Menorah (per Chanukkah)

dal sito:
http://www.nostreradici.it/chanukkah.htm
CHANUKKAH: UN MIRACOLO CHE SI RIPETE
5771 (2010 – 1-9 DICEMBRE)
Gavriel Levi
Nel giorno di chanukkà che capita di shabbath, i lumi di chanukkà si accendono assieme con quelli dello shabbath e, la sera dopo assieme con quello dell’avdalà1. La vigilia di shabbath si accende prima la chanukkà e dopo i lumi dello shabbath; alla fine dello shabbath si accende prima la torcia dell’avdalà e dopo i lumi della chanukkà.
È evidente che questa regola è collegata con il divieto di accendere il fuoco durante lo shabbath: non si può accendere nessun fuoco dopo che è cominciato lo shabbath; non si può accendere nessun fuoco finché lo shabbath non è veramente finito. Tuttavia, se ci riflettiamo sopra, questa regola collega, con un significato più ampio e più profondo, i tre fuochi e le tre luci che accendiamo nelle nostre case e che, in modi diversi, rappresentano la forza creativa dell’uomo e la vita di Israele.
Solo se si è acceso il lume di chanukkà si può accendere il lume dello shabbath; solo se si è acceso il lume dell’avdalà si può accendere il lume di chanukkà.
Se si è lottato per rimanere ebrei, se ci si è conquistati il miracolo, allora si può rinunciare ad accendere ogni fuoco e si può godere del lume che deriva direttamente dai giorni della creazione e che riassume, già in sé, la luce del Mashiach.
Se si è acceso il fuoco che permette di accendere ogni fuoco nella settimana, che è stato regalato da Dio al primo uomo e che ci aiuta a distinguere, con i nostri mezzi, la luce dal buio, allora si può accendere, senza più divieti, il fuoco del miracolo.
Le luci della chanukkià devono rimanere divise e distinguibili l’una dall’altra: ogni giorno è un giorno completo di vita; ogni generazione è completa in se stessa ed è necessaria perché la generazione precedente possa vivere nella successiva.
Le luci dell’avdalà devono essere unite e indistinguibili l’una dall’altra: ogni giorno, anche il più banale, è parte del giorno completo che è tutto shabbath.
La luce dell’avdalà è la luce di un fuoco che si accende dopo lo shabbath; la sua benedizione è centrata nella creazione delle « luci » del fuoco e sulla nostra azione di guardarsi le mani, nel buio e alla luce.
La luce di chanukkà è la luce che si accende per rendere manifesto il miracolo; la sua benedizione riguarda l’obbligo di ripetere il miracolo e di preparare la luce di un giorno per farla ardere otto giorni.
Non può esistere la festa di chanukkà senza dentro una vigilia di shabbath, senza uno shabbath e senza un’uscita di shabbath.
Il miracolo di chanukkà (e cioè la luce di un giorno che deve durare fino al termine dei giorni, ed ancora un giorno di più) contiene dentro di sé: a) la luce del fuoco che esiste quando nessun fuoco può essere acceso dall’uomo; b) la luce di un fuoco che deve essere ricreato, per dividere il giorno umano dalla notte umana; il giorno di shabbath dai sei giorni dell’azione; le mani dell’uomo dalla creazione di Dio.
Il miracolo di chanukkà contiene anche due luci: la luce di un fuoco che non esiste (perché è stato acceso prima); la luce di un fuoco creato da D-o (ma acceso dagli uomini) perché l’uomo possa uscire, senza paura, nel mondo degli uomini.
Tra l’inizio di chanukkà e l’inizio dello shabbath esiste un momento di intervallo: noi ebrei abbiamo compiuto il nostro miracolo, quando il sole non è ancora calato; a D-o viene lasciato il tempo per compiere il suo miracolo, finire la creazione e portare il Mashiach.
Tra la fine dello shabbath e l’inizio di chanukkà esiste un altro momento di intervallo: la storia di tutti i giorni si è ripetuta; l’ebreo può accettare il dono del fuoco direttamente da D-o e, ancora una volta, ripetere il miracolo.
Se noi riusciamo a conservare l’olio per un giorno, anche quando ci sembra che il buio durerà più a lungo e quando ci sembra che non ci sia nessun posto per accendere una luce, D-o vedrà questa luce per otto giorni.
Se non conserviamo l’olio nel buio (ma questo è impossibile perché in fondo lo conserviamo anche senza saperlo) allora D-o dovrà fare il miracolo da solo e dovrà riprendere il fuoco di chanukkà da quello donatoci per l’avdalà.
Un cieco adempie al precetto di chanukkià partecipando, se ne ha la possibilità, con una perutà, all’accensione di un altro ebreo e, se non può perché è solo, accendendo la chanukkià, con qualunque aiuto, da solo.
Per quale luce accende la chanukkià, un cieco?
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Fonte: morasha.it
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La giornata dello Shabbat si apre e si chiude con un’ accensione di lumi. All’imbrunire del venerdì si accendono due candele (in teoria ne basterebbe una) recitando la benedizione che termina con « e ci hai comandato di accendere il lume dello Shabbat ». Al termine dello Shabbat, nella cerimonia dell’Avdalà, la separazione tra il giorno di festa e quello feriale si accende una torcia formata da più luci che intrecciandosi formano un’unica fiamma. Su questo lume si benedice il Signore « creatore dei luminari di fuoco ». Nel Talmud Jeruscialmì (citato anche dal compendio « Torà Temimà » ai primi versi della Genesi) si ricerca la fonte del fatto che nella Avdalà si dice la benedizione sul lume solo dopo che il lume è acceso. Questo lascia supporre che nell’altro caso, l’accensione dei lumi dello Shabbat, prima si dica la benedizione e poi si accenda. In effetti ciò avviene quasi esclusivamente secondo il rito di Roma (quasi tutti gli altri oggi prima accendono e poi dicono la benedizione).
dal sito:
http://www.taize.fr/it_article3268.html
Che significa «accogliere il regno di Dio come un bambino»?
Lettera da Taizé: 2006/2
Un giorno, delle persone conducono da Gesù dei bambini affinché li benedica. I discepoli vi si oppongono. Gesù s’indigna e ingiunge loro di lasciare che i bambini vadano a lui. Poi disse loro: «Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Marco 10,13-16).
È utile ricordarsi che, un po’ prima, è a questi stessi discepoli che Gesù aveva detto: «A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio» (Marco 4,11). A causa del regno di Dio, hanno lasciato tutto per seguire Gesù. Cercano la presenza di Dio, vogliono far parte del suo regno. Ed ecco che Gesù li avverte che respingendo i bambini, stanno giustamente per chiudere davanti a loro la sola porta d’ingresso a quel regno di Dio tanto desiderato!
Ma che significa «accogliere il regno di Dio come un bambino»? In generale si comprende così: «accogliere il regno di Dio come lo accoglie un bambino». Questo risponde ad una parola di Gesù che troviamo in Matteo: «Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo 18,3). Un bambino si fida senza riflettere. Non può vivere senza fidarsi di chi lo circonda. La sua fiducia non ha nulla di una virtù, è una realtà vitale. Per incontrare Dio, ciò che abbiamo di meglio è il nostro cuore di bambino che è spontaneamente aperto, osa domandare con semplicità, vuole essere amato.
Però si può anche comprendere la frase così: «accogliere il regno di Dio come si accoglie un bambino». In effetti, il verbo greco ha in generale il senso concreto d’«accogliere qualcuno», come si può costatare qualche versetto prima dove Gesù parla d’«accogliere un bambino» (Marco 9,37). In questo caso, Gesù paragona all’accoglienza di un bambino l’accoglienza della presenza di Dio. C’è una connivenza segreta tra il regno di Dio e un bambino.
Accogliere un bambino vuol dire accogliere una promessa. Un bambino cresce e si sviluppa. È così che il regno di Dio non è mai sulla terra una realtà completa, ma piuttosto una promessa, una dinamica e una crescita incompiuta. Poi i bambini sono imprevedibili. Nel racconto del Vangelo, essi arrivano quando arrivano, e a quanto sembra non è al buon momento secondo i discepoli. Tuttavia Gesù insiste che, poiché sono lì, bisogna accoglierli. È così che dobbiamo accogliere la presenza di Dio quando si manifesta, che sia il buono o cattivo momento. Bisogna stare al gioco. Accogliere il regno di Dio come si accoglie un bambino significa vegliare e pregare per accoglierlo quando viene, sempre all’improvviso, a tempo e fuori tempo.
Perché Gesù ha mostrato un’attenzione particolare ai bambini?
Un giorno, i dodici apostoli discutono per sapere chi è il più grande (Marco 9,33-37). Gesù, che ha capito le loro riflessioni, dice loro una parola disorientante che sconvolge e scuote le loro categorie: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti».
Alla sua parola Gesù unisce il gesto. Egli va a prendere un bambino. È forse un bambino che trova abbandonato all’angolo di una strada di Cafàrnao? Lo prende, lo «pone in mezzo» a quella riunione di futuri responsabili della Chiesa e dice loro: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me». Gesù s’identifica con il bambino che ha appena abbracciato. Afferma che «uno di questi bambini» lo rappresenta il meglio, a tal punto che accoglierne uno di loro è come accogliere lui stesso, il Cristo.
Poco prima, Gesù aveva detto questa parola enigmatica: «Il figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini» (Marco 9,31). «Il figlio dell’uomo» è lui stesso, e allo stesso tempo sono tutti i figli d’uomo, cioè tutti gli esseri umani. La parola di Gesù può essere così compresa: «Gli esseri umani sono consegnati al potere dei loro simili». Durante l’arresto e nei maltrattamenti inflitti a Gesù, si verificherà una volta di più, e in maniera drammatica, che gli uomini fanno ciò che vogliono con i loro simili che sono senza difesa. Che Gesù si riconosca nel bambino che è andato a prendere, non è allora motivo di stupore, poiché, così spesso, anche i bambini sono consegnati senza difesa a coloro che hanno potere su di essi.
Gesù mostra un’attenzione particolare ai bambini perché vuole che i suoi abbiano un’attenzione prioritaria per quanti mancano del necessario. Fino alla fine dei tempi, saranno i suoi rappresentati sulla terra. Quel che si farà a loro, è a lui, il Cristo, che lo si farà (Matteo 25,40). I «più piccoli dei suoi fratelli», quelli che contano poco e che si trattano come si vuole perché non hanno potere né prestigio, sono la via, il passaggio obbligato, per vivere in comunione con lui.
Se Gesù ha posto un bambino in mezzo ai suoi discepoli riuniti, è anche affinché essi accettino d’essere piccoli. Lo spiega loro nell’insegnamento che segue: «Chiunque vi darà un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa» (Marco 9,41). Andando sulle strade per annunciare il regno di Dio, anche gli apostoli saranno «consegnati nelle mani degli uomini». Non sapranno mai prima come saranno accolti. Tuttavia anche per coloro che li accoglieranno con un semplice bicchiere d’acqua fresca, senza prenderli molto seriamente, saranno portatori di una presenza di Dio.
dal sito:
http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=2295
Può Dio ridere ?
di Bruno Forte
Sul riso e il sorriso di Dio. «Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione del riso e del sorriso… Chi è libero da sé, e fa di quanto ha dono e servizio, sa ridere e far ridere con gioiosa scioltezza. E questo ci porta alla vera radice del ridere e del sorridere…».
L’ebraismo è anche la religione del riso: Scholem Aleichem, scrittore ebreo autore di deliziosi racconti dove il pianto sa mescolarsi delicatamente al riso e al sorriso (basti ricordare Cantico dei Cantici. Un amore di gioventù in quattro parti, Adelphi, Milano 2004), non esita a dire: “L’identità ebraica è uno scoppio di risa”. Non a caso il primo ebreo per nascita ha per nome Isacco, Yizhaq, che vuol dire “colui cui Dio sorride” o “possa Dio sorridere”, dove il riferimento è al riso di Sara di fronte alla notizia che da lei bella, ma ormai non più giovane, nascerà un figlio, ma è non di meno al sorriso di Dio, che scompiglia i calcoli umani e si diverte a sfidare Abramo a credere nell’impossibile possibilità del Suo amore. Una delle feste più care alla coscienza collettiva d’Israele è quella di “purim”, festa della gioia per il dono della salvezza ricevuta da Dio per mano di una donna, Ester, festa dello scampato pericolo e del rivolgimento delle sorti, dove il cattivo Aman muore sul palo cui voleva appendere il giusto Mardocheo, e perciò festa dello scambio dei destini, rappresentato mediante le maschere in cui ciascuno deve rappresentarsi nel segno del suo contrario (con fine auto-ironia il professore serioso si vestirà da pagliaccio, il ricco avaro da generoso mendicante, il poveraccio da gran signore, da donna giovane e bella chi obiettivamente non sembra più esserlo…). L’ebreo che ride di Moni Ovadia (Einaudi, Torino 1998) è una gustosissima raccolta di esempi di questa sapienza del riso e del sorriso, che sa dare consigli anche all’Altissimo: come quando il povero Ebreo, cui è capitato veramente tutto il negativo possibile, sussurra timidamente all’Eterno queste parole: “Noi Ti ringraziamo, Signore del cielo e della terra, d’averci scelto e prediletto fra tutti i popoli. Ma un’altra volta, non potresti scegliere qualcun altro?”
Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione del riso e del sorriso: basti a mostrarlo una figura come quella di San Francesco, “il giullare di Dio”, o una tradizione, diffusa nel Medio Evo europeo, quale quella del “risus paschalis”, che prevedeva il racconto del maggior numero possibile di barzellette durante la notte di Pasqua (non tutte proprio edificanti…) perché dappertutto esplodesse la gioia, solo sentimento consono alla vittoria pasquale della vita. Forse anche per questo San Filippo Neri, detto “Pippo il buono”, non riusciva a vedere altra via per l’annuncio e la sequela di Gesù che quella di un amore lieto, capace di vivere e dare gioia, di ridere e di sorridere davanti al mondo e alla vita. San Tommaso Moro, a sua volta, Lord Cancelliere d’Inghilterra morto sul patibolo per non aver voluto cedere ai compromessi morali, alle sopraffazioni e alle lusinghe del Sovrano, non esita a pregare così: “Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da mangiare. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami un’anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male, ma piuttosto trovi sempre modo di rimetter le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama ‘Io’. Dammi, Signore, il senso del buon umore, concedimi la grazia di scoprire un po’ di gioia e di farne partecipi gli altri”.
Se ci si chiede perché ebraismo e cristianesimo sono religioni del riso e del sorriso, la risposta può forse essere trovata nel fatto che riso e sorriso possono nascere solo nello spazio che sta tra la prossimità e la lontananza. Se vivi solo la prossimità, ne resti schiacciato, non riuscendo a respirare e a guardare oltre le sfide e i problemi. Se vivi solo la lontananza, rischi di costruirti un mondo ideale, evadendo dalla realtà. Se vuoi aprirti alla verità della vita, devi stare a metà tra prossimità e lontananza: e allora sorriderai. È la condizione del popolo ebraico, totalmente radicato tra gli altri popoli, e tuttavia popolo eletto. È lo scandalo del Cristo, Uomo tra gli uomini, appeso alla Croce e tuttavia Figlio di Dio. Questi paradossi creano lo spazio del riso e del sorriso. Il ridere può essere salvifico, come quello dell’Eterno che agisce con misericordia di fronte all’ottusa incapacità di accogliere il nuovo dimostrata da Sara e da Abramo; o conoscitivo e liberatorio, come quello di Abramo e Sara che finalmente cominciano a capire qualcosa davanti alla fantasia dell’Eterno.
In realtà, ad aver paura del riso non è la fede, che per sua natura deve essere umile e aperta all’Eterno, terrena nella sua povertà e celeste nei suoi orizzonti e nella grazia che la pervade, ma il potere di questo mondo, che – proprio perché umano, troppo umano – teme di esser colto in contraddizione nello scontro fra le sue pretese e la sua obiettiva limitatezza. Chi è libero da sé, e fa di quanto ha dono e servizio, sa ridere e far ridere con gioiosa scioltezza. E questo ci porta alla vera radice del ridere e del sorridere, nel gioco sempre vivo tra la prossimità e la lontananza: questa radice, linfa profonda che unisce ebraismo e cristianesimo, è il comandamento dell’amore. Amare vuol dire fare spazio all’altro, fare dei due uno: ovvero, restare lontani nella massima vicinanza e vicini nella lontananza più grande. Qui c’è spazio per il riso, perché si guarda all’altro con la lontananza del rispetto e la prossimità della tenerezza che è propria degli occhi dell’amore. Perciò, i paradossi dell’amore sono quelli del sorriso: l’amore incapace di gioia non può esistere; i suoi eccessi e le sue tristezze sono gli stessi del sorriso e del pianto, dell’amarezza e del riso. E qui si coglie forse una differenza non di poco conto tra la tradizione ebraico-cristiana e l’Islàm, religione che insiste sul dualismo fra il mondo e Dio, piuttosto che sul gioco amoroso della lontananza e della prossimità: il Corano stesso è un testo scritto in cielo, sceso attraverso il profeta Maometto, proprio per questo estraneo a qualsivoglia spazio intermedio tra prossimità e lontananza. Ecco perché nell’Islàm più radicale il sorriso rischia di essere escluso. Certo, c’è l’eccezione dei “sufi”, i mistici che cercano nella parola “amore” una via per superare l’assenza del riso. Ma dove non c’è sorriso in questo mondo, può esserci anche più facilmente una deriva fondamentalista, che giunge fino alla follia di aspettarsi di ridere fra breve in cielo mentre ci si fa saltare in aria con un mucchio di innocenti condannati a morire per niente…
È il sorriso sugli altri e il riso su noi stessi che ci aiuta, infine, ad essere umili: ce lo fa capire una curiosa leggenda rabbinica. Essa narra della lettera “aleph’ – la più eterea e volatile dell’alfabeto ebraico, la più modesta – che unica fra tutte si astenne da ogni pretesa ad essere scelta per iniziare il racconto della creazione, quando l’Eterno domandò all’intera schiera dell’alfabeto quale fra le lettere volesse essere la prima nell’opera del creato. Fra le pretendenti fu scelta la “beth” – tanto che la prima parola della Torah è ‘berešit’, ‘in principio’ – perché con essa comincia ogni benedizione del Santo (Aberakah’) e perché essa è come un quadrato aperto sul lato sinistro, nella direzione cioè in cui in ebraico prosegue la scrittura, quasi a dire che l’inizio non è compimento, ma domanda ed attesa. Il racconto narra che l’Eterno volle ricompensare la Aaleph’ per la sua umiltà, e lo fece dandole il primo posto nel Decalogo: AIo sono il Signore Dio tuo’ – la parola dell’eterno fondamento invisibile, che viene ad affacciarsi nel tempo grazie alla rivelazione ed a stabilire l’alleanza fra il Dio vivente e il Suo popolo - comincia infatti con ‘io’, ‘anochì’, la cui iniziale è ‘‘leph’ (cf. L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei – I: Dalla creazione al diluvio, a cura di E. Loewenthal, Adelphi, Milano 1995, 27s).
Se dunque la storia dell’uomo e del mondo inizia con la ‘beth’ ed è perciò sempre aperta in direzione del suo sviluppo e approfondimento, la verità di Dio ci viene offerta pienamente solo a partire da quell’‘aleph’, con cui inizia l’‘Io’ della Sua sovrana autocomunicazione. Il racconto viene a dirci allora che se l’avventura di ogni conoscenza inizia dall’abisso del cuore umano in ricerca, essa si compie veramente soltanto quando è raggiunta dall’offerta umile della verità, custodita nel mistero di Dio. L’‘aleph’ viene dopo, ma illumina la ‘beth’ che la precede: scherzi dell’Onnipotente che si rivela nella debolezza, dell’Eterno che entra nel tempo, dell’Infinito che nasce Bambino in una povera grotta. Scherzi da Dio, verrebbe da dire. Risi e sorrisi dell’Altissimo che sembrano voler contagiare la creatura per renderla ilare e lieta, proprio così libera e salva. Non è forse questo ciò che avvenne ad Elia? Quando lui, il profeta del fuoco, il testimone di Dio nel tempo dell’apparente sconfitta di Dio, giunge finalmente al monte santo dove vivrà l’esperienza di Dio, che cosa l’attende? L’Eterno non è dove l’avresti cercato, nel vento, nel terremoto o nel fuoco. Non è neanche in una “brezza leggera” come amano ripetere – sbagliando – le traduzioni dall’ebraico. Se leggiamo l’originale scopriamo che la via del suo passaggio è “voce del silenzio”. Elia cerca una rassicurazione, una parola, Dio sovverte tutti gli schemi e si fa silenzio. Nella prossimità si mostra come lontananza. Nella lontananza, come prossimità. È quello peraltro che fa in tutta la Bibbia, il libro della Parola, che è però anche inseparabilmente – e forse più ancora – il libro del divino silenzio. Dio, che quando dovrebbe parlare tace, e quando dovrebbe tacere parla, è sovversivo, spiazzante. In un mondo come il nostro, in cui c’è sciupìo di parole – come dimostra la retorica dei signori della guerra e dei loro partners, accecati dal fondamentalismo terrorista – c’è bisogno di ascoltare il silenzio: il silenzio eloquente di un sorriso… o il sottile rumore di un riso… o forse anche il silenzio di un’ironia carica di dolore e di amore. Come quella del saggio ebreo che scultoreamente afferma: “L’uomo pensa, Dio ride”. E di noi stessi, che dopo tutte queste serissime considerazioni, non possiamo non pensare a quante risate Egli si sarà fatto per la fatica della nostra mente intorno a un Suo riso, a un Suo sorriso…
(Teologo Borèl) Aprile 2006 – autore: mons. Bruno Forte
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/20834.html
Omelia (03-12-2010)
Eremo San Biagio
Dalla Parola del giorno
Liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno.
Come vivere questa Parola?
Tutti, chi più chi meno, siamo dei ciechi che brancolano nel buio. E questo è tanto più fitto quanto meno se ne è consapevoli.
L’Avvento è il tempo propizio per prendere coscienza di questa realtà, individuandone le caratteristiche personali: miopia che impedisce di spaziare oltre i propri gretti interessi? Presbiopia che rende difficile accorgersi dell’umile e silenzioso dono di chi ci vive accanto? Astigmatismo che sfoca i contorni in un relativismo in cui annega qualunque valore? Difetti visivi di vario genere che rischiano di far perdere la direzione o di far ristagnare in una situazione di inerzia spirituale.
Scovare le ombre, a cui forse ci siamo andati via via adattando, è solo un aspetto di quanto l’Avvento ci sollecita a fare: il suo è un richiamo ad accorgerci e ad accogliere Cristo-Luce che ha fatto irruzione nella nostra storia perché gli occhi ottenebrati possano tornare a vedere.
Una presenza che diventa attuale, e quindi sanante, per ogni uomo nella misura in cui se ne prende coscienza e ci si rende a propria volta presenti a Lui. Si tratta di prendere sul serio e di alimentare quell’attesa vigile, a cui invitava la liturgia di domenica scorsa. Allora gli occhi si aprono e si scoprono, con stupore, le numerose impronte disseminate sulla nostra strada a documentare i suoi ripetuti passaggi.
Oggi, nella mia pausa contemplativa, verificherò lo stato della mia vista spirituale. Esporrò quindi la mia situazione al Signore perché possa sanarmi.
Signore, quanti ciechi hai incrociato sulla tua strada durante la tua esistenza terrena e là dove hai trovato disponibilità e fede viva, hai ridonato la sanità! Ecco, oggi, sono io a invocare: « Fa’ che io veda! », o meglio « Fa’ che io ti veda! ».
La voce di un dottore della Chiesa
Il cieco desidera dal Signore non del denaro, ma la luce. Senza di questa, tutto il resto gli sembra di ben poco valore. Imitiamo costui per essere illuminati esteriormente e interiormente.
S. Gregorio Magno