Archive pour novembre, 2010

Natale

Natale dans immagini sacre 158

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Publié dans:immagini sacre |on 30 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

Colui che cavalca le nubi oggi gattona come un bimbo

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2009/298q01b1.html

Colui che cavalca le nubi oggi gattona come un bimbo

di Manuel Nin

La tradizione liturgica siro-occidentale celebra la « nascita di nostro Signore nella carne », in un periodo liturgico che inizia il 25 dicembre e si protrae fino al 5 gennaio, con due feste:  delle Congratulazioni alla Madre di Dio il 26 e della Circoncisione del Signore il 1° gennaio. I testi dell’ufficiatura del Natale sottolineano molto chiaramente la divino-umanità del bimbo nato a Betlemme, e la scelta delle letture bibliche è tutta in chiave cristologica.
I testi sottolineano con immagini volutamente contrastanti il mistero dell’incarnazione del Verbo eterno di Dio:  « Il tuo Figlio, il Primo e l’Ultimo, Dio ed uomo, velato e manifesto »; « tu che mandi la pioggia e la rugiada sulla terra, adesso la figlia dell’uomo ti nutre con delle gocce di latte »; « tu che siedi su un trono di gloria e fai muovere tutte le cose, adesso gattoni a Betlemme come un bimbo ».
Nell’ufficiatura notturna della festa sono compresi diversi madrashe – inni siriaci – attribuiti a sant’Efrem di Nisibi; in essi, con immagini teologicamente molto profonde, il poeta teologo siriaco morto nell’anno 373 canta il mistero della nascita di Cristo. Nel primo, che corrisponde anche al primo degli inni sul Natale dello stesso Efrem, troviamo, in ben novantanove strofe,  i  grandi  temi  della  fede  cristiana.
La nascita di Cristo è compimento di tutte le profezie dell’Antico Testamento che guardano sempre alla venuta di Cristo:  « La Vergine ha partorito l’Emmanuele a Betlemme. La parola proferita da Isaia è divenuta oggi realtà. Del salmo cantato da Davide c’è oggi il compimento. Della profezia di Balaam c’è oggi la spiegazione. L’Oriente annunciato da Zaccaria brilla oggi a Betlemme. La verga di Aronne è germogliata, il suo mistero oggi è stato spiegato:  è il grembo vergine che ha partorito ».
Efrem si sofferma diverse volte su due aspetti importanti. In primo luogo la nascita di Cristo avvicina la gloria di Dio e l’umiltà della terra:  « Oggi è nato un bimbo, il suo nome è Meraviglia. È proprio una meraviglia di Dio che si sia manifestato come un infante ». In secondo luogo il tema della nascita verginale di Cristo, nuovo Adamo:  « Lo Spirito ne ha dato una somiglianza nel verme, la cui generazione è senza accoppiamento. Del tipo rappresentato dallo Spirito Santo v’è oggi intelligenza. Adamo aveva posto la corruzione sulla donna uscita da lui. Oggi ella ha sciolto la sua corruzione partorendogli il Salvatore. Una terra vergine aveva partorito Adamo, capo della terra. Una vergine oggi ha partorito l’Adamo capo del cielo ».
Per una ventina di strofe dell’inno Efrem si sofferma, a partire dal vangelo di Luca sui pastori di Betlemme, sul tema della veglia. La tradizione siriaca, infatti, dà agli angeli e ai monaci l’appellativo di « vigilanti », cioè coloro che non dormono nell’attesa del Signore, che Efrem chiama anche il Vigilante:  « I vigilanti oggi sono nella gioia, perché è venuto il Vigilante a svegliarci. Chi dormirà in questa notte nella quale veglia l’intera creazione? Poiché Adamo aveva introdotto nella creazione il sonno della morte mediante i peccati, scese il Vigilante a svegliarci dal torpore del peccato ».
Efrem mette in guardia contro una falsa veglia ed elenca tutti coloro che vigilano non nell’attesa di Cristo ma in vista del peccato:  « Il ladro è vigile e riflette; è sveglio anche il mangione; è sveglio anche il ricco il cui sonno è perseguitato da mammona; è sveglio anche Giuda tutta la notte per vendere il sangue del Giusto. Satana insegna, fratelli miei, una veglia al posto della veglia, a dormire nelle cose buone, e ad essere svegli in quelle odiose ».
Riprendendo l’immagine dei pastori nel vangelo di Luca, Efrem ribadisce:  « State svegli voi, come luci, in questa notte di luce, perché anche se nero è il suo colore esteriore, essa risplende per la sua forza interiore ». Attraverso un altro aspetto tipico della tradizione siriaca, Efrem introduce poi il tema della limpidezza di cuore a cui Cristo chiama ognuno dei cristiani:  « Limpida fu la notte nella quale si levò il Limpido venuto a renderci limpidi. Non introduciamo nella nostra veglia nulla che possa intorbidarla. Il sentiero dell’orecchio diventi limpido, la vista dell’occhio pura, il pensiero del cuore santo e l’eloquio della bocca sia passato al filtro ».
Nelle ultime strofe Efrem canta l’elogio della festa:  « Questo è il giorno della salvezza; questa è la notte di riconciliazione, la notte del Mite e dell’Umile; questo è il giorno di perdono e di riconciliazione; questo è il giorno della venuta di Dio presso i peccatori; questo è il giorno nel quale si è fatto povero per noi il Ricco ». Infine l’ultima strofa riassume tutto il mistero della salvezza:  « Oggi si è impressa la divinità nell’umanità, affinché anche l’umanità fosse intagliata nel sigillo della divinità ».
L’icona della festa nella tradizione siro-occidentale riprende la disposizione di tutta l’iconografia cristiana orientale e occidentale per il mistero di Natale:  il bambino viene fasciato e collocato in un sepolcro; Maria sdraiata contempla il neonato. Giuseppe in un angolo, in atteggiamento pensante, guarda la scena nel dubbio. Nell’altro angolo due donne lavano il bambino in una vasca che è un catino battesimale. Gli angeli, nella parte superiore dell’icona, annunciano la nascita di Cristo ai pastori e ai magi.

(L’Osservatore Romano 25 dicembre 2009)

Publié dans:meditazioni, OSSERVATORE ROMANO (L') |on 30 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

Chiedete e vi sarà dato (Lc 11,1-13) [Padri della Chiesa]

dal sito:

http://www.figliedellachiesa.org/Default.aspx?itemid=187885&pageid=page12458

Chiedete e vi sarà dato (Lc 11,1-13)

Padri della Chiesa

        Converrebbe esaminare piuttosto a fondo il cosiddetto Antico Testamento semmai vi si può trovare la preghiera di uno che chiami Dio col nome di Padre. Noi almeno per ora, per quanto cercammo, non abbiamo trovato. Non vogliamo dire che Dio non venga chiamato Padre o che coloro i quali si sono accostati alla Parola di Dio non siano chiamati figli di Dio, ma nel senso che nella preghiera non abbiamo in alcun modo trovato quella libertà di parola dimostrata dal Salvatore nel chiamare Dio: Padre. (…) Ora, non crediamo che tali espressioni ci siano state insegnate per dirle soltanto nel momento stabilito della preghiera, ma se intendiamo quanto fu spiegato … a commento di quel pregare senza interruzione (cfr 1Ts 5.17), tutta la vita di noi oranti dica incessantemente: Padre nostro che sei nei cieli, non avendo affatto sulla terra la cittadinanza, ma completamente nei cieli che sono i troni di Dio, perché il Regno di Dio è fondato in tutti coloro che portano l’immagine del Celeste (1Cor 15.49): per questo sono diventati celesti (Origene, La preghiera 22.1,5). 
        Quando dunque il Signore ci prescrive di chiamare nella preghiera Dio ‘Padre’, mi pare che non faccia niente altro che prescriverci il più alto ed elevato modello di vita: la verità infatti non ci insegna a mentire, così da farci dire quello che non siamo e chiamare come nostro quello che non ci è stato dato dalla natura; ma ci ammaestra in modo che chiamando nostro Padre l’incorruttibile, il giusto, il buono, mostriamo una vera parentela con lui, attraverso la rettitudine della nostra vita. Vedi quanta preparazione e qual genere di vita sono necessari per noi?        
        Quale e quanto zelo di pietà occorre perché innalzata la nostra coscienza a tale livello di fiducia, osiamo dire a Dio che è Padre? Se infatti badi alle ricchezze, se sei occupato negli inganni terreni, o vai in cerca della gloria da parte degli uomini, se sei schiavo delle brame delle passioni e con tutto ciò pronunci con le labbra una tale preghiera, che cosa pensi che dica chi guarda nella nostra vita ed ascolta tale preghiera? (Gregorio di Nissa, La preghiera del Signore 2). 
        Rivolgiti dunque direttamente al Signore: col pregare bussa, chiedi, insisti presso lo stesso Signore col quale riposano i suoi servi. (…) Quando sarai giunto ai tre pani, cioè a cibarti della Trinità e ad intenderla, avrai di che vivere e di che nutrire gli altri. Non devi temere un forestiero che arriva da un viaggio, ma accogliendolo cerca di farne un concittadino, un membro della tua famiglia, senza temere di esaurire i tuoi viveri. Quel pane non avrà fine, ma porrà fine alla tua indigenza. È pane Dio Padre, è pane Dio Figlio, è pane Dio Spirito Santo. Eterno è il Padre, coeterno il Figlio, coeterno lo Spirito Santo. Immutabile è il Padre, immutabile il Figlio, immutabile lo Spirito Santo. È creatore non solo il Padre, ma anche il Figlio e lo Spirito Santo.        
        È pastore e datore di vita non solo il Padre, ma anche il Figlio e lo Spirito Santo. È cibo e pane eterno tanto il Padre che il Figlio che lo Spirito Santo. Impara e insegna: vivi e nutrisci. Dio il quale dà a te, non ti dà di meglio che se stesso. O avaro, che cos’altro di più cercavi? Anche se tu chiedessi qualche altra cosa, come ti basterebbe dal momento che non ti basta Dio? (Agostino Disc. 105.4).
 
Altri autori cristiani
        Gesù vive un rapporto nuovo col Padre, un rapporto intimo ed esclusivo, che esprime la sua identità più gelosa; c’è un segreto che unisce Gesù e il Padre: Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre e nessuno sa chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare (Lc 10.22). Il discepolo dunque chiede di entrare in questo dialogo misterioso ed esclusivo; chiede di presentarsi davanti a Dio col volto di Gesù. E Gesù lo concede: ‘Quando pregate dite Padre …’ È la parola che egli usa regolarmente; la parola che esprime il mistero del figlio unigenito.
        Poterla usare significa essere partecipi dell’esperienza di Cristo e fare con lui una cosa sola. La preghiera non è una semplice attività che l’uomo possa compiere accanto ad altre; nella preghiera l’uomo diventa se stesso nel modo più autentico, si trova senza maschere, esprime il nucleo più intimo della sua persona. E per il cristiano questo nucleo più intimo è il suo essere ‘figlio’, con un atteggiamento di piena sottomissione e di altrettanto piena fiducia. (Sirboni-Monari, Lampada ai miei passi-C p. 222)
        Ma Gesù ci ripete: continua a chiedere, perché già il chiedere è una grazia, già il chiedere ti fa figlio, già il chiedere è l’esaudimento; se non trascuri questa preghiera, anche materiale, povera, ripetitiva, diverrai misteriosamente figlio, e riceverai pure il pane per nutrire altri, anche se sei stanco, arido, povero. Non si tratta, in questo brano, di una preghiera facile, tranquilla, gioiosa, che nutre, ma di una preghiera sofferta. Tuttavia è attraverso di essa che Dio ci dona il vero pane, cioè la consapevolezza della nostra condizione filiale, il dono di vivere abbandonati al Padre, con la certezza che egli non ci lascerà mai soli. (C.M. Martini, Briciole dalla tavola della Parola p. 43)

Publié dans:biblica, meditazioni |on 30 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno gentianella_amarella_2367

Autumn Gentian

http://www.floralimages.co.uk/recent2.htm

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Omelia per il 30 novembre 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16742.html

Omelia (30-11-2009) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno

« Gesù vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me» »

Come vivere questa Parola?
All’inizio dell’avvento, torna quanto mai opportuno il richiamo evangelico relativo alla festa dell’apostolo Andrea. Gesù non è ancora conosciuto. Ha appena iniziato a percorrere le strade della Palestina, ed eccolo sostare presso la barca di due uomini intenti al lavoro. Con gesto largo, essi lanciano in mare le loro reti, nella speranza di ritrarle cariche di pesci: il sostentamento per la famiglia. Il loro pensiero è totalmente assorbito dall’attività che stanno svolgendo, e, certamente, non fanno molto caso a quello sconosciuto che li sta osservando. Eppure è proprio là, nel vivo del loro impegno che Dio li raggiunge.
Il ‘mare’, la vita di ogni uomo, con le sue preoccupazioni, i suoi impegni, le sue incognite… E ‘sulla riva’, in una prossimità non ancora pienamente percepita ma reale, uno sconosciuto ci interpella… Non è difficile riconoscerci in questo quadretto esistenziale! Forse qualche perplessità può venire dal termine ‘sconosciuto’: noi Gesù lo conosciamo, abbiamo aderito a lui con il battesimo, lo incontriamo ogni domenica nell’Eucaristia…
Ma siamo proprio così certi di conoscerlo di quella conoscenza viva, esperienziale a cui rimanda la Bibbia? L’avvento ci dice che Lui è alle porte, la porta della mia e tua casa, del mio e tuo cuore; ‘sulla riva’ della nostra vita, cioè vicino a noi. È lì, nel vivo della nostra esistenza che ci contatta, ci interpella, ci sollecita a una sequela che trasformi il nostro esistere e il nostro operare in impegno per la costruzione di un mondo più giusto, più umano.
Forse questo avvento viene a dirci: accorgiti che nella tua lotta per l’esistenza per il bene per la giustizia, non sei solo. Io sono venuto, io vengo, io verrò perché nessuno si dibatta nella solitudine, nel non-senso, nel vuoto. Accoglimi!

Apri i miei occhi, Signore, perché mi accorga della tua presenza. Apri i miei orecchi, perché percepisca la tua voce che chiama. Apri il mio cuore, perché ti risponda con slancio ed amore: eccomi!

La voce di dottore della Chiesa
È una obbedienza pronta e perfetta come questa, che Gesù Cristo esige da noi, una obbedienza che esclude ogni ritardo, anche quando vi fossero fortissime ragioni ad ostacolarla.

S. Giovanni Crisostomo 

Immacolta Concezione di Maria

Immacolta Concezione di Maria dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 29 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

L’allenamento per chi vuole salire (Gianfranco Ravasi)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/199q04a1.html

L’allenamento per chi vuole salire

di Gianfranco Ravasi

(L’Osservatore Romano 30-31 agosto 2010)

Tre monti nominati nella Bibbia hanno un rilievo, un’incidenza tutta particolare. Cominciamo col « monte Sion ». Cominciamo di qui, anche se non è il primo dal punto di vista logico, non soltanto perché il monte Sion riassume in sé tutta la tensione verso l’alto delle pagine bibliche – come abbiamo potuto vedere anche attraverso lo sguardo che si leva verso l’alto e verso il monte, l’unico che può dare la salvezza – ma anche perché col monte Sion è stato identificato da parte della tradizione ebraica e cristiana prima e poi anche da parte di quella musulmana, un altro monte, che è radicale per tutte e tre le religioni monoteiste, ovvero il monte di Abramo, il monte Moria, monte che non è rintracciabile in nessun atlante.
Faremo solo tre considerazioni essenziali. La prima:  l’identificazione tra Sion e monte Moria. Che cos’è il monte Moria? È per eccellenza il monte della fede. Sappiamo che nel racconto del capitolo 22 della Genesi, una pagina tra l’altro di straordinaria fragranza non solo teologica, ma anche narrativa, Abramo si trova di fronte alla prova più ardua della sua fede. Dio infatti lo invita quasi a smentire se stesso:  Isacco non era forse il figlio della promessa e quindi il dono di Dio per eccellenza? Come andare contro la promessa stessa di Dio per ordine dello stesso Dio, uccidendo Isacco, cancellando per ciò stesso il senso della promessa? Si tratta qui, dunque, di un’esperienza che è l’esperienza più lacerante possibile, più tenebrosa. In quel momento appare un Dio amato e crudele allo stesso tempo e Abramo deve credere in lui correndo il rischio estremo, il rischio dell’assurdo, perdendo tutte le ragioni del credere, comprese le ragioni stesse della fede, cioè il figlio suo, dono di Dio. È per questo motivo che l’autore sacro, nel descrivere i tre giorni di viaggio per ascendere le pendici del monte Moria, mette in scena un dialogo tra Abramo e suo figlio continuamente ritmato sulle relazioni di paternità e filiazione:  « padre mio », « figlio mio », si dicono continuamente tra di loro, aggrappandosi all’unico valore che essi hanno, quello della paternità e della filiazione, cioè a un valore umano, in quanto non c’è più ormai alcun valore evidente di fede che possa aiutare in questo pellegrinaggio verso l’assurdo. E lassù sul monte, alla fine, si consuma il dramma.
Come sappiamo questa pagina della Genesi ha avuto un commento straordinario in un’opera di grande finezza filosofica e teologica, Timore e tremore di Soeren Kierkegaard. Il filosofo danese fa una considerazione a mio avviso molto interessante nel parlare del monte Moria-Sion come monte della fede. Egli ricorda come questo viaggio, questa ascesa al monte sia sicuramente il paradigma per eccellenza del vero credere e commenta questa considerazione utilizzando un’immagine che tra l’altro appartiene al mondo dell’Oriente. Egli dice che quando la madre deve svezzare il suo bambino si tinge di nero il seno perché il piccolo non l’abbia più a desiderare; in quel momento il bambino odia sua madre perché gli toglie la sorgente del suo piacere, del suo cibo, del suo alimento; in quel momento il bambino sente che la madre in un certo senso lo costringe ad andare lontano da lei. Questo è un gesto che alla madre costa; vi sono, come sappiamo, delle madri che questo gesto non lo fanno mai. Tutti abbiamo conosciuto nella vita qualche persona di cui si usa dire che non ha avuto mai il cordone ombelicale staccato da sua madre; si tratta di quelle persone incapaci, sempre timorose, che sempre hanno bisogno di tornare al grembo della madre, che hanno paura del mondo. La madre, dunque, quando stacca il figlio da sé, compie un gesto che a lei costa, ma alla fine risulta un gesto d’amore perché in quel momento il figlio diventa finalmente una creatura libera che cammina per il mondo da sola.
Il gesto che Dio fa sul monte Moria vuol significare dunque che il credere deve essere frutto totale e assoluto di una decisione libera dell’uomo, non dipendere cioè dall’aver ricevuto dei doni, con la relativa certezza quindi che il credere sia simile a un evento economico, un dare e ricevere. È per questo motivo allora che nel finale si dà del monte Moria un’etimologia che, come spesso succede nelle etimologie bibliche, filologicamente non è probabilmente fondata:  secondo tale etimologia il significato del termine sarebbe « là sul monte Dio provvede »; è dunque il monte della provvidenza di Dio, dell’amore di Dio nei confronti della sua creatura, è il luogo nel quale Dio vede che ormai la fede di Abramo è totale e assoluta, pronta anche a strapparsi il figlio dalle proprie viscere.
Seconda considerazione a proposito del monte Sion. Facciamo riferimento a Isaia (2, 1-5). Si tratta di una pagina anche questa di grande bellezza letteraria, è il grande Isaia, il Dante della letteratura ebraica. Qui si rappresenta il monte Sion avvolto di luce mentre delle tenebre planetarie, potremmo dire, si stendono su tutto il mondo. All’interno di questa oscurità si muovono processioni di popoli e queste processioni hanno come punto di riferimento questo monte, che certo non è il più importante della terra. I popoli vengono da regioni diverse, salgono il monte, il monte della parola di Dio, e una volta che sono saliti in Sion ecco che lasciano cadere dalle mani le armi; le spade vengono trasformate in vomeri e le lance in falci e Isaia dice:  « Essi non si eserciteranno più nell’arte della guerra ». Sion diventa il luogo nel quale tutti i popoli della terra convergono e là fanno cadere l’odio e costruiscono invece la pace; cancellano la guerra e costruiscono un mondo di armonia.
E qui, per inciso, possiamo osservare come il testo di Isaia sia attuale; sempre nella storia di Israele le pietre di Sion sono striate di sangue, e ancor più, purtroppo, ai nostri giorni. Tutti i popoli hanno dunque, come dice la Bibbia, diritto di cittadinanza in Sion, non solo gli Ebrei; e tutti i popoli, quando trasformano i vomeri in spade, gli strumenti per lavorare la terra in strumenti di guerra, compiono un atto blasfemo nei confronti del sogno di Dio.
Nel salmo 87 possiamo incontrare una ulteriore conferma a quanto abbiamo appena detto. Troviamo qui una formula che in ebraico è ripetuta tre volte, anche se con una variazione:  jullad sham / jullad bah, « tutti là sono nati / in essa sono nati » tutti i popoli della terra. Questa formula, tecnicamente parlando, era la formula propria dell’anagrafe, dell’iscrizione nei registri di una città. Nel salmo in questione l’elenco delle nazioni, dei luoghi che vengono citati, è in pratica la planimetria del mondo allora conosciuto; si va da Rahab, che indica l’Egitto, a Babel, che indica Babilonia, la superpotenza occidentale e quella orientale, quindi. Viene nominata anche la Palestina, i Filistei, anche loro con diritto di cittadinanza in Gerusalemme; vengono nominati tutti i popoli della terra, anche i più remoti:  tutti trovano in Gerusalemme il loro luogo di nascita, tutti hanno un diritto nativo in Gerusalemme. Alla fine il poeta immagina che tutti questi popoli così diversi tra loro siano in Sion e siano là cantando e danzando, ripetendo questa loro professione d’amore nel monte Sion, il monte del tempio:  « In te sono tutte le nostre sorgenti ».
Terza considerazione:  dopo il monte della fede e il monte della pace, ecco ora profilarsi in Sion il monte di Dio per eccellenza, il monte dell’incrocio e dell’abbraccio tra Dio e l’uomo. È bellissimo il termine con cui viene definito nella Bibbia il tempio; di per sé è il termine che viene usato quando si parla del santuario mobile nel deserto, lo si chiama in ebraico ‘ohel mo’ed, cioè « la tenda dell’incontro », naturalmente la tenda dell’incontro degli Ebrei tra di loro:  è, infatti, il luogo dell’assemblea, qahal in ebraico, l’assemblea dei figli di Israele. Ma è anche il luogo dell’incontro e dell’abbraccio dell’uomo con Dio. Possiamo osservare allora come il santuario di Sion non corrisponda ai templi magici:  qui si tratta dell’incrocio, dell’intreccio, dell’abbraccio di due libertà. Tant’è vero che, se Israele è peccatore, Dio non è costretto a stare nel tempio di Sion. Conosciamo la riflessione che fanno, ad esempio, i profeti Geremia ed Ezechiele a proposito della presenza di Dio in Sion. Secondo Geremia, se Sion si trasforma in una spelonca di ladri, Dio allora non è più lì, non è costretto nel perimetro sacro e consacrato, quasi per una costrizione magica.
È significativo il capitolo ottavo del Primo Libro dei Re dove si parla della grande preghiera di dedicazione del santuario di Sion che Salomone pronuncia dopo aver eretto il tempio. Vi sono due frasi che ora riporteremo e che mostrano veramente come lì si compia il mo’ed, cioè l’incontro, il convegno. Al versetto 27 si dice:  « I cieli e i cieli dei cieli, o Signore, non ti possono contenere, quanto meno questa casa che io ho costruita! ». Dio, che è infinito, non può essere compreso nel perimetro sacro di un tempio, Dio non può essere costretto magicamente a essere lì, ma come si dice al versetto 30:  « Ascolta la supplica del tuo (…) popolo, quando pregheranno in questo luogo. Ascoltali dal luogo della tua dimora ». Possiamo qui osservare come Dio giunga dalla sua dimora celeste, che è il simbolo appunto della trascendenza, ad ascoltare il grido che l’uomo eleva verso di lui:  ecco allora che il tempio di Sion diventa il luogo del dialogo.
Di Sion abbiamo dato dunque tre definizioni:  in primo luogo monte della fede, della fede più pura, più assoluta, sotto il nome di monte Moria, il monte sul quale Abramo, padre di Israele, padre della nostra fede di cristiani, padre attraverso Ismaele dell’Islam, compie il suo atto di fede. Ciò che è importante qui non sono le opere, ma il suo atto di fede in Dio, fede pura e totale. Seconda definizione:  luogo della pace, del sogno di Dio in un’umanità che si incrocia e si riunisce in Sion. Infine, terzo momento, luogo dell’intreccio delle mani di Dio e dell’uomo attraverso il santuario.
Passiamo ora al secondo monte che costituisce un momento obbligato di riflessione:  il monte Sinai, un monte evidentemente carico di risonanze, a proposito del quale vorrei però anche in questo caso indicare solamente tre dimensioni. La prima:  il Sinai è il luogo della teofania, della grande manifestazione del Dio misterioso. « Sul far del mattino vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte, un suono fortissimo di tromba, tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da terrore » (Esodo, 19-26). Siamo di fronte alla celebrazione per eccellenza del tremendum di Dio, è il luogo questo nel quale Dio ci fa scoprire tutta l’impotenza dell’uomo – chi è stato sul Sinai riesce anche a intuirlo proprio nell’atmosfera stessa di questo monte, monte solitario, monte desolato, arido, attraversato dal vento, prosciugato dall’incandescenza del sole, mutevole anche per i cangianti colori delle sue pietre durante la giornata.
Seconda riflessione:  è anche il luogo della « teo-logia », cioè non solo della manifestazione, dell’apparizione di Dio, ma anche della parola di Dio. A questo proposito vorrei ricordare, oltre al Decalogo che ci giunge da questo monte – le dieci parole fondamentali sulle quali si organizza ancora la nostra pur dispersa e tante volte anche disordinata e distratta società – soprattutto un bellissimo versetto del quinto libro della Bibbia, il Deuteronomio, laddove Mosè, ricordando quell’esperienza, dice:  « Il Signore vi parlò dal fuoco, voi udivate soltanto qôl devarîm [cioè una voce di parole, un suono di parole], ma non vedevate alcuna figura », non c’era nessuna temunah, nessuna figura, zulatî qôl, ma « soltanto una voce ». Bellissima questa intuizione che ci ricorda come sul monte noi scopriamo soltanto la voce circondata dal silenzio. Eccoci dunque a una seconda esperienza fondamentale:  la parola da scoprire sul monte, la « teo-logia ».
In terzo luogo vorrei porre l’accento su di un vocabolo che non è evidentemente nella Bibbia e neppure è normalmente usato nella teologia; è un vocabolo coniato da Pierre Teilhard de Chardin per parlare del manifestarsi di Dio che si riflette in noi:  egli utilizza il termine « diafania ». Teofania, teologia e ora diafania, ovvero il passare di un Dio « diafano » attraverso di noi, attraverso la terra, attraverso il monte in questo caso.
È dunque per questo motivo che il Sinai diventa anche il luogo dell’intimità di Dio, non unicamente del Dio terribile, affatto diverso da noi, totalmente altro, non soltanto del Dio che ti dà la sua parola, ma anche del Dio che persino si adatta a te, entrando misteriosamente accanto a te con tenerezza.
A questo punto non possiamo allora prescindere da due riferimenti biblici molto significativi. Innanzitutto quella bellissima, indimenticabile esperienza di Elia sul monte Horeb – un altro nome per il Sinai – che viene descritta nella Bibbia nel primo libro dei Re. Dio non si presenta qui con l’apparato teofanico, pur legittimo, Dio non è nel vento che spacca la roccia, non è nel fulmine, nella folgore, non è nel terremoto che sommuove la terra, ma semplicemente Dio è in « un mormorio di vento leggero ». In ebraico tutto ciò viene espresso con tre parole, tre parole che sono veramente un capolavoro anche dal punto di vista dell’intuizione:  Elia scopre soltanto qôl demamah daqqah, cioè qôl « voce, suono », demamah « silenzio », daqqah « sottile ». Dio diventa una voce di silenzio sottile, un silenzio « bianco » che riassume in sé tutti i colori, come il bianco riassume tutto lo spettro cromatico. Dio si adatta talmente da  avvolgerci  pacatamente con la quiete del silenzio. Un’esperienza appunto che anche il laico, incontrando il silenzio, prova sulla montagna.
L’altro riferimento è al Sinai cristiano, cioè al monte delle Beatitudini. Come sappiamo gli esegeti spiegano che seppur la tradizione l’abbia identificato con quel bellissimo poggio che si affaccia sul lago di Tiberiade, in realtà si tratta di un monte teologico più che di un monte orografico, topografico. Tant’è vero che una parte del discorso che Matteo mette sul monte, Luca, nel capitolo sesto del suo Vangelo, lo ambienta in un luogo pianeggiante, campestre. Le Beatitudini probabilmente sono enunciate in un’area attorno alla sponda del lago di Tiberiade, abbiamo però bisogno di collocarle proprio su un monte, il monte della teofania, della teologia, della diafania perché in Matteo Cristo diventa il nuovo Mosè, il Mosè per eccellenza, che raccoglie e compendia tutto l’insegnamento di Mosè. Noi sappiamo che Gesù fa riferimento proprio ai testi del Sinai portandoli all’estreme conseguenze, radicalizzandoli, mostrando la vicinanza assoluta di Dio che, attraverso le Beatitudini e il discorso della montagna, si presenta come il Dio d’amore, della pienezza, della intimità assoluta. Lutero usava un’espressione paradossale in latino, persino ironica potrebbe apparire, per rappresentare Cristo in quel momento. Egli diceva che sul monte delle beatitudini Cristo è Mosissimus Moses, è il Mosè all’ennesima potenza. Tutto quello che Mosè aveva rappresentato ora Cristo ce lo rappresenta mostrandoci non solo la trascendenza, non solo la parola di Dio ma anche la sua intimità.
Giungiamo così al terzo e ultimo monte della Bibbia. Il monte che ora citeremo, quasi inesistente dal punto di vista orografico, è un punto di passaggio obbligato per noi cristiani:  si tratta infatti del Golgota, del Calvario. Un monte che di sua natura è, come abbiamo detto, irrilevante – chi è stato a Gerusalemme sa che il monte è inglobato ormai all’interno della basilica del Santo Sepolcro -:  si tratta di uno sperone roccioso di sei o sette metri, chiamato Golgota, in aramaico « cranio », probabilmente per la sua forma tondeggiante, o forse perché lì vicino c’erano le sepolture dei condannati a morte. L’etimologia qui ora non ci interessa; vogliamo però sottolineare come in Occidente tutti, anche coloro che non hanno nessuna fede in Cristo, sanno che cos’è il Calvario (traduzione latina della parola aramaica Golgota), tanto che l’espressione « un calvario di sofferenze » è diventata un modo di dire comune.
Se analizziamo questo luogo, soprattutto attraverso la teologia dei Vangeli e in particolare del quarto Vangelo, ci accorgiamo che esso è, sì, il monte della morte ma anche, a ben vedere, il monte della vita; è il monte dell’umanità, della tragedia di un Dio che assume la finitudine fino al punto da bere il calice della sofferenza, della solitudine, della tristezza, del silenzio di Dio (« Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? »); ma è insieme anche il luogo nel quale Giovanni già ci mostra la gloria dell’elevazione, della resurrezione. Il Calvario è già anche il monte dell’ascensione, è già il monte degli Ulivi, è il monte anche della glorificazione, dell’esaltazione, della speranza. Il Calvario è dunque insieme monte del dolore e del sangue e monte della gloria e dell’infinito. A questo punto giungiamo a capire come il Calvario riesca a riassumere quelle due dimensioni a cui sempre abbiamo fatto riferimento. Sul monte infatti è sempre Dio che noi cerchiamo, però siamo noi a salire, siamo noi che con la nostra fatica ascendiamo.
Vorrei concludere parlando della mistica della montagna. Sappiamo infatti come tutta la tradizione mistica abbia usato spesso la montagna come una parabola. Voglio qui accennare – sperando che magari qualcuno abbia l’occasione di riprendere in mano o di leggerlo se non l’ha mai fatto – a un libro, in verità arduo e che, tra l’altro, ha come punto di riferimento un monte biblico:  intendo riferirmi alla Salita del monte Carmelo, uno dei capolavori, insieme con il Commento al Cantico dei Cantici, di Giovanni della Croce, Juan de la Cruz.
Giovanni della Croce scrive questo libro nel 1578, libro che poi non completa. È un testo raffinatissimo dal punto di vista della ricerca intellettuale, ma anche soprattutto dal punto di vista della mistica, un testo carico di simboli, ma anche di esperienze interiori. È curioso tra l’altro come il santo abbia disegnato più volte – tant’è vero che ne esistono più copie di sua mano e molte altre fatte dai suoi discepoli – un bozzetto del monte Carmelo, micrografandolo poi con scritte che indicano i vari percorsi, i vari itinerari di ascesi, di purificazione oltre che di illuminazione. Questo disegno, con le indicazioni relative al percorso di salita rappresentato in maniera folgorante, Giovanni lo dava alle suore di cui era confessore perché lo tenessero nel loro libro di preghiere.
Nel descrivere questa salita al monte egli inizia con una poesia, dichiarando di volerla poi commentare, mentre in realtà ne commenterà effettivamente solo una strofa. Nel monte Carmelo, il monte di Elia, il monte della sfida con l’idolatria (1 Re, 18), il monte dell’ordine carmelitano a cui Giovanni apparteneva, egli riassume tutta una serie di significati insieme ascetici e mistici. Il termine « ascesi » a noi purtroppo evoca solo l’idea della fatica, della purificazione in senso negativo; questo non è del tutto vero in quanto qui l’ascesi si intreccia già con la mistica.
« Ascesi » infatti, come dice il termine greco àskesis, non vuol dire « penitenza », ma semmai « esercizio ». Pensiamo ad esempio all’acrobata, a quei disegni così improbabili che egli fa e che sfidano le leggi stesse della fisica; l’acrobata compie tutto ciò con estrema facilità perché alla base c’è un esercizio che alla fine diventa creatività, disegno. E pensiamo anche alla professione della ballerina. Osservandone gli eleganti e dinamici tratti nell’atto della danza ci si rende conto di cosa voglia dire riuscire a costruire l’equilibrio sulla punta di un piede, che cosa comporti tutto quel gioco di movimenti che anche in questo caso rappresentano una sfida continua alle leggi della fisica. Per lei, però, tutto ciò non avviene ora attraverso il calcolo e la fatica, ma semmai attraverso un libero abbandono che produce e suppone divertimento e creatività.
Questa è l’ascesi, è fatica indubbiamente, è esercizio pesante, ma alla fine giunge a essere grande creatività che è al tempo stesso grande libertà

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 29 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

Avvento in musica. Sette antifone tutte da riscoprire (di Sandro Magister)

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/213008

Avvento in musica. Sette antifone tutte da riscoprire

Si cantano una al giorno, al Magnificat dei vespri. Sono molto antiche e ricchissime di riferimenti alle profezie del Messia. Le loro iniziali formano un acrostico. Eccole trascritte, con la chiave di lettura

di Sandro Magister

ROMA, 17 dicembre 2008 – Da oggi fino all’antivigilia di Natale, al Magnificat dei vespri di rito romano si cantano sette antifone, una per giorno, che cominciano tutte con un’invocazione a Gesù, pur mai chiamato per nome.
Questo settenario è molto antico, risale al tempo di papa Gregorio Magno, attorno al 600. Le antifone sono in latino e si ispirano a testi dell’Antico Testamento che annunciano il Messia.
All’inizio di ciascuna antifona, nell’ordine, Gesù è invocato come Sapienza, Signore, Germoglio, Chiave, Astro, Re, Emmanuele. Nell’originale latino: Sapientia, Adonai, Radix, Clavis, Oriens, Rex, Emmanuel.
Lette a partire dall’ultima, le iniziali latine di queste parole formano un acrostico: « Ero cras », cioè: « [Ci] sarò domani ». Sono l’annuncio del Signore che viene. L’ultima antifona, che completa l’acrostico, si canta il 23 dicembre. E l’indomani, con i primi vespri, comincia la festività del Natale.
A trarre queste antifone fuori dall’oblio è stata, inaspettatamente, « La Civiltà Cattolica », la rivista dei gesuiti di Roma che si stampa con il previo controllo della segreteria di stato vaticana.
Inusitato anche il posto d’onore dato all’articolo che illustra le sette antifone, scritto da padre Maurice Gilbert, direttore della sede di Gerusalemme del Pontificio Istituto Biblico. L’articolo apre il quaderno prenatalizio della rivista, dove di solito c’è l’editoriale.
Nell’articolo, padre Gilbert illustra ad una ad una le antifone. Ne mostra i ricchissimi riferimenti ai testi dell’Antico Testamento. E fa rimarcare una particolarità: le ultime tre antifone – quelle del « Ci sarò » dell’acrostico – comprendono alcune espressioni che si spiegano unicamente alla luce del Nuovo Testamento.
L’antifona « O Oriens » del 21 dicembre include un chiaro riferimento al cantico di Zaccaria nel capitolo primo del Vangelo di Luca, il « Benedictus »: « Ci visiterà un sole che sorge dall’alto per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte ».
L’antifona « O Rex » del 22 dicembre include un passaggio dell’inno a Gesù del capitolo secondo della lettera di Paolo agli Efesini: « Colui che di due [cioè di ebrei e pagani] ha fatto una cosa sola ».
L’antifona « O Emmanuel » del 23 dicembre si conclude infine con l’invocazione « Dominus Deus noster »: un’invocazione esclusivamente cristiana poiché soltanto i seguaci di Gesù riconoscono nell’Emmanuele il loro Signore Dio.
Ecco dunque qui di seguito i testi integrali delle sette antifone, in latino e tradotte, con evidenziate le iniziali che formano l’acrostico « Ero cras » e con tra parentesi i principali riferimenti all’Antico e al Nuovo Testamento:

I – 17 dicembre

O SAPIENTIA, quae ex ore Altissimi prodiisti,
attingens a fine usque ad finem fortiter suaviterque disponens omnia:
veni ad docendum nos viam prudentiae.

O Sapienza, che uscisti dalla bocca dell’Altissimo (Siracide 24, 5),
ti estendi da un estremo all’altro estremo e tutto disponi con forza e dolcezza (Sapienza 8, 1):
vieni a insegnarci la via della saggezza (Proverbi 9, 6).

II – 18 dicembre

O ADONAI, dux domus Israel,
qui Moysi in igne flammae rubi apparuisti, et in Sina legem dedisti:
veni ad redimendum nos in brachio extenso.

O Signore (« Adonai » in Esodo 6, 2 Vulgata), guida della casa d’Israele,
che sei apparso a Mosè nel fuoco di fiamma del roveto (Esodo 3, 2) e sul monte Sinai gli hai dato la legge (Esodo 20):
vieni a redimerci con braccio potente (Esodo 15, 12-13).

III – 19 dicembre

O RADIX Iesse, qui stas in signum populorum,
super quem continebunt reges os suum, quem gentes deprecabuntur:
veni ad liberandum nos, iam noli tardare.

O Germoglio di Iesse, che ti innalzi come segno per i popoli (Isaia 11, 10),
tacciono davanti a te i re della terra (Isaia 52, 15) e le nazioni ti invocano:
vieni a liberarci, non tardare (Abacuc 2, 3).

IV – 20 dicembre

O CLAVIS David et sceptrum domus Israel,
qui aperis, et nemo claudit; claudis, et nemo aperit:
veni et educ vinctum de domo carceris, sedentem in tenebris et umbra mortis.

O Chiave di Davide (Isaia 22, 22) e scettro della casa d’Israele (Genesi 49. 10),
che apri e nessuno chiude; chiudi e nessuno apre:
vieni e strappa dal carcere l’uomo prigioniero, che giace nelle tenebre e nell’ombra di morte (Salmo 107, 10.14).

V – 21 dicembre

O ORIENS, splendor lucis aeternae et sol iustitiae:
veni et illumina sedentem in tenebris et umbra mortis.

O Astro che sorgi (Zaccaria 3, 8; Geremia 23, 5), splendore della luce eterna (Sapienza 7, 26) e sole di giustizia (Malachia 3, 20):
vieni e illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte (Isaia 9, 1; Luca 1, 79).

VI – 22 dicembre

O REX gentium et desideratus earum,
lapis angularis qui facis utraque unum:
veni et salva hominem quem de limo formasti.

O Re delle genti (Geremia 10, 7) e da esse desiderato (Aggeo 2, 7),
pietra angolare (Isaia 28, 16) che fai dei due uno (Efesini 2, 14):
vieni, e salva l’uomo che hai formato dalla terra (Genesi 2, 7).

VII – 23 dicembre

O EMMANUEL, rex et legifer noster,
expectatio gentium et salvator earum:
veni ad salvandum nos, Dominus Deus noster.

O Emmanuele (Isaia 7, 14), re e legislatore nostro (Isaia 33, 22),
speranza e salvezza dei popoli (Genesi 49, 10; Giovanni 4, 42):
vieni a salvarci, o Signore nostro Dio (Isaia 37, 20).
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La rivista su cui è apparso l’articolo di padre Maurice Gilbert, « Le antifone maggiori dell’Avvento »: > La Civiltà Cattolica
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POST SCRIPTUM – Domenica 21 dicembre anche Marina Corradi è intervenuta sulle sette antifone maggiori dell’ultima settimana di Avvento. Con questo editoriale su « Avvenire »:

La promessa a noi vacillanti: « Ci sarò domani, e sempre »

di Marina Corradi

« Ero cras », « Ci sarò domani ». Forse questa promessa in latino alla maggioranza dei credenti oggi non dice niente. Ma è una promessa molto antica, risalente ai tempi di Gregorio Magno, e nascosta tra le righe di sette antifone che tradizionalmente accompagnano, nell’ultima settimana di Avvento, il Magnificat ai vespri di rito romano. Un articolo su « La Civiltà Cattolica » del biblista padre Maurice Gilbert richiama dal passato la storia di questa promessa d’Avvento, a noi cristiani del Terzo millennio per lo più sconosciuta. Dunque il segreto delle « antifone maggiori », dette anche « antifone O », sta nella parola posta all’inizio di ciascuna di esse.
« O Sapientia », comincia la prima, e le successive: « O Adonai, O Radix, O Clavis, O Oriens, O Rex, O Emmanuel ». Germoglio, Chiave, Re, Emmanuele: tutte le antifone iniziano con un’invocazione a Cristo. Ma capovolgendo l’ordine delle parole e prendendo di ciascuna la lettera iniziale, emerge l’acronimo « Ero cras », « Ci sarò domani ». Non è enigmistica. Ogni antifona è una sintesi di passi dell’Antico e Nuovo Testamento, un concentrato di fede cristiana che gli antichi fedeli ripetevano nella penombra dei vespri dell’Avvento, quando la notte calata sulle brevi giornate d’inverno, rischiarato solo da candele, evocava un’altra ombra, che incuteva timore. Dalle buie sere che precedono il solstizio, dal colmo dell’oscurità, nelle chiese si invocava: Germoglio, Sapienza, Re, vieni a liberarci dalla tenebre. E nella quinta antifona, quella del 21 dicembre – giorno esatto del solstizio, in cui, toccato il vertice del buio, il sole comincia a risalire in cielo – si cantava: « O Oriens, splendor lucis aeternae et Sol Iustitiae: veni et illumina sedentem in tenebris et umbra mortis »; « O astro che sorgi, splendore di luce eterna e sole di giustizia: vieni, illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra della morte ». E infine, nascosta nelle iniziali delle prime parole delle antifone: « Ero cras ». Ci sarò domani, ci sarò sempre: nel fondo del buio, di generazione in generazione, il ripetersi di una promessa di luce.
Il segreto – almeno per noi profani – rivelato dal teologo gesuita commuove per la bellezza, la bellezza della forma della antica tradizione cristiana che troppo abbiamo dimenticato. Con quella aderenza profonda alla realtà concreta degli uomini; forse anche noi, in queste giornate così brevi e già alle quattro buie, non ci sentiamo addosso come un’ombra, e l’ansia che il sole si rialzi, che la luce della primavera torni e rassicuri? « Vieni, illumina le tenebre », chiedevano. « Ci sarò domani, ci sarò sempre », era la risposta già segretamente scritta nella domanda. E noi? ti viene da domandarti. L’attesa che colma questi antichi canti d’Avvento, ci appartiene ancora? O, sfumata la memoria di un male originario che ci opprime, non percepiamo più davvero il buio che nelle antifone del tempo di Gregorio Magno pare così incombente, tanto che è evidente come quei versi anelano la luce? Non più pienamente coscienti del buio, sappiamo ancora desiderare la luce? La nascita di Cristo, nel colmo dell’inverno, è il venire al mondo di colui che vince la morte. Ce ne ricordiamo pienamente, noi credenti del 2008, pressati negli ipermercati in cui infuria « Jingle bells », o angosciati dalla crisi e dal vacillare del nostro benessere? Che la promessa antica e segreta delle « antifone O », l’augurio, ci accompagni nel nostro affannarci della vigilia del Natale. « Ero cras », ci sarò domani e sempre. E grazie al dotto studioso che ha ricordato a noi credenti analfabeti un segreto tesoro, a illuminare questi giorni di buio.
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17.12.2008

Publié dans:Sandro Magister |on 29 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno arabis_scabra_1262

Bristol Rock-cress

http://www.floralimages.co.uk/b_paleyellow.htm

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Omelia (29-11-2010) : Gli venne incontro un centurione che lo scongiurava

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/20673.html

Omelia (29-11-2010) 
Movimento Apostolico – rito romano

Gli venne incontro un centurione che lo scongiurava

La Chiesa, vera Maestra nella formazione dei cuori alla fede più pura, autentica, sana, vuole che iniziamo il nostro cammino di Avvento meditando e riflettendo su un pagano, un centurione romano, che si reca da Gesù e chiede la guarigione di un suo servo.
Quest’uomo non chiede nulla per sé e neanche per i suoi figli. Ha un servo gravemente ammalato. Per questo servo lui si preoccupa. Si dà pensiero. Vive la malattia come fosse sua. Non si dona pace. Corre da Gesù. Chiede il miracolo.
Quest’uomo ha nel cuore un amore grande, immenso, sconfinato. Il suo è un amore che non si arrende. Non si dona per vinto. Non si lascia sconfiggere. Quest’uomo è anche un acuto osservato. È intelligente, sapiente, accorto. Ha un occhio che sa scrutare e una mente che sa leggere.
Quest’uomo è profondamente umile. Lui vive di gerarchie. Sa chi sta sopra e chi sta in basso. Sa chi comanda e chi obbedisce. Conosce ogni cosa della vita militare. La sua grande esperienza ed intelligenza gli fa vedere Gesù come il supremo dei comandanti. Gesù è il Comandante universale. È il Comandante che ha potere sul visibile e sull’invisibile. A Lui basta una sola parola, un ordine, un comando e l’intera creazione è ai suoi pedi, ascolta la sua voce, compie ogni obbedienza.
Offrendoci questo brano da meditare come inizio del nostro cammino spirituale di preparazione al Santo Natale, la Chiesa intende mostrarci alcune verità essenziali, fondamentali, per la nostra vita di fede. Dio è il nostro creatore. Gesù è il nostro Signore. Noi siamo suoi servi. Siamo paralizzati nell’anima. Soffriamo terribilmente a causa del peccato che atrofizza la nostra vita e la rende infruttuosa nella sua crescita spirituale. La venuta di Gesù nella nostra carne deve rivelarci quanto è grande l’amore di Dio per noi, suoi servi. Per il servo Dio dona il Figlio. Per il servo Egli impegna tutto il suo amore. Per l’uomo Dio si fa uomo e assume su di sé ogni nostro peccato, ogni nostra colpa, la espia al fine di darci la guarigione.
Noi uomini non siamo servi, siamo fratelli gli uni degli altri. Siamo terribilmente sofferenti, ma ci ignoriamo gli uni gli altri. Non abbiamo compassione, amore, carità, desiderio di guarigione. Il centurione è figura di Dio, di Cristo Gesù. Se noi non imitiamo Dio, Cristo Gesù, a che serve la celebrazione del Santo Natale? Ma come si imita Dio e Cristo Gesù? In un solo modo: prendendo seriamente a cuore, come Dio, come Cristo Gesù, la sofferenza, la malattia spirituale, la povertà morale degli altri. Noi amiamo, se otteniamo la guarigione. Noi siamo gli strumenti perché il mondo guarisca.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, donaci una fede convinta e un amore infinito. Angeli e Santi di Dio, rendeteci veri strumenti di salvezza dei nostri fratelli. 

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