dal sito:
http://www.stpauls.it/fc04/0451bis/0451bf59.htm
Il biblista Ravasi
La parabola di Lazzaro e del ricco Epulone
Gesù parla a noi, figli del mondo dello spreco
Nel Libro della Sapienza si elencano le quattro virtù cardinali o morali. Ebbene, contrariamente alla tradizione successiva che collocherà al primo posto la prudenza, qui si propone quest’ordine: «La Sapienza insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza» (8,7). Certo è che la moderazione o sobrietà, non solo nel consumo dei cibi ma anche nel possesso, nell’egoismo, nell’intemperanza delle passioni, è una virtù preziosa. Il Libro dei Proverbi rappresenta questa vivacissima scenetta: «Per chi i guai, i lamenti, i litigi, i gemiti? A chi le percosse per futili motivi? A chi gli occhi rossi? Per quelli che si perdono dietro al vino e vanno a gustare vino puro. Non guardare il vino quando rosseggia, quando scintilla nella coppa e scende giù piano piano. Finirà col morderti come un serpente e pungerti come una vipera… Ma quando mi sveglierò, ne chiederò dell’altro!» (23,29-32.35). Noi, per illustrare questa virtù, proporremo una parabola di Gesù molto famosa, quella del povero Lazzaro e del ricco gaudente (Luca 16,19-31).
La tradizione popolare ha usato un aggettivo ormai in disuso ma efficace per designare quel ricco, « epulone ». «Un uomo ricco vestiva di porpora e bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante era bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco». Alla fine il giudizio è nel contrappasso: il povero Lazzaro è accolto nella festa del cielo in compagnia di Abramo e di tutti i giusti, mentre il ricco gaudente è nell’inferno e implora anche solo una goccia che cada sulla sua lingua dal dito bagnato d’acqua di Lazzaro. La lezione è chiara ed è attuale soprattutto per il mondo occidentale, che non conosce limite allo spreco e che ormai ha come problema principale quello della dieta e della linea, davanti a un altro mondo che è, al contrario, affamato e assetato. Isaia ribadiva che il vero digiuno è «dividere il pane con l’affamato» (58,7) e la testimonianza di Cristo e della prima comunità cristiana è, al riguardo, emblematica. La temperanza, però, che è soprattutto controllo di sé e delle passioni, non conduce al disprezzo del corpo e del cibo, tant’è vero che Gesù è ritratto spesso dagli evangelisti mentre è a mensa, così da essere bollato come «un mangione e un beone». In realtà la temperanza non è masochismo e cupezza o ascetismo acido e duro; è, invece, sobrietà, dignità, sereno distacco ed equilibrio. Anche san Paolo suggeriva al discepolo Timoteo di non rinunciare a «un po’ di vino a causa dello stomaco e delle frequenti indisposizioni» (1Timoteo 5,23).
Gianfranco Ravasi