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«PER LORO CONSACRO ME STESSO»: LA PREGHIERA SACERDOTALE DI GESÙ (GV 17)
Cipriani S.
È veramente con commozione che rileggiamo e meditiamo queste parole, che esprimono una forma di amore quasi «viscerale» di Gesù verso i suoi discepoli, quelli presenti e anche quelli futuri. Siamo davanti a una preghiera che davvero non è esagerato definire «divina» sia per i contenuti, sia per la passione con cui è detta, sia per l’ampiezza di orizzonti ai quali è aperta: che sono poi gli orizzonti di Dio. Più comunemente viene chiamata «preghiera sacerdotale», sia per la sua collocazione all’inizio della storia della passione, sia per quanto affermato da Gesù stesso: «Per loro io consacro me stesso perché siano anch’essi consacrati nella verità» (17,19).
Tale denominazione risale a uno dei padri del luteranesimo, David Citraeus (1751-1800) che a sua volta, si è ispirato a Clemente Alessandrino (PG 74, 505). Anche se non del tutto esatta, la denominazione ne esprime abbastanza bene il contenuto, che è di offerta, di donazione radicale di se stesso a Dio e agli uomini.
Alcune premesse
Un’esegesi analitica non è possibile, data la densità dei concetti e dei problemi che tale preghiera porta con sé: ci limiteremo pertanto alle cose più importanti senza disperderci nei dettagli. Un problema di fondo si pone subito al lettore davanti a questa preghiera così alta e solenne: essa è davvero uscita dalla bocca di Gesù come oggi la possediamo, oppure è stata rielaborata dal talento letterario e teologico eccezionale dell’evangelista, come risulta da tutto il quarto Vangelo? Noi siamo del parere che Gesù sia all’origine di questa preghiera, che tuttavia l’evangelista ha rimodellato secondo i paradigmi del suo Vangelo[1].
Osserviamo poi l’«articolazione» dei concetti che vengono espressi in questa commossa e commovente preghiera di Gesù che, per un verso, si presenta come un’interpretazione di tutta la sua vita passata e, per un altro, come la «profezia» degli eventi tragici che ancora lo attendono e che daranno senso pieno alla sua vicenda storica, consumata in mezzo a noi. Le opinioni al riguardo sono diverse: personalmente preferisco la più semplice che ha anche il merito di fondarsi su indicazioni testuali abbastanza significative.
Tutto il capitolo si può dividere in tre parti, con una conclusione che può come ricapitolarle tutte:
– nella prima parte (vv. 1-8) Gesù prega il Padre per la propria «glorificazione»: «Padre, glorifica il tuo Figlio, perché il tuo Figlio glorifichi te» (v. 1);
– nella seconda parte (vv. 9-19) Gesù prega per i suoi discepoli perché siano preservati dal Maligno che opera nel mondo: «Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo» (v. 16), nel quale pur li manda per offrire a tutti occasione di salvezza;
– nella terza parte (vv. 20-23), che è tutta aperta al futuro, c’è una preghiera anche per coloro che, per l’opera degli apostoli crederanno in lui: «Non prego soltanto per questi, ma anche per coloro che crederanno in me tramite la loro parola» (v. 20);
– segue, infine, una specie di ricapitolazione (vv. 24-26) in cui, con autorevolezza, Gesù chiede al Padre la partecipazione di tutti i suoi discepoli, presenti e futuri, alla sua gloria: «Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria…» (v. 24).
Padre, è giunta l’ora
Rileviamo anzitutto l’atteggiamento «orante» di Gesù, che Giovanni mette in evidenza fin dall’inizio:
Gesù, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre…» (17,1).
È il medesimo atteggiamento che l’evangelista aveva descritto nel caso della risurrezione di Lazzaro, quando Gesù aveva compiuto il medesimo gesto per ringraziare Dio a motivo del miracolo:
Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre ti ringrazio che mi hai ascoltato» (11,41).
La prima parte della preghiera, come abbiamo già detto, è un’insistente richiesta a Dio della propria «glorificazione». Ma in che cosa consiste questa «glorificazione» e quale è «l’ora» alla quale allude Gesù all’inizio della preghiera? Rileggiamola:
Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te… Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare (vv. 1.4).
L’ora di cui parla Gesù è l’ora per eccellenza, quella della sua morte per la salvezza degli uomini, come risulta da tutto il quarto Vangelo. Ecco, ad esempio, come Gesù risponde ad Andrea e Filippo, che gli chiedono di rivelarsi anche ai greci:
È venuta l’ora in cui sarà glorificato il figlio dell’uomo… Ora però l’anima mia è turbata e che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora. Ma appunto per questo sono venuto in quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome (12,23.27-28).
Da questo e da altri testi che potremmo ancora citare (7,30; 8,20; 13,1), è evidente che «l’ora» di Gesù è l’ora della sua morte[2]. Ed è proprio in questa donazione radicale di Gesù alla volontà del Padre che sta la «gloria» massima del Padre e del Figlio nello stesso tempo: «Padre, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te» (v. 1).
Io prego per loro
A questo punto incomincia la seconda parte della preghiera sacerdotale, volta a propiziare la benevolenza del Padre verso i suoi apostoli (vv. 9-19), che continueranno la sua missione in mezzo agli uomini:
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi (17,9).
La prima e la seconda parte della preghiera perciò sono intimamente legate: il successo degli apostoli è lo stesso successo di Cristo, poiché la loro missione è la sua stessa missione, come si dirà al v. 18: «Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo». Pregando pertanto per gli apostoli, Cristo continua a pregare per se stesso e per la sua «gloria» sempre più grande[3].
E che cosa domanda Gesù al Padre per i suoi apostoli? Prima di tutto «l’unità» fra di loro, dopo che egli non sarà più in questo mondo e quando potranno nascere invidie, contese, interpretazioni diverse del suo messaggio di salvezza, perfino scissioni. È quanto si esprime nel seguente versetto:
Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi (17,11).
Il paradigma che si offre per l’unità dei discepoli è la stessa unità del Padre con il Figlio: «Siano una cosa sola come noi». Una meta forse troppo alta per discepoli, spesso in lite tra di loro per sapere «chi fosse il più grande»? Eppure Gesù per questo ha pregato, coinvolgendo anche il Padre: segno che la cosa è difficile, ma pur sempre possibile!
In secondo luogo, Gesù è ben consapevole che nella sua assenza da loro, i discepoli correranno maggiori rischi a motivo dell’ostilità contro il suo vangelo: già lui presente con loro, «il mondo li ha odiati perché non sono del mondo, come io non sono del mondo» (v. 14). E proprio per questo Gesù intensifica la sua preghiera al Padre perché abbiano la forza di resistere al male:
Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo (17,15).
Qui appare la figura sinistra di Satana «il Maligno» (con l’articolo), che insidierà la missione degli apostoli, come ha fatto già con il loro Maestro.
Consacrali nella verità
Ed è proprio per questa situazione di rischio estremo che Gesù presenta al Padre l’ultima pressante richiesta:
Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo; per loro consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità (17,17-19).
Per ben tre volte ricorre in questi due versetti il verbo «consacrare»a (in greco aghiàzein), che nell’uso biblico significa, per un verso, separazione da un certo ambiente profano e, per l’altro, consacrazione o deputazione a una missione sacra. La missione degli apostoli sarà precisamente quella di annunciare la «parola» che salva, che trova nel Cristo che si immola per noi il suo punto culminante:
Per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità (17,19).
È chiaro che Gesù qui tocca il vertice del sublime nella formulazione della preghiera per i suoi discepoli. La preghiera di Gesù è sempre preghiera-azione o, se si vuole, preghiera-vita. Ma appunto per questo egli può reclamare l’eroismo anche dai suoi: dietro il suo esempio e in conseguenza delle energie spirituali che sgorgheranno dal suo sacrificio, egli può porre come ultimo traguardo, per i suoi, la via del martirio[4] .
Non prego solo per questi
Ora l’orizzonte della preghiera di Gesù si allarga: egli afferma di non essere venuto solo per alcuni, ma per tutti gli uomini, di tutti i tempi, che avranno sempre bisogno di essere salvati. Perciò soprattutto per noi, e per coloro che verranno anche dopo di noi egli prega nella terza parte dell’orazione sacerdotale (vv. 20-23), che così inizia:
Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché essi siano una sola cosa (17,20-21).
Gesù esprime in questi versetti la piena consapevolezza della necessità di una «comunità» di fede che dovrà nascere nel suo nome e continuare nella storia. Nello stesso tempo prevede anche la possibilità concreta di future scissioni fra i credenti nel suo nome. È il «tempo» della Chiesa che il Cristo prevede e anticipa, con il rischio di possibili false interpretazioni del suo messaggio, e perciò anche di divisioni fra i credenti. La storia del cristianesimo, purtroppo, sta a documentare queste frequenti e drammatiche lacerazioni! E questo certamente è, in qualche maniera, un «lacerare» Cristo.
Allo scopo di evitare tali future divisioni Gesù propone, ad esempio, il modello del suo rapporto con il Padre:
Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato (17,21).
Certo, il modello è molto alto, saremmo tentati di dire impossibile: «Come tu sei in me e io in te!». Eppure se ciò avvenisse, sarebbe un miracolo tale da indurre tanti altri, addirittura il «mondo» intero, normalmente ostile, a credere in Gesù come «inviato» del Padre.
Perché siano una cosa sola
Il tema dell’unità, che Gesù ha introdotto, è troppo importante per farlo cadere, e perciò viene sviluppato nei due versetti che seguono:
E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me (17,22-23).
Di quale «gloria» qui si tratta? Per conto nostro, stando a tutto il contesto del capitolo, dove l’espressione ricorre frequentemente (vv. 1.4.5.23), dovrebbe trattarsi della «gloria» della filiazione divina del Cristo, che sarà dimostrata anche più convincentemente con gli ultimi fatti della sua vita (morte e risurrezione) e il suo ritorno al Padre. Avendoci Cristo associati alla sua vita di risorto, cioè di totale intimità con sé e con il Padre, è chiaro che i suoi discepoli non possono non vivere fraternamente fra di loro.
C’è da aggiungere che il pensiero dell’unità di fede e di amore dei suoi discepoli quasi ossessiona Gesù. Egli vuole che tale «unità» sia perseguita a tutti i costi:
Che siano perfetti nell’unità (17,23).
Un’unità vaga e superficiale, più di parole che di fatti, non realizza le esigenze dell’infinito amore di Cristo. Se «unità» vera ha da essere, questa deve essere «perfetta», cioè aperta a tutti e che prenda in carico tutti i problemi degli uomini. Se davvero tutti i credenti in Cristo, nel loro credere e nel loro agire, fossero «una cosa sola» (17,21), come Gesù insistentemente supplica il Padre, davvero sarebbe un «segno» grande di richiamo per l’umanità così divisa e conflittuale in cui ci troviamo a vivere quotidianamente.
Padre, io voglio
La preghiera sacerdotale era cominciata con l’invocazione al Padre (v. 1) e termina con la ripetizione di quel nome, evocato di fila per due volte, versetto dopo versetto, quasi a sottolineare l’urgenza della preghiera medesima e a infondere una fiducia «filiale» che essa sarà accolta:
Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io…; Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto… (17,24-25).
Anche se potrebbe sembrare, a prima vista, che qui Gesù ritorni a parlare dei suoi discepoli, credo che di fatto sia ancora presente al suo sguardo il mondo dei credenti in lui: quelli presenti e quelli futuri. A tutti egli promette l’ingresso nella sua «gloria», non a pochi soltanto, anche se quei pochi, che egli ha ora presenti, saranno i primi a entrarvi. Già precedentemente Gesù aveva detto ai suoi apostoli: «Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io» (14,2-3). Adesso la promessa vale per tutti: la loro «unità» di fede e di amore sulla terra, avrà il coronamento della perfetta armonia nella beatitudine celeste «insieme» con Cristo.
Quello che Gesù promette è la partecipazione di tutti i suoi discepoli presenti e futuri, alla sua gloria celeste:
Padre,voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato, poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo (17,24).
Quello che sorprende in questo versetto è la quasi imperiosità della richiesta di Cristo al Padre: «Voglio…». Parlando del Padre, Gesù gli rende onore, lo ringrazia; ora, invece, «che sta per morire e che si tratta di noi, egli adopera parole imperiose. È un’intimazione filiale: io voglio. Egli ha titolo per dirlo, poiché è il Figlio. E consentendo a questa esigenza dell’uomo-Dio, il Padre non farà altro che consentire alla propria tenerezza. È lui infatti che ha amato gli eletti, li ha dati e uniti a suo Figlio, fino al punto che una medesima vita circola nel ceppo e nei tralci; e quindi come smentire se stesso?»[5].
La preghiera si conclude con un ultimo appello al Padre, chiamato «giusto» nel senso biblico del termine, per designare la sua benevolenza verso gli uomini che accettano il suo amore, a differenza del «mondo», incapace di aprirsi a Dio:
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro (17,25-26).
Ho fatto conoscere loro in tuo nome
Qui Gesù rivendica a sé la funzione di «rivelatore» del Padre, non tanto e solo perché ce lo ha fatto «conoscere», come già si dice al v. 6 : «Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo», ma soprattutto perché ce lo ha rivelato come Dio «amante». E la dimostrazione più grande di questo amore sta proprio nel fatto che ci ha donato il suo stesso Figlio. È quanto leggiamo a conclusione dell’incontro di Gesù con Nicodemo : «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (3,16). E non solo ce lo ha «donato», ma addirittura lo ha «dato» alla morte per la nostra salvezza!
Risulta ora chiaro che siamo di fronte a un doppio amore che è stato donato agli uomini: l’amore di Cristo per noi fino alla morte di croce, ma più ancora l’amore del Padre che per noi ha «donato» il suo unico Figlio, perché in lui ritornassimo anche noi a essere suoi «figli», quantunque sempre indegni di tanta grazia. È sul filo di tali pensieri, che si aprono all’infinito, che si chiude la preghiera sacerdotale di Gesù:
E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro (17,26).
Di questo ultimo versetto voglio sottolineare quel futuro: «E lo farò conoscere», che sta a dire come l’opera di «illuminazione» interiore di Cristo non cesserà mai.
Le ultime parole: «E io in loro» potrebbero anche dare l’impressione di una conclusione maldestra. Si tratta, al contrario, come sottolinea un noto esegeta, di un punto culminante. Divenendo un solo essere con il Figlio, i credenti sono anch’essi «figli».
Così, in modo quasi brusco, termina il colloquio di Gesù con il Padre. È per provocare il lettore ad aprirsi? Il seguito dovrà realizzarsi in lui[6] : cioè in ciascuno di noi che andiamo rimeditando, stupefatti, queste parole, aperte come sono all’infinito.
Settimio Cipriani
[1]«La presentazione di questa preghiera esclude a priori che essa sia la riproduzione letterale di un inno recitato nella sala dove fu celebrata l’ultima cena. Ma non è neppure permesso di considerarla come una preghiera fittizia, composta dall’evangelista o da qualche altro profeta della Chiesa primitiva. Per la sua struttura come per i suoi elementi più fondamentali essa si rifà all’avvenimento storico della cena» (H. van den Bussche, Jean. Commentaire de l’évangile spirituel, Desclée De Brouwer, Bruges 1963, 446).
[2]G. Ferraro, L’«ora» di Cristo nel quarto Vangelo, Herder, Roma 1974. Su questa reciprocità di «gloria» si ritorna ancora successivamente (17,4-5). È evidente che l’ultimo versetto citato allude alla «gloria» celeste, che però viene come frutto e germinazione della «gloria» della croce. Il mistero di salvezza, che il Cristo porta con sé, lui stesso lo ha fatto «conoscere» ai suoi discepoli, che sono come un «dono» fattogli dal Padre: essi hanno accolto il suo messaggio «e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato» (17,8).
[3] Cf. S. Cipriani, La preghiera nel Nuovo Testamento, Milano 1989, 118-119.
[4]Cipriani, La preghiera, 140.
[5] Si tratta di un testo di P. Delatte, riportato da G.M. Behler, Il testamento del Signore, Milano 1965.
[6] X. Léon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, III, Ed. San Paolo, Cinisello B. 1995, 403. A ragione qualcuno ha scritto: «La teologia giovannea si riassume in queste tre parole», cioè «Io in loro» (Y. Simoens, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, EDB, Bologna 2000, 644).