dal sito:
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Omelia (17-10-2010)
don Alberto Brignoli
Missione e preghiera: una supplica liberatrice
Siamo ormai abituati ad ascoltare dal Vangelo affermazioni e sentenze puntuali. Non è certo usuale ascoltare un brano domenicale che termina con una domanda. E qualora ciò succeda (come nel caso odierno) la cosa non è frutto della casualità, per cui non può lasciare nell’indifferenza. Una domanda irrisolta, un interrogativo lasciato senza risposta, è sempre una porta aperta a molte interpretazioni, o quantomeno ad una profonda riflessione.
Qui, tra l’altro, non si tratta di una domanda vaga come tante altre: è una domanda fondamentale su cui si gioca la nostra vita di credenti: « Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? ».
Possiamo ovviamente scatenarci a dare tutte le risposte esegeticamente e letterariamente corrette che conosciamo, e quindi affermare che Luca mette queste parole in bocca a Gesù perché la comunità dei credenti del suo tempo era preoccupata rispetto al ritorno glorioso del Figlio dell’uomo sulla terra: un ritorno ritenuto imminente di fronte al quale molti sentivano la propria impreparazione perché privi di una fede forte e sicura.
A me, però, piace prendere questa domanda nella sua estemporaneità, e quindi considerarla una domanda che esula dai confini dello spazio e del tempo e si dirige ad ogni uomo, in ogni epoca e in ogni parte del pianeta: quindi, anche ad ognuno di noi, credenti in Cristo o presunti tali, che forse sullo stimolo delle nostre capacità conoscitive sempre più sviluppate e delle nostre tecnologie sempre più avanzate, pensiamo di essere ormai capaci di autogestirci, di risolverci i nostri problemi da noi stessi, di poter dare una risposta personale a quegli interrogativi più profondi dell’esistenza, che già il Concilio Vaticano II delineava nella Gaudium et Spes: « Cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita? » (GS 10), e molti altri simili.
Queste domande necessitano una risposta, e l’uomo contemporaneo (spesso anche il credente) è convinto di trovarla da sé, senza più alcun riferimento ad un assoluto, ovvero, senza più pensare a Dio. E di conseguenza, senza più rivolgere a lui nessun tipo di pensiero, di richiesta o di intercessione.
La Parola di Dio di quest’oggi vuole aiutarci a comprendere che il motivo di un Dio che sembra essere assente dal vissuto delle persone non risiede nell’incapacità o nella mancata volontà di Dio a rispondere alle nostre necessità, ma in un’umanità che ha smarrito il senso di Dio. E ciò che fa più specie è che questa « perdita del senso di Dio » non è solo l’espressione manifesta di un’umanità indifferente al sacro, ma è in maniera altrettanto evidente espressione di quell’umanità che si definisce credente e della quale anche noi facciamo parte.
Questa nostra perdita del senso di Dio si manifesta in noi nella perdita della capacità di rivolgere a Dio preghiere di supplica e di intercessione con profondo spirito di fede. Con fatica, ormai, supplichiamo Dio negli eventi difficili della nostra vita, meno ancora in quelli lieti: e quando lo facciamo, diamo alla preghiera e alla supplica quella connotazione di magia e di ricerca efficace ed automatica della Grazia che ci fa smarrire il senso di gratuità e di fiducia. Preghiamo e supplichiamo Dio non per affidarci a lui, ma per costringerlo, quasi con un atteggiamento di sfida, a fare per noi ciò che gli chiediamo, quasi fosse un nostro diritto esigerlo e un suo dovere concedercelo.
Sono temi che già la Liturgia della Parola delle precedenti domeniche toccava, parlando del nostro rapporto con Dio come gratuità e Grazia; ma oggi il Vangelo abbina la nostra incapacità a pregare, o meglio la nostra poca insistenza, la nostra incostanza, la nostra accidia, il nostro pensare di poter fare a meno della preghiera, a qualcosa di più profondo, oserei dire di più grave: la mancanza di fede. E Gesù diventa ancora più provocatorio in questa sua affermazione perché non la dichiara attraverso una sentenza, ma attraverso una domanda a cui vuole che ognuno di noi, in prima persona, dia ad essa una risposta: « Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra? ».
L’urgenza dell’apertura alla dimensione missionaria sulla quale stiamo riflettendo in questo mese di ottobre mi porta ancora una volta a riferirmi alla mia esperienza di missione in America Latina.
Perdonatemi: non è bello – e per certi aspetti non è neppure debito – fare dei paragoni tra il modo di vivere la fede cristiana qui e il modo di viverla in una Chiesa storicamente così vicina eppure così diversa dalla nostra come quella del continente latinoamericano. Ma tra la varie cose che mi porto a casa dal mio contatto con quella Chiesa e con quel popolo c’è sicuramente la dimensione profondamente spirituale e di costante contatto con Dio che i cristiani di quella terra mantengono dentro di sé come distintiva del loro carattere, pur a volte professando una fede cristiana in una confessione diversa da quella cattolica, o magari manifestando la propria fede in forme di devozione popolare che a noi possono sembrare primordiali, un po’ animiste o quantomeno strane.
Strane o no che siano, di matrice profondamente cattolica oppure abbinate a una confessione cristiana differente, sta di fatto che le manifestazioni di contatto con Dio attraverso la preghiera presenti nel popolo sudamericano hanno certamente molto da insegnare a noi cristiani del nord del mondo, che presi dalla preoccupazione di una fede motivata e che sappia rendere ragione di ciò in cui crede, non siamo più capaci di parlare con Dio.
A conferma di quanto vi sto testimoniando, vi invito a ripensare alle immagini che hanno fatto il giro del mondo in questi giorni, mostrando i 33 minatori cileni riscattati dalle viscere della terra in cui erano intrappolati da oltre due mesi: non si è sentito uno solo di essi e delle loro famiglie che non abbia testimoniato, senza alcun timore, di aver attinto dalla fede e dalla preghiera la forza di superare una prova così ardua.
E ciò non è affatto espressione di bigottismo o di una concezione del mondo per cui è bene affidarsi a Dio per chiedere a lui – invece di impegnarci noi – di risolvere i problemi che la vita quotidiana ci presenta davanti. Perché un’altra caratteristica della vita di fede e della preghiera che ne scaturisce all’interno delle comunità credenti dell’America Latina è che mai essa è disgiunta da un profondo impegno di rinnovamento, di liberazione e di trasformazione sociale capace di dare svolte significative a situazioni tutt’altro che agiate, ad esempio da un punto di vista socio-economico.
Insomma, una fede e una preghiera che si fanno concretezza di vita, e che non lasciano mai cadere le braccia; che non si stancano mai, al momento opportuno e non opportuno, di rivolgere a Dio suppliche e invocazioni capaci di trasformare l’umana esistenza.
Dio è molto più giusto di un giudice disonesto che ascolta le suppliche di una vedova solo per non avere ulteriori fastidi.
Dio fa giustizia, e la fa prontamente, a tutti coloro che gridano giustizia verso di lui. La gridano pure ai potenti della terra, ma quasi sempre vengono da essi ignorati.
La preghiera del povero non è capace nemmeno di compiere un giro della terra prima di essere ascoltata: ma attraversa le nubi – lo ascolteremo domenica prossima – e non si quieta finché non sia arrivata a Dio.