Isaie predisant l incarnation – Enluminures

dal sito:
http://www.nostreradici.it/Abramo_eredita.htm
L’eredità di Abramo – dono di Natale
Card. Joseph Ratzinger
(29 dicembre 2000)
Per Natale ci scambiamo dei doni, per dare gioia gli uni agli altri e partecipare così alla gioia che il coro degli angeli annunziò ai pastori, richiamando alla memoria il regalo per eccellenza che Dio fece all’umanità donandoci suo Figlio Gesù Cristo.
Ma questo è stato preparato da Dio in una lunga storia, nella quale — come dice sant’Ireneo — Dio si abitua a stare con l’uomo e l’uomo si abitua alla comunione con Dio. Questa storia comincia con la fede di Abramo, Padre dei credenti, Padre anche della fede dei cristiani e per la fede nostro Padre. Questa storia continua nelle benedizioni per i patriarchi, nella rivelazione a Mosè e nell’esodo di Israele verso la terra promessa.
Una nuova tappa si apre con la promessa a Davide ed alla sua stirpe di un regno senza fine. I profeti a loro volta interpretano la storia, chiamano a penitenza e conversione e preparano così il cuore degli uomini a ricevere il dono supremo. Abramo, Padre del popolo di Israele, Padre della fede, è così la radice della benedizione, in lui « si diranno benedette tutte le famiglie della terra » (Gen 12, 3).
Compito del popolo eletto è quindi donare il loro Dio, il Dio unico e vero, a tutti gli altri popoli, e in realtà noi cristiani siamo eredi della loro fede nell’unico Dio. La nostra riconoscenza va dunque ai nostri fratelli ebrei che, nonostante le difficoltà della loro storia, hanno conservato, fino ad oggi, la fede in questo Dio e lo testimoniano davanti agli altri popoli che, privi della conoscenza dell’unico Dio, « stavano nelle tenebre e nell’ombra della morte » (Lc 1, 79).
Il Dio della Bibbia degli ebrei, che è Bibbia — insieme al Nuovo Testamento — anche dei cristiani, a volte di una tenerezza infinita, a volte di una severità che incute timore, è anche il Dio di Gesù Cristo e degli apostoli.
La Chiesa del secondo secolo dovette resistere al rifiuto di questo Dio da parte degli gnostici e soprattutto di Marcione, che opponevano il Dio del Nuovo Testamento al Dio demiurgo creatore, da cui proveniva l’Antico Testamento, mentre la Chiesa ha sempre mantenuto la fede in un Dio solo, creatore del mondo e autore di ambedue i testamenti.
La coscienza neotestamentaria di Dio che culmina nella definizione giovannea « Dio è amore » (1 Giov 4, 16) non contraddice il passato, ma compendia piuttosto l’intera storia della salvezza, che aveva come protagonista iniziale Israele. Perciò nella liturgia della Chiesa dagli inizi e fino ad oggi risuonano le voci di Mosè e dei profeti; il salterio di Israele è anche il grande libro di preghiera della Chiesa. Di conseguenza la Chiesa primitiva non si è contrapposta a Israele, ma credeva con tutta semplicità di esserne la continuazione legittima.
La splendida immagine di Apocalisse 12, una donna vestita di sole coronata di dodici stelle, incinta e sofferente per i dolori del parto, è Israele che dà la nascita a colui « che doveva governare tutte le nazioni con scettro di ferro » (Sal 2, 9); e tuttavia questa donna si trasforma nel nuovo Israele, madre di nuovi popoli, ed è personificata in Maria, la Madre di Gesù. Questa unificazione di tre significati — Israele, Maria, Chiesa — mostra come, per la fede dei cristiani, erano e sono inscindibili Israele e la Chiesa.
Si sa che ogni parto è difficile. Certamente fin dall’inizio la relazione fra la Chiesa nascente ed Israele fu spesso di carattere conflittuale. La Chiesa fu considerata da sua madre figlia degenere, mentre i cristiani considerarono la madre cieca ed ostinata. Nella storia della cristianità le relazioni già difficili degenerarono ulteriormente, dando origine in molti casi addirittura ad atteggiamenti di antigiudaismo, che ha prodotto nella storia deplorevoli atti di violenza.
Anche se l’ultima esecrabile esperienza della shoah fu perpetrata in nome di un’ideologia anticristiana, che voleva colpire la fede cristiana nella sua radice abramitica, nel popolo di Israele, non si può negare che una certa insufficiente resistenza da parte di cristiani a queste atrocità si spiega con l’eredità antigiudaica presente nell’anima di non pochi cristiani.
Forse proprio a causa della drammaticità di quest’ultima tragedia, è nata una nuova visione della relazione fra Chiesa ed Israele, una sincera volontà di superare ogni tipo di antigiudaismo e di iniziare un dialogo costruttivo di conoscenza reciproca e di riconciliazione. Un tale dialogo, per essere fruttuoso, deve cominciare con una preghiera al nostro Dio perché doni prima di tutto a noi cristiani una maggiore stima ed amore verso questo popolo, gli israeliti, che « possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen. » (Rom 9, 4-5), e ciò non solo nel passato, ma anche presentemente « perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili » (Rom 11, 29). Pregheremo egualmente perché doni anche ai figli d’Israele una maggiore conoscenza di Gesù di Nazareth, loro figlio e dono che essi hanno fatto a noi. Poiché siamo ambedue in attesa della redenzione finale, preghiamo che il nostro cammino avvenga su linee convergenti.
È evidente che il dialogo di noi cristiani con gli ebrei si colloca su un piano diverso rispetto a quello con le altre religioni. La fede testimoniata nella Bibbia degli ebrei, l’Antico Testamento dei cristiani, per noi non è un’altra religione, ma il fondamento della nostra fede. Perciò i cristiani — ed oggi sempre più in collaborazione con i loro fratelli ebrei — leggono e studiano con tanta attenzione, come parte del loro stesso patrimonio, questi libri della Sacra Scrittura.
È vero che anche l’Islam si considera figlio di Abramo e ha ereditato da Israele e dai Cristiani il medesimo Dio, ma esso percorre una strada diversa, che ha bisogno di altri parametri di dialogo.
Per ritornare allo scambio di doni natalizi con cui ho cominciato questa meditazione dobbiamo prima di tutto riconoscere che tutto ciò che noi abbiamo e facciamo è un dono di Dio, che si ottiene per mezzo della preghiera umile e sincera, un dono che deve essere condiviso tra etnie diverse, tra religioni in ricerca di una maggiore conoscenza del mistero divino, tra nazioni che cercano la pace e popoli che vogliono stabilire una società in cui regni la giustizia e l’amore. Questo è il programma tracciato dal Concilio Vaticano II per la Chiesa del futuro e noi cattolici chiediamo al Signore di aiutarci a perseverare su questa via.
dal sito:
http://www.jesus.2000.years.de/news_services/liturgy/details/ns_lit_doc_20100216_sac-natale_it.html
UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE DEL SOMMO PONTEFICE
Il sacerdote nella celebrazione eucaristica del Natale in Oriente e Occidente
Come non si possono dividere nella Sacra Scrittura le parole e i gesti, così non si può separare la Parola dall’Eucaristia, la catechesi dai sacramenti, l’adorazione dalla comunione, perché significa separare la natura divina di Cristo da quella umana, quasi il Verbo non si fosse incarnato. La fede cattolica si propone nell’incontro sacramentale, fatto di gesti e parole, di segni, di bellezza, di luci, di immagini, di splendore, come è particolarmente evidente nelle liturgie orientali. Accade nei misteri, secondo tempi e modi diversi per ognuno, l’incontro col Signore, un’esperienza che san Paolo descrive come un processo di percezione della forma e di rapimento, diremmo di estetica ed estasi: «Noi tutti, che, a faccia svelata, rispecchiamo la gloria del Signore, siamo trasformati nella stessa immagine salendo di gloria in gloria, conforme all’operazione del Signore che è spirito» (2Cor 3,18).
La ricerca costante del sacro descrive l’ampio spazio del mistero nel quale il sacerdote si muove quando celebra la sacra liturgia: l’uomo può essere rapito e portato ad esso con la contemplazione o più semplicemente può aderirvi con l’intelletto e la volontà grazie alla rivelazione. Sono alcuni sintomi dello scambio mirabile tra il cielo e la terra, tra il divino e l’umano inaugurato dall’incarnazione del Verbo. Gesù Cristo «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 44,3), il paradosso di colui che è il più bello e nello stesso tempo «non ha apparenza né bellezza per attirare il nostro sguardo» (Is 53,2): è lui, secondo la celebre frase di Dostoevskij, la bellezza redentrice che ci salverà. Niente riesce nel contatto meglio dell’arte creata dalla fede e del volto dei santi da cercare ogni giorno, come esorta la Didachè. Per imparare a vedere e conoscere la bellezza divina, secondo Giovanni Damasceno, non servono i concetti che creano idoli, ovvero la gnosi, ma è necessario lo stupore: si può dire che dall’adorazione abbia inizio l’intelligenza del mistero cristiano. I teologi mistici, da Dionigi Areopagita a Giovanni della Croce, sono partiti dalla forma dell’essere per giungere allo spirito interiore, secondo il metodo dell’incarnazione del Verbo: «la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo» (Gv 1,9); hanno mostrato la coincidenza, in certo modo, tra la mistica e l’estetica. Dio si è rivelato, ha manifestato la sua forma all’uomo; questi, attraverso il di Lui visibile nella liturgia, è attratto a partecipare alla gloria di Dio: «perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle cose invisibili» [1]. Infatti nel Credo si professa la fede in Dio creatore di tutte le cose visibili e invisibili: si noti l’attributo invisibili al sostantivo cose che usualmente è riferito alla materialità, mentre qui riguarda anche la sfera dell’invisibile.
Bisogna domandarsi: l’uomo moderno è capace di capire la liturgia cattolica? Di comprendere che in essa il “Cielo scende sulla terra”, il mistero si fa incontrare e toccare? Romano Guardini dubitava della capacità dell’uomo moderno di comprenderla [2]. L’uomo moderno vive nell’immanentismo, nel materialismo, ma nello stesso tempo avverte l’insoddisfazione, il bisogno di uscire da tale morsa, di trovare una soluzione a tale situazione e allora bisogna fargli intravedere una possibilità di risposta alla domanda che porta dentro di sé. La liturgia è la risposta al bisogno di incontrare il senso della vita, di avvicinarsi al mistero, quasi di avvertirlo ed esserne in qualche modo avvolto, coinvolto: è questo ciò che tocca l’essere umano, ciò che evoca nell’animo umano la nostalgia di assoluto, di divino. Gesù ha rivelato a Nicodemo la sua duplice natura, divina e umana, nell’unità della Persona: «Nessuno è asceso al cielo, se non colui che è disceso al cielo, il Figlio dell’uomo» (Gv 3,13). Nello stesso tempo ha rivelato il fine della sua venuta nel mondo: donare la vita eterna e la salvezza (cf. Gv 3,15-17), far sì che l’essere umano e il cosmo raggiungano Dio; per questo, quindi, doveva aprire un varco, offrire una scala per salire, per compiere l’ascensione verso Dio.
Nella discesa del Verbo si avvera la condivisione, da parte del Logos eterno, della vita dell’essere umano; quindi il mistero si è fatto carne, è entrato nella nostra quotidianità e perciò non dobbiamo avere paura. L’angelo disse a Maria: Non temere, non avere paura. Gesù lo ricordava ai discepoli: non abbiate paura, sono io.
Il ministero del sacerdote, specialmente nella sacra liturgia natalizia, è simile a quello degli angeli: annunciare la Presenza del Salvatore che vince ogni paura. L’essere umano ha paura quando non apre gli occhi sul fatto che il mistero si è fatto carne, è diventato uno di noi. Infatti, se grande è quello che ci è stato promesso, secondo sant’Agostino, ancor più grande è quello che è accaduto: il fatto inaudito di Dio che scende nel mondo assumendo la nostra umanità, condividendola totalmente dall’interno e quindi svelando alla storia il suo significato e imprimendole la direzione finale.
La concezione “cosmica” adorante di Dio presente nel mistero sacramentale era propria di padri come Agostino; di monaci come Nicodemo, della santa montagna dell’Athos; di teologi come Tommaso d’Aquino. Essi si sentivano perciò responsabili dell’introduzione dei fedeli al mistero, vedevano il sacerdote quale amministratore dei misteri, quindi interprete o mistagogo del mistero divino-umano, che è la luce della verità venuta nel mondo. La luce è essa stessa una realtà misteriosa, ed è umile, perché vuol far vedere non se stessa ma tutto il resto; è trasparenza della realtà; è composta di tutti i colori, sì da riuscire trasparente. In modo magistrale, sant’Ambrogio insegna che «La luce dei misteri riesce più penetrante se colpisce di sorpresa anziché arrivare dopo le prime avvisaglie di qualche trattazione previa» [3].
Nella liturgia bizantina acclama il coro dopo la comunione: «Abbiamo visto la vera luce, abbiamo ricevuto lo Spirito celeste, abbiamo trovato la vera fede, adorando la Trinità indivisa, poiché essa ci ha salvati». Per comprendere questo, bisogna seguire l’itinerario che essa compie e che ha come il suo fulcro nella frase del salmo «Nella tua luce noi vediamo la luce» (Sal 36,10). Da quando Dio si è fatto uomo e la forma ha irradiato la divinità, la liturgia comunica quella luce, perché l’essere umano guardando la luce veda, percepisca la luce di Dio. Ecco perché la liturgia è sinonimo di bellezza, di luce – i testi liturgici romani del Natale hanno a tema la luce apparsa, manifestata in Cristo –: come la luce fisica fa funzionare i nostri occhi, che altrimenti al buio, pur perfetti, non funzionerebbero, così è Gesù Cristo, che ha detto: «Io sono la luce del mondo, chi mi segue non cammina nelle tenebre» (Gv 8,12); cioè, io faccio vedere, faccio funzionare gli occhi del vostro spirito; senza di me l’essere umano non vede, resta cieco perché la luce fa essere gli occhi e fa esistere le cose. Se il mondo fosse permanentemente nel buio, tutte le cose del mondo non avrebbero forma ed esistenza, dunque la luce è sinonimo di vita. «Nella tua luce vediamo la luce» vuol dire: nella contemplazione di te noi capiamo, comprendiamo il senso della vita. Siamo al centro del mistero di Dio uno e trino, manifestato in Gesù nell’Epifania, nel Battesimo, nella Trasfigurazione. Cristo comunica attraverso la forma umana trasfigurata lo splendore del Padre, la gloria di Dio. La carne di Cristo è il sacramento del Padre, la carne di Cristo è sacramento della divinità. La discesa (catabasi) e l’abbassamento (kenosi) di Dio va dal mistero dell’incarnazione al mistero della redenzione. Il Natale è l’inizio, anche se la sua celebrazione nell’anno liturgico si è affermata solo dopo che la Chiesa aveva posto al centro del tempo annuale il mistero della Pasqua.
Nel rito bizantino per la preparazione dei doni (proskomidia), in cui la Chiesa commemora gli anni trascorsi da Gesù prima della vita pubblica, si adoperano degli strumenti sacri che ricordano la Natività, come la stella o asterisco, formata da due semicerchi di metallo prezioso, incrociati uno sull’altro, alla cui sommità è posta una croce e, nella parte inferiore, una stelletta, sulla patena o disco del pane – la mangiatoia dove è stato adagiato il Dio bambino –, a simboleggiare l’astro che guidò i Magi alla grotta.
Il luogo della preparazione (protesi) è come la grotta misteriosa in cui il Salvatore si degnò di nascere quando il Cielo venne portato sulla terra: esso divenne grotta e questa si cambiò in cielo [4], in essa fu confezionato per la prima volta il pane del sacrificio. Poi, quanto annunciato nell’ouverture della protesi, la liturgia lo dispiega come in una sinfonia: nella liturgia dei catecumeni il rito del “piccolo ingresso” con l’evangeliario, che sta a significare l’incarnazione con cui il Verbo ha fatto il suo ingresso nel mondo.
Sebbene tale allegoria sia tardiva, il realismo dell’immagine o icona da proporre alla venerazione attraverso gli atti liturgici, al contrario dello spiritualismo simbolico e per certi versi “iconoclasta”, corrisponde all’essenza del cristianesimo che è il mistero presente nel fatto storico della Persona e della vita di Gesù Cristo. La liturgia latina, che pure possedeva analoghe espressioni, dovrebbe recuperarle onde evitare il simbolismo astratto che non attrae l’uomo al mistero. Simbolismo e raffigurazione non sono la stessa cosa, nell’arte come nella liturgia. Dunque, la liturgia manifesta il suo nesso causale con i misteri della vita di Cristo, in cui l’economia salvifica passa dalla cosmicità alla storicità.
Note
[1] Messale Romano, prefazio di Natale I.
[2] Liturgie und liturgische Bildung, Würzburg 1966, pp. 9-18.
[3] Sant’Ambrogio, De mysteriis, 2: SCh 25bis, 156.
[4] Cf. N. Cabasilas, Esposizione della Divina Liturgia,IV: PG 150, 377D-380A.
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/20811.html
Omelia (13-12-2010)
Movimento Apostolico – rito romano
Con quale autorità fai queste cose?
Può l’uomo cogliere con la sua intelligenza la verità, distinguendo la verità superiore da quelli inferiore, quella alta da quella bassa, quella forte da quella debole, quella semplice da quella complessa? Può l’uomo dire questa verità è migliore di quell’altra? Oppure questa è verità e l’altra è falsità? Ancora: può l’uomo dire questa tua verità viene dal di fuori di te e questa invece viene dal di dentro di te, questa è verità immanente e questa è verità trascendente?
Può un uomo dire: ciò che stai facendo tu viene da Dio e ciò che sta facendo quell’altro o noi stessi viene dalla terra? Se l’uomo non fosse capace di questo discernimento, non sarebbe essere intelligente, sapiente, non sarebbe semplicemente uomo, mai potrebbe divenire uomo, dal momento che uomo egli diviene camminando di verità in verità e passando da una verità semplice ad una più complessa, saltando dalla verità della terra alla verità del Cielo.
Inoltre esistono sulla terra i maestri e i custodi, gli insegnanti e i professori della verità. Costoro, poiché si presentano come veri maestri, hanno l’obbligo di discernere sempre verità da non verità, verità immanente da verità trascendente, verità nobile da verità meno nobile. Gesù oggi chiede ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo questo discernimento: che gli dicano se Giovanni è verità di cielo oppure falsità di terra.
Chi è maestro nella verità, che è preposto a discernere, mai si deve tirare indietro. Se è maestro, deve essere maestro sempre, anche al prezzo del suo sangue. La verità obbliga al martirio. Cosa rispondono invece questi maestri a Gesù Signore? Che loro non sanno discernere. Loro non sanno se il battesimo di Giovanni era verità del cielo oppure falsità o menzogna della terra. Non sanno se veniva da Dio o dagli uomini. Loro sono guide del popolo del Signore e non possono non saperlo. Loro sono maestri di verità e sono obbligati a fare sempre professione della più alta verità.
Gesù invece sa, ma non lo dice, perché conosce le loro intenzioni e la loro sordità. Sa che sono come vipere sorde che si turano le orecchie per non sentire. Sa che sono pronti per lapidarlo. L’ora sua non è ancora arrivata e per questo non rivela la verità della sua opera e della sua missione. Anche il cristiano, ognuno secondo il suo dono di grazia e la sua missione o ministero, è maestro di verità e quindi obbligato ad essere persona dal più grande discernimento. Oggi deve discernere che il mistero del Santo Natale è avvolto da tanta falsità di pensiero umano. È obbligato a dire a se stesso la verità del Natale in modo che vivendola Lui, gli altri che non conoscono il mistero, si aprano ad esso secondo la verità con la quale il vero discepolo di Gesù la vive. A nessuno di noi è concesso chiudere gli occhi e vivere il mistero falsamente. Ci obbliga alla verità l’essere noi verità di Cristo Gesù, mistero del suo mistero, celebrazione della sua celebrazione, corpo del suo corpo, nascita della sua nascita.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli e Santi, fateci maestri della Verità