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GIANFRANCO RAVASI
Preghiera: quando l’uomo parla con Dio
«Il pregare è nella religione ciò che è il pensiero nella filosofia. Il senso religioso prega come l’organo del pensiero pensa». Questa dichiarazione del grande poeta romantico tedesco Novalis fa subito comprendere non solo quanto fondamentale sia la preghiera nell’esperienza religiosa, ma anche quanto sia arduo tentarne un profilo descrittivo. Anzi, un filosofo, il danese Søren Kierkegaard, non esitava nel suo diario a comparare il pregare al respirare: «Giustamente gli antichi dicevano che pregare è respirare. Qui si vede quanto sia sciocco voler parlare di un « perché ». Perché io respiro? Perché altrimenti muoio. Così con la preghiera». A lui faceva eco un teologo importante come Yves Congar che nella sua opera Le vie del Dio vivente ribadiva: «Con la preghiera riceviamo l’ossigeno per respirare. Coi sacramenti ci nutriamo. Ma, prima del nutrimento, c’è la respirazione e la respirazione è la preghiera». In questa linea è facilmente comprensibile come il pregare coinvolga tutto l’essere della creatura in una totalità ben espressa, ad esempio, dalle tecniche orientali di contemplazione « corporale » o nel tipico agitarsi dondolante dell’orante ebreo. Il quale, mentre prega, muove anche le giunture del corpo così da attuare quello che, in modo simbolico, aveva evocato lo stesso apostolo Paolo: «Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale» (Romani 12, 1). Un famoso mistico tedesco vissuto a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, Meister Eckhart, sottolineava che «bisogna pregare con tanto fervore così da tener avvinte tutte le membra e le facoltà umane; orecchi, occhi, bocca, cuore e ogni senso e non cessare finché non si sente di voler essere uno con Colui che è presente e che preghiamo, con Dio». Ma si può anche andare oltre e ritenere con il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein che «pregare è pensare al senso della vita», come egli annotava nei suoi appunti del 1914-1916. Quando l’uomo si rivolge alla divinità cerca, infatti, non solo di penetrare nel mistero del suo interlocutore infinito, ma anche di scavare nel mistero della sua stessa esistenza. tentando di scoprirne un senso e un valore. In questa stessa direzione si potrebbe, allora, riprendere il giuoco di parole creato da un altro importante filosofo del Novecento, il tedesco Martin Heidegger, quando affermava che denken ist danken, cioè che pensare è ringraziare. Per questo si potrebbe condividere un’ultima affermazione teorica, quella del filosofo mistico ebreo Abraham J. Heschel, convinto che «pregare è la grande ricompensa dell’essere uomini». Ora, la preghiera rispecchia necessariamente la particolare visione di Dio dell’orante. Così, a una concezione « fredda » della trascendenza divina corrisponde una preghiera distante e striata dal timore e dal rispetto per l’inconoscibile volontà della divinità. Esemplare è il distacco tra il divino e l’umano marcato dall’orazione musulmana, specchio di un trascendentalismo teologico rigorosissimo. Ma già tra i Sumeri il dio Enlil era invocato così: «Le tue molte perfezioni fanno restare attoniti; la loro natura segreta è come una matassa arruffata che nessuno sa dipanare, è arruffio di fili di cui non si vede il bandolo» (Inno a Enlil, IX, 131-134). Anche nel mondo greco quel «Dio ignoto» che Paolo nomina durante il suo passaggio da Atene (Atti 17, 23) costringe l’orante a invocazioni « negative » come quelle evocate dalle Coefore di Eschilo: «Zeus, Zeus, che dico? Come comincerò» (v. 85). Ma è proprio nella stessa cultura greca che riusciamo a identificare uno splendido modello di spiritualità « calda » in cui il rapporto con Dio è intenso, diretto, personale. Intendiamo riferirci a quel gioiello stoico che è l’Inno a Zeus di Cleante (III secolo a. C.): i suoi trentanove esametri esaltano non solo l’onnipotenza e la giustizia divina, ma anche l’ordine cosmico a cui partecipa l’orante e la stessa « simbiosi », dalle iridescenze panteiste, che connette la divinità al fedele. È curioso ricordare che l’apostolo Paolo nel celebre discorso all’Areopago ateniese evoca il v.5 dell’inno di Cleante, affermando che in Dio «noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: « poiché di lui stirpe noi siamo »» (Atti 17, 28). Tale prospettiva domina nell’ambito biblico dove è facile incontrare frasi salmiche di questo tenore: «Sei il mio Signore, senza di te non ho alcun bene / Al mio nascere tu mi hai raccolto, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio / Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto / Fuori di te nulla bramo sulla terra / Il mio bene è stare vicino a Dio» (Salmi 16, 2; 22, 10; 27, 10; 73, 25.28). L’invocazione aramaica abba’, papà, che sta alla radice del Padre nostro, la preghiera emblematica del cristiano, è un’illustrazione esemplare di questa intimità orante. A questo punto si potrebbero definire le tipologie della preghiera: esse occupano uno spettro di colori variegatissimo. Due, però, sono le tonalità dominanti: per continuare nel linguaggio cromatico, potremmo dire che si oscilla costantemente tra l’infrarosso della lode e l’ultravioletto della supplica. Entro questi due archetipi si raccoglie l’intera gamma delle orazioni e tutta la sua espressione letteraria. Da un lato, dunque, c’è il colore vivo e forte della lode, della glorificazione, dell’adorazione, del ringraziamento, dell’esaltazione, della celebrazione gioiosa, della contemplazione della divinità e delle sue opere. L’innologia, di taglio mistico, libera da interessi immediati e da richieste, popola tutte le religiosità e tutte le liturgie. «O Signore, nostro Dio, quant’è glorioso il tuo nome su tutta la terra! La tua maestà vorrei cantare lassù nei cieli balbettando come il fanciullo» è l’incipit del celebre Salmo 8 che canta il capolavoro di Dio, la creatura umana. Il Salmo 19 esalta il sole, come il 104, che però dipinge anche uno straordinario arazzo cosmico, mentre nel Salmo 63 è l’adesione totale a Dio a divenire sostanza orante: «O Dio, tu sei il mio Dio, fin dall’alba ti cerco, di te ha sete la mia gola, a te anela la mia carne come terra deserta, arida, senz’acqua / Il tuo amore val più della vita / Io esulto all’ombra delle tue ali». Ma si potrebbe attingere anche all’enorme repertorio delle invocazioni buddhiste e indiane, alle « aretalogie » greche di Ossirinco (Egitto) in cui si cantano le virtù e le perfezioni divine, alla reiterazione dei «novantanove bellissimi nomi di Allah», allo stesso Rosario cristiano: la ripetizione diventa coinvolgimento quasi estatico, «moto perpetuo», della lode, ascensione di luce in luce nel mistero infinito di Dio, contemplazione abbacinata. L’esordio del citato inno di Cleante suona così: «O più glorioso degli immortali, sotto mille nomi sempre onnipotente, Zeus, Signore della natura, che con la legge governi ogni cosa, salve! Perché sei tu che i mortali hanno la gioia d’invocare!» (vv. 1-3). Ma molto più estesa è la regione dalla quale sale il grido gelido e lacerante della supplica, l’ultravioletto della preghiera, che esprime il limite dell’uomo, le sue necessità, il « male di vivere ». Cesare Pavese nel suo diario Il mestiere di vivere annotava: «La massima sventura è la solitudine tant’è vero che il supremo conforto, la religione, consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è uno sfogo come un amico». La lamentazione classica segue uno spartito strutturale di tipo triangolare, quasi comandato dalle circostanze: al presente amaro si oppone il passato e si prospetta il futuro radioso sperato; all’ »io » dell’orante sofferente si connette l’ »altro » che è il nemico e il male, mentre ci si affida al terzo personaggio decisivo, Dio, il Salvatore. Talora l’io e l’altro si trovano sovrapposti: è il caso delle confessioni del peccato (celebre è il Miserere, il Salmo 51) in cui il nemico si annida all’interno dell’orante stesso. Anche se non mancano suppliche senza speranza esplicita, simili quasi a un vano SOS lanciato verso Dio, imperatore impassibile relegato nel suo cielo dorato, è prevalente la certezza dell’ascolto finale, anche se dilazionato. «La divinità, infatti, non è insensibile alla giusta preghiera» dichiara Menandro (fr. 217), mentre Gesù aveva invitato a «chiedere per ottenere, a bussare» perché ci si aprirà, perché «qualunque cosa chiederete al Padre nel mio nome egli ve lo concederà» (Matteo 7, 7; Giovanni 15, 16).
La Repubblica — 10 aprile 2004