Archive pour le 7 octobre, 2010

IMMAGINE PER OGGI: B.V. DEL ROSARIO

IMMAGINE PER OGGI: B.V. DEL ROSARIO dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 7 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

Gianfranco Ravasi, Preghiera: quando l’uomo parla con Dio

dal sito:

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GIANFRANCO RAVASI

Preghiera: quando l’uomo parla con Dio

«Il pregare è nella religione ciò che è il pensiero nella filosofia. Il senso religioso prega come l’organo del pensiero pensa». Questa dichiarazione del grande poeta romantico tedesco Novalis fa subito comprendere non solo quanto fondamentale sia la preghiera nell’esperienza religiosa, ma anche quanto sia arduo tentarne un profilo descrittivo. Anzi, un filosofo, il danese Søren Kierkegaard, non esitava nel suo diario a comparare il pregare al respirare: «Giustamente gli antichi dicevano che pregare è respirare. Qui si vede quanto sia sciocco voler parlare di un « perché ». Perché io respiro? Perché altrimenti muoio. Così con la preghiera». A lui faceva eco un teologo importante come Yves Congar che nella sua opera Le vie del Dio vivente ribadiva: «Con la preghiera riceviamo l’ossigeno per respirare. Coi sacramenti ci nutriamo. Ma, prima del nutrimento, c’è la respirazione e la respirazione è la preghiera». In questa linea è facilmente comprensibile come il pregare coinvolga tutto l’essere della creatura in una totalità ben espressa, ad esempio, dalle tecniche orientali di contemplazione « corporale » o nel tipico agitarsi dondolante dell’orante ebreo. Il quale, mentre prega, muove anche le giunture del corpo così da attuare quello che, in modo simbolico, aveva evocato lo stesso apostolo Paolo: «Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale» (Romani 12, 1). Un famoso mistico tedesco vissuto a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, Meister Eckhart, sottolineava che «bisogna pregare con tanto fervore così da tener avvinte tutte le membra e le facoltà umane; orecchi, occhi, bocca, cuore e ogni senso e non cessare finché non si sente di voler essere uno con Colui che è presente e che preghiamo, con Dio». Ma si può anche andare oltre e ritenere con il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein che «pregare è pensare al senso della vita», come egli annotava nei suoi appunti del 1914-1916. Quando l’uomo si rivolge alla divinità cerca, infatti, non solo di penetrare nel mistero del suo interlocutore infinito, ma anche di scavare nel mistero della sua stessa esistenza. tentando di scoprirne un senso e un valore. In questa stessa direzione si potrebbe, allora, riprendere il giuoco di parole creato da un altro importante filosofo del Novecento, il tedesco Martin Heidegger, quando affermava che denken ist danken, cioè che pensare è ringraziare. Per questo si potrebbe condividere un’ultima affermazione teorica, quella del filosofo mistico ebreo Abraham J. Heschel, convinto che «pregare è la grande ricompensa dell’essere uomini». Ora, la preghiera rispecchia necessariamente la particolare visione di Dio dell’orante. Così, a una concezione « fredda » della trascendenza divina corrisponde una preghiera distante e striata dal timore e dal rispetto per l’inconoscibile volontà della divinità. Esemplare è il distacco tra il divino e l’umano marcato dall’orazione musulmana, specchio di un trascendentalismo teologico rigorosissimo. Ma già tra i Sumeri il dio Enlil era invocato così: «Le tue molte perfezioni fanno restare attoniti; la loro natura segreta è come una matassa arruffata che nessuno sa dipanare, è arruffio di fili di cui non si vede il bandolo» (Inno a Enlil, IX, 131-134). Anche nel mondo greco quel «Dio ignoto» che Paolo nomina durante il suo passaggio da Atene (Atti 17, 23) costringe l’orante a invocazioni « negative » come quelle evocate dalle Coefore di Eschilo: «Zeus, Zeus, che dico? Come comincerò» (v. 85). Ma è proprio nella stessa cultura greca che riusciamo a identificare uno splendido modello di spiritualità « calda » in cui il rapporto con Dio è intenso, diretto, personale. Intendiamo riferirci a quel gioiello stoico che è l’Inno a Zeus di Cleante (III secolo a. C.): i suoi trentanove esametri esaltano non solo l’onnipotenza e la giustizia divina, ma anche l’ordine cosmico a cui partecipa l’orante e la stessa « simbiosi », dalle iridescenze panteiste, che connette la divinità al fedele. È curioso ricordare che l’apostolo Paolo nel celebre discorso all’Areopago ateniese evoca il v.5 dell’inno di Cleante, affermando che in Dio «noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: « poiché di lui stirpe noi siamo »» (Atti 17, 28). Tale prospettiva domina nell’ambito biblico dove è facile incontrare frasi salmiche di questo tenore: «Sei il mio Signore, senza di te non ho alcun bene / Al mio nascere tu mi hai raccolto, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio / Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto / Fuori di te nulla bramo sulla terra / Il mio bene è stare vicino a Dio» (Salmi 16, 2; 22, 10; 27, 10; 73, 25.28). L’invocazione aramaica abba’, papà, che sta alla radice del Padre nostro, la preghiera emblematica del cristiano, è un’illustrazione esemplare di questa intimità orante. A questo punto si potrebbero definire le tipologie della preghiera: esse occupano uno spettro di colori variegatissimo. Due, però, sono le tonalità dominanti: per continuare nel linguaggio cromatico, potremmo dire che si oscilla costantemente tra l’infrarosso della lode e l’ultravioletto della supplica. Entro questi due archetipi si raccoglie l’intera gamma delle orazioni e tutta la sua espressione letteraria. Da un lato, dunque, c’è il colore vivo e forte della lode, della glorificazione, dell’adorazione, del ringraziamento, dell’esaltazione, della celebrazione gioiosa, della contemplazione della divinità e delle sue opere. L’innologia, di taglio mistico, libera da interessi immediati e da richieste, popola tutte le religiosità e tutte le liturgie. «O Signore, nostro Dio, quant’è glorioso il tuo nome su tutta la terra! La tua maestà vorrei cantare lassù nei cieli balbettando come il fanciullo» è l’incipit del celebre Salmo 8 che canta il capolavoro di Dio, la creatura umana. Il Salmo 19 esalta il sole, come il 104, che però dipinge anche uno straordinario arazzo cosmico, mentre nel Salmo 63 è l’adesione totale a Dio a divenire sostanza orante: «O Dio, tu sei il mio Dio, fin dall’alba ti cerco, di te ha sete la mia gola, a te anela la mia carne come terra deserta, arida, senz’acqua / Il tuo amore val più della vita / Io esulto all’ombra delle tue ali». Ma si potrebbe attingere anche all’enorme repertorio delle invocazioni buddhiste e indiane, alle « aretalogie » greche di Ossirinco (Egitto) in cui si cantano le virtù e le perfezioni divine, alla reiterazione dei «novantanove bellissimi nomi di Allah», allo stesso Rosario cristiano: la ripetizione diventa coinvolgimento quasi estatico, «moto perpetuo», della lode, ascensione di luce in luce nel mistero infinito di Dio, contemplazione abbacinata. L’esordio del citato inno di Cleante suona così: «O più glorioso degli immortali, sotto mille nomi sempre onnipotente, Zeus, Signore della natura, che con la legge governi ogni cosa, salve! Perché sei tu che i mortali hanno la gioia d’invocare!» (vv. 1-3). Ma molto più estesa è la regione dalla quale sale il grido gelido e lacerante della supplica, l’ultravioletto della preghiera, che esprime il limite dell’uomo, le sue necessità, il « male di vivere ». Cesare Pavese nel suo diario Il mestiere di vivere annotava: «La massima sventura è la solitudine tant’è vero che il supremo conforto, la religione, consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è uno sfogo come un amico». La lamentazione classica segue uno spartito strutturale di tipo triangolare, quasi comandato dalle circostanze: al presente amaro si oppone il passato e si prospetta il futuro radioso sperato; all’ »io » dell’orante sofferente si connette l’ »altro » che è il nemico e il male, mentre ci si affida al terzo personaggio decisivo, Dio, il Salvatore. Talora l’io e l’altro si trovano sovrapposti: è il caso delle confessioni del peccato (celebre è il Miserere, il Salmo 51) in cui il nemico si annida all’interno dell’orante stesso. Anche se non mancano suppliche senza speranza esplicita, simili quasi a un vano SOS lanciato verso Dio, imperatore impassibile relegato nel suo cielo dorato, è prevalente la certezza dell’ascolto finale, anche se dilazionato. «La divinità, infatti, non è insensibile alla giusta preghiera» dichiara Menandro (fr. 217), mentre Gesù aveva invitato a «chiedere per ottenere, a bussare» perché ci si aprirà, perché «qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome egli ve lo concederà» (Matteo 7, 7; Giovanni 15, 16).

La Repubblica — 10 aprile 2004

CATECHESI DI BENEDETTO XVI SU SANTA GERTRUDE LA GRANDE

dal sito:

http://www.zenit.org/article-23978?l=italian

CATECHESI DI BENEDETTO XVI SU SANTA GERTRUDE LA GRANDE

All’Udienza generale del mercoledì

ROMA, mercoledì, 6 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo il testo dell’intervento pronunciato da Papa Benedetto XVI questo mercoledì mattina in piazza San Pietro in Vaticano in occasione dell’Udienza generale.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sulla figura di Santa Gertrude la Grande (1256-1302), religiosa tedesca cistercense.

* * *
Cari fratelli e sorelle,
Santa Gertrude la Grande, della quale vorrei parlarvi oggi, ci porta anche questa settimana nel monastero di Helfta, dove sono nati alcuni dei capolavori della letteratura religiosa femminile latino-tedesca. A questo mondo appartiene Gertrude, una delle mistiche più famose, unica donna della Germania ad avere l’appellativo di « Grande », per la statura culturale ed evangelica: con la sua vita e il suo pensiero ha inciso in modo singolare sulla spiritualità cristiana. È una donna eccezionale, dotata di particolari talenti naturali e di straordinari doni di grazia, di profondissima umiltà e ardente zelo per la salvezza del prossimo, di intima comunione con Dio nella contemplazione e di prontezza nel soccorrere i bisognosi.
A Helfta si confronta, per così dire, sistematicamente con la sua maestra Matilde di Hackeborn, di cui ho parlato nell’Udienza di mercoledì scorso; entra in rapporto con Matilde di Magdeburgo, altra mistica medioevale; cresce sotto la cura materna, dolce ed esigente, della Badessa Gertrude. Da queste tre consorelle attinge tesori di esperienza e sapienza; li elabora in una propria sintesi, percorrendo il suo itinerario religioso con sconfinata confidenza nel Signore. Esprime la ricchezza della spiritualità non solo del suo mondo monastico, ma anche e soprattutto di quello biblico, liturgico, patristico e benedettino, con un timbro personalissimo e con grande efficacia comunicativa.
Nasce il 6 gennaio del 1256, festa dell’Epifania, ma non si sa nulla né dei genitori né del luogo di nascita. Gertrude scrive che il Signore stesso le svela il senso di questo suo primo sradicamento: « L’ho scelta per mia dimora perché mi compiaccio che tutto ciò che c’è di amabile in lei sia opera mia […]. Proprio per questa ragione io l’ho allontanata da tutti i suoi parenti perché nessuno cioè l’amasse per ragione di consanguineità e io fossi il solo motivo dell’affetto che le si porta » (Le Rivelazioni, I, 16, Siena 1994, p. 76-77).
All’età di cinque anni, nel 1261, entra nel monastero, come si usava spesso in quella epoca, per la formazione e lo studio. Qui trascorre tutta la sua esistenza, della quale lei stessa segnala le tappe più significative. Nelle sue memorie ricorda che il Signore l’ha prevenuta con longanime pazienza e infinita misericordia, dimenticando gli anni della infanzia, adolescenza e gioventù, trascorsi – scrive – « in un tale accecamento di mente che sarei stata capace […] di pensare, dire o fare senza alcun rimorso tutto ciò che mi fosse piaciuto e dovunque avessi potuto, se tu non mi avessi prevenuta, sia con un insito orrore del male ed una naturale inclinazione per il bene, sia con la vigilanza esterna degli altri. Mi sarei comportata come una pagana […] e ciò pur avendo tu voluto che fin dall’infanzia e cioè dal mio quinto anno di età, abitassi nel santuario benedetto della religione per esservi educata fra i tuoi amici più devoti » (Ibid., II, 23, p. 140s).
Gertrude è una studentessa straordinaria, impara tutto ciò che si può imparare delle scienze del Trivio e del Quadrivio, la formazione di quel tempo; è affascinata dal sapere e si dà allo studio profano con ardore e tenacia, conseguendo successi scolastici oltre ogni aspettativa. Se nulla sappiamo delle sue origini, molto ella ci dice delle sue passioni giovanili: letteratura, musica e canto, arte della miniatura la catturano; ha un carattere forte, deciso, immediato, impulsivo; sovente dice di essere negligente; riconosce i suoi difetti, ne chiede umilmente perdono. Con umiltà chiede consiglio e preghiere per la sua conversione. Vi sono tratti del suo temperamento e difetti che l’accompagneranno fino alla fine, tanto da far stupire alcune persone che si chiedono come mai il Signore la prediliga tanto.
Da studentessa passa a consacrarsi totalmente a Dio nella vita monastica e per vent’anni non accade nulla di eccezionale: lo studio e la preghiera sono la sua attività principale. Per le sue doti eccelle tra le consorelle; è tenace nel consolidare la sua cultura in svariati campi. Ma, durante l’Avvento del 1280, inizia a sentire disgusto di tutto ciò, ne avverte la vanità e il 27 gennaio del 1281, pochi giorni prima della festa della Purificazione della Vergine, verso l’ora di Compieta, la sera, il Signore illumina le sue dense tenebre. Con soavità e dolcezza calma il turbamento che l’angoscia, turbamento che Gertrude vede come un dono stesso di Dio « per abbattere quella torre di vanità e di curiosità che, pur portando ahimè e il nome e l’abito di religiosa, io ero andata innalzando con la mia superbia, onde almeno così trovar la via per mostrarmi la tua salvezza » (Ibid., II,1, p. 87). Ha la visione di un giovanetto che la guida a superare il groviglio di spine che opprime la sua anima, prendendola per mano. In quella mano, Gertrude riconosce « la preziosa traccia di quelle piaghe che hanno abrogato tutti gli atti di accusa dei nostri nemici » (Ibid., II,1, p. 89), riconosce Colui che sulla Croce ci ha salvati con il suo sangue, Gesù.
Da quel momento la sua vita di comunione intima con il Signore si intensifica, soprattutto nei tempi liturgici più significativi – Avvento-Natale, Quaresima-Pasqua, feste della Vergine – anche quando, ammalata, era impedita di recarsi in coro. È lo stesso humus liturgico di Matilde, sua maestra, che Gertrude, però, descrive con immagini, simboli e termini più semplici e lineari, più realistici, con riferimenti più diretti alla Bibbia, ai Padri, al mondo benedettino.
La sua biografa indica due direzioni di quella che potremmo definire una sua particolare « conversione »: negli studi, con il passaggio radicale dagli studi umanistici profani a quelli teologici, e nell’osservanza monastica, con il passaggio dalla vita che ella definisce negligente alla vita di preghiera intensa, mistica, con un eccezionale ardore missionario. Il Signore, che l’aveva scelta dal seno materno e fin da piccola l’aveva fatta partecipare al banchetto della vita monastica, la richiama con la sua grazia « dalle cose esterne alla vita interiore e dalle occupazioni terrene all’amore delle cose spirituali ». Gertrude comprende di essere stata lontana da Lui, nella regione della dissomiglianza, come ella dice con sant’Agostino; di essersi dedicata con troppa avidità agli studi liberali, alla sapienza umana, trascurando la scienza spirituale, privandosi del gusto della vera sapienza; ora è condotta al monte della contemplazione, dove lascia l’uomo vecchio per rivestirsi del nuovo. « Da grammatica diventa teologa, con l’indefessa e attenta lettura di tutti i libri sacri che poteva avere o procurarsi, riempiva il suo cuore delle più utili e dolci sentenze della Sacra Scrittura. Aveva perciò sempre pronta qualche parola ispirata e di edificazione con cui soddisfare chi veniva a consultarla, e insieme i testi scritturali più adatti per confutare qualsivoglia opinione errata e chiudere la bocca ai suoi oppositori » (Ibid., I,1, p. 25).
Gertrude trasforma tutto ciò in apostolato: si dedica a scrivere e divulgare la verità di fede con chiarezza e semplicità, grazia e persuasività, servendo con amore e fedeltà la Chiesa, tanto da essere utile e gradita ai teologi e alle persone pie. Di questa sua intensa attività ci resta poco, anche a causa delle vicende che portarono alla distruzione del monastero di Helfta. Oltre all’Araldo del divino amore o Le rivelazioni, ci restano gli Esercizi Spirituali, un raro gioiello della letteratura mistica spirituale.
Nell’osservanza religiosa la nostra Santa è « una salda colonna […], fermissima propugnatrice della giustizia e della verità » (Ibid., I, 1, p. 26), dice la sua biografa. Con le parole e l’esempio suscita negli altri grande fervore. Alle preghiere e alle penitenze della regola monastica ne aggiunge altre con tale devozione e tale abbandono fiducioso in Dio, da suscitare in chi la incontra la consapevolezza di essere alla presenza del Signore. E di fatto Dio stesso le fa comprendere di averla chiamata ad essere strumento della sua grazia. Di questo immenso tesoro divino Gertrude si sente indegna, confessa di non averlo custodito e valorizzato. Esclama: « Ahimè! Se Tu mi avessi dato per tuo ricordo, indegna come sono, anche un filo solo di stoppa, avrei pur dovuto riguardarlo con maggior rispetto e reverenza di quanto ne abbia avuta per questi tuoi doni! » (Ibid., II,5, p. 100). Ma, riconoscendo la sua povertà e la sua indegnità, ella aderisce alla volontà di Dio, « perché – afferma – ho così poco approfittato delle tue grazie che non posso risolvermi a credere che mi siano state elargite per me sola, non potendo la tua eterna sapienza venir frustrata da alcuno. Fa’ dunque, o Datore di ogni bene che mi hai gratuitamente elargito doni così indebiti, che, leggendo questo scritto, il cuore di uno almeno dei tuoi amici sia commosso al pensiero che lo zelo delle anime ti ha indotto a lasciare per tanto tempo una gemma di valore così inestimabile in mezzo al fango abominevole del mio cuore » (Ibid., II,5, p. 100s).
In particolare due favori le sono cari più di ogni altro, come Gertrude stessa scrive: « Le stimmate delle tue salutifere piaghe che mi imprimesti, quasi preziosi monili, nel cuore, e la profonda e salutare ferita d’amore con cui lo segnasti. Tu mi inondasti con questi Tuoi doni di tanta beatitudine che, anche dovessi vivere mille anni senza nessuna consolazione né interna né esterna, il loro ricordo basterebbe a confortarmi, illuminarmi, colmarmi di gratitudine. Volesti ancora introdurmi nell’inestimabile intimità della tua amicizia, aprendomi in diversi modi quel sacrario nobilissimo della tua Divinità che è il tuo Cuore divino […]. A questo cumulo di benefici aggiungesti quello di darmi per Avvocata la santissima Vergine Maria Madre Tua, e di avermi spesso raccomandata al suo affetto come il più fedele degli sposi potrebbe raccomandare alla propria madre la sposa sua diletta » (Ibid., II, 23, p. 145).
Protesa verso la comunione senza fine, conclude la sua vicenda terrena il 17 novembre del 1301 o 1302, all’età di circa 46 anni. Nel settimo Esercizio, quello della preparazione alla morte, santa Gertrude scrive: « O Gesù, tu che mi sei immensamente caro, sii sempre con me, perché il mio cuore rimanga con te e il tuo amore perseveri con me senza possibilità di divisione e il mio transito sia benedetto da te, così che il mio spirito, sciolto dai lacci della carne, possa immediatamente trovare riposo in te. Amen » (Esercizi, Milano 2006, p. 148).
Mi sembra ovvio che queste non sono solo cose del passato, storiche, ma l’esistenza di santa Gertrude rimane una scuola di vita cristiana, di retta via, e ci mostra che il centro di una vita felice, di una vita vera, è l’amicizia con Gesù, il Signore. E questa amicizia si impara nell’amore per la Sacra Scrittura, nell’amore per la liturgia, nella fede profonda, nell’amore per Maria, in modo da conoscere sempre più realmente Dio stesso e così la vera felicità, la meta della nostra vita. Grazie.

buona notte

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Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 7 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia 7 ottobre 2010: L’insistenza della preghiera

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/10767.html

Omelia (11-10-2007) 
Monaci Benedettini Silvestrini

L’insistenza della preghiera

Il vangelo della liturgia odierna ha un tema particolare: l’importanza dell’insistenza della preghiera. La parabola di Gesù ci mostra come la preghiera insistente sia importante. Per progredire nella nostra vita, anche nel campo della carità, non possiamo prescindere dalla preghiera. L’amico inopportuno rappresenta un po’ tutti noi. Chiediamo, allora, con fede e fiducia al Padre, rivolgiamo a Lui le nostre preghiere di lode e di intercessione. Mostriamo, nella preghiera la fede in un Padre che ci vuole bene e vuole il nostro bene; dimostriamo di avere fiducia proprio perché il Padre che ci vuole bene sa accogliere le nostre richieste. Ci dovremmo chiedere, allora, specie quando sembra che il Signore non ci ascolti, con quanta fede proponiamo la nostra preghiera. L’atteggiamento di fede per rivolgerci al Signore è quello di considerare la preghiera come già ottenuta. La richiesta con fede dà per scontato che sia esaudita! Non possiamo, però, lasciarci confondere. Gesù nell’invitarci alla preghiera insistente non ci fa perdere di vista le vere priorità nella vita cristiana. La preghiera è anche aderire alla pedagogia di Dio e scoprire, nell’ascolto vero di Dio, la nostra vocazione autentica. Solo nell’ascolto vero della Parole e nella docilità allo Spirito, possiamo allora scoprire il vero valore della preghiera e di tutte le preghiere. L’invocazione allo Spirito, che Gesù ci raccomanda è il fondamento della vera preghiera; preghiera che diventa trinitaria perché effettuata al Padre, nel nome del Figlio e per lo Spirito Santo. Scopriamo, allora in questo ascolto vero di Dio la forza della preghiera con la quale iniziamo tutte le preghiere: il segno della Croce. Non è un atto magico ma significa predisporsi, nella preghiera, all’ascolto vero perché impariamo a riconoscere la volontà di Dio nella nostra vita. Scopriamo che, nell’autenticità della preghiera cristiana, non obblighiamo Dio ai nostri voleri ma siamo noi che cambiamo per aderire alla sua volontà. In questo senso la preghiera nella fede è sempre esaudita

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