cit. p. 136.
9) P. Atkins, citato da Timossi, op. cit. p. 482.
10) B. Pascal, Pensieri, 377 (ed. Brunschwicg, n. 347),
11) M. Blondel et A. Valensin, Correspondance, Aubier, Parigi 1957, p. 47.
12) In Origene, Contra Celsum, IV, 23 (SCh 136, p.238; cf. anche IV, 74 (ib. p. 366)
13) Cf. M. Pohlenz, L’uomo greco, Firenze 1962.
14) In Origene, op. cit., IV, 30 (SCh 136, p. 254).
15) Scolii a Dionigi Areopagita in PG 4, 536; cf. Dionigi Areopagita, Lettera VI (PG, 3, 1077).
16) G. Bardy, in Dct. Spir., III, col. 1389 s.
17) S. Leone Magno, Discorso 1 sul Natale (PL 54, 190 s.).
18) Dialogo con Motovilov, in Irina Gorainoff, Serafino di Sarov, Gribaudi, Torino 1981. p. 156.
19) S. Atanasio, L’incarnazione del Signore, 54 (PG 25, 192B).
20) S. Gregorio Nazianzeno, Discorsi teologici, III, 19 (PG 36, 100A).
21) J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1969, p.149.
dal sito:
La pace e la libertà nei testi biblici
di Bruno Maggioni
Il discorso biblico è sempre un discorso a monte e i discorsi a monte hanno una loro importanza; per il credente, poi, la Bibbia è anche un punto di riferimento, in un certo senso l’ultimo punto di riferimento. Mi pare di poter dire che il discorso biblico sulla pace e sulla libertà, anche dopo 2000 anni di cristianesimo, non è un discorso scontato, non è diventato il discorso di senso comune; ma comunque, quando si fa il discorso biblico sulla pace e sulla libertà, generalmente si è tutti d’accordo; il disaccordo nasce quando dall’ideale biblico si passa al concreto. Allora immediatamente anche fra cristiani scoppia il disaccordo, quando si scende al concreto. A me pare che, a proposito della pace e della libertà, ma si potrebbe dire la stessa cosa anche di altre cose, sia ancora tutto di attualità il dialogo tra Gesù e Pietro, che troviamo al cap. 8 del Vangelo di Marco 8-33, nel quale il Cristo parla della sua prassi messianica, che è la prassi della Croce; noi potremmo anche dire che parla della sua Pace, del suo modo di realizzarla, del suo modo di impostare la esistenza ed ecco che Pietro fa resistenza e Gesù gli dice: «Va’ via da me Satana perché ragioni non secondo Dio ma secondo gli uomini».
Per noi questo è un episodio attuale, applicabilissimo al nostro discorso sulla pace e sulla libertà. E osservate, portavoce di Satana è il discepolo, non chi non è discepolo! E diventa portavoce di Satana non perché il suo discorso sia particolarmente satanico, tutt’altro! E portavoce di Satana perché ragiona secondo il buon senso degli uomini. Mi sembra una cosa, questa, molto chiara e applicabilissima al nostro discorso biblico sulla pace e sulla libertà. Ma ve diamo di elencare gli elementi principali della concezione biblica della pace e della libertà. Che le due concezioni siano in rapporto direi è ovvio, sarà facilissimo capirlo; il mio compito si limita a chiarire quale pace e quale libertà.
La pace nella Bibbia
Incominciamo col dire che il termine biblico «shalom», che viene comunemente tradotto con pace ha un significato molto ampio, anzi pare che nella sua radice significhi «completezza, integrità», cioè è la condizione di un uomo, di una comunità, che è in armonia con la natura, con se stesso, con Dio, con gli altri uomini. Questa è la pace, secondo la Bibbia, un concetto globale, una realtà che o c’è tutta o non c’è. Per vedere la globalità di questo concetto, basterebbe anche osservare i termini che generalmente accompagnano la parola pace. La parola pace raduna attorno a sé diversi altri termini; per esempio i profeti quando parlano di pace elencano sempre accanto alla pace la pratica della giustizia, l’osservanza del diritto anche per i poveri, l’accoglienza dei poveri, l’ordine, il benessere e la fedeltà religiosa. I profeti hanno polemizzato a proposito della pace, hanno sempre polemizzato con i falsi profeti, i profeti di corte e ci son sempre i profeti di corte. I profeti di corte, secondo i veri profeti, parlavano troppo facilmente di pace, promettevano troppo facilmente la pace, cioè promettevano pace senza nel contempo dichiarare che per avere la pace occorreva un profondo, radicale cambiamento della situazione. Parlavano di pace e basta; secondo i veri profeti questo è ridicolo: è sciocco parlare di pace se non parli nel contempo di una radicale conversione; bisogna cambiare alla radice il modo di vivere, solo così è impossibile la pace, altrimenti è come imbiancare, il paragone è di Ezechiele, un casa che sta crollando, che è tutta screpolata, è un palliativo che non risolve niente.
Un terzo concetto che la Bibbia è in grado di offrirci è il concetto diciamo del superamento della guerra. La Bibbia parla di guerre e il popolo biblico ha fatto tante guerre. Tuttavia si può osservare, anche all’interno di questa tematica che si direbbe l’opposto della pace, tutta una evoluzione che trova il suo completamento nella Croce di Gesù Cristo. E l’evoluzione la possiamo ridurre a due o tre passaggi: all’inizio il popolo ebraico crede nella guerra santa perché la guerra sembra essere l’unico modo, certo era il modo abituale, per difendere alcuni valori essenziali, per esempio la propria identità di popolo di Dio, persino la propria fedeltà religiosa. Ho detto che il popolo parla di guerra santa: «Dio combatte con noi». Queste guerre erano generalmente perse; ora non si può dire che Dio combatte con noi, quando perdiamo la guerra. In epoca di esilio, proprio questo popolo è sradicato, capisce che Dio non sostiene gli eserciti di Israele, neppure per le guerre sante, allora comincia a fare una trasposizione: Dio non combatte con il nostro esercito però verrà Lui nel tempo stabilito, verrà Dio, e Lui farà la sua guerra per imporre l’ordine, per imporre la legge di Dio per imporre la fedeltà e condannare i peccatori. Il terzo passaggio è con Gesù Cristo; arriva il Messia e non fa nessuna guerra, né combatte con gli eserciti del popolo, né combatte con i suoi angeli, ma muore sulla Croce. A questo punto il discorso è completo, non c’è possibilità per una guerra di Dio, né Dio combatte con noi, né Dio farà la sua guerra, la strada di Dio non è mai in nessun modo la guerra. Il Nuovo Testamento ha già completato il discorso come ho lasciato intendere, con la Croce di Cristo, però ha introdotto alcune cose che mancavano nell’Antico Testamento e una di queste cose, importantissima, è l’universalità della pace. Il testo, forse uno dei testi più chiari, più interessanti, anche se semplicissimo, è il testo del Natale «Gloria a Dio nell’alto dei Cieli e pace in Terra agli uomini che Dio ama».
C’è da osservare prima di tutto, secondo questo canto angelico che la trascrizione storica della gloria che Dio ha in Cielo è la pace fra gli uomini. Quindi se la Chiesa di Dio vuole dar gloria a Dio, realizzare intera la gloria di Dio, non deve fare altro che operare per la pace, perché il risvolto terrestre della gloria celeste è la pace. Gloria in Cielo, pace in Terra: è un parallelismo esemplare. Ma pace con ogni uomo! La vecchia traduzione diceva «pace in terra agli uomini di buona volontà», questo è un criterio discriminante; chi sono gli uomini di buona volontà coi quali devo fare la pace? Finirei col fare la pace con quelli che decido io o con quelli che la pensano come me. La nuova traduzione è più esatta, più fedele al testo originale: «Pace in terra agli uomini che Dio ama». Dio ama ogni uomo, dunque la pace con tutti, con il giusto e con il peccatore, con il vicino e con il lontano. Questo concetto è ripetuto poi nella lettera agli Efesini, da Paolo, cap. 2° versetto 11 e seguenti: «Gesù è la nostra pace, Colui che dei due ha fatto un solo popolo, abbattendo il muro che li separava: l’inimicizia». Paolo sta pensando ai due popoli, il popolo ebreo e i pagani; queste differenze sono crollate, la Croce di Cristo ha fatto crollare le differenze tra popolo e popolo, fra uomo e uomo, non esistono più i vicini, non esistono più i lontani, ma l’unica famiglia umana.
Per Paolo, questa pace, che ha fatto crollare le barriere, viene dalla Croce, cioè è fondata sul perdono, sulla gratuità, e mi sembra questa una cosa tutt’altro che secondaria. Dalla morte di Cristo in poi l’uomo dovrebbe ragionare in termini di famiglia umana, non più un popolo – il popolo eletto – sopra un altro popolo come invece era nell’Antico Testamento, ma semplicemente un popolo accanto agli altri popoli, una solidarietà universale come in famiglia. Un ultimo concetto, mi pare, ci offre il Nuovo Testamento ricuperando il discorso dei profeti, quello di aver sottolineato che la radice della violenza, alla fin fine, è nel cuore dell’uomo. San Giovanni al cap. 3 in un passo famoso dice che gli uomini amano più le tenebre che la luce, per questo rifiutano la luce, per questo hanno condannato la verità. Il ragionamento di Giovanni è questo: l’uomo vive una stortura esistenziale, cioè progetta la vita su falsi valori, o su valori di parte, ed ecco che quest’uomo che ha fatto di questi valori, valori assoluti, di fronte ai quali non vuole assolutamente rinunciare, ecco che quest’uomo quando la verità lo illumina, quando una luce lo contesta, ricorre alla menzogna, cerca di demolire quella verità, dice che la verità è falsità, dice che la luce è tenebre. Ma se quella luce è coraggiosa e continua a parlare e a inquietare, allora quest’uomo che sembrava un nonviolento diventa di colpo un violento e, seppur dice a malincuore, spegne quella luce, la mette a tacere e crocifigge il Cristo. Questa è l’analisi della violenza che ha fatto San Giovanni nel Vangelo e che nell’Apocalisse riprende, applicandola non tanto al singolo uomo, quanto alle formazioni, alle diverse idolatrie sociali politiche presenti in Babilonia.
La libertà nella Bibbia
A me pare che già diversi spunti si aprono a questo punto sul concetto di libertà, ma volendo adesso illustrare brevissimamente l’idea di libertà che ha la Bibbia, direi che, secondo la Bibbia, due sono i punti di riferimento essenziali per schiarirei le idee sulla libertà.
Il primo è l’Esodo, l’esperienza dell’Esodo, esperienza fondamentale per tutto l’Antico Testamento e che è poi rimasta anche nel Nuovo; ebbene questa esperienza dell’Esodo deve essere vista come esperienza di liberazione, come il viaggio verso la libertà. È interessante sottolineare che è «un viaggio», ecco, la libertà non è qualcosa che c’è, è qualcosa a cui ci avviciniamo faticosamente. Questa esperienza di liberazione è un’esperienza talmente ricca, talmente complessa, che la stessa Bibbia è stata costretta a ricorrere almeno a tre schemi per esprimerla: il primo schema è «dalla schiavitù alla libertà» cioè da un popolo sottomesso a un padrone, a un popolo che diventa padrone di sé. Questo primo schema non è ancora sufficiente per esprimere in tutta la sua pienezza questa esperienza, ed ecco allora un secondo schema: «dalla dispersione alla solidarietà di popolo», da non-popolo a popolo, perché la Bibbia ha capito che la libertà tu la sperimenti nella solidarietà, nel diventare una comunità, nel diventare un popolo. Il terzo schema è «dal Faraone al vero Dio» cioè dagli idoli a Dio, perché la Bibbia ha capito che un’altra radice della schiavitù sono proprio i falsi valori. Quei falsi valori che l’uomo assolutizza e che poi dividono, perché solo il vero Dio è un padrone che non divide, ma che crea la libertà anziché toglierla.
Il secondo punto di riferimento è il Cristo, la vita di Cristo, il modo con cui il Cristo ha gestito la sua esistenza e a me pare che, questo Gesù, che vive un tipo di esistenza, è un Gesù che si presenta anzitutto come il sottomesso, sottomesso a Dio, sottomesso al Padre, sottomesso alla Verità; è solo dalla sottomissione nei confronti della verità che nasce la libertà; essa nasce dalla verità, dalla giustizia, dai veri valori. Solo così, solo nell’ubbidienza assoluta al Padre nasce la libertà, la libertà da te, la libertà dagli idoli, per essere a disposizione di quei valori, per essere a disposizione degli uomini. E questo il discorso della Croce in sostanza, che è il momento conclusivo di una prassi di libertà, di una libertà da sé, per essere a disposizione. La libertà del mondo, evidentemente il mondo nel senso della mondanità nel senso dispregiativo, è una libertà per sé che diventa immediatamente una libertà di parte, e non una libertà da sé, per entrare in un circolo universale, per sottometterti alla verità, alla giustizia, cioè a Dio.
Due punti per concludere
Concludo con due spunti questo discorso svelto ma essenziale. Come prima conclusione, vi leggo alcune righe del Vangelo di Giovanni; siamo al capitolo 8, un dibattito molto vivace tra Gesù e i Giudei; Gesù dice «se rimarrete fedeli alla mia parola sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Siamo discendenza di Abramo e non siamo schiavi di nessuno». Rispose: «Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato, so che siete discendenza di Abramo ma so anche che cercate di uccidermi». Osservate questo dialogo; il punto di partenza è la fedeltà alla parola, «se rimanete fedeli alla mia parola», è l’obbedienza alla parola, un essere discepolo, un’obbedienza alla verità, questo è il punto di partenza, da qui la libertà in questa obbedienza alla verità. Dove invece c’è schiavitù, cioè il peccato, c’è una cattiva impostazione dell’esistenza, o personale, o collettiva, c’è la menzogna! La prima menzogna è quella di fingere di essere libero; «siamo discendenza di Abramo e non siamo schiavi di nessuno», erano schiavi e credevano di non esserlo, credevano anche di non essere dei violenti e invece Gesù dice: avete in voi la radice della violenza, so già che state progettando di uccidermi.
La seconda conclusione è che tutto il discorso biblico, discorso evidentemente profetico, termina dicendo che se si vuole realizzare quella pace e questa libertà, bisogna fidarsi della parola di Dio; ma alla fin fine questo fidarsi della parola di Dio a me pare significhi avere coraggio che poi è fede. Occorre la fede di Gesù Cristo, il coraggio dei profeti, cioè il coraggio di chi supera il ragionamento degli uomini che finisce con l’essere satanico. Io ho sempre in mente il rimprovero di Gesù a Pietro: «Va’ via da me Satana», perché Pietro ragionava benissimo, come me, ragionava come l’uomo e non come Dio, e cioè non era capace di superare le cose ovvie. «Alla forza giustamente bisogna resistere con la forza» questa è una cosa ovvia, ineccepibile da certe angolature, e tuttavia la Bibbia dice che così non si ottiene assolutamente né la pace né la libertà.