dal sito:
http://www.tanogabo.it/religione/Ravasi_Gesu.htm
Gianfranco Ravasi – Quattro scritti su Gesù
GESU’ DI EMMAUS
Nel 1623 un grande musicista tedesco, Heinrich Schùtz, compose uno stupendo oratorio intitolato « Storia della risurrezione » (op. 3). Alla partitura egli aggiunse un post-scriptum di poche ma intense righe: «Signore Gesù Cristo, tu mi hai concesso di cantare la tua risurrezione su questa terra. Nel giorno del tuo giudizio, Signore, richiamami dalla mia tomba e, in cielo, il mio canto, mescolato a quello dei serafini, ti renderà grazie in eterno!». La narrazione evangelica della Pasqua di Cristo, pur nella sua estrema sobrietà, ha una potenza di speranza da aver mosso tanti cuori, in particolare quelli di coloro che hanno voluto riproporre la loro fede attraverso la bellezza dell’arte. Si pensi solo all’indimenticabile cascata di alleluia del Messia di Hàndel (1742).
Ci fermiamo ora su una delle pagine più affascinanti del Vangelo di Luca: i discepoli di Emmaus (24,13-35).
La cornice cronologica è proprio quella del giorno di Pasqua. Due discepoli stanno camminando sulla strada che da Gerusalemme conduce a un non meglio identificabile villaggio di Emmaus. Il Cristo della gloria pasquale non è riconoscibile coi sensi soltanto: è necessaria una via superiore di conoscenza. Due sono le tappe di questo processo di fede: prima l’ascolto delle Scritture spiegate da Cristo in chiave cristiana; poi lo “spezzare il pane” che, nel linguaggio neotestamentario, allude all’eucaristia. In questi termini abbiamo già ciò che ogni domenica facciamo all’interno delle chiese, ascoltando la Parola di Dio e accostandoci alla mensa del Signore.
Nell’ascolto della Parola «il cuore arde nel petto»; allo spezzare del pane «gli occhi si aprono e lo riconoscono». Ma c’è anche quell’indimenticabile implorazione finale: «Rimani con noi perché si fa sera e il giorno sta ormai declinando!». Lasciamo la parola al grande scrittore francese, Francois Mauriac (1885-1970), e alla sua Vita di Gesù (1936): «A chi di noi, dunque, la casa di Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada, una sera che tutto pareva perduto? Il Cristo era morto in noi. Ce l’avevano preso il mondo, i filosofi e gli scienziati, nostra passione. Non esisteva più nessun Gesù per noi sulla terra. Seguivamo una strada, e qualcuno ci veniva a lato. Eravamo soli e non soli. Era la sera. Ecco una porta aperta, l’oscurità d’una sala ove la fiamma del caminetto non rischiara che il suolo e fa tremolare delle ombre. O pane spezzato! O porzione del pane consumata malgrado tanta miseria! Rimani con noi, perché il giorno declina…! Il giorno declina, la vita finisce. L’infanzia sembra più lontana che il principio del mondo, e della giovinezza perduta non sentiamo più altro che l’ultimo mormorio degli alberi morti nel parco irriconoscibile…».
Cristo, presenza ineludibile, è «con noi sino alla fine del mondo» (Matteo 28,20). Il celebre scrittore Kafka all’amico Gustav Janouch che lo interrogava su Cristo aveva risposto: «Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitare».
I VOLTI DEL CRISTO
Agli inizi della tradizione artistica cristiana si fu incerti sul raffigurare Cristo con un aspetto brutto – per renderlo vicino agli ultimi e ai sofferenti – o con un profilo affascinante, per far risplendere la perfezione della sua umanità. I Vangeli non ci dicono nulla sulla sua fisionomia esteriore. Molto, invece, sappiamo dei suoi atti e delle sue parole ed è questa la vera bellezza che ha catturato l’umanità. In questa luce si devono leggere le parole che il grande scrittore russo Fiodor Dostoevskij scriveva alla nipote Sonia in una lettera del gennaio 1868: «Tutti gli scrittori che hanno pensato di raffigurare un uomo positivamente bello si sono sempre dati per vinti. Poiché si tratta di un compito sconfinato. Il bello, infatti, è l’ideale. Al mondo c’è una persona sola positivamente bella: Cristo. L’apparizione di questa persona sconfinatamente, infinitamente bella è già un miracolo infinito». E nei Demoni, ancor più provocatorio, il romanziere russo farà di Gesù anche il segno della verità assoluta: «Se mai si dimostrasse matematicamente che la verità è fuori di Cristo, io starei dalla parte di Cristo!».
Certo è che sempre sono state vere le parole lapidarie pronunziate dal vecchio Simeone mentre stringeva tra le sue braccia Gesù neonato: «Egli è segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Luca 2,34-35). Così il filosofo anticristiano tedesco Friedrich W.Nietzsche, che aveva considerato Cristo l’unico cristiano della storia, finito però in croce, nella sua opera Così parlò Zarathustra (1883-85) reagirà in questa maniera: «È morto troppo presto: avrebbe ritrattato lui stesso la sua dottrina, se fosse giunto alla mia età». Eppure anche Nietzsche non poteva prescindere da quella figura di «ebreo pieno di lacrime e di malinconia», come lo definiva al punto tale da intitolare un suo libro L’Anticristo!
È la stessa confessione che farà in piena rivoluzione sovietica (1918) un conterraneo di Dostoevskij, il poeta Alexander Biok (1880-1921) che, al termine dell’opera I Dodici, confessava: «Quando l’ebbi finita, mi meravigliai io stesso: perché mai Cristo? Davvero Cristo? Ma più il mio esame era attento, più distintamente vedevo Cristo. Annotai allora sul diario: Purtroppo Cristo! Purtroppo proprio Cristo!». Una figura imprescindibile, quindi, e “inevitabile” come lo sono le 64.327 parole greche di quei quattro libretti, i Vangeli.
A proposito delle parole di Gesù, della loro bellezza e forza è suggestivo quello che scrisse un altro scrittore ateo, il francese André Gide (1869-1951), che ebbe un rapporto tormentato con Cristo. Confessava nella sua opera Numquid et tu? (1922): «Penso che non si tratti di credere alle parole del Cristo perché il Cristo è figlio di Dio, quanto di comprendere che egli è figlio di Dio perché la sua parola è divina e infinitamente più alta di tutto ciò che l’arte e lasaggezza degli uomini possono proporci. Signore, non perché mi sia stato detto che tu eri il figlio di Dio ascolto la tua parola; ma la tua parola è bella al di sopra di ogni parola umana, e da questo io riconosco che sei il figlio di Dio».
L’ « AGONIA » DI GESU’
Ci stiamo avvicinando al vertice della Quaresima: i giorni ci conducono a quell’evento capitale della fede cristiana che èla morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Quella vicenda è giunta a noi attraverso le pagine altissime dei Vangeli che sono divenute anche una sorgente di arte e di bellezza. Lo stesso dolore è trasfigurato, la morte è glorificata, il silenzio di Dio diventa parola misteriosa. Noi ora ci fermeremo su una scena preliminare, quella che si consuma sotto gli ulivi del Getsemani: alcime analisi scientifiche hanno rivelato nei loro ceppi una datazione di 2.500 anni. Gesù sotto lo stormire di quelle fronde aveva a lungo pregato in solitudine, rivelando in quell’appello rivolto al Padre celeste tutta la realtà della sua umanità: «Padre, se è possibile, passi da me questo calice…». Luca, l’evangelista che era stato medico, aveva segnalato anche quella terribile “diapedesi” della pelle di Cristo, giunta persino a trasudare sangue.
L’intensità di questa “agonia” di Gesù potrebbe essere riproposta anche attraverso la forza dell’arte che l’ha voluta spesso raffigurare. Pensiamo solo alI’emoziònante tela di Andrea Mantegna(1460), conservata al museo di Tours, con la pesante materialità dei discepoli assonnati in primo piano e col Cristo sospeso su una rupe, solitario in tesa orazione. «Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo: non bisogna dormire fino a quel momento», scriveva Pascal, il celebre filosofo francese nei suoi Pensieri (n. 736). Un tema che percorrerà anche un notissimo romanzo – divenuto anche un film bellissimo di Bresson- dello scrittore francese Bernanos, il Diario di un curato di campagna (1936), il cui protagonista è definito «prigioniero della santa Agonia».
Un altro francese, il poeta Alfred de Vigny, nel 1839 aveva proposto nel Monte degli Ulivi quelle ore notturne vissute da Gesù e le aveva trasformate nei simbolo dell’angoscia di ogni persona, quando attorno ad essa si addensa il silenzio di un Dio apparentemente «muto, cieco, sordo al grido delle sue creature». Un’esperienza drammatica per il Figlio di Dio fatto uomo, come ricordava un altro poeta francese, Gérard de Nerval, nel suo sonetto Il Cristo degli Ulivi (1854): «Dio manca all’altare del mio sacrificio… Dio non c’è! Dio non è più! Ma essi continuano a dormire…».
Ma vorremmo invitare chi conosce bene la musica a meditare su quella scena ascoltando l’unico oratorio scritto da Beethoven, Cristo al monte degli Ulivi op. 85 (1802-1803), che io ebbi la fortuna di ascoltare eseguito sullo sfondo del monte degli Ulivi nel 1995, per la celebrazione del terzo millennio di Gerusalemme. Tre sono i protagonisti: Gesù (tenore), Pietro (basso) e un serafino (soprano). Emozionante è l’aria del serafino che dialoga col coro e con Gesù per consolarlo (è un recitativo). Ma le ultime parole di Cristo sulla croce, secondo Luca, saranno una preghiera di fiducia e non di desolazione: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (23,46).
CRISTO SAMARITANO
Lo scrittore Luigi Santucci (19 18-1999) in un suo racconto intitolato Samaritano apocrifo ricorda che questo personaggio evangelico — che abbiamo iniziato a presentare la scorsa settimana, attingendo alla parabola di Luca 10,25-37 — è divenuto nei secoli cristiani una specie di icona posta nei «vestiboli dei lazzaretti e dei luoghi pii». Ma qua! è il vero senso della parabola di Gesù, una delle più celebri e più belle del Vangelo? La risposta è da cercare in un abile contrasto tra due domande presenti nella cornice del racconto. In essa un dottore della legge chiede a Cristo: «Chi è mai il mio prossimo?». L’ebraismo Ilsolveva questo interrogativo “oggettivo” sulla base di una serie di cerchi concentrici che si allargavano ai parenti e agli Ebrei. Gesù, in finale di parabola, rilancia la domanda allo scriba ma con un mutamento significativo: «Chi ha agito come prossimo?». Come è evidente, c’è un ribaltamento: invece di interessarsi “oggettivamente” a definire il vero o falso prossimo, Gesù invita a comportarsi “soggettivamente” da prossimo nei confronti di tutti coloro che sono nella necessità.
In questa luce il Samaritano — a differenza del levita e del sacerdote ebreo che «passano òltre dall’altra parte» della strada su cui giace lo sventurato, mezzo morto — autenticamente è prossimo del sofferente, senza interrogarsi su chi è questo prossimo da aiutare. È per questo che una tradizione posteriore ha visto nel ritratto del buon Samaritano un’immagine di Cristo stesso. E, infatti, interessante notare che sulle mura di un edificio crociato diroccato, chiamato liberamente “il khan (caravanserraglio) del buon Samaritano” posto proprio sulla strada che scende da Gerusalemme a Gerico, un anonimo pellegrino medievale ha inciso in latino questo graffito: «Se persino sacerdoti o leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il buon Samaritano che avrà sempre compassione di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna».
Questa pagina evangelica di forte tensione drammatica ma anche di grande fragranza spirituale e lettera-~ ria illustra in modo esemplare il messaggio cristiano dell’amore che pervade tante parole di Gesù, a partire dall’appello del Discorso della Montagna: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,43-44). Per giungere fino al testamento dell’ultima sera di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: Amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amati, così anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,34-35). Anche nell’apocrifo Vangelo di Tommaso Gesù ripete: «Ama il tuo fratello come l’anima tua. Proteggilo come la pupilla dei tuoi occhi».