Archive pour le 23 septembre, 2010

Le Shabbat

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IL SIGNORE HA DATO, IL SIGNORE HA TOLTO» (Giob. 1,21)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_i.htm#

IL SIGNORE HA DATO, IL SIGNORE HA TOLTO» (Giob. 1,21)

 San Gregorio Magno *

San Gregorio Magno (540-604) fu successivamente prefetto della città di Roma, monaco e fondatore di monasteri, diacono e legato a Costantinopoli, ed infine papa in un contesto storico molto fosco. Questo grande mistico, che conservò sempre in cuore la nostalgia della sua vita monastica, seppe essere un pastore ammirevole. I suoi scritti spirituali hanno profondamente influenzato la pietà medioevale.

Dopo aver perduto tutti i suoi beni e tutti i suoi figli, Giobbe si alzò, si stracciò le vesti, si rase il capo e, prostrandosi a terra, adorò (cfr. Giob. 1, 20). Lo stracciarsi le vesti, il gettarsi a terra col capo raso, mostrano bene che egli sentiva il dolore di queste sventure. Ma quell’«adorò» che vi si aggiunge sta a testimoniare che, sia pure nel dolore, egli non si ribellava contro la decisione di chilo colpiva. Ascoltiamo quello che disse allora: Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò (Giob. 1, 21)… Poiché per volontà del Signore era stato privato di tutto, per poter conservare la pazienza si richiamò alla mente il tempo in cui non possedeva ancora nulla di ciò che aveva perduto; e così il pensiero di non aver avuto, una volta, nessuno di quei beni, mitiga il dolore di averli perduti. E’ infatti una consolazione grande, quando perdiamo i nostri beni, ricordarci del tempo in cui non li possedevamo.
Poiché la terra ci ha generati tutti, non è sbagliato chiamarla nostra madre. Per questo la Scrittura dice: Un giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della uscita dal seno della loro madre, fino al giorno del ritorno alla madre dI’ tutti (Eccli. 40, 1). E il beato Giobbe, per piangere, sì, ma nella pazienza, quello che ha perduto in questo mondo, considera attentamente lo stato in cui era quando vi giunse; e, per potersi mantenere più sicuramente in un atteggiamento di pazienza, pensa con un’attenzione ancora più grande allo stato in cui lo lascerà: Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò. E’ come se dicesse: la terra mi ha portato alla luce nudo al mio ingresso nel mondo, la terra mi accoglierà nudo quando lo abbandonerò. Mi è stato tolto quel che avevo ricevuto e che dovevo lasciare: che cosa ho dunque perduto che fosse realmente mio?
E siccome la consolazione non ci deve venire soltanto dal pensiero del nostro stato, ma anche dalla considerazione della giustizia del nostro Creatore, ben a ragione Giobbe continua così: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; come piacque al Signore, così è avvenuto (Giob. 1, 21 Vulg.). Quest’uomo aveva perduto tutto per la tentazione dell’avversario; ma sapendo che Satana non avrebbe avuto il potere di tentarlo senza il permesso di Dio, non disse: «Il Signore ha dato, il diavolo ha tolto»; ma: 1/ Signore ha dato, il Signore ha tolto. Forse ci sarebbe stato motivo di lamentarsi se quel che il Creatore gli aveva dato, il nemico gliela avesse portato via; ma siccome chi ha tolto è proprio colui che ha dato, egli non ha portato via cose nostre: si è soltanto ripreso le sue. Se da lui infatti riceviamo i beni di cui facciamo uso in questa vita, perché lamentarci se egli vuole che restituiamo quello che nella sua bontà ci aveva prestato?…
Ascoltiamo ora Giobbe che conclude la sua preghiera lodando il suo giudice con queste parole di benedizione: Sia benedetto il nome del Signore (Giob. 1,21). Questo benedire il Signore è come la conclusione di tutto ciò che Giobbe ha pensato di giusto… Quest’uomo, anche quando è percosso da Dio, gli innalza un inno di gloria.

* Moralia, Il, 29-32: PL 75,569-571.

Publié dans:Bibbia - Antico Testamento, Papi |on 23 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

Gianfranco Ravasi – Quattro scritti su Gesù

dal sito:

http://www.tanogabo.it/religione/Ravasi_Gesu.htm

Gianfranco Ravasi – Quattro scritti su Gesù

GESU’ DI EMMAUS

Nel 1623 un grande musicista tedesco, Heinrich Schùtz, compose uno stupendo oratorio intitolato « Storia della risurrezione » (op. 3). Alla partitura egli aggiunse un post-scriptum di poche ma intense righe: «Signore Gesù Cristo, tu mi hai concesso di cantare la tua risurrezione su questa terra. Nel giorno del tuo giudizio, Signore, richiamami dalla mia tomba e, in cielo, il mio canto, mescolato a quello dei serafini, ti renderà grazie in eterno!». La narrazione evangelica della Pasqua di Cristo, pur nella sua estrema sobrietà, ha una potenza di speranza da aver mosso tanti cuori, in particolare quelli di coloro che hanno voluto riproporre la loro fede attraverso la bellezza dell’arte. Si pensi solo all’indimenticabile cascata di alleluia del Messia di Hàndel (1742).
Ci fermiamo ora su una delle pagine più affascinanti del Vangelo di Luca: i discepoli di Emmaus (24,13-35).
La cornice cronologica è proprio quella del giorno di Pasqua. Due discepoli stanno camminando sulla strada che da Gerusalemme conduce a un non meglio identificabile villaggio di Emmaus. Il Cristo della gloria pasquale non è riconoscibile coi sensi soltanto: è necessaria una via superiore di conoscenza. Due sono le tappe di questo processo di fede: prima l’ascolto delle Scritture spiegate da Cristo in chiave cristiana; poi lo “spezzare il pane” che, nel linguaggio neotestamentario, allude all’eucaristia. In questi termini abbiamo già ciò che ogni domenica facciamo all’interno delle chiese, ascoltando la Parola di Dio e accostandoci alla mensa del Signore.
Nell’ascolto della Parola «il cuore arde nel petto»; allo spezzare del pane «gli occhi si aprono e lo riconoscono». Ma c’è anche quell’indimenticabile implorazione finale: «Rimani con noi perché si fa sera e il giorno sta ormai declinando!». Lasciamo la parola al grande scrittore francese, Francois Mauriac (1885-1970), e alla sua Vita di Gesù (1936): «A chi di noi, dunque, la casa di Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada, una sera che tutto pareva perduto? Il Cristo era morto in noi. Ce l’avevano preso il mondo, i filosofi e gli scienziati, nostra passione. Non esisteva più nessun Gesù per noi sulla terra. Seguivamo una strada, e qualcuno ci veniva a lato. Eravamo soli e non soli. Era la sera. Ecco una porta aperta, l’oscurità d’una sala ove la fiamma del caminetto non rischiara che il suolo e fa tremolare delle ombre. O pane spezzato! O porzione del pane consumata malgrado tanta miseria! Rimani con noi, perché il giorno declina…! Il giorno declina, la vita finisce. L’infanzia sembra più lontana che il principio del mondo, e della giovinezza perduta non sentiamo più altro che l’ultimo mormorio degli alberi morti nel parco irriconoscibile…».
Cristo, presenza ineludibile, è «con noi sino alla fine del mondo» (Matteo 28,20). Il celebre scrittore Kafka all’amico Gustav Janouch che lo interrogava su Cristo aveva risposto: «Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitare».

I VOLTI DEL CRISTO

Agli inizi della tradizione artistica cristiana si fu incerti sul raffigurare Cristo con un aspetto brutto – per renderlo vicino agli ultimi e ai sofferenti – o con un profilo affascinante, per far risplendere la perfezione della sua umanità. I Vangeli non ci dicono nulla sulla sua fisionomia esteriore. Molto, invece, sappiamo dei suoi atti e delle sue parole ed è questa la vera bellezza che ha catturato l’umanità. In questa luce si devono leggere le parole che il grande scrittore russo Fiodor Dostoevskij scriveva alla nipote Sonia in una lettera del gennaio 1868: «Tutti gli scrittori che hanno pensato di raffigurare un uomo positivamente bello si sono sempre dati per vinti. Poiché si tratta di un compito sconfinato. Il bello, infatti, è l’ideale. Al mondo c’è una persona sola positivamente bella: Cristo. L’apparizione di questa persona sconfinatamente, infinitamente bella è già un miracolo infinito». E nei Demoni, ancor più provocatorio, il romanziere russo farà di Gesù anche il segno della verità assoluta: «Se mai si dimostrasse matematicamente che la verità è fuori di Cristo, io starei dalla parte di Cristo!».
Certo è che sempre sono state vere le parole lapidarie pronunziate dal vecchio Simeone mentre stringeva tra le sue braccia Gesù neonato: «Egli è segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Luca 2,34-35). Così il filosofo anticristiano tedesco Friedrich W.Nietzsche, che aveva considerato Cristo l’unico cristiano della storia, finito però in croce, nella sua opera Così parlò Zarathustra (1883-85) reagirà in questa maniera: «È morto troppo presto: avrebbe ritrattato lui stesso la sua dottrina, se fosse giunto alla mia età». Eppure anche Nietzsche non poteva prescindere da quella figura di «ebreo pieno di lacrime e di malinconia», come lo definiva al punto tale da intitolare un suo libro L’Anticristo!
È la stessa confessione che farà in piena rivoluzione sovietica (1918) un conterraneo di Dostoevskij, il poeta Alexander Biok (1880-1921) che, al termine dell’opera I Dodici, confessava: «Quando l’ebbi finita, mi meravigliai io stesso: perché mai Cristo? Davvero Cristo? Ma più il mio esame era attento, più distintamente vedevo Cristo. Annotai allora sul diario: Purtroppo Cristo! Purtroppo proprio Cristo!». Una figura imprescindibile, quindi, e “inevitabile” come lo sono le 64.327 parole greche di quei quattro libretti, i Vangeli.
A proposito delle parole di Gesù, della loro bellezza e forza è suggestivo quello che scrisse un altro scrittore ateo, il francese André Gide (1869-1951), che ebbe un rapporto tormentato con Cristo. Confessava nella sua opera Numquid et tu? (1922): «Penso che non si tratti di credere alle parole del Cristo perché il Cristo è figlio di Dio, quanto di comprendere che egli è figlio di Dio perché la sua parola è divina e infinitamente più alta di tutto ciò che l’arte e lasaggezza degli uomini possono proporci. Signore, non perché mi sia stato detto che tu eri il figlio di Dio ascolto la tua parola; ma la tua parola è bella al di sopra di ogni parola umana, e da questo io riconosco che sei il figlio di Dio».
 
L’ « AGONIA » DI GESU’

Ci stiamo avvicinando al vertice della Quaresima: i giorni ci conducono a quell’evento capitale della fede cristiana che èla morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Quella vicenda è giunta a noi attraverso le pagine altissime dei Vangeli che sono divenute anche una sorgente di arte e di bellezza. Lo stesso dolore è trasfigurato, la morte è glorificata, il silenzio di Dio diventa parola misteriosa. Noi ora ci fermeremo su una scena preliminare, quella che si consuma sotto gli ulivi del Getsemani: alcime analisi scientifiche hanno rivelato nei loro ceppi una datazione di 2.500 anni. Gesù sotto lo stormire di quelle fronde aveva a lungo pregato in solitudine, rivelando in quell’appello rivolto al Padre celeste tutta la realtà della sua umanità: «Padre, se è possibile, passi da me questo calice…». Luca, l’evangelista che era stato medico, aveva segnalato anche quella terribile “diapedesi” della pelle di Cristo, giunta persino a trasudare sangue.
L’intensità di questa “agonia” di Gesù potrebbe essere riproposta anche attraverso la forza dell’arte che l’ha voluta spesso raffigurare. Pensiamo solo alI’emoziònante tela di Andrea Mantegna(1460), conservata al museo di Tours, con la pesante materialità dei discepoli assonnati in primo piano e col Cristo sospeso su una rupe, solitario in tesa orazione. «Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo: non bisogna dormire fino a quel momento», scriveva Pascal, il celebre filosofo francese nei suoi Pensieri (n. 736). Un tema che percorrerà anche un notissimo romanzo – divenuto anche un film bellissimo di Bresson- dello scrittore francese Bernanos, il Diario di un curato di campagna (1936), il cui protagonista è definito «prigioniero della santa Agonia».
Un altro francese, il poeta Alfred de Vigny, nel 1839 aveva proposto nel Monte degli Ulivi quelle ore notturne vissute da Gesù e le aveva trasformate nei simbolo dell’angoscia di ogni persona, quando attorno ad essa si addensa il silenzio di un Dio apparentemente «muto, cieco, sordo al grido delle sue creature». Un’esperienza drammatica per il Figlio di Dio fatto uomo, come ricordava un altro poeta francese, Gérard de Nerval, nel suo sonetto Il Cristo degli Ulivi (1854): «Dio manca all’altare del mio sacrificio… Dio non c’è! Dio non è più! Ma essi continuano a dormire…».
Ma vorremmo invitare chi conosce bene la musica a meditare su quella scena ascoltando l’unico oratorio scritto da Beethoven, Cristo al monte degli Ulivi op. 85 (1802-1803), che io ebbi la fortuna di ascoltare eseguito sullo sfondo del monte degli Ulivi nel 1995, per la celebrazione del terzo millennio di Gerusalemme. Tre sono i protagonisti: Gesù (tenore), Pietro (basso) e un serafino (soprano). Emozionante è l’aria del serafino che dialoga col coro e con Gesù per consolarlo (è un recitativo). Ma le ultime parole di Cristo sulla croce, secondo Luca, saranno una preghiera di fiducia e non di desolazione: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (23,46).

CRISTO SAMARITANO
 
Lo scrittore Luigi Santucci (19 18-1999) in un suo racconto intitolato Samaritano apocrifo ricorda che questo personaggio evangelico — che abbiamo iniziato a presentare la scorsa settimana, attingendo alla parabola di Luca 10,25-37 — è divenuto nei secoli cristiani una specie di icona posta nei «vestiboli dei lazzaretti e dei luoghi pii». Ma qua! è il vero senso della parabola di Gesù, una delle più celebri e più belle del Vangelo? La risposta è da cercare in un abile contrasto tra due domande presenti nella cornice del racconto. In essa un dottore della legge chiede a Cristo: «Chi è mai il mio prossimo?». L’ebraismo Ilsolveva questo interrogativo “oggettivo” sulla base di una serie di cerchi concentrici che si allargavano ai parenti e agli Ebrei. Gesù, in finale di parabola, rilancia la domanda allo scriba ma con un mutamento significativo: «Chi ha agito come prossimo?». Come è evidente, c’è un ribaltamento: invece di interessarsi “oggettivamente” a definire il vero o falso prossimo, Gesù invita a comportarsi “soggettivamente” da prossimo nei confronti di tutti coloro che sono nella necessità.
In questa luce il Samaritano — a differenza del levita e del sacerdote ebreo che «passano òltre dall’altra parte» della strada su cui giace lo sventurato, mezzo morto — autenticamente è prossimo del sofferente, senza interrogarsi su chi è questo prossimo da aiutare. È per questo che una tradizione posteriore ha visto nel ritratto del buon Samaritano un’immagine di Cristo stesso. E, infatti, interessante notare che sulle mura di un edificio crociato diroccato, chiamato liberamente “il khan (caravanserraglio) del buon Samaritano” posto proprio sulla strada che scende da Gerusalemme a Gerico, un anonimo pellegrino medievale ha inciso in latino questo graffito: «Se persino sacerdoti o leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il buon Samaritano che avrà sempre compassione di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna».
Questa pagina evangelica di forte tensione drammatica ma anche di grande fragranza spirituale e lettera-~ ria illustra in modo esemplare il messaggio cristiano dell’amore che pervade tante parole di Gesù, a partire dall’appello del Discorso della Montagna: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,43-44). Per giungere fino al testamento dell’ultima sera di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: Amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amati, così anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,34-35). Anche nell’apocrifo Vangelo di Tommaso Gesù ripete: «Ama il tuo fratello come l’anima tua. Proteggilo come la pupilla dei tuoi occhi».

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buona notte

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Ghana

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Omelia 23 settembre 2010: Commento Luca 9,7-9

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16182.html

Omelia (24-09-2009) 
a cura dei Carmelitani

Commento Luca 9,7-9

1) Preghiera

O Dio, che nell’amore verso di te e verso il prossimo
hai posto il fondamento di tutta la legge,
fa’ che osservando i tuoi comandamenti
meritiamo di entrare nella vita eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…

2) Lettura del Vangelo

Dal Vangelo secondo Luca 9,7-9
In quel tempo, il tetrarca Erode sentì parlare di tutto ciò che accadeva e non sapeva che cosa pensare, perché alcuni dicevano: « Giovanni è risuscitato dai morti », altri: « È apparso Elia », e altri ancora: « È risorto uno degli antichi profeti ».
Ma Erode diceva: « Giovanni l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire tali cose? ». E cercava di vederlo.

3) Riflessione

- Il vangelo di oggi presenta la reazione di Erode alla predicazione di Gesù. Erode non sa come porsi davanti a Gesù. Aveva ucciso Giovanni Battista ed ora vuole vedere Gesù da vicino. L’orizzonte sembra minacciato.
- Luca 9,7-8: Chi è Gesù? Il testo inizia con l’esposizione delle opinioni della gente e di Erode su Gesù. Alcuni associavano Gesù a Giovanni Battista e a Elia. Altri lo identificavano con un Profeta, cioè con una persona che parla a nome di Dio, che ha il coraggio di denunciare le ingiustizie dei poderosi e che sa animare la speranza dei piccoli. E’ il profeta annunciato nell’Antico Testamento come un nuovo Mosè (Dt 18,15). Sono le stesse opinioni che Gesù stesso raccoglie dai discepoli quando domanda: « Chi sono io secondo la gente? » (Lc 9,18). Le persone cercavano di capire Gesù partendo da cose che loro conoscevano, pensavano e speravano. Cercavano di inquadrarlo nei criteri familiari dell’Antico Testamento con le sue profezie e speranza, e nella Tradizione degli Antichi con le loro leggi. Ma erano criteri insufficienti. Gesù non vi entrava, lui era più grande!
- Luca 9,9: Erode vuole vedere Gesù. Ma Erode diceva « Giovanni l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire tali cose? » E cercava di vederlo. Erode, uomo superstizioso e senza scrupoli, riconosce di essere lui l’assassino di Giovanni Battista. Ora vuole vedere Gesù. In questo modo Luca suggerisce che le minacce incominciano a spuntare sull’orizzonte della predicazione di Gesù. Erode non ha avuto paura di uccidere Giovanni. Non avrà paura di uccidere Gesù. D’altro canto, Gesù, non ha paura di Erode. Quando gli dissero che Erode cercava di prenderlo per ucciderlo, gli mandò a dire: « Andate a dire a quella volpe: ecco io scaccio i demoni e compio guarigioni oggi e domani; ed il terzo giorno avrò finito » (Lc 13,32). Erode non ha potere su Gesù. Quando nell’ora della passione, Pilato manda Gesù ad essere giudicato da Erode, Gesù non risponde nulla (Lc 23,9). Erode non merita risposta.
- Da padre a figlio. A volte si confondono i tre Erodi che vissero in quell’epoca, poi i tre appaiono nel Nuovo Testamento con lo stesso nome:
a) Erode, chiamato il Grande, governò su tutta la Palestina dal 37 a. Cristo. Lui appare alla nascita di Gesù (Mt 2,1). Uccise i neonati di Betlemme (Mt 2,16).
b) Erode, chiamato Antipas, governò sulla Galilea dal 4 al 39 dopo Cristo. Appare nella morte di Gesù (Lc 23,7). Uccise Giovanni Battista (Mc 6,14-29).
c) Erode, chiamato Agrippa, governò su tutta la Palestina dal 41 al 44 dopo Cristo. Appare negli Atti degli Apostoli (At 12,1.20) e uccise l’apostolo Giacomo (At 12,2).
Quando Gesù aveva più o meno quattro anni, il re Erode morì. Era lui che aveva fatto uccidere i neonati di Betlemme (Mt 2,16). Il suo territorio fu diviso tra i figli, Archelao, ricevette il governo sulla Giudea. Era meno intelligente di suo padre, ma più violento. Quando assunse il potere, furono massacrate circa 3000 persone sulla pizza del Tempio! Il vangelo di Matteo dice che Maria e Giuseppe, quando seppero che questo Archelao aveva assunto il governo della Giudea, ebbero paura di ritornare per quel cammino e si ritirarono a Nazaret, in Galilea (Mt 2,22), governata da un altro figlio di Erode, chiamato Erode Antipa (Lc 3,1). Questo Antipa durò oltre 40 anni. Durante i trenta e tre anni di Gesù non ci furono cambiamenti nel governo della Galilea.
Erode il Grande, il padre di Erode Antipa, aveva costruito la città di Cesarea Marittima, inaugurata nell’anno 15 prima di Cristo. Era il nuovo porto di sbocco dei prodotti della regione. Doveva competere con il grande porto di Tiro nel Nord e, così, aiutare a svolgere il commercio nella Samaria e nella Galilea. Per questo, fin dai tempi di Erode il Grande, la produzione agricola in Galilea iniziava ad orientarsi non più a partire dai bisogni delle famiglie, come succedeva prima, ma partendo dalle esigenze del mercato. Questo processo di mutazione nell’economia continuò durante tutto il governo di Erode Antipa, oltre quarant’anni, e trovò in lui un organizzatore efficiente. Tutti questi governatori erano ‘servi del potere’. Infatti chi comandava in Palestina, dal 63 prima di Cristo, era Roma, l’Impero.

4) Per un confronto personale

- E’ bene chiedersi sempre: Chi è Gesù per me?
- Erode vuole vedere Gesù. Era una curiosità superstiziosa e morbosa. Altri vogliono vedere Gesù perché cercano un senso per la loro vita. Ed io che motivazione ho che mi spinge a vedere ed incontrare Gesù?

5) Preghiera finale

Saziaci al mattino con la tua grazia:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la bontà del Signore, nostro Dio:
rafforza per noi l’opera delle nostre mani. (Sal 89) 

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