MOSAIQUE – L’ HOSPITALITE D’ ABRAHAM

dal sito:
San Francesco d’Assisi. Attenti, il poverello ci parla ancora
Bruno Forte
«Anche a un’osservazione superficiale appare evidente come per parecchi secoli in tutta l’Italia nessun uomo abbia goduto di un amore e di un ossequio così smisurati come il modesto e umile Francesco… Il divino messaggio, tenero e beato, che era giunto sulla Terra sotto forma di lui, non si spense con la sua morte. Egli aveva sparso a piene mani un buon seme, e quel seme germogliò e crebbe e fiorì». Queste parole di Hermann Hesse, l’autore di Siddharta, di Narciso e Boccadoro e di tanti altri celebri testi, oltre che di una deliziosa vita di Francesco d’Assisi scritta in gioventù (1904), suscitano la domanda sul perché Francesco abbia lasciato una così profonda impronta nel cuore degli italiani e di tante donne e uomini di ogni latitudine e cultura.
La risposta di Hesse – dal tono piuttosto sentimentale e romantico – contiene un nocciolo prezioso di verità: «Soltanto pochi (come Francesco), in virtù della profondità e dell’ardore del loro intimo, hanno donato ai popoli, quali messaggeri e seminatori divini, parole e pensieri di eternità e dell’antichissimo anelito umano… sì che quali astri beati si librano ancora sopra di noi nel puro firmamento, dorati e sorridenti, benevole guide al peregrinare degli uomini nelle tenebre». Per Hermann Hesse Francesco incarna un messaggio capace di dare ragioni di vita e di speranza al cuore di tutti. Anche a quello dell’Italia d’oggi, scossa da una crisi che, prima che economica e politica, è spirituale e morale.
Nel tentativo di cogliere questo messaggio, motivando così anche la mia scelta di San Francesco quale « personaggio che potrebbe risolvere la crisi del nostro paese », mi è venuto in aiuto un testimone singolare. Sul tratto autostradale che collega Roma a Chieti, fra i più belli d’Italia per paesaggi e colori, a metà circa della piana del Fùcino, su un colle che un tempo si specchiava nel lago, dominato dall’imponente castello medioevale, sorge Celano, patria del beato Tommaso, seguace e primo biografo di Francesco, che a Celano presumibilmente passò intorno al 1220. Nella Vita prima di San Francesco d’Assisi, scritta su incarico di Gregorio IX quale « Legenda » ufficiale per la canonizzazione del Santo e presentata al Papa il 25 febbraio 1229, Tommaso narra con incantevole freschezza la vicenda di Francesco sin dai suoi inizi. Colpisce anzitutto la presentazione del tempo antecedente la conversione: «Viveva ad Assisi, nella valle spoletana, un uomo di nome Francesco. Dai genitori ricevette fin dall’infanzia una cattiva educazione, ispirata alle vanità del mondo. Imitando i loro esempi, egli stesso divenne ancor più leggero e vanitoso».
Il giovane Francesco è veramente uno di noi, così simile a noi nella leggerezza della vita e dei sogni. Tuttavia, è proprio l’aver vissuto questa stagione dell’utopia, impastata delle fughe in avanti dei desideri e delle pretese, che rende Francesco così largamente umano. È quanto esprime la folgorante risposta di Mark Twain alla domanda su dove avrebbe voluto andare dopo la morte: «In paradiso per il clima, all’inferno per la compagnia…»: come a dire che i peccatori suscitano un’immediata simpatia perché li sentiamo a noi familiari, anche se non può non attrarci la bellezza del cielo… Francesco ci parla anzitutto perché parte da quello che ci accomuna tutti: la nostra fragilità, la lista più o meno lunga dei nostri difetti, di cui alcuni – ambizioni, vanità, ricerca dell’immagine a prezzo della verità, dipendenza dagli indici di gradimento, leggerezza nel mantener fede agli impegni – ci appaiono così drammaticamente attuali!
Avviene però nella vita del giovane di Assisi qualcosa di nuovo e imprevisto: Tommaso da Celano lo narra col tratto tenerissimo di una lettura guidata dagli occhi della fede: «Ma la mano del Signore si posò su di lui e la destra dell’Altissimo lo trasformò, perché, per suo mezzo, i peccatori ritrovassero la speranza di rivivere alla grazia, e restasse per tutti un esempio di conversione a Dio». Al di là di queste poche righe, che già aprono uno squarcio sullo sterminato futuro, i fatti ebbero una serrata consequenzialità: «Colpito da una lunga malattia, egli cominciò a cambiare il suo mondo interiore… non tuttavia in modo perfetto e reale, perché non era ancora libero dai lacci della vanità… Francesco cercava ancora di sottrarsi dalla mano divina, accarezzava pensieri terreni, sognava ancora grandi imprese per la gloria vana del mondo».
L’occasione del cambiamento fu di quelle che solleticano anzitutto le ambizioni e proprio così espongono alle delusioni più cocenti: «Un cavaliere di Assisi stava allora organizzando preparativi militari verso le Puglie… Saputo questo, Francesco trattò per arruolarsi… Ma, la mattina in cui doveva partire, intuì che la sua scelta era erronea rispetto al progetto che Dio aveva per lui». Francesco rinuncia alla spedizione e sceglie di conformare la sua volontà a quella divina: «Si apparta un poco dal tumulto del mondo, e cerca di custodire Gesù Cristo nell’intimità del cuore… appronta un cavallo, monta in sella e, portando con sé i panni di scarlatto, parte veloce per Foligno. Ivi vende tutta la merce e con un colpo di fortuna anche il cavallo!».
È il « no » al passato: non ancora, tuttavia, è chiaro a che cosa dovrà dire il suo « sì ». «Sul cammino del ritorno, libero da ogni peso, va pensando all’opera cui destinare quel denaro… Avvicinandosi ad Assisi, s’imbatte in una chiesa molto antica, fabbricata sul bordo della strada e dedicata a San Damiano, in rovina… Vedendola in quella miseranda condizione, si sente stringere il cuore. Incontrandovi un povero sacerdote, con grande fede, gli bacia le mani consacrate, e gli offre il denaro rimanendo a vivere con lui».
Ciò che è avvenuto all’interno del cuore non può non manifestarsi all’esterno: si prepara la sfida più dura, l’incomprensione e il giudizio dei suoi. «Suo padre venne a conoscenza che egli dimorava in quel luogo e viveva in quella maniera. Profondamente addolorato radunò vicini e amici e corse a prenderlo e lo rinchiuse in una fossa che era sotto la casa ove rimase per un mese intero… Francesco con calde lacrime implorava Dio che lo liberasse… Affari urgenti costrinsero il padre ad assentarsi per un po’ di tempo da casa… Allora la madre, rimasta sola con lui, disapprovando il metodo del marito, parlò con tenerezza al figlio; ma s’accorse che niente poteva dissuaderlo dalla sua scelta. E l’amore materno fu più forte di lei stessa: ne sciolse i legami lasciandolo in libertà».
Emerge qui una costante della vita di Francesco: il ruolo della donna nella sua esistenza. Dapprima, la Madre, tanto tenera, quanto capace di capire. Quindi, Chiara, sorella nell’amore per Cristo e discepola fedelissima. Sempre la Madre di Dio, custode del suo cuore. «Frattanto il padre rincasa, e visto ogni vano tentativo per distoglierlo dal nuovo cammino, rivolge il suo interesse a farsi restituire il denaro… Allora, impose al figlio di seguirlo davanti al vescovo della città, affinché facesse davanti al prelato la rinuncia e la restituzione completa di quanto possedeva. Francesco non esita per nessun motivo: senza dire o aspettare parole, si toglie le vesti e le getta tra le braccia di suo padre, restando nudo di fronte a tutti». Si rivela qui il tratto che rende Francesco fratello universale: la rinuncia a ogni possesso e a ogni potere, il suo essere nudo e indifeso. Non si tratta solo di una scelta di sobrietà, pur così importante e necessaria allora come oggi: è una logica che appare sovversiva rispetto agli arrivismi e alle avidità di questo mondo. Non è l’ »audience » che conta, né il successo o il denaro, ma la nuda verità di ciò che siamo davanti a Dio e per gli altri! Ed è proprio questa libertà dell’essenziale che lo avvicina a tutti e lo rende inquietante per tutti!
Nel tempo in cui sta a San Damiano, Francesco prega intensamente. Il Crocifisso che è in quella chiesa gli parla: «Va e ripara la mia casa». In un primo momento Francesco pensa di dover riparare la chiesetta dove si trova; capisce, poi, che Gesù si riferiva alla Chiesa tutta intera, che attraversava un periodo contrassegnato da mondanità e prove. Riportare la Chiesa agli insegnamenti del Vangelo, liberarla dalla seduzione delle ricchezze e del potere, riavvicinarla ai poveri è la missione di cui si sente investito.
Comincia la sua nuova vita: «Si reca tra i lebbrosi e vive con essi per servirli in ogni necessità per amor di Dio. Lava i loro corpi e ne cura le piaghe… La vista dei lebbrosi gli era prima così insopportabile, che non appena scorgeva in lontananza i loro ricoveri, si turava il naso. Ma ecco quanto avvenne: nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell’Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso e fece violenza a sé stesso, gli si avvicinò e lo baciò». Il suo modo di vivere a servizio di Dio cominciò ad affascinare i giovani di Assisi, al punto che vari di loro lo seguirono per servire il Signore.
Nei rapporti con gli altri, Francesco segue una regola precisa: «Chi non ama un solo uomo sulla terra al punto da perdonargli tutto, non ama Dio». Proprio così comincia a dare fastidio: «I potenti di Assisi si videro la loro cittadina svuotata per via di Francesco e, in un momento in cui egli e i suoi confratelli erano in giro per la questua, alcuni uomini di Assisi saccheggiarono la chiesa di San Damiano uccidendo un poverello che dimorava in quel luogo. Al ritorno, Francesco fu scosso da profondo dolore al punto da pensare di dover andare dal Papa in persona per chiedere se la via che aveva intrapreso per seguire il Cristo fosse errata. Dall’incontro con il Papa, non fu Francesco ad uscirne con consigli e ammonimenti, ma furono tutti, il Papa Innocenzo III compreso, a sentirsi umiliati dalla povertà e obbedienza di quest’uomo. Da questo momento tutta la Chiesa fu rinnovata: c’era finalmente qualcuno che riportasse i poveri a Cristo».
Francesco si mette alla scuola di Gesù Crocifisso e impara l’umiltà. Anche in questo la provocazione che lancia al nostro presente è bruciante: «Un frate chiede a Francesco: ‘Padre, cosa ne pensi di te stesso? » ed egli rispose: ‘Mi sembra di essere il più grande peccatore, perché se Dio avesse usata tanta misericordia con qualche scellerato, sarebbe dieci volte migliore di me »». Lo spogliamento di sé caratterizzerà sempre più il suo cammino: nellaVita seconda di S. Francesco, che Tommaso da Celano stende tra il 1246/1247 per corrispondere all’ingiunzione del Capitolo generale di Genova «di scrivere i fatti e persino le parole» di Francesco, questo aspetto emerge in modo impressionante. «L’ardore del desiderio lo rapiva in Dio e un tenero sentimento di compassione lo trasformava in Colui che volle essere crocifisso. Un mattino, mentre pregava sul fianco del monte, vide la figura come di un serafino, con sei ali tanto luminose quanto infuocate, discendere dalla sublimità dei cieli: esso con rapidissimo volo, giunse vicino all’uomo di Dio, e allora apparve l’effige di un uomo crocifisso, che aveva mani e piedi stesi e confitti sulla croce… Il vederlo confitto in croce gli trapassava l’anima. L’amico di Cristo stava per essere trasformato tutto nel ritratto visibile di Cristo Gesù crocifisso… Così il verace amore di Cristo aveva trasformato l’amante nella immagine stessa dell’Amato».
Gli occhi di Francesco si chiuderanno presto alla luce del mondo: ma la luce della Sua fede e del Suo amore umile continuerà a risplendere. Non fu la Sua una fuga dal mondo. Se non avesse amato profondamente questa terra, non avrebbe composto il Cantico delle creature. La sua è anche una spiritualità del rispetto e dell’amore del creato. Tutto in Francesco fu motivato dall’aver compreso qual è la perla preziosa da cercare ad ogni costo: sobrietà, povertà, tenerissima carità, umiltà, rispetto per ogni creatura e per tutto il creato sono volti di quest’unico amore. E non è di esso che ha bisogno anche l’Italia di oggi, come quella del suo tempo e il mondo intero con lei? «Quando infine si furono compiuti in lui tutti i misteri, quell’anima santissima, sciolta dal corpo, fu sommersa nell’abisso della chiarità divina e l’uomo beato s’addormentò nel Signore. Uno dei suoi frati e discepoli vide quell’anima beata, in forma di stella fulgentissima, sollevarsi su una candida nuvola al di sopra di molte acque e penetrare diritta in cielo: nitidissima per il candore della santità eccelsa e ricolma di celeste sapienza e di grazia per le quali il santo meritò di entrare nel luogo della luce e della pace, dove con Cristo riposa senza fine». E parla a chiunque voglia ascoltarlo…
dal sito:
http://www.zenit.org/article-24038?l=italian
EDWARDS. NON È IL NOBEL PER L’ETICA!
di padre Gonzalo Miranda, L.C.
ROMA, domenica, 10 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Un giornalista mi chiede “perché la Chiesa si oppone alla concessione del premio Nobel a Robert Edwards”, pioniere della fecondazione in vitro. Non si tratta di opporsi, ma di distinguere: non gli è stato concesso il “Nobel per l’etica” (che, fortunatamente, non esiste) ma quello per la medicina. Da molti commenti, invece, sembrerebbe che il riconoscimento da parte della Accademia di Oslo debba per forza spazzare via ogni dubbio e ogni domanda sui molteplici problemi etici legati alla pratica della fecondazione artificiale.
Si ripete in continuazione la cifra di 4 milioni di bambini nati grazie alle ricerche di Edwards. E sembra che, con questi numeri alla mano, ogni tentativo di riflessione etica sia ormai fuori luogo. “Il Vaticano prepara il rogo mediatico”, ha scritto qualcuno. C’è, però, qualche cosa di strano nel mondo della fecondazione artificiale: non pochi operatori in questo campo si pentono e cambiano lavoro. Ne conosco ormai diversi. Riflettono, si interrogano, si tormentano… e a volte lasciano le provette, nonostante i lauti guadagni. Avete mai visto un ginecologo tormentato nella sua coscienza per il fatto che con il suo lavoro aiuta i bambini a venire in questo mondo nella sala parto?
4 milioni di bambini nati. Quanti milioni di bambini non nati? Quanti milioni eliminati in stadio embrionale nello stesso momento in cui i loro fratelli venivano trasferiti nell’utero della madre? Quanti milioni si trovano oggi congelati in azoto liquido, perché “avanzano”? Non si tratta soltanto di deviazioni o di incidenti imprevisti. Robert Edwards annunciò di aver ottenuto embrioni umani in vitro già in due articoli scientifici nei primissimi anni 60. Naturalmente, non si sognava nemmeno, in quel tempo, di trasferirli in utero per dare loro la possibilità di continuare a vivere. Embrioni umani prodotti in laboratorio con lo scopo di migliorare la tecnica. Louise Brown è nata dopo che molti embrioni umani erano stati sacrificati per poter ottenere il risultato.
Si ricorre alla scappatoia del “pre-embrione”. Si afferma che prima dell’impianto in utero è solo “un amasso di cellule” o un mero “progetto di vita”, e voilà, problema risolto. Per niente. I manuali di embriologia umana continuano testardi ad insegnare che nel momento del concepimento comincia l’esistenza di un nuovo individuo; nella specie umana, un individuo umano. E poi, se non degli embrioni, vogliamo dire qualcosa almeno a proposito dei bambini che nascono da fecondazione in vitro? “Tutti sani” è stato scritto in questi giorni. Si vede che leggono poco. Ormai abbondano gli articoli su rivise scientifiche specializzate che evidenziano tutta una serie di problematiche mediche, per niente banali, i figli della provetta.
Ecco alcuni testi recenti:
- “I bambini nati da coppie infertili, qualsiasi sia stato il trattamento, corrono un maggior rischio di nascta prematura e sotto peso, condizioni associate con il ritardo dello sviluppo” (Pediatric and Perinatal epidemiology, marzo 2009).
- “Anche se la ICSI [tecnica molto utilizzato oggi] è accettata, rimangono le preoccupazioni sulla sua sicurezza e sui potenziali rischi per i bambini”; tasso di malformazioni congenite del 6,5% contro il 4% generale (Gynecol Obstet Invest, gennaio 2010).
- “Diversi disordini del imprinting genetico avvengono con frequenze significativamente superiori nei bambini concepiti con la Riproduzione Assistita che in quelli concepiti spontaneamente” (Ann Endocrinol (Paris), maggio 2010).
- “Abbiamo riscontrato un aumento moderato del rischio di contrarre il cancro nei bambini concepiti con la FIVET” (Pediatrics, luglio 2010).
I veri esperti del settore conoscono questi e altri studi preoccupanti. Gli apologeti della fecondazione arrificiale non ne vogliono sapere. La gente normale, soprattutto le coppie infertili, dovrebbero essere informate. Per mera giustizia. Tutto pulito, dunque? Non proprio. E ciò spiega in parte le perplessità e gli abbandoni di alcuni operatori nel settore.Ci sarebbe poi da aggiungere tutto il discorso sul rispetto della dignità della persona nel modo di farla esistere e venire in questo mondo. Le persone si procreano, non si producono. La persona è il frutto in un’atto inter-personale di amore dei propri genitori. Le tecniche che si pongono come aiuto affinché l’atto di amore nella donazione sessuale degli sposi possa dare il suo frutto naturale, si pongono nella logica della procreazione. La fecondazione in vitro è un atto di produzione.
Mi hanno risposto recentemente su un giornale, dicendo che il bambino nato da fecondazione artificiale è frutto di un’atto di amore; addirittura simile all’atto di amore creatore di Dio. Si confondono le cose. Posso desiderare di avere un figlio, come posso desiderare di avere un iPad. E posso, in entrambi i casi, porre i mezzi necessari per ottenerlo, anche con dei sacrifici. Questo è amore in quanto volontà di… Non è questo l’amore sponsale che genera un figlio. Il figlio nasce da un’atto di amore tra gli sposi, non da un mero atto di volontà per ottenere il bambino desiderato. Lo capisce bene il tecnico che prende coscienza che è lui, e solo lui, a causare l’esistenza del bambino nel suo laboratorio. Una volta ottenute le cellule necessarie dai futuri genitori, loro non c’entrano niente. Potrebbero addirittura essere morti in un incidente di ritorno a casa. Il tecnico può andare avanti e far sorgere le nuove vite.
Sono risolti tutti i dubbi morali sulla Riproduzione Assistita? Non mi pare. La concessione del Nobel a Robert Edwards certamente non li cancella. Piuttosto dovrebbe stimolare la riflessione e il dibattito.
dal sito:
http://www.zenit.org/article-24037?l=italian
OMELIA DEL PAPA PER L’APERTURA DEL SINODO DEI VESCOVI PER IL MEDIO ORIENTE
Cristiani di Terra Santa, siate pietre vive della Chiesa in Medio Oriente
CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 10 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata questa domenica da Benedetto XVI nel presiedere nella Basilica Vaticana la celebrazione dell’Eucaristia con i Padri Sinodali, in occasione dell’apertura dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi sul tema: «La Chiesa Cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza. « La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola » (At 4, 32)».
* * *
Venerati Fratelli,
illustri Signori e Signore,
cari fratelli e sorelle!
La Celebrazione eucaristica, rendimento di grazie a Dio per eccellenza, è segnata oggi per noi, radunati presso il Sepolcro di San Pietro, da un motivo straordinario: la grazia di vedere riuniti per la prima volta in un’Assemblea Sinodale, intorno al Vescovo di Roma e Pastore Universale, i Vescovi della regione mediorientale. Tale singolare evento dimostra l’interesse dell’intera Chiesa per la preziosa e amata porzione del Popolo di Dio che vive in Terra Santa e in tutto il Medio Oriente.
Anzitutto eleviamo il nostro ringraziamento al Signore della storia, perché ha permesso che, nonostante vicende spesso difficili e tormentate, il Medio Oriente vedesse sempre, dai tempi di Gesù fino ad oggi, la continuità della presenza dei cristiani. In quelle terre l’unica Chiesa di Cristo si esprime nella varietà di Tradizioni liturgiche, spirituali, culturali e disciplinari delle sei venerande Chiese Orientali Cattoliche sui iuris, come pure nella Tradizione latina. Il fraterno saluto, che rivolgo con grande affetto ai Patriarchi di ognuna di esse, vuole estendersi in questo momento a tutti i fedeli affidati alle loro cure pastorali nei rispettivi Paesi e anche nella diaspora.
In questa Domenica 28.ma del Tempo per annum, la Parola di Dio offre un tema di meditazione che si accosta in modo significativo all’evento sinodale che oggi inauguriamo. La lettura continua del Vangelo di Luca ci conduce all’episodio della guarigione dei dieci lebbrosi, dei quali uno solo, un samaritano, torna indietro a ringraziare Gesù. In connessione con questo testo, la prima lettura, tratta dal Secondo Libro dei Re, racconta la guarigione di Naaman, capo dell’esercito arameo, anch’egli lebbroso, che viene guarito immergendosi sette volte nelle acque del fiume Giordano, secondo l’ordine del profeta Eliseo. Anche Naaman ritorna dal profeta e, riconoscendo in lui il mediatore di Dio, professa la fede nell’unico Signore. Dunque, due malati di lebbra, due non ebrei, che guariscono perché credono alla parola dell’inviato di Dio. Guariscono nel corpo, ma si aprono alla fede, e questa li guarisce nell’anima, cioè li salva.
Il Salmo responsoriale canta questa realtà: « Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, / agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia. / Egli si è ricordato del suo amore, / della sua fedeltà alla casa d’Israele » (Sal 98,2-3). Ecco allora il tema: la salvezza è universale, ma passa attraverso una mediazione determinata, storica: la mediazione del popolo di Israele, che diventa poi quella di Gesù Cristo e della Chiesa. La porta della vita è aperta per tutti, ma, appunto, è una « porta », cioè un passaggio definito e necessario. Lo afferma sinteticamente la formula paolina che abbiamo ascoltato nella Seconda Lettera a Timoteo: « la salvezza che è in Cristo Gesù » (2 Tm 2,10). E’ il mistero dell’universalità della salvezza e al tempo stesso del suo necessario legame con la mediazione storica di Gesù Cristo, preceduta da quella del popolo di Israele e prolungata da quella della Chiesa. Dio è amore e vuole che tutti gli uomini abbiano parte alla sua vita; per realizzare questo disegno Egli, che è Uno e Trino, crea nel mondo un mistero di comunione umano e divino, storico e trascendente: lo crea con il « metodo » – per così dire – dell’alleanza, legandosi con amore fedele e inesauribile agli uomini, formandosi un popolo santo, che diventi una benedizione per tutte le famiglie della terra (cfr Gen 12,3). Si rivela così come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (cfr Es 3,6), che vuole condurre il suo popolo alla « terra » della libertà e della pace. Questa « terra » non è di questo mondo; tutto il disegno divino eccede la storia, ma il Signore lo vuole costruire con gli uomini, per gli uomini e negli uomini, a partire dalle coordinate di spazio e di tempo in cui essi vivono e che Lui stesso ha dato.
Di tali coordinate fa parte, con una sua specificità, quello che noi chiamiamo il « Medio Oriente ». Anche questa regione del mondo Dio la vede da una prospettiva diversa, si direbbe « dall’alto »: è la terra di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; la terra dell’esodo e del ritorno dall’esilio; la terra del tempio e dei profeti; la terra in cui il Figlio Unigenito è nato da Maria, dove ha vissuto, è morto ed è risorto; la culla della Chiesa, costituita per portare il Vangelo di Cristo sino ai confini del mondo. E noi pure, come credenti, guardiamo al Medio Oriente con questo sguardo, nella prospettiva della storia della salvezza. E’ l’ottica interiore che mi ha guidato nei viaggi apostolici in Turchia, nella Terra Santa – Giordania, Israele, Palestina – e a Cipro, dove ho potuto conoscere da vicino le gioie e le preoccupazioni delle comunità cristiane. Anche per questo ho accolto volentieri la proposta di Patriarchi e Vescovi di convocare un’Assemblea sinodale per riflettere insieme, alla luce della Sacra Scrittura e della Tradizione della Chiesa, sul presente e sul futuro dei fedeli e delle popolazioni del Medio Oriente.
Guardare quella parte del mondo nella prospettiva di Dio significa riconoscere in essa la « culla » di un disegno universale di salvezza nell’amore, un mistero di comunione che si attua nella libertà e perciò chiede agli uomini una risposta. Abramo, i profeti, la Vergine Maria sono i protagonisti di questa risposta, che però ha il suo compimento in Gesù Cristo, figlio di quella stessa terra, ma disceso dal Cielo. Da Lui, dal suo Cuore e dal suo Spirito, è nata la Chiesa, che è pellegrina in questo mondo, ma gli appartiene. La Chiesa è costituita per essere, in mezzo agli uomini, segno e strumento dell’unico e universale progetto salvifico di Dio; essa adempie questa missione semplicemente essendo se stessa, cioè « comunione e testimonianza », come recita il tema dell’Assemblea sinodale che oggi si apre, e che fa riferimento alla celebre definizione lucana della prima comunità cristiana: « La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola » (At 4,32). Senza comunione non può esserci testimonianza: la grande testimonianza è proprio la vita di comunione. Lo disse chiaramente Gesù: « Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri » (Gv 13,35). Questa comunione è la vita stessa di Dio che si comunica nello Spirito Santo, mediante Gesù Cristo. E’ dunque un dono, non qualcosa che dobbiamo anzitutto costruire noi con le nostre forze. Ed è proprio per questo che interpella la nostra libertà e attende la nostra risposta: la comunione ci chiede sempre conversione, come dono che va sempre meglio accolto e realizzato. I primi cristiani, a Gerusalemme, erano pochi. Nessuno avrebbe potuto immaginare ciò che poi è accaduto. E la Chiesa vive sempre di quella medesima forza che l’ha fatta partire e crescere. La Pentecoste è l’evento originario ma è anche un dinamismo permanente, e il Sinodo dei Vescovi è un momento privilegiato in cui si può rinnovare nel cammino della Chiesa la grazia della Pentecoste, affinché la Buona Novella sia annunciata con franchezza e possa essere accolta da tutte le genti.
Pertanto, lo scopo di questa Assise sinodale è prevalentemente pastorale. Pur non potendo ignorare la delicata e a volte drammatica situazione sociale e politica di alcuni Paesi, i Pastori delle Chiese in Medio Oriente desiderano concentrarsi sugli aspetti propri della loro missione. Al riguardo, l’Instrumentum laboris, elaborato da un Consiglio Presinodale i cui Membri ringrazio vivamente per il lavoro svolto, ha sottolineato questa finalità ecclesiale dell’Assemblea, rilevando che essa intende, sotto la guida dello Spirito Santo, ravvivare la comunione della Chiesa Cattolica in Medio Oriente. Anzitutto all’interno di ciascuna Chiesa, tra tutti i suoi membri: Patriarca, Vescovi, sacerdoti, religiosi, persone di vita consacrata e laici. E, quindi, nei rapporti con le altre Chiese. La vita ecclesiale, così corroborata, vedrà svilupparsi frutti assai positivi nel cammino ecumenico con le altre Chiese e Comunità ecclesiali presenti in Medio Oriente. Questa occasione è poi propizia per proseguire costruttivamente il dialogo con gli ebrei, ai quali ci lega in modo indissolubile la lunga storia dell’Alleanza, come pure con i musulmani.
I lavori dell’Assise sinodale sono, inoltre, orientati alla testimonianza dei cristiani a livello personale, familiare e sociale. Questo richiede di rafforzare la loro identità cristiana mediante la Parola di Dio e i Sacramenti. Tutti auspichiamo che i fedeli sentano la gioia di vivere in Terra Santa, terra benedetta dalla presenza e dal glorioso mistero pasquale del Signore Gesù Cristo. Lungo i secoli quei Luoghi hanno attirato moltitudini di pellegrini ed anche comunità religiose maschili e femminili, che hanno considerato un grande privilegio il poter vivere e rendere testimonianza nella Terra di Gesù. Nonostante le difficoltà, i cristiani di Terra Santa sono chiamati a ravvivare la coscienza di essere pietre vive della Chiesa in Medio Oriente, presso i Luoghi santi della nostra salvezza. Ma quello di vivere dignitosamente nella propria patria è anzitutto un diritto umano fondamentale: perciò occorre favorire condizioni di pace e di giustizia, indispensabili per uno sviluppo armonioso di tutti gli abitanti della regione. Tutti dunque sono chiamati a dare il proprio contributo: la comunità internazionale, sostenendo un cammino affidabile, leale e costruttivo verso la pace; le religioni maggiormente presenti nella regione, nel promuovere i valori spirituali e culturali che uniscono gli uomini ed escludono ogni espressione di violenza. I cristiani continueranno a dare il loro contributo non soltanto con le opere di promozione sociale, quali gli istituti di educazione e di sanità, ma soprattutto con lo spirito delle Beatitudini evangeliche, che anima la pratica del perdono e della riconciliazione. In tale impegno essi avranno sempre l’appoggio di tutta la Chiesa, come attesta solennemente la presenza qui dei Delegati degli Episcopati di altri continenti.
Cari amici, affidiamo i lavori dell’Assemblea sinodale per il Medio Oriente ai numerosi Santi e Sante di quella terra benedetta; invochiamo su di essa la costante protezione della Beata Vergine Maria, affinché le prossime giornate di preghiera, di riflessione e di comunione fraterna siano portatrici di buoni frutti per il presente e il futuro delle care popolazioni mediorientali. Ad esse rivolgiamo con tutto il cuore il saluto augurale: « Pace a te e pace alla tua casa e pace a quanto ti appartiene! » (1Sam 25,6).
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/10790.html
Omelia (15-10-2007)
Monaci Benedettini Silvestrini
Ben più di Giona c’è qui
Come la regina del sud venne a Gerusalemme per sentire Salomone, così Giona fu mandato presso la città pagana di Ninive perché si convertisse. Due episodi tratti dall’Antico Testamento sono riportati nella liturgia odierna. Lo stesso Gesù usa questi due esempi per dimostrare come la Sapienza divina può usare qualsiasi strumento per la conversione dei cuori. Il Dio della misericordia non si dimentica mai di chi ha bisogno di aiuto ed è sempre sollecito con la sua azione. Il popolo pagano di Ninive ha subito accettato la predicazione di Giona nell’invito alla vera conversione, quale segno di un Dio che opera sempre per la salvezza. Nella pienezza dei tempi si compie in Cristo il piano di salvezza, quando lo stesso popolo di Israele si era allontanato dalla genuinità dell’insegnamento che Dio aveva affidato a Mosè. La salvezza non arriva più tramite un profeta ma con il vero Profeta; la salvezza stessa non è più solo annunciata ma si realizza concretamente e si presenta in un uomo, nel Figlio di Dio, Gesù Cristo. Che reazione allora ci si poteva aspettare dai contemporanei di Gesù? Soprattutto ricordando la sollecitudine degli abitanti, pagani, di Ninive? Proprio perché Gesù annuncia il Regno con la sua Persona, era logico supporre un’accoglienza diversa da quella che Gesù stesso ha sperimentato. Nel rimprovero di Gesù verso la sua generazione leggiamo proprio il desiderio profondo che Egli venga accolto come il vero Messia. Gesù, rivelatore dell’Amore del Padre, è pronto ad indicare l’abbraccio misericordioso verso tutti quelli che si dimostrano pronti alla conversione. La durezza dei cuori dimostratagli significa la non accoglienza del Gesù Salvatore, figlio di Dio e figlio dell’uomo; significa non credere all’Amore del Padre. La generazione di Gesù, in definitiva, crede che per la loro salvezza, questo Gesù non è utile e preferiscono affidarsi alla loro sapienza ed alla loro intelligenza. Potremo allora farci la vera domanda che riguarda il nostro cuore. Di chi ci fidiamo? Solo delle nostre forze? Ci riteniamo autosufficienti? Accogliamo il vero segno di Giona nell’accoglienza del Mistero Pasquale di Cristo come Mistero d’Amore e di redenzione.