Archive pour septembre, 2010

Santa Chiara d’Assisi tra agiografia e storia : Al di là di ogni sospetto

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Santa Chiara d’Assisi tra agiografia e storia

Al di là di ogni sospetto

di Pietro Messa

San Francesco d’Assisi può essere in un certo qual modo definito « il santo di Gregorio IX », tanto che presso il Sacro Speco di Subiaco non si ebbero dubbi nel raffigurarlo accanto al Pontefice quasi fosse un suo attributo iconografico. Infatti se quando era ancora il cardinale Ugolino d’Ostia conobbe l’Assisiate ed ebbe un ruolo non secondario nello sviluppo dei frati minori, da Papa – con una decisione più unica che rara – prese personalmente l’iniziativa della sua canonizzazione e commissionò a frate Tommaso da Celano la narrazione della vicenda del nuovo santo, ossia la Vita beati Francisci.
La stessa storia sembra ripetersi con santa Chiara e Papa Alessandro iv:  infatti fu proprio il cardinale Rainaldo di Jenne con la lettera Quia vos del 16 settembre 1252 ad approvare la Forma vitae, ossia la Regola, di Chiara e una volta divenuto Papa la canonizzò ad Anagni nell’agosto 1255, commissionando sempre a Tommaso da  Celano  la  stesura  della  sua  vita, ossia la Legenda sanctae Clarae virginis.
Pur restando un punto di riferimento importante per la conoscenza della santità di Chiara d’Assisi, anche quest’ultima opera cadde sotto il giudizio implacabile della « storiografia del sospetto » secondo la quale agiografia corrisponde soltanto a mitizzazione, contrapponendosi alla verità storica che va cercata altrove; lo stesso autore divenne incerto e si aprì una vera e propria questione in merito.
Così nel caso di Chiara d’Assisi fonte d’eccellenza furono ritenuti gli atti del Processo di canonizzazione, anch’essi però guardati con un certo sospetto essendo giunto a noi soltanto in un volgarizzamento della fine del xv secolo.
In tutto questo garbuglio di sospetti, diffidenza, e domande insolute si inoltra il volume di Marco Guida, Una leggenda in cerca d’autore. La Vita di santa Chiara d’Assisi appena pubblicato nella collana « Subsidia agiografica » dalla Société des Bollandistes (Bruxelles, pagine 259, euro 65).
Caratteristica di questo studio è che, pur non trascurando le diverse problematiche e acquisizioni della storiografia clariana, si confronta direttamente con le fonti primarie, ossia la lettera Gloriosus Deus con la quale Innocenzo iv il 18 ottobre 1253, a soli due mesi dalla sua morte, dava ordine al vescovo di Spoleto di dare inizio all’inchiesta di canonizzazione, gli Atti del processo di canonizzazione, la bolla di canonizzazione Clara claris preclara, e infine la Legenda sanctae Clarae virginis. Riguardo a quest’ultima opera affronta il problema inerente alle diverse attribuzioni, cioè Bonaventura da Bagnoregio, Tommaso da Celano oppure un letterato della Curia romana.
Grazie a una sinossi cromatica di questi testi – di cui disponiamo l’edizione critica grazie soprattutto al lavoro prezioso di Giovanni Boccali – Marco Guida giunge a risultati sorprendenti. Prima di tutto che il volgarizzamento degli Atti del processo di canonizzazione, fatto dalla clarissa Battista Alfani del monastero di Monteluce di Perugia, è stato svolto con un grande rigore filologico e rispetto dell’originale testo latino, per cui risulta una fonte affidabile. Secondariamente che l’autore della Legenda sanctae Clarae virginis quando non attinge da altre fonti nominando san Francesco lo denomina spesso pater, testimoniando così la sua appartenenza ai frati minori.
Inoltre in quest’opera l’agiografo inserisce delle aggiunte proprie dalle quali appare chiaramante che ebbe modo di documentarsi circa alcuni particolari della vita di santa Chiara. La prima annotazione riguarda il periodo che va dalla sua fuga dalla casa paterna alla promessa di obbedienza a frate Francesco, in cui ci furono degli episodi importanti quali il taglio dei capelli nella cappella della Porziuncola, la permanenza presso il monastero benedettino di San Paolo e la chiesa di Sant’Angelo di Panzo, lo stabilirsi definitivamente presso la chiesa di San Damiano nelle vicinanze di Assisi.
Altre informazioni importanti trasmesse dalla Legenda sanctae Clarae virginis riguardano il rapporto tra Chiara e i diversi pontefici, ossia Innocenzo iii, Gregorio ix, Innocenzo iv e lo stesso cardinale Rainaldo di Jenne, futuro Alessandro iv.
Tuttavia in tale opera vi sono anche omissioni, che certamente non sono casuali, quali ad esempio alcune sue visioni giudicate non confacenti a un certo modello di santità, il desiderio di martirio sorto in seguito alla notizia dell’uccisione per la fede di alcuni frati minori in Marocco (i cosiddetti Protomartiri francescani le cui reliquie  ora  sono conservate nel chiesa di Sant’Antonio in Terni), la conferma della Regola da parte di Innocenzo iv.
Al termine del suo studio – in cui non manca di smentire mediante l’analisi attenta delle fonti affermazioni date per acquisite da autorevoli studiosi – Marco Guida giunge ad alcuni risultati importanti quale ad esempio l’attribuzione certa della Legenda sanctae Clarae virginis al frate Tommaso da Celano, per diversi decenni agiografo ufficiale di san Francesco. Uno studio questo che, come afferma Jacques Dalarun nella Prefazione, costituisce un contributo importante non solo per gli studi francescani e clariani, ma per quelli agiografici in generale, mostrando come un certo sospetto continuo verso le fonti agiografiche risulta alla lunga solo un logorante pregiudizio ideologico che impedisce di vedere sia i nuclei di realtà storica narrati, sia la lettura teologica che di essi l’autore vuole offrire.

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di Inos Biffi: Agostino e il vescovo di Milano, L’ex nemico di Ambrogio

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#6

Agostino e il vescovo di Milano

L’ex nemico di Ambrogio

di Inos Biffi

Nel novembre del 386 presso la villa di Cassiciacum Agostino ripensa al suo itinerario spirituale, e lo paragona a un viaggio per mare. Era partito con la giovanile lettura dell’Hortensius, dall’ »amore per la filosofia » e dal proposito di dedicarsi a essa, ma il cammino si era poi snodato in una navigazione inquieta e piena di peripezie:  « Non mancarono nebbie – scrive nel De vita beata – per cui il mio navigare fu senza meta e a lungo, lo confesso, ebbi fisso lo sguardo su stelle che tramontavano nell’oceano (labentis in oceanum astra) e che mi inducevano nell’errore ». Prima l’errore, seducente e deludente, del manicheismo, col rinnegamento della fede cattolica, poi quello degli scettici, che « tennero a lungo il mio timone tra i marosi in lotta con tutti i venti », per arrivare infine a conoscere « la stella polare », a cui affidarsi (septentrionem cui me crederem) Ambrogio. La definizione è suggestiva e illuminante. 
Ascoltando i discorsi del vescovo di Milano incominciò ad apparire ad Agostino la dimensione dello spirito, una nuova idea di Dio e la possibilità di un’esegesi « spirituale » della Scrittura contro le aberrazioni manichee.
Ma soprattutto l’incontro con Ambrogio significò per il travagliato retore di corte la conversione, quando, abbandonato tutto, poté, finalmente – sono le sue parole – « ricondurre la nave, sia pure tutta squassata, alla desiderata quiete (optatae tranquillitati) » (De vita beata, 1, 4).
Da Roma, era approdato a Milano nel 384. Nell’intenzione di Simmaco, il prefetto di Roma, parente e avversario di Ambrogio, l’invio del retore Agostino manicheo e ostile al cristianesimo aveva lo scopo di ostacolare l’opera dell’autorevole vescovo della città imperale. Il disegno provvidenziale era però tutt’altro. Agostino stesso, una decina d’anni dopo, nelle Confessiones rievoca quel soggiorno e quell’incontro.
« Quando il prefetto di Roma ricevette da Milano la richiesta per quella città di un maestro di retorica, con l’offerta anche del viaggio con mezzi di trasporto pubblici, proprio io brigai e proprio per il tramite di quegli ubriachi da favole manichee, da cui la partenza mi avrebbe liberato a nostra insaputa, perché, dopo avermi saggiato in una prova di dizione, il prefetto del tempo, Simmaco, m’inviasse a Milano. Qui incontrai il vescovo Ambrogio, noto a tutto il mondo come uno dei migliori, e tuo devoto servitore. In quel tempo la sua eloquenza dispensava strenuamente al popolo la sostanza del tuo frumento, la letizia del tuo olio e la sobria ebbrezza del tuo vino (salmo 44, 8). A lui ero guidato inconsapevole da te, per essere da lui guidato consapevole a te » (v, 13, 23).
Ambrogio e Agostino erano due personalità diversissime per ceto sociale, per indole, per formazione e stile di vita. Ambrogio – figlio di un eminente funzionario della prefettura di Treviri – era un alto e colto aristocratico, di famiglia cristiana enormemente ricca e dalla raffinata formazione latina e greca, come conveniva a chi apparteneva al ceto senatorio, cioè alla gens dei Valerii e degli Ambrosii, che aveva dietro di sé una tradizione di magistratura e consolati.
Era un clarissimus, diventato improvvisamente, sui quarant’anni, nel 374, vescovo della « meravigliosa » (Ausonio) Milano. Lo aveva richiesto a succedere all’ariano Aussenzio la volontà popolare:  « Il mio popolo ha chiesto a tuo padre – scriverà a Valentiniano ii – di aver me come vescovo » (Epistulae, 75, 7). Era stato, infatti, nominato col beneplacito dell’imperatore – che probabilmente si illudeva sulla sua docilità alla corte – ma, in ogni caso, contro la volontà del consularis della Liguria e dell’Aemilia, che non era neppure battezzato:  « Quanto ho resistito – egli dirà – perché non fossi ordinato vescovo! » (Epistulae, 14, 65).
Quella nomina, a cui non riuscì a sottrarsi nonostante tutti i suoi espedienti aveva indotto Ambrogio a una completa conversione. Sulla sua condotta  precedente non abbiamo « confessioni »:  forse vi è un sobrio accenno nel De paenitentia, là dove, in un’ardente preghiera, accenna d’essersi dato al mondo:  « Conserva, Signore, la tua grazia, custodisci il dono che mi hai fatto, nonostante le mie ripulse. Io sapevo infatti che non ero degno di essere eletto vescovo, poiché mi ero dato a questo mondo » (ii, 8).
Con l’elezione incominciava una vita radicalmente nuova, resa visibile dalla rinuncia, a favore della Chiesa milanese, dei suoi cospicui averi e delle proprietà che possedeva fin in Africa e in Sicilia. E con la vita nuova iniziava il ministero, e anzitutto quella formazione teologica che gli era mancata e che frettolosamente attingeva soprattutto alle fonti largamente disponibili dei dottori greci, Origene, Basilio, Didimo e Filone.
Dichiarava ai suoi presbiteri:  « Strappato dai tribunali e dalle insegne delle magistrature e fatto vescovo, cominciai a insegnarvi ciò che nemmeno io avevo imparato » (De officiis, i, 1, 4).
 Ma se così appariva Ambrogio ad Agostino, questi, più giovane di vent’anni, per il vescovo di Milano – che per le discussioni dialettiche non aveva alcun gusto (De fide, i, 42, 84) – non era che un oscuro maestro di retorica inviatogli da Roma per creargli disagi:  neppure Ambrogio poteva immaginare che quell’oscuro provinciale sarebbe diventato, a sua volta, uno dei più luminosi Dottori e Padri della Chiesa, dalla cui memoria e dalla cui affezione Ambrogio non si sarebbe più cancellato.
« Mi accolse come un padre – continua Agostino nelle Confessiones – e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo. Io pure presi subito ad amarlo, dapprima però non certo come maestro di verità, poiché non avevo nessuna speranza di trovarla dentro la tua Chiesa, bensì come persona che mi mostrava benevolenza. Frequentavo assiduamente le sue istruzioni pubbliche, non però mosso dalla giusta intenzione:  volevo piuttosto sincerarmi se la sua eloquenza meritava la fama di cui godeva, ovvero ne era superiore o inferiore. Stavo attento, sospeso alle sue parole, ma non m’interessavo al contenuto, anzi lo disdegnavo. La soavità della sua parola m’incantava » (v, 13, 23). E, pure, lentamente e insensibilmente, la conversione si avvicinava.
Con Agostino dimorava a Milano anche la madre Monica, assidua frequentatrice della chiesa, dove « pendeva dalle labbra di Ambrogio ». Quanto ad Ambrogio « amava mia madre a cagione della sua vita religiosissima, per cui fra le opere buone con tanto fervore spirituale frequentava la chiesa. Spesso, incontrandomi, non si tratteneva dal tesserne l’elogio e dal felicitarsi con me, che avevo una tal madre. Ignorava quale figlio aveva lei, dubbioso di tutto ciò e convinto dell’impossibilità di trovare la via della vita » (ibidem 2, 2).
Probabilmente Ambrogio non ignorava i tormenti spirituali, le passioni e la condotta disordinata di quel figlio, che tuttavia non riusciva, come avrebbe desiderato, a parlarne al vescovo:  « Non mi era possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo. Caterve di gente indaffarata, che soccorreva nell’angustia, si frapponevano tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l’alimento indispensabile, o l’anima con la lettura ».
Ed ecco il grande rammarico di Agostino:  « Certo è che non mi era assolutamente possibile interrogare quel tuo santo oracolo, ossia il suo cuore, su quanto mi premeva, bensì soltanto su cose presto ascoltate. Invece le tempeste della mia anima esigevano di trovarlo disponibile a lungo, per riversarsi su di lui, ma invano. Ogni domenica lo ascoltavo mentre spiegava rettamente la parola della verità in mezzo al popolo, confermandomi sempre più nell’idea che tutti i nodi stretti dalle astute calunnie dei miei seduttori a danno dei libri divini potevano sciogliersi » (ibidem 3, 4).
Non mancava però « il lavorio della mano delicatissima e pazientissima » (vi, 5, 7) grazie alla quale il suo « cuore lentamente prendeva forma ».
La lettura « delle opere dei filosofi platonici » in cui vedeva « per molti modi insinuarsi l’idea di Dio e del suo Verbo » (viii, 2, 3); la « visita a Simpliciano », anziano presbitero e neoplatonico cristiano, ricco di « grande esperienza e grande sapienza », « padre per la grazia, che aveva ricevuto da lui, del vescovo di allora Ambrogio e amato da Ambrogio proprio come un padre » l’incontro con intimi amici, una lesione polmonare e soprattutto il lavorio della grazia, fecero maturare in lui la conversione:  « Al termine delle vacanze vendemmiali avvertii i milanesi di provvedersi un altro spacciatore di parole per i loro studenti, poiché io avevo scelto di passare al tuo servizio ». Trascorso, quindi l’operoso riposo in Dio « dopo la bufera del secolo » nella villa di Verecondo a Cassiciacum (ix, 3, 5) ecco il ritorno a Milano per ricevere il Battesimo.
Qui Agostino incontra una Chiesa ardente e viva. Ricorda in particolare nella Settimana Santa del 386 la resistenza di Ambrogio e dei suoi fedeli alle pretese ariane di Giustina, con la veglia prolungata a difesa della chiesa e l’uso del canto antifonato; e nel  giugno  successivo il ritrovamento e  solenne  deposizione  dei  martiri Protasio e Gervasio (ibidem, 7, 16). Agostino celebrerà un giorno anche nella sua Chiesa la loro memoria (Sermones, 286).
Ricevuto il Battesimo, era giunto per Agostino il tempo di tornare in patria. Lascia Milano nell’estate-autunno del 387. Agostino è ormai un altro:  il soggiorno a Milano, l’incontro con Ambrogio, la conversione lo hanno radicalmente trasformato.

Publié dans:Cardinali, Padri della Chiesa e Dottori |on 10 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

Davide (ho scelto questa immagine in riferimento ai salmi)

Davide (ho scelto questa immagine in riferimento ai salmi) dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 9 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

Il Cantico dei Cantici: danza di fede e d’amore

dal sito:

http://www.stpauls.it/jesus/0902je/0902je13.htm

Il Cantico dei Cantici

danza di fede e d’amore

di Antonio Tarzia  

Poemetto nuziale d’origine pastorale o forse scritto (e musicato) per la corte del re, il Cantico dei Cantici è il più breve e antico canto d’amore tra un uomo e una donna nel fiore della giovinezza. Otto capitoli, 436 versetti con interventi del coro e monologhi che si alternano e si intersecano, fanno di questo Libro della Bibbia un capolavoro di umanità, in cui valori eterni e indiscussi sono enunciati con semplicità: «Più forte della morte è l’amore» (8,6); «l’amore non ha prezzo, non si compra» (8,7); «il mio amato è mio e io sono sua» (2,16). La parabola dell’amore ripropone, qui in versi, il momento-compimento del sogno della vita che si attua, unico e irripetibile, ogni volta che due cuori entrano in sintonia perfetta e il mistero della creazione si mette in moto.

Per parlare del Cantico, della sua poesia e dell’arte di « dire » l’amore senza scadere nell’ovvio e nel banale, siamo andati a incontrare il maestro Alessandro Nastasio, che ha appena pubblicato sul tema un prezioso volume di 25 tavole xilografate a mano, con testo introduttivo di monsignor Gianfranco Ravasi. Sulla copertina di un suo catalogo di vent’anni fa, Nastasio posava seduto « a uovo » in una curiosa performance vagamente zen, avvolto in un mantello cabalistico, tutto tessuto di numeri arabi e lettere latine. Una grande fiamma bianca lo comprendeva come nelle miniature ottomane del tardo Medioevo: emergeva la testa da profeta, fronte alta e barba folta. Incontrandolo oggi nel suo studio-bottega che scende sotto il pavimento stradale, nella centralissima via Hayez a Milano, notiamo oltre ai suoi occhi azzurri da bambino, le mani da gigante, fuori misura, pale di fico d’India che armeggiano con impaccio attorno a una pipa spenta: «È di radica d’Aspromonte, molto pregiata, tiene bene il calore e fa compagnia».

Il suo ambiente di lavoro si presenta come un museo etnico, un bazar mediorientale con campanelli e tamburi, bruciaprofumi e maschere di legno. Il tempo si è stratificato lasciandovi detriti delle esperienze vissute in Giappone, in Nord Europa, in Turchia. Dal tutto emergono come rottami le opere incompiute e lasciate lì, perse nel vuoto. Una statua in gesso troneggia vicino alla scala: è il bozzetto della Madonna dell’Accoglienza, un bronzo realizzato per la parrocchiale di Cassina de’ Pecchi. Un Cristo di vetro, alto 2 metri e 20, si impone per la struttura e la tecnica innovativa: sono 300 vetri colorati, soffiati e bloccati con mastice e raggi Wood, invece del duttile piombo. Ma la prima domanda me la impone un pannello in bronzo pesantissimo, di un metro e 50 per un metro, che chiamo Cristo quadrimano, oggi nella chiesa milanese di Santa Francesca Romana.

Maestro, cos’è questo mulinare di braccia? Un volo a farfalla, una reminescenza induista, un’assonanza con l’icona russa della Madonna delle tre mani?
«Niente di esotico o di esoterico. È una mia preghiera, un pensiero d’arte sui tempi scanditi nell’eternità. Alcuni eventi come quelli della salvezza si realizzano nella storia ma vivono in Dio, senza tempo né successione nella contemporaneità misteriosa della zona di confine. Il Cristo su questo bronzo muore e risorge nello stesso tempo perché l’azione redentiva è unitaria. È stato un mio periodo di mutazione e confusione teologica ma anche di presa di coscienza: facevo dei crocifissi vivi, con gli occhi aperti della risurrezione, a volte anche in dialogo con altri personaggi».

Tra le opere in sovrapposizione, tempi diversi vissuti in contemporanea, c’è anche il grande quadro sul Fungo atomico, oggi nel Museo di Hiroshima?
«Dopo il ’68 lavoravo molto al mosaico cercando la luminosità preziosa delle tessere con colori freddi, bluastri, siderali. Era il tempo dei « fiori cosmici », delle « isole labirinto », delle « memorie matematiche ». Seguivo le conferenze del cibernetico Silvio Ceccato, grande comunicatore, ipnotico come uno sciamano, e non riuscivo a superare l’angoscia del non-senso, il vuoto dell’attesa infinita. Il soggiorno in Giappone mi ha precipitato in una tragedia vecchia di trent’anni ma ancora in compimento. Nacquero opere disperate come Sole nero su Hiroshima, Fine della catastrofe, Mito perduto e la miniserie dei Cristo nel fungo atomico, dove nella bomba vedo il male assoluto e quindi in trasparenza, in questo enorme fiore di fuoco germinato dalle masse di blu, di grigio e di nero, in movimento come il cuore di un uragano, percepiamo il Cristo che nel peggiore atto dell’uomo ci appare morto e risorto».

Come ha superato questo momento o fase creativa disperata emotivamente ma feconda di stimoli universali e forte di abbandono nella fede?
«Dal punto di vista tecnico ho spaziato nei vari campi con tutte le possibili materie (olio, tempera, acquerello, affresco, mosaico, vetrata, scultura in pietra, bronzo e legno, xilografia, calcografia, litografia). Ho adoperato pennelli e scalpelli, sgorbie e bulini spesso con frenesia e senza pace. I temi sono struggenti come Abbandono ardente e Tre grazie iperboree oggi a Beirut, Papiri del Giordano o un po’ sognati e onirici come Altalena degli spiriti a Duisburg, e La luna presa al lazzo da un bambino. È il tempo dei balletti, che perdura ancora anche se con abbandoni e ritorni: Danza dell’assurdo, Una passione inutile, Passo a quattro, Sussurri e tentazioni, Sul lago ghiacciato».

Il balletto e la ballerina entrano di prepotenza nella sua storia d’artista. A cosa è dovuto questo giro di boa?
«A due eventi personali: l’amicizia con la signora Savignano, che ha posato per me. Credo che sia il più armonico e musicale dei corpi lanciati nello spazio! Da sola fa mezza storia del balletto italiano. Il secondo motivo fu l’iscrizione a danza di mia figlia Fulvia Maria: di lei e delle sue affermazioni ho quasi un diario puntuale di figure e di effetti motori, portati in bronzo o sulla tela».

Oltre che pittore e scultore, Lei è anche incisore, orafo, poeta. Proviamo a mettere in fila i cinque nomi di riferimento che lei a sua volta chiama « maestri » e poi inizieremo a parlare di arte e Parola di Dio.
«Non bastano le dita di una mano per enumerare i maestri utili e necessari alla formazione di un pazzo come me, sempre perso dietro all’esperienza di tecniche nuove e viaggi nei più inusitati saperi e civiltà. Con le scuole medie presi a frequentare Kodra, un musulmano di Tirana, poi Salvadori, Purificato a Roma e Sarra, che mi ospitò nel suo studio. Tornato a Milano cominciai con l’incisione, mi esaltavano le xilografie, la Bauhaus tedesca e soprattutto Kandindiskij e Klee. Intanto ho cominciato a insegnare nudo all’Accademia di Brera… frequentavo Minguzzi, Messina, Salvadori e poi Cantatore, Manfrini, Marino Marini. Tutti colleghi e tutti maestri a cui ho rubato qualcosa. Mentre ero a Parigi ho studiato molto Rouault e Braque. In America ho conosciuto Dalì che ha voluto un mio disegno e mi ha lasciato un suo omaggio».

Nella parrocchia di Sant’Antonio Maria Zaccaria di Milano ci sono cinque pannelli xilografici sgorbiati a mano su legno di tiglio sul modello di Dürer, ma con esplicito richiamo al processionale liturgico e alla sacra rappresentazione medievale, con in più una tensione ritmica propria del cinematografo. È questo il capolavoro « sacro » di Alessandro Nastasio?
«Non sta a me dirlo, ma ai fedeli di quella chiesa, se riusciranno a entrare con l’anima nella storia narrata, se avranno il coraggio o la grazia di parteciparvi avverando e rivivendo l’evento di quei tre giorni a Gerusalemme. Il tema era complesso e difficile. Io ho cercato a mia volta di farlo diventare, più che un lavoro, una preghiera personale. Quando un artista lavora in ambito sacro si spersonalizza e cerca di essere l’opera stessa: così è successo a me più volte. Lavorare per una chiesa non è come lavorare per un committente qualsiasi, una banca, un museo, un mecenate o un gallerista. C’è tutt’altra tensione, sai di essere in un crocevia dove la storia spirituale della tua anima si incontra con la spiritualità degli altri».

Nel 1969 l’editore Marzorati ha pubblicato Il Vangelo secondo Giovanni con una serie di xilografie del giovane Alessandro Nastasio in una preziosa edizione oggi introvabile. Quante altre incisioni il maestro si è permesso prima dell’attuale Cantico dei Cantici?
«Sono entrato nella Bibbia in punta di piedi, smarrito, eccitato e turbato, prendendo dimora nelle stanze più esterne, quelle letterarie, quelle che maggiormente si prestano al discorso universale e alla considerazione delle altre culture. Mi sono prima appassionato a Qoelet, dopo aver seguito la conferenza-scuola-catechesi di monsignor Ravasi in San Fedele. Allora monsignore era prefetto dell’Ambrosiana e al suo appuntamento correva in massa Milano. Il problema del limite, la dotta ignoranza, la necessità di impegnarsi oltre, anche senza vedere l’orizzonte, era diventato un pensiero cittadino e c’era chi, al bar in Galleria, finiva di girare il cucchiaino nella tazza del caffè dicendo al suo interlocutore: « C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piangere e un tempo per ridere… vanità delle vanità, tutto è vanità ». Qualche anno dopo sono stato preso dalla figura di Giobbe e il mistero del male, la felicità e il dolore del mondo. Complice sempre Ravasi, di cui ormai ero diventato buon amico, ho lavorato in 13 mesi 28 tavole sulla struggente vicenda del povero Giobbe».

A completare la trilogia, le mancava solo il Cantico…
«Io lo chiamo il « Canto d’amore del mondo ». È un testo di poco più di mille parole ebraiche, dove la poesia tocca il vertice e l’amore dell’uomo si distingue e si confonde con l’amore di Dio. Secondo me, il Cantico dei Cantici lo si può cantare solo danzando. Ho cercato di isolare 25 momenti, come fossero cifre, capolettera di un volume miniato: l’attesa triste e noiosa, l’ansia della ricerca, la gioia dell’incontro, la felicità di donarsi tra i gigli del campo, l’amore che sviluppa delle ali gigantesche pronte al volo».

Il pudore e la freschezza di questo amore colpiscono da sempre il lettore: rabbi Akiva diceva che « il mondo intero non è degno del giorno in cui il Cantico è stato donato a Israele ». E Karl Barth, il maggior teologo protestante del ’900, definiva il Cantico « Magna Charta dell’umanità ». Il Maestro Nastasio lo consiglia ancora come lettura utile ai giovani d’oggi, persi dietro al telefonino e all’i-pod?
«Ho insegnato per alcuni anni a Brera e nelle scuole liceali milanesi. Con i giovani sono vissuto e ancora adesso lavoro e dialogo. Penso che sarebbe opera meritoria e illuminata culturalmente promuovere il Cantico dei Cantici a testo scolastico obbligatorio per l’età dai 14 ai 18 anni. I giovani non riuscirebbero a odiarlo nemmeno se diventasse obbligatorio studiarlo. E avrebbero in mano il più grande trattato sulla felicità umana».

Antonio Tarzia

Publié dans:Bibbia - Antico Testamento |on 9 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI: la teologia ha bisogno della sensibilità delle donne – catechesi dedicata a santa Ildegarda di Bingen

dal sito:

http://www.zenit.org/article-23603?l=italian

Benedetto XVI: la teologia ha bisogno della sensibilità delle donne

Nella seconda catechesi dedicata a santa Ildegarda di Bingen

ROMA, mercoledì, 8 settembre 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell’intervento pronunciato da Benedetto XVI questo mercoledì durante l’Udienza generale tenutasi a Castel Gandolfo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato ancora sulla figura di santa Ildegarda di Bingen.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei riprendere e continuare la riflessione su S. Ildegarda di Bingen, importante figura femminile del Medioevo, che si distinse per saggezza spirituale e santità di vita. Le visioni mistiche di Ildegarda somigliano a quelle dei profeti dell’Antico Testamento: esprimendosi con le categorie culturali e religiose del suo tempo, interpretava nella luce di Dio le Sacre Scritture applicandole alle varie circostanze della vita. Così, tutti coloro che l’ascoltavano si sentivano esortati a praticare uno stile di esistenza cristiana coerente e impegnato. In una lettera a san Bernardo, la mistica renana confessa: « La visione avvince tutto il mio essere: non vedo con gli occhi del corpo, ma mi appare nello spirito dei misteri … Conosco il significato profondo di ciò che è esposto nel Salterio, nei Vangeli e in altri libri, che mi sono mostrati nella visione. Questa brucia come una fiamma nel mio petto e nella mia anima, e mi insegna a comprendere profondamente il testo » (Epistolarium pars prima I-XC: CCCM 91).

Le visioni mistiche di Ildegarda sono ricche di contenuti teologici. Fanno riferimento agli avvenimenti principali della storia della salvezza, e adoperano un linguaggio principalmente poetico e simbolico. Per esempio, nella sua opera più nota, intitolata Scivias, cioè « Conosci le vie », ella riassume in trentacinque visioni gli eventi della storia della salvezza, dalla creazione del mondo alla fine dei tempi. Con i tratti caratteristici della sensibilità femminile, Ildegarda, proprio nella sezione centrale della sua opera, sviluppa il tema del matrimonio mistico tra Dio e l’umanità realizzato nell’Incarnazione. Sull’albero della Croce si compiono le nozze del Figlio di Dio con la Chiesa, sua sposa, ricolma di grazie e resa capace di donare a Dio nuovi figli, nell’amore dello Spirito Santo (cfr Visio tertia: PL 197, 453c).

Già da questi brevi cenni vediamo come anche la teologia possa ricevere un contributo peculiare dalle donne, perché esse sono capaci di parlare di Dio e dei misteri della fede con la loro peculiare intelligenza e sensibilità. Incoraggio perciò tutte coloro che svolgono questo servizio a compierlo con profondo spirito ecclesiale, alimentando la propria riflessione con la preghiera e guardando alla grande ricchezza, ancora in parte inesplorata, della tradizione mistica medievale, soprattutto a quella rappresentata da modelli luminosi, come appunto Ildegarda di Bingen.

La mistica renana è autrice anche di altri scritti, due dei quali particolarmente importanti perché riportano, come lo Scivias, le sue visioni mistiche: sono il Liber vitae meritorum (Libro dei meriti della vita) e il Liber divinorum operum (Libro delle opere divine), denominato anche De operatione Dei. Nel primo viene descritta un’unica e poderosa visione di Dio che vivifica il cosmo con la sua forza e con la sua luce. Ildegarda sottolinea la profonda relazione tra l’uomo e Dio e ci ricorda che tutta la creazione, di cui l’uomo è il vertice, riceve vita dalla Trinità. Lo scritto è incentrato sulla relazione tra virtù e vizi, per cui l’essere umano deve affrontare quotidianamente la sfida dei vizi, che lo allontanano nel cammino verso Dio e le virtù, che lo favoriscono. L’invito è ad allontanarsi dal male per glorificare Dio e per entrare, dopo un’esistenza virtuosa, nella vita « tutta di gioia ». Nella seconda opera, considerata da molti il suo capolavoro, descrive ancora la creazione nel suo rapporto con Dio e la centralità dell’uomo, manifestando un forte cristocentrismo di sapore biblico-patristico. La Santa, che presenta cinque visioni ispirate dal Prologo del Vangelo di San Giovanni, riporta le parole che il Figlio rivolge al Padre: « Tutta l’opera che tu hai voluto e che mi hai affidato, io l’ho portata a buon fine, ed ecco che io sono in te, e tu in me, e che noi siamo una cosa sola » (Pars III, Visio X: PL 197, 1025a).

In altri scritti, infine, Ildegarda manifesta la versatilità di interessi e la vivacità culturale dei monasteri femminili del Medioevo, contrariamente ai pregiudizi che ancora gravano su quell’epoca. Ildegarda si occupò di medicina e di scienze naturali, come pure di musica, essendo dotata di talento artistico. Compose anche inni, antifone e canti, raccolti sotto il titolo Symphonia Harmoniae Caelestium Revelationum (Sinfonia dell’armonia delle rivelazioni celesti), che venivano gioiosamente eseguiti nei suoi monasteri, diffondendo un’atmosfera di serenità, e che sono giunti anche a noi. Per lei, la creazione intera è una sinfonia dello Spirito Santo, che è in se stesso gioia e giubilo.

La popolarità di cui Ildegarda era circondata spingeva molte persone a interpellarla. Per questo motivo disponiamo di molte sue lettere. A lei si rivolgevano comunità monastiche maschili e femminili, vescovi e abati. Molte risposte restano valide anche per noi. Per esempio, a una comunità religiosa femminile Ildegarda scriveva così: « La vita spirituale deve essere curata con molta dedizione. All’inizio la fatica è amara. Poiché esige la rinuncia all’estrosità, al piacere della carne e ad altre cose simili. Ma se si lascia affascinare dalla santità, un’anima santa troverà dolce e amorevole lo stesso disprezzo del mondo. Bisogna solo intelligentemente fare attenzione che l’anima non avvizzisca » (E. Gronau, Hildegard. Vita di una donna profetica alle origini dell’età moderna, Milano 1996, p. 402). E quando l’Imperatore Federico Barbarossa causò uno scisma ecclesiale opponendo ben tre antipapi al Papa legittimo Alessandro III, Ildegarda, ispirata dalle sue visioni, non esitò a ricordargli che anch’egli, l’imperatore, era soggetto al giudizio di Dio. Con l’audacia che caratterizza ogni profeta, ella scrisse all’Imperatore queste parole da parte di Dio: « Guai, guai a questa malvagia condotta degli empi che mi disprezzano! Presta ascolto, o re, se vuoi vivere! Altrimenti la mia spada ti trafiggerà! » (Ibid., p. 412).

Con l’autorità spirituale di cui era dotata, negli ultimi anni della sua vita Ildegarda si mise in viaggio, nonostante l’età avanzata e le condizioni disagevoli degli spostamenti, per parlare di Dio alla gente. Tutti l’ascoltavano volentieri, anche quando adoperava un tono severo: la consideravano una messaggera mandata da Dio. Richiamava soprattutto le comunità monastiche e il clero a una vita conforme alla loro vocazione. In modo particolare, Ildegarda contrastò il movimento dei cátari tedeschi. Essi – cátari alla lettera significa « puri » – propugnavano una riforma radicale della Chiesa, soprattutto per combattere gli abusi del clero. Lei li rimproverò aspramente di voler sovvertire la natura stessa della Chiesa, ricordando loro che un vero rinnovamento della comunità ecclesiale non si ottiene tanto con il cambiamento delle strutture, quanto con un sincero spirito di penitenza e un cammino operoso di conversione. Questo è un messaggio che non dovremmo mai dimenticare. Invochiamo sempre lo Spirito Santo, affinché susciti nella Chiesa donne sante e coraggiose, come santa Ildegarda di Bingen, che, valorizzando i doni ricevuti da Dio, diano il loro prezioso e peculiare contributo per la crescita spirituale delle nostre comunità e della Chiesa nel nostro tempo.

buona notte

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Granduca di José Luis Hernández Zurdo 

http://www.publicdomainpictures.net/browse-category.php?page=360&c=animali&s=10

Publié dans:immagini sacre |on 9 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia per il 9 settembre 2010: L’amore senza confini

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13578.html

Omelia (11-09-2008) 
Monaci Benedettini Silvestrini

L’amore senza confini

Nella scelta dei nostri amori siamo ordinariamente guidati come da un intimo e nascosto dosatore che ne determina l’intensità e gli obiettivi. Ci viene perciò spontaneo amare coloro che amano ed è altrettanto immediata l’esclusione di coloro che non ci amano e non ci danno il contraccambio. Ancora una volta il Signore Gesù viene a sconvolgere la nostra logica. Egli ci dice: « A voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano ». Egli ci propone un amore senza confini, un amore che deve sospingersi fino all’eroismo. Egli, che ci dà la suprema testimonianza dell’amore con il dono supremo della vita, ha il coraggio di dire a noi suoi seguaci, di amare i nemici, di ricambiare con il bene coloro che ci odiano, di benedire coloro che ci maledicono e addirittura di pregare per coloro che ci maltrattano. Dobbiamo dire che questo è un programma di vita cristiana che si può attuare solo ed esclusivamente con la grazia divina. È troppo difforme da nostro modo di pensare e di valutare, troppo lontano dalle nostre possibilità, troppo al disopra delle nostre forze. Il nostro mondo, dove le sfide e le competizioni sono all’ordine del giorno la remissività viene scambiata con la debolezza, il perdono con la pusillanimità, l’arrendevolezza con la codardia. Inoltre anche quando coraggiosamente riusciamo a vivere concretamente la proposta di Cristo, ci capita di sentirci momentaneamente deboli e sconfitti se non è più che viva in noi la fede nella ricompensa divina. Ci conforta l’esempio dei santi e l’eroismo di tanti fratelli che hanno testimoniato il loro amore in piena conformità al messaggio cristiano. Non ci sfugge che praticando il comandamento dell’amore, noi offriamo l’esempio migliore possibile e la nostra testimonianza diventa l’annuncio più efficace della verità della dottrina cristiana. Dobbiamo ammettere con sincera umiltà che proprio dall’incapacità di vivere in pienezza questo comandamento deriva tutta la fragilità della nostra testimonianza. 

Sant’Isacco Siriano: « Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100909

Giovedì della XXIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Lc 6,27-38
Meditazione del giorno
Sant’Isacco Siriano (7o secolo), monaco nella regione di Ninive (nell’Iraq attuale)
Discorsi ascetici, § 81

« Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro »

        Non provare a distinguere colui che è degno da colui che non è degno. Tutti gli uomini siano pari ai tuoi occhi, per amarli e servirli. Così potrai condurli tutti al bene. Il Signore non ha forse condiviso la tavola dei pubblicani e delle donne di malaffare, senza allontanare da sè gli indegni ? Anche tu, concederai gli stessi benefici, gli stessi onori all’infedele, all’assassino, tanto più che anche lui è un fratello per te, poiché partecipa dell’unica natura umana. Ecco, figlio mio, il mio comandamento : la tua misericordia prevalga sempre nella tua bilancia, fino al momento in cui sentirai dentro di te la misericordia che Dio prova per il mondo.

        Quando l’uomo riconosce che il suo cuore è giunto alla purezza ? Quando considera ogni uomo buono, e nessuno gli appare impuro o macchiato. Allora, in verità, è puro di cuore (Mt 5, 8)…

        Cos’è la purezza ? In poche parole, è la misericordia del cuore nei confronti dell’universo intero. E cos’è la misericordia del cuore ? È il fuoco che lo infiamma per tutta la creazione, per gli uomini, gli uccelli, le bestie, i demoni, per ogni essere creato. Quando pensa a loro o quando li guarda, l’uomo sente i suoi occhi riempirsi delle lacrime di una profonda, di una intensa pietà che gli stringe il cuore e lo rende incapace di tollerare, di sentire, di vedere il minimo torto o la minima afflizione sopportata da una creatura. Perciò, la preghiera nelle lacrime si allarga, in ogni momento, sugli esseri privi di parola, come pure sui nemici della verità, o su coloro che le nuocciono, affinché siano custoditi e purificati. Una compassione immensa e senza misura nasce nel cuore dell’uomo, ad immagine di Dio.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 9 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

ROSH AHSHANÀ – CAPODANNO EBRAICO 9-10 SETTEMBRE 2010

ROSH AHSHANÀ - CAPODANNO EBRAICO 9-10 SETTEMBRE 2010 dans immagini sacre shofar1280

http://www.galitz.co.il/en/downloads.html

Publié dans:immagini sacre |on 8 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

ROSH AHSHANÀ – CAPODANNO EBRAICO 9-10 SETTEMBRE 2010

dal sito:

http://www.ritornoallatorah.it/public/

Rosh Hashanah 5771    

Rosh Hashanah, il capodanno ebraico stabilito dalla Torah, nel 2010 inizia al tramonto di mercoledì 8 settembre e dura fino al tramonto di venerdì.

Rosh Hashanah è la festa della riflessione sulla propria coscienza, del pentimento e della speranza di riuscire a migliorare sè stessi per amore del Creatore, del prossimo e della giustizia.

Rosh Hashanah è il capodanno ebraico, una delle festività più sacre tra quelle ordinate dalla Torah.
Secondo il testo biblico, il primo mese del calendario è quello in cui si celebra Pesach, cioè Nissan (Esodo 12:2), eppure il capodanno si festeggia il primo giorno del mese diTishrei (in autunno), poichè esso segnava l’inizio dell’anno agricolo, fondamentale nell’antica concezione ciclica del tempo.

Il nome Rosh Hashanah, che significa proprio « capo dell’anno », non compare mai nella Bibbia, dove invece questa festività viene chiamata « festa della raccolta » (Esodo 23:16), e « giorno annunciato dal suono, una santa convocazione » (Levitico 23:24).

Rosh Hashanah ha un significato collettivo che riguarda tutta l’umanità poichè, secondo i Maestri, in questo giorno ricorre l’anniversario della Creazione del primo uomo, ed è quindi il momento in cui Dio rinnova il Suo sostentamento alla natura segnando un nuovo inizio per tutti.
Ma il capodanno ha anche un significato che riguarda individualmente ogni essere umano, ed è per questo che nella tradizione è chiamato anche « Yom HaDin », cioè « Giorno del Giudizio ».
Infatti, come è spiegato nel Talmud e nei Midrashim, nel giorno di Rosh Hashanah Dio prende in esame le azioni di ogni uomo e stabilisce il Suo Giudizio, che tuttavia viene decretato definitivamente soltanto dieci giorni dopo, in occasione di Yom Kippur. Per questo, nei dieci giorni che separano queste due festività, gli uomini hanno ancora la possibilità di ravvedersi rimediando ai propri errori e abbandonando le loro trasgressioni per meritare il perdono Divino.

Il capodanno ebraico è quindi la festa della riflessione sulla propria coscienza, del pentimento e della speranza di riuscire a migliorare sè stessi, non per la paura di essere puniti, ma per amore del Creatore, del prossimo e della giustizia.
Per scuotere gli animi dal torpore spirituale viene suonato lo Shofar, uno strumento musicale costituito dal corno di un animale (di solito un montone), il cui suono nell’antico Israele era un segnale di guerra. Lo Shofar viene utilizzato nelle Sinagoghe per annunciare alcune funzioni religiose, in particolare durante Rosh Hashanah e Yom Kippur.

Nei giorni che precedono Rosh Hashanah vengono recitate delle preghiere penitenziali chiamate selichot, alcune delle quali fanno parte anche della liturgia della festività.

E’ diffusa l’usanza di recarsi ad un luogo dove ci sia acqua corrente nel pomeriggio che precede Rosh Hashanah per gettarvi oggetti vecchi ed inutili recitando il verso del profeta Michea: « Tu getterai le nostre colpe nel mare più profondo » (Michea 7:19).
Non bisogna pensare che si tratti di una cerimonia superstiziosa: il lancio degli oggetti non libera davvero gli Ebrei dai peccati, ma rappresenta simbolicamente l’atto del ravvedimento e dell’abbandono di ogni vecchia colpa.

Durante la cena (seder) di Rosh Hashanah, vengono pronunciate benedizioni di ringraziamento e il pane (challah) viene intinto nel miele per indicare l’augurio di un anno dolce e piacevole. Viene inoltre servita una grande quantità di frutta, in particolare il melograno che simboleggia l’idea di abbondanza e quindi di prosperità.

Quando esisteva ancora il Tempio, durante questa festività venivano offerti particolari sacrifici oggi sostituiti dalle preghiere (Numeri 29:1-6).

Publié dans:ebraismo |on 8 septembre, 2010 |Pas de commentaires »
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