Presenza biblica nella poesia e cultura di Leopardi
dal sito:
http://www.gesuiti.it/moscati/Ital2/Leopardi_Bortone.html
Presenza biblica nella poesia e cultura di Leopardi
Giuseppe Bortone s.j.
[Articolo pubblicato sui nn.2 e 3 del Gesù Nuovo, 2006]
1.1 – Introduzione
Nel 1998 è stato festeggiato il bicentenario della nascita di Leopardi, il lirico, universale cantore dell’Io profondo, l’appassionato Giobbe della poesia italiana, come l’hanno definito Gioberti, De Sanctis e Carducci. Leopardi è stato studiato in tutti i suoi aspetti: la poesia, gli scritti, la personalità, ecc. In un saggio sintetico voglio delineare le varie ipotesi prospettate dagli studiosi e da me sul tipo di religiosità che si annidava nel suo animo e sulla presenza rilevante della Bibbia nella cultura, nella poesia e nella sua formazione umano-religiosa. Leopardi era un uomo esasperato dal dolore e dall’ultrarigorismo della madre, ma anche teso verso quegli « interminati spazi » in cui gli era dolce « naufragare ».
Il presente saggio, come risulta dal titolo, si compone di due parti, apparentemente slegate ma intrecciate fra loro: difatti la lettura impegnata della Bibbia, le molteplici pagine in cui si percepisce il suo legame con il Cristianesimo, prima e dopo il 1816, e insieme le svariate dichiarazioni di anticristianesimo, fanno sorgere il problema sul tipo di cristianesimo, di religiosità, presenti nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi.
Al di là del periodo 1798-1816, in cui vi è accordo fra pratica cristiana ed opere scritte, nel periodo successivo si nota un contrasto, a volte stridente, fra vita privata e pensiero ufficiale: si pensi alle Operette Morali, alla Ginestra, etc. Il problema sarà affrontato nella seconda parte, con il confronto tra le varie prospettive.
Purtroppo nella Critica e Saggistica italiana l’aspetto biblico è stato glissato per molto tempo, in forza della scomparsa secolare della Bibbia dal popolo cristiano e dalla cultura ufficiale italiana. Interessante a questo proposito il volume di Gigliola Fragnito, La Bibbia al rogo, edito dal Mulino, Bologna. Su un piano più divulgativo si pone l’articolo di Ranieri Polese apparso sul Corriere della Sera del 5-3-1998, dove si riferiscono alcune osservazioni del prof. Carlo Ossola, docente di Letteratura Italiana presso l’Università di Torino. Secondo Ossola l’assenza della Bibbia, dopo il Concilio Tridentino, ha prodotto « un generale impoverimento culturale » sia nella religiosità popolare sia nella stessa Letteratura italiana.
Per esempio gli stessi Promessi Sposi, alta espressione della visione cristiana, sono impregnati di Morale cattolica, di Provvidenza, di frati, di vescovi, di santi, di filosofia, di cultura classica, ma riecheggiano poco o niente la Bibbia. Un’eccezione si verifica negli Inni Sacri dello stesso Manzoni: ma lì la presenza biblica si giustifica con l’atmo-sfera liturgica in cui essi sono immersi.
Invece la diretta presenza biblica si realizza nella Letteratura novecentesca, per l’ampio sviluppo degli studi biblici di questo secolo: si pensi a Rebora, Papini, Ungaretti, Mario Luzi, Betocchi, Diego Fabbri, Testori (Interrogatorio a Maria, Factum est…), ai registi Rossellini (Gli Atti degli Apostoli), Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo), Olmi (Genesi).
Anche nella Saggistica emerge l’interesse per la Bibbia: accanto all’impostazione sociologica di Asor Rosa (Scrittori e Popolo), si pongono volumi di ben altro taglio: Auerbach con la dottrina del « Figuralismo » derivata dalla Bibbia, Cacciari (Trattato sugli Angeli), Guido Ceronetti ed Erri De Luca con le loro traduzioni bibliche, l’esimio prof. Carlo Bo, Divo Barsotti (La Religione di Giacomo Leopardi) etc.
Ossola giunge a questa conclusione: « I lettori oggi cercano la Bibbia, perché essa presenta ragioni di vita e di morte, modi di abitare e di rifiutare il mondo; s’interroga con « Giobbe » sui grandi temi dell’esistenza ed esprime la sua sete di unione, armonia, attraverso il « Cantico dei Cantici ».
Una grande eccezione all’assenza biblica nella Letteratura dell’800 è costituita da Leopardi, che leggeva la Bibbia in ebraico e greco e la riecheggiava, sia pure a volte adulterandola, nei suoi scritti: dallo Zibaldone ai Canti, alle Operette Morali.
Ecco alcuni esempi di distorsione biblica in Leopardi: egli mutua il « Vanitas Vanitatum et omnia Vanitas » del Qohelet, ma tace sul punto fermo proclamato dall’Ecclesiaste: Dio. Invece il Kempis ha capito l’insieme dell’opera e l’ha sintetizzato nel celebre aforisma: « Vanitas Vanitatum et omnia Vanitas, praeter amare Deum et illi soli servire » (De Imitatione Christi I,1).
Ugualmente Leopardi dà continuo risalto alle domande angoscianti di Giobbe, ma riferisce poco o niente delle risposte di Dio (Giobbe 38-41) e soprattutto tace l’intervento provvidenziale di Dio, con cui si conclude il libro.
Allo stesso modo non si capisce bene il senso dato a Giovanni 3,19, posto come esergo alla Ginestra. Su questa linea va rilevato un altro abbaglio: usa l’opposizione radicale di S.Giovanni evangelista tra Cristo ed il mondo, per maledire la società, la storia civile, il mondo e gli uomini, pur sentendosi cristiano. Ma S.Giovanni usa la parola « mondo » come equivalente di « male morale, corruzione, peccato »: invece Leopardi usa « mondo » come equivalente di « società, storia, uomini » (cfr Zibaldone 112 e Pensiero LXXXIV).
Nei nn. 432-33 dello Zibaldone, stravolgendo a mio parere la narrazione genesiaca sul peccato originale, ne deduce che il Cristianesimo mortifica la ragione. Leopardi effettua un altro stravolgimento nell’interpretazione della parabola degli operai, chiamati nelle varie ore della giornata (Matteo 20,1 ss.).
Le sue riflessioni sono inesatte, perché egli non inquadra la parabola nel versetto del cap.19 (cfr Zibaldone 1201): « Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi » (Matteo 19,30). Ed ecco il brano di Leopardi: « Perché la parzialità è sempre odiosa e intollerabile, quando anche colui che favorisce o benefica alcuno più degli altri, non tolga niente agli altri del loro dovuto, […] né li disfavorisca in alcun modo? Per l’odio naturale dell’uomo verso l’uomo, inseparabile dall’amor proprio. E vedi in questo proposito la parabola del padre di famiglia e degli operai del Vangelo (Matteo 20, ss) » (1).
A volte, come osserva il Timpanaro in Classicismo e Illuminismo nell’800 italiano (p.210), Leopardi interpreta in modo irrazionalistico il Cristianesimo: cfr Zibaldone 2481-2482 e 2456-2457, dove si addebita al Cristianesimo l’abbassamento della morale umana, perché prospetta ideali troppo elevati (Giacomo Leopardi: il problema delle fonti,a cura di Frattini, p.48).
È triste che un genio così elevato emetta simili giudizi piuttosto strani; v’è però una spiegazione possibile: l’enorme valanga di dolori fisici e psicologici abbattutasi su di lui e l’incarnazione di un becero Cristianesimo ultrarigorista in sua madre (Zibaldone 353-356).
Chiusa questa necessaria digressione, « ad inceptum redeo » (Sallustio). Divo Barsotti, nel volume La religione di Leopardi (ed. Morcelliana, Brescia), dedica l’intero capitolo 14 al rapporto tra Bibbia e Leopardi, sottolineando la vasta presenza nella sua opera di Giobbe e Qohelet, attribuito da Leopardi a Salomone. Ugualmente ritorna la Genesi nella « Storia del genere umano », primo dialogo delle Operette Morali e nell’Inno ai Patriarchi del luglio 1822.
Del 1990 è il volume G.Leopardi: il problema delle fonti, ed. Coletti, a cura del prof. Frattini: qui il saggio del Casoli è dedicato alle fonti bibliche. Nel 1998 è uscito il volume di Niccoli-Salvarani: In difesa di Giobbe e Salomone. Leopardi e la Bibbia, ed. Diabasis, Reggio Emilia, recensito da Elena Loewenthal sul « Sole 24ore » del 26-6-1998.
La rivista « Humanitas », ed. Morcelliana, ha dedicato due numeri al centenario leopardiano con vari saggi: al rapporto Leopardi-Giobbe e Leopardi-Qohelet sono dedicati i due saggi del prof. Moretto e di Roberto Gatti. Del 1975 è il volume di G.Casoli: Dio in Leopardi. Ateismo o Nostalgia del divino?, ripubblicato nel 1988 da Città Nuova-Editrice.
Sulla rivista Il Regno-Attualità del 15-9-98, Alessandra Dioriti pubblica il saggio « Per questa valle », dove sfiora l’argomento. Non ne riesco a condividere la conclusione secondo cui Leopardi assumerebbe una posizione radicalmente negativa verso Dio, l’al di là e il Cristianesimo. Basterebbe leggere l’Epistolario del periodo napoletano ed i documenti sulla sua morte, per assumere posizioni più sanamente problematiche e meno assiomatiche.
Un’altra interessante e critica pubblicazione sul Cristianesimo di Leopardi ed il suo rapporto con la Bibbia è l’opera di Antimo Negri, ordinario di Storia della filosofia a Tor Vergata, Roma. L’opera s’intitola: Leopardi: un’esperienza cristiana. Qui l’ampio capitolo II è dedicato alla presenza biblica nelle prime opere, nei Canti, nelle Operette Morali, nello Zibaldone e in varie poesie giovanili, come Per il giorno delle ceneri, Per il Santo Natale, Il Diluvio Universale, Appressamento della morte del 1816; infine nel Trionfo della Verità, con richiamo al I libro dei Re, cap.18, dove si narra la vittoria di Elia sui profeti di Baal.
3. 1 – Bibbia e opere bibliche nella biblioteca di Leopardi
Leopardi tratta in vari punti dello Zibaldone il tema dell’imitazione: nei nn. 3 e 6 afferma che il diletto delle Belle Arti non è dato dal Bello ma dall’imitazione, anche se questa è difficile (n. 8); la facoltà imitativa è una delle principali dell’ingegno umano (nn. 1364-1365): tuttavia l’imitazione non deve uccidere l’originalità dell’artista che s’ispira e perciò, se questi vuol creare una nobile letteratura nazionale, il testo letto ed ammirato dev’essere incarnato, conformato al luogo, al tempo, alle persone cui l’artista imitatore s’indirizza (nn. 3463-64).
Fra le opere imitate dal Recanatese occupa un posto rilevante la Bibbia, anche se a volte è adattata al proprio pensiero, stato d’animo o ribellione interna: ma questo fa parte della sua teoria sulla libera imitazione, come si è detto.
Leopardi da giovane studia ebraico e greco, legge la Bibbia in ebraico, in greco, in latino. Nella sua biblioteca vi è la Bibbia poliglotta (Londra 1657); vi è la Bibbia latino-francese di Liegi, 1701; vi sono diverse traduzioni in ebraico della Bibbia dal secolo XVI al XVIII; vi sono varie edizioni della Vulgata con le revisioni di Sisto V e Clemente VIII. Vi sono studi sulla Bibbia: da L’istoria santa dell’Antico Testamento del Granelli (Venezia 1792) alle Regole per intendere le Sacre Scritture di Jean Guet (Padova 1738).
Si ritrovano opere letterarie ispirate alla Bibbia: Il Paradiso perduto di Milton, il Messias di Klopstock; da questi letterati impara a gustare il sapore omerico della Bibbia, che lo avrebbe indotto a scrivere nei nn. 3543 e 1028 dello Zibaldone: « Nella Bibbia bisogna considerare l’immaginazione orientale e l’immaginazione antichissima e la straordinaria forza (poetica) che sprigiona dai Salmi, dal Cantico, dai Profeti » o « La Bibbia e Omero sono i due gran fonti dello scrivere, così Dante nell’italiano » (A. Negri, op. cit. pp. 46-49).
Un esempio concreto che realizza la teoria leopardiana dell’imitazione è la poesia Imitazione, in cui il poeta traduce la nota composizione La Feuille di Antonio Arnault (cfr. Leopardi, Canti, a cura di Fubini, pp. 257-58). A questo tipo di impostazione mi sembra ispirarsi Quasimodo, nella sua traduzione dei lirici greci e latini.
Dal numero 395 al 401 Leopardi disquisisce ampiamente sui primi capitoli della Genesi e in particolare sul « Peccato Originale », affermando che esso consiste nell’uso eccessivo della ragione: l’uomo non seppe contentarsi delle cognizioni raggiungibili con la mente propria e la Rivelazione, ma volle superare ogni limite, nell’intento di apprendere tutta la scienza del bene e del male, anzi apprenderla solo con la ragione; da ciò Leopardi deriva che la ragione e la scienza sono fonti di infelicità. In questo modo egli si oppone all’Illuminismo, che riponeva una fiducia totale nella ragione e nella scienza. Come si vede Leopardi non solo legge la Bibbia, ma ne disquisisce con interessanti meditazioni.
Nei nn. 132, 881-82, 920, 1230, 1441-44, 1637, 1639, 1710-11, 2627, 3342, ragiona sugli Ebrei, sul Popolo eletto da cui nasce la Bibbia: tra l’altro sottolinea il loro spirito di casta, l’intreccio tra politica e religione e la loro frequente opposizione agli stranieri. Nel contesto di queste affermazioni generali, Leopardi annota le sue riflessioni particolari sui vari libri biblici che legge: sul piano stilistico e concettuale.
Con questo metodo nei nn. 433-35 e 2939-2941 disquisisce sulla Genesi con lo stravolgimento di cui ho parlato prima. Però fa giustamente notare che la tradizione sul peccato di origine e conseguente decadenza dell’uomo si ritrova anche presso altri popoli. Noi oggi possiamo confermare pienamente questa intuizione leopardiana, comparando la Genesi e il poema « Ghilgamesh ».
Nei nn. 507 e 3343 stila i suoi giudizi su Giobbe, rilevando il suo sfogo, quasi la sua bestemmia contro Dio, contro la propria esistenza, perché esasperato dal dolore e sottolineando l’abbandono da parte di amici e familiari, perché colpito da Dio anche nella sua persona fisica: ciò supponeva una sua colpevolezza.
Ecco il brano leopardiano: « Una malattia, un naufragio, oltre tali disgrazie provenienti più dirittamente dalla natura erano segni più che mai certi dell’odio divino. [...] Qua si deve riferire l’infamia pubblica in cui erano i lebbrosi appresso gli Ebrei… Gli amici e la moglie di Giobbe lo stimarono uno scellerato, com’ei lo videro percosso da tante disgrazie, benché testimoni dell’innocenza della passata sua vita. I Barbari dell’isola di Malta, vedendo l’apostolo Paolo naufrago… e assalito da una vipera, lo stimarono un omicida che la divina vendetta perseguitasse per ogni dove » (Atti degli Apostoli, 28, 36).
Questa era una concezione degli Ebrei ed anche della civiltà greco-romana: si pensi al Prometeo incatenato di Eschilo o all’Enea nella tempesta, come narra Virgilio nel I libro dell’Eneide. Ma soprattutto in Giobbe Leopardi adombra la propria tragedia: giustamente Carducci definì Leopardi « il Giobbe della letteratura e del pensiero italiani » (cfr. Opere-Ediz. Nazionale, vol. XX, pag. 221, ed. Zanichelli, 1937).
Questa intuizione è stata ripresa da Gioanola in Leopardi, la Malinconia, pp. 247 e 394-95. A Giobbe Leopardi ha dedicato un frammento poetico dalla data incerta e oggi riportato in Poesie e Prose, vol. 1, pag. 600, Mondadori, 1994.
Manoscritto del canto « A Silvia », con correzioni autografe.
Nei nn. 1710-11 si parla della legge giudaica; in molti paragrafi si disquisisce della lingua ebraica, della sua povertà linguistica (nn. 806, 1969, 2005-7, 2909-2913) per l’assenza dei composti ma anche della forza sinestetica insita in molte parole, per cui suscitano varietà di concetti e di emozioni. Leopardi apprende bene questa lezione e cerca di inserire parole sinestetiche nella sua poesia, attraverso un’austera ascesi del linguaggio poetico: si pensi alla redazione conclusiva di « ridenti e fuggitivi » riferiti agli occhi di Silvia o di « interminati spazi » riferiti all’Infinito.
Nei nn. 336-37 si esprimono impressioni, valutazioni negative e positive sul Nuovo Testamento, sul Cristianesimo: rilevando, tuttavia, la forza interiore del Cristianesimo, che vivificò il pensiero ormai languido della civiltà greco-romana. Vari paragrafi sono dedicati a S.Paolo: nel 3343 chiama « barbari » i Maltesi perché non seppero accogliere bene S.Paolo, naufragato sulle loro coste.
In 1443-44 si sottolinea l’intimo intreccio fra religiosità ebraica e Tempio, fra religione e nazionalismo presso gli Ebrei; interessante il n. 1849, dove Leopardi afferma che i popoli meridionali brillano nella filosofia, nell’indagine metafisica: tra questi popoli meridionali egli annovera gli Ebrei, la loro Bibbia, ed elogia due libri di profonda filosofia: l’Ecclesiaste, attribuito a Salomone, ed il Siracide.
Giusto il rilievo leopardiano: del resto, anche in Italia la maggioranza dei grandi filosofi proviene dal Meridione: da S.Tommaso d’Aquino a Vico, ai filosofi rinascimentali, sino a Gentile e Croce. Due paragrafi, 1201 e 1639, sono dedicati al Vangelo; purtroppo, come ho già detto, Leopardi prende un abbaglio sul cap. XX di Matteo: nei nn. 1639-45 il Recanatese si addentra in un ginepraio di riflessioni sulla « Legge Nuova », il comandamento dell’amore proclamato da Gesù. Dopo vari ragionamenti, colpisce la frase conclusiva, in cui Leopardi afferma che « la Religion Cristiana resta tutta in piedi… vera e necessaria: però dipendentemente dall’arbitrio (volontà) di Dio che stabilì la Natura in questa tal guisa ». Le suddette elucubrazioni furono stilate nel 1821.
Al di là delle riflessioni personali sui vari libri, Leopardi si rifà alla Bibbia anche nei suoi saggi filosofico-culturali: si ricollega ai primi capitoli della Genesi nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi: qui nel capitolo II viene bollato il politeismo di Omero, mentre si esalta il monoteismo biblico: monoteismo che riscontra anche in filosofi antichi, come Senofane, una cui sentenza è riportata da Clemente Alessandrino: « Unico e solo fra gli uomini e i Numi massimo è il Dio ».
Tuttavia, secondo Leopardi, una qualche traccia di politeismo potrebbe riemergere da Genesi 3, 22: « Ecce Adam quasi unus ex nobis factus est, sciens bonum et malum « . Giustamente A.Negri (op. cit. pp. 50) ed altri biblisti fanno notare che questo brano va inquadrato in Esodo XX, 3; Deuter. XIII, 2; Primo Samuele 12, 2021; Ger. 7, 6-25, dove si afferma chiaro il monoteismo: quindi l’espressione genesiaca potrebbe interpretarsi come plurale maiestatico. Indubbiamente i vari abbagli di esegesi destano stupore in un alto ingegno come Leopardi: bastava leggere il v. 23 dello stesso cap. III dove ritorna l’espressione al singolare: « Il Signore Iddio ».
Chiudo questo capitolo con un rapido accenno alla Speranza: tema ampiamente sviluppato dal Recanatese, che ne sottolinea vari aspetti positivi. Così nel n.1545 si afferma che « senza la speranza non si può assolutamente vivere »; nel n.105 si nota che nella Speranza il bene lontano è sempre maggiore del presente; nel n.85 si rileva che il tempo vero della Speranza è tra la fanciullezza e la giovinezza: perciò queste due età sono le più felici. Questa visione sostanzialmente positiva della suddetta virtù sembra riecheggiare le molte pagine bibliche dedicate ad essa.
Si pensi all’Epistola ai Romani di S.Paolo: 5, 1-5. Per altri brani biblici sulla Speranza, cfr. Bibbia di Gerusalemme, la nota lunga che si estende da p. 2425 a p. 2426. Da ricordare anche il celebre entimema leopardiano sulla Speranza che si trova nei nn. 4145-4146: « Vivo, dunque spero ».
La Speranza è insita nell’essenza della vita sia per la Bibbia, sia per Leopardi. Il poeta scrive le sue osservazioni anche su alcuni personaggi biblici, come Mosè (1639-1640), il Siracide (1176), Gesù di Nazareth, Paolo di Tarso (n° 3342 e parecchi altri). Su Gesù (nn. 1639-1640) Leopardi mette in rilievo la sua consonanza (cfr. il Decalogo) e insieme il superamento della stessa Legge Mosaica: così richiama l’amore dei nemici, elogiato come idea veramente nuova dal Recanatese (n. 1640).
Note:
1. Zibaldone, a cura di F. Flora, ed. Mondadori, n.1201.