Archive pour le 20 septembre, 2010

21 settembre : San Matteo

21 settembre : San Matteo dans immagini sacre

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21 settembre: San Matteo Apostolo ed evangelista

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San Matteo Apostolo ed evangelista

21 settembre

I secolo dopo Cristo

Matteo, chiamato anche Levi, viveva a Cafarnao ed era pubblicano, cioè esattore delle tasse. Seguì Gesù con grande entusiasmo, come ricorda San Luca, liberandosi dei beni terreni. Ed è Matteo che nel suo vangelo riporta le parole Gesù: »Quando tu dai elemosina, non deve sapere la tua sinistra quello che fa la destra, affinché la tua elemosina rimanga nel segreto… « . Dopo la Pentecoste egli scrisse il suo vangelo, rivolto agli Ebrei, per supplire, come dice Eusebio, alla sua assenza quando si recò presso altre genti. Il suo vangelo vuole prima di tutto dimostrare che Gesù è il Messia che realizza le promesse dell’ Antico Testamento, ed è caratterizzato da cinque importanti discorsi di Gesù sul regno di Dio. Probabilmente la sua morte fu naturale, anche se fonti poco attendibili lo vogliono martire di Etiopia.

Patronato: Banchieri, Contabili, Tasse
Etimologia: Matteo = uomo di Dio, dall’ebraico

Emblema: Angelo, Spada, Portamonete, Libro dei conti
Martirologio Romano: Festa di san Matteo, Apostolo ed Evangelista, che, detto Levi, chiamato da Gesù a seguirlo, lasciò l’ufficio di pubblicano o esattore delle imposte e, eletto tra gli Apostoli, scrisse un Vangelo, in cui si proclama che Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo, ha portato a compimento la promessa dell’Antico Testamento.
Non si capisce subito il disprezzo per i pubblicani, ai tempi di Gesù, nella sua terra: erano esattori di tasse, e non si detesta qualcuno soltanto perché lavora all’Intendenza di finanza. Ma gli ebrei, all’epoca, non pagavano le tasse a un loro Stato sovrano e libero, bensì agli occupanti Romani; devono finanziare chi li opprime. E guardano all’esattore come a un detestabile collaborazionista.
Matteo fa questo mestiere in Cafarnao di Galilea. Col suo banco lì all’aperto. Gesù lo vede poco dopo aver guarito un paralitico. Lo chiama. Lui si alza di colpo, lascia tutto e lo segue. Da quel momento cessano di esistere i tributi, le finanze, i Romani. Tutto cancellato da quella parola di Gesù: « Seguimi ».
Gli evangelisti Luca e Marco lo chiamano anche Levi, che potrebbe essere il suo secondo nome. Ma gli danno il nome di Matteo nella lista dei Dodici scelti da Gesù come suoi inviati: “Apostoli”. E con questo nome egli compare anche negli Atti degli Apostoli.
Pochissimo sappiamo della sua vita. Ma abbiamo il suo Vangelo, a lungo ritenuto il primo dei quattro testi canonici, in ordine di tempo. Ora gli studi mettono a quel posto il Vangelo di Marco: diversamente dagli altri tre, il testo di Matteo non è scritto in greco, ma in lingua “ebraica” o “paterna”, secondo gli scrittori antichi. E quasi sicuramente si tratta dell’aramaico, allora parlato in Palestina. Matteo ha voluto innanzitutto parlare a cristiani di origine ebraica. E ad essi è fondamentale presentare gli insegnamenti di Gesù come conferma e compimento della Legge mosaica.
Vediamo infatti – anzi, a volte pare proprio di ascoltarlo – che di continuo egli lega fatti, gesti, detti relativi a Gesù con richiami all’Antico Testamento, per far ben capire da dove egli viene e che cosa è venuto a realizzare. Partendo di qui, l’evangelista Matteo delinea poi gli eventi del grandioso futuro della comunità di Gesù, della Chiesa, del Regno che compirà le profezie, quando i popoli « vedranno il Figlio dell’Uomo venire sopra le nubi del cielo in grande potenza e gloria » (24,30).
Scritto in una lingua per pochi, il testo di Matteo diventa libro di tutti dopo la traduzione in greco. La Chiesa ne fa strumento di predicazione in ogni luogo, lo usa nella liturgia. Ma di lui, Matteo, sappiamo pochissimo. Viene citato per nome con gli altri Apostoli negli Atti (1,13) subito dopo l’Ascensione al cielo di Gesù. Ancora dagli Atti, Matteo risulta presente con gli altri Apostoli all’elezione di Mattia, che prende il posto di Giuda Iscariota. Ed è in piedi con gli altri undici, quando Pietro, nel giorno della Pentecoste, parla alla folla, annunciando che Gesù è « Signore e Cristo ». Poi, ha certamente predicato in Palestina, tra i suoi, ma ci sono ignote le vicende successive. La Chiesa lo onora come martire.

Autore: Domenico Agasso

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In cammino con Gesù: Perché il sacrificio della Croce? La risposta della lettera agli Ebrei

dal sito:

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In cammino con Gesù: Perché il sacrificio della Croce? La risposta della lettera agli Ebrei

di Andrea Lonardo

«Non è il dolore in quanto tale che conta nel sacrificio della croce, bensì la vastità dell’amore. Se così non fosse, i veri sacerdoti dinanzi all’altare della Croce sarebbero stati i carnefici: proprio essi infatti, che hanno provocato il dolore, sarebbero stati altrimenti i ministri che hanno immolato la vittima sacrificale». Così scriveva già nel 1968 Joseph Ratzinger nelle sue lezioni sul Simbolo apostolico del volume “Introduzione al cristianesimo”.

La domanda sul significato della Croce non cessa di scuotere ogni generazione. Uno dei testi neotestamentari che ne chiarifica il senso è la lettera agli Ebrei. Essa è, in realtà, la trascrizione di un’omelia pronunciata prima dell’anno 70 dopo Cristo, l’anno nel quale il generale Tito, agli ordini del padre Vespasiano, distrusse il Tempio di Gerusalemme, depredandone gli arredi. L’arco di Tito conserva memoria in Roma di quegli antichi avvenimenti: nel suo fornice un pannello rappresenta i soldati romani in trionfo che portano su due portantine il candelabro a sette braccia e la tavola sulla quale erano offerti i pani detti “della proposizione”. Da quell’anno si interruppero le offerte dei sacrifici nel Tempio e la storia dell’ebraismo conobbe una svolta radicale.

Nella lettera agli Ebrei, che confronta il nuovo sacerdozio di Cristo con il sacerdozio levitico che si svolgeva nel Tempio, non è possibile trovare neanche un minimo accenno alla fine dell’antico culto; gli esegeti ne deducono che la lettera è di poco anteriore al 70, poiché se l’autore avesse avuto conoscenza della distruzione del Tempio ne avrebbe certamente inserito la notizia nella sua argomentazione.

L’omelia divenne una lettera, come è facile vedere dagli ultimi versetti. Fu cioè inviata a un altra comunità perché lì fosse letta. Questa comunità è probabilmente Roma, poiché si dice in chiusura del testo: “Vi salutano quelli che provengono dall’Italia” (Eb 13,24). Queste parole sono testimonianza del fatto che alcuni emigrati dall’Italia inviarono insieme alla lettera il saluto ai loro compatrioti; è ovvio che un invio dello scritto in Italia non poteva non comprendere come destinazione anche Roma.

Perché il sacrificio di Cristo è “nuovo” e “definitivo”? Perché la morte in Croce? Perché un sacrificio compiuto una volta per tutte? Queste sono le grandi domande a cui risponde la lettera agli Ebrei. Afferma l’Autore: «La legge non ha portato nulla alla perfezione» (Eb 7,19)! I tanti sacerdoti che avevano offerto sempre nuovi sacrifici a Dio dovevano offrirli sempre di nuovo, perché né loro, né il popolo erano mai senza peccato. I sacrifici rinnovavano sempre il ricordo dei peccati, ma mai rendevano totalmente nuovo il cuore.

Cristo non offrì una vittima per quanto preziosa, ma offrì se stesso (Eb 8,27). A Dio fu gradita non semplicemente la sua morte, non il suo dolore – lungi dal cristianesimo l’idea di un Dio che si compiace del dolore! Dio ha amato, nella Croce, l’amore del Figlio. È questo la novità cristiana, è questa la salvezza del mondo: Cristo ha riempito di amore il dolore fisico della crocifissione, Cristo ha colmato di amore, attraverso il perdono, anche il dolore del rifiuto che gli uomini hanno avuto di lui. Lì dove l’uomo accresce la rabbia o il rifiuto, Egli ha riempito di obbedienza al Padre e di misericordia il male che gli era inflitto.

Ma perché ha potuto farlo? Proprio perché è il Figlio fattosi uomo. I sacrifici delle religioni sono offerte dell’uomo rivolte a Dio; ogni popolo nei secoli ha cercato di prendere quanto di più bello e prezioso aveva per offrirlo a Dio. Nella fede cristiana, invece, l’offerta discende dal Cielo. Il dono giunge da Dio, il sacrificio e il sacerdote provengono da lui. Dio ci ha donato il Cristo perché noi accogliessimo il suo sacrificio per noi. Cristo, dice l’Autore della lettera agli Ebrei, non è solo «misericordioso» verso noi uomini, ma è, insieme, «degno di fede», perché più grande degli angeli, perché, luce della stessa gloria divina, porta impressa in sé tutta la divinità di Dio.

4 marzo 2008

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La Letteratura Rabbinica

dal sito:

http://web.tiscalinet.it/nostreradici/letteratura_rabbinica.htm

La Letteratura Rabbinica

Sofia Cavalletti 
 
    La letteratura rabbinica si divide in due grandi rami: uno a carattere più spiccatamente precettistico (halachico ), e l’altro di carattere narrativo (haggadico) e interpretativo del testo sacro e in particolare della Legge, della Torah. Al primo appartiene la Mishnah, Corpus di norme, redatto alla fine del II sec., contenente materiale giuridico ma soprattutto religioso; preziosa fonte per conosce re la vita del pio israelita nell’epoca intorno al sorgere del l’era cristiana, la sua vita liturgica, privata e pubblica, i suoi principi morali, ecc.            Si divide in sei « ordini » : Semente, Festività, Donne ( diritto matrimoniale), Danni ( diritto civile e penale), Cose sacre, Cose pure. Ciascun « ordine » è risuddiviso in « trattati ».
    È la Mishnah che costituisce la base su cui si sviluppano le due redazioni del Talmud; le singole parti di essa vennero fatte oggetto di discussione approfondita da parte dei dottori (Rabbini) nelle accademie apposite, in Palestina e in Babilonia, dove era sempre rimasta una comunità ebraica fin dal tempo dell’esilio nel 586 a.C., comunità che dal III sec. in poi venne ad assumere una importanza preponderante nell’ebraismo. Possiamo considerare il Talmud babilonese e il Talmud gerosolomitano come la raccolta dei verbali delle discussioni intorno al testo della Mishnah. 
    La discussione tende soprattutto a riallacciare la prassi codificata nella Mishnah al testo biblico e a giustificarla in base ad esso, per mezzo di determinate regole ermeneutiche. Naturalmente nel corso della discussione si introducono gli argomenti più diversi, così che il Talmud è una fonte inesauribile per la conoscenza di tutta la vita degli ebrei nei primi secoli dell’era cristiana; vi troviamo materiale storico, mitico, aneddotico, geografico; in base ad esso possiamo ricostruire il credo degli ebrei intorno a Dio, la Sua attività creatrice, la Sua provvidenza, la Sua giustizia, gli angeli e i demoni, la vita futura, l’escatologia, il messianesimo, l’elezione d’Israele, ecc.; vi troviamo la saggezza di antichi maestri, e la spiritualità e la pietà d’Israele risuona profonda in numerose preghiere.
     Il Talmud palestinese si ritiene concluso nel V sec.; quello babilonese fu invece sottoposto alla revisione dei dottori detti « saborei », che ne vagliarono minuziosamente il materiale, dandogli anche una forma non scevra di artifici letterari; la redazione di esso si conchiude nel VI secolo (1).
      Inseriti nel Talmud si trovano alcuni trattati di origine probabilmente posteriore alla Mishnah, fra cui famoso è Aboth de-Rabbi Nathan, che è un’esposizione a carattere moraleggiante del trattato mishnico « Sentenze dei Padri », e Sopherim, fonte di grande interesse per la conoscenza dell’antica liturgia giudaica.
     Il materiale normativo (halachico) che non aveva trovato posto nella Mishnah venne anch’esso riunito, al principio del III sec., in un’altra raccolta, detta Tosephta « Aggiunta ».

     La halakhah mirava a regolare le azioni secondo le norme del giure religioso, ma la funzione della Torah non si esaurisce in questo; essa deve anche consolare ed edificare. Questo compito viene assolto dalla haggadah, cioè dalla letteratura interpretativa e narrativa (haggadica), che viene indicata con il termine generico di midrash ( dalla radice darash, « ricercare » e « indagare » ). 
    Forse più ancora della letteratura halachica, quella haggadica è un mondo, e possiamo indicarne solo le raccolte più importanti; bisogna distinguere in essa i midrashim di carattere più direttamente esegetico, da quelli prevalentemente narrativi o a sfondo etico; alcuni rispecchiano la predicazione nella Sinagoga, ecc.
    Raccolte haggadiche esistevano a partire dall’inizio del III sec., ma nelle più antiche fra di esse sono raccolti elementi anteriori, così che possiamo asserire di cogliervi, almeno qua e là, l’eco del mondo in cui ha vissuto Gesù. Il periodo veramente produttivo del midrash corrisponde all’epoca talmudica e si esaurisce più o meno intorno al VI sec. Comincia allora l’epoca della raccolta e della redazione definitiva del materiale, periodo che arriva fino circa al XII sec.
    I più antichi midrashim dovuti ai maestri del periodo della Mishnah si attribuiscono parte alla scuola di Rabbi Aqiba (m. 135), e parte alla scuola del suo contemporaneo Rabbi Jishmael; li divide una certa differenza nell’uso delle regole ermeneutiche, e l’interesse giuridico che, nelle opere dovute alla scuola di Rabbi Aqiba, si mescola a quello haggadico, mentre nelle opere della scuola di Rabbi Jishmael l’intento narrativo è prevalente. 
    Al primo gruppo appartiene il Sifrà, detto anche Torath Kohanim, che prende in considerazione il Levitico; il Sifrè a Numeri e a Deuteronomio. Ci sono poi due commenti a Esodo, detti ambedue Mekhilta: quello che prende il nome di Rabbi Shimon ben Johaj è della Scuola di Rabbi Aqiba, mentre l’altro appartiene alla Scuola di Rabbi Jishmael, insieme con un altro Sifrè a Deuteronomio; tuttavia l’attribuzione a una scuola o all’altra non va intesa in maniera assoluta. Si tratta di commenti parziali e non sistematici ai libri biblici.
    Carattere di commento sistematico al Genesi ha il più antico midrash esegetico, detto Genesi rabba (be-reshit rabba); esso contiene materiale assai antico, anche se il periodo della redazione di esso è incerto. Non vi mancano interpretazioni a carattere normativo, ma vi si rispecchia soprattutto la tradizione haggadica palestinese, come nel midrash a Lamentazioni (Ekhah Rabbathi), che appartiene anch’esso ai più antichi midrashim esegetici. Fra i più recenti ricordiamo invece il midrash ai Salmi e ai Proverbi.
    Quanto ai midrashim omiletici, si discute se il più antico sia la raccolta Pesiqta de Rab Kahana (detta anche Pesiqta semplicemente) o il Levitico rabba (wa-jiqra rabba). C’è chi ritiene addirittura Pesiqta come la più antica raccolta midrashica; alcuni la ritengono contemporanea di Genesi rabba, altri vedono invece in Lamentazioni rabbati e in Levitico rabba una fonte di Pesiqta. 
    Si tratta comunque di testi antichi, contenenti materiale assai antico. Pesiqta contiene le omelie alle letture del Pentateuco prescritte per i sabati distinti e le feste, e le omelie ad alcune letture profetiche. Omelie alle stesse letture e ad altre letture della Torah e dei profeti sono raccolte in Pesiqta rabbati, così detta per distinguerla dalla più antica raccolta dello stesso nome.
    Alla letteratura haggadica del primo periodo appartiene anche la Megillath Taanit, « Rotolo del digiuno », dove sono indicati i giorni in cui si è prodotto qualche fausto evento della storia d’Israele e nei quali quindi è proibito digiunare. È un’opera a carattere storico, nella quale tuttavia la storia è abbellita da elementi popolari. Dello stesso genere ma posteriori sono il Seder Olam e i Pirqè Rahhi Eliezer, databili forse all ‘VIII sec.
    Nel V sec. vive in Palestina il famoso haggadista Rabbi Tanhuma bar Abba, che iniziò la raccolta sistematica e la presentazione letteraria della haggadah. Sotto il suo nome è nota la grande collezione omiletica che copre tutto il Pentateuco, seguendo le divisioni in pericopi della lettura liturgica settimanale. Esiste un midrash Tanhuma A (edito da Salomone Buber), e un midrash Tanhuma B, conosciuto anche come Jelammedenu (« Insegnaci »), dalla frase con cui si introducono le domande su questioni halachiche. Sono caratteristiche di queste omelie le conclusioni consolatorie a carattere messianico.
    Dipendono dal midrash Tanhuma le raccolte omiletiche di Esodo rabba (shemoth rabba), Numeri rabba (be-midbar rabba); mentre Deuteronomio rabba (debharim rabba) dipende piuttosto dal Talmud palestinese, da Genesi rabba e da Lamentazioni rabbati; secondo Zunz andrebbe datato al 900.
    Si collega invece ancora al midrash Tanhuma la Aggadath Eereshith, la cui particolarità consiste nella triplice divisione di ogni omelia: la prima parte si collega a un passo di Genesi, la seconda a un brano profetico e la terza a un testo degli agiografi. Si può forse trarre da qui l’indicazione di quale fosse la lettura profetica (haftarah} che seguiva ciascuna pericope di Genesi. I midrashim omiletici sono comunque preziosa fonte per la conoscenza dell’anno liturgico giudaico e in genere della vita liturgica della Sinagoga.
    I midrashim ai « Cinque Rotoli » (Esther, Cantico dei Cantici, Lamentazioni, Ruth ed Ecclesiaste) si trovano riuniti a partire dalla editio princeps di Pesaro nel 1519; si tratta tuttavia di opere indipendenti l’una dall’altra. Di Lamentazioni rabbati abbiamo già detto. Cantico rabba (shir ha-shirim rabba) è un’opera di compilazione che raccoglie, seguendo verso per verso il testo biblico, materiale tratto in gran parte dal Talmud palestinese, da Genesi rabba, da Pesiqta e Levitico rabba. Il testo biblico viene interpretato per lo più in senso allegorico, ricercandovi allusioni di carattere mistico all’incontro tra Dio e il Suo popolo.
    Anche Ruth rabba è un commento verso per verso al libro biblico, preceduto da un lungo proemio. Le fonti sono le stesse del midrash al Cantico.
    Opera di compilazione è anche il midrash a Ecclesiaste (Qoheleth rabba); il compilatore attinge a Genesi rabba al midrash a Lamentazioni e a Cantico, e anche a fonti omiletiche, come Pesiqta e Levitico rabba.
    Il midrash Megillath Esther, contiene anch’esso materiale attinto a fonti antiche (Talmud palestinese, Genesi rabba, Levitico rabba), com’è naturale, dato che il Libro di Esther fu fatto oggetto di studio nelle scuole rabbini – che già in tempi assai remoti; inoltre vi si trovano dei brani interpolati, che si ritengono tratti dal Josippon, opera composta in Italia nel IX sec. che tratta, alla maniera haggadica, la storia d’Israele dalla caduta di Babilonia alla distruzione del Tempio. Le interpolazioni riguardano il sogno di Mardocheo e la sua preghiera, la preghiera di Esther e la sua comparsa davanti al re, passi che non fanno parte del testo ebraico di Esther, ma ci sono pervenuti in greco.
    Le grandi raccolte midrashiche ci riportano infine a tempi più tardi. Leqah tobh sarebbe dovuto a Tobia ben Eliezer (sec. XI-XIl) e copre tutto il Pentateuco e i Cinque Rotoli. Il Midrash ha-gadol è posteriore a Maimonide, ma conserva alcuni midrashim del primo periodo che non ci sono altrimenti noti. Il grande Thesaurus a tutto l’ Antico Testamento porta il nome di Jalqut Shimoni; contiene materiale halachico e haggadico. Di un secolo più tardo è il Jalqut ha-Makhiri.
     L ‘enumerazione dei midrashim è ben lungi dall’essere completa, ma per amore di chiarezza preferiamo limitarci alle opere di importanza fondamentale (2).
     Va aggiunta ancora una parola a proposito delle traduzioni aramaiche della Bibbia, il Targum (3). L’origine del Targum è sinagogale; sorse presto – forse addirittura dall’epoca del ritorno dall’esilio – il bisogno di tradurre il testo biblico per quelle comunità che non capivano la lingua ebraica. Anche la traduzione greca, detta dei settanta, è dovuta a un’esigenza dello stesso genere. Il Trattato Sopherim (10, 1) stabilisce le regole per tali traduzioni: il traduttore (meturgeman) deve tradurre la Torah un versetto alla volta; i profeti tre versetti alla volta. Si sono venute formando così varie raccolte targumiche. 
    Ogni traduzione, anche letterale, è sempre un po’ un’interpretazione del testo; nel Targum poi molto spesso il meturgeman si allontana dal testo, lo abbellisce, vi aggiunge materiale haggadico. In tal modo il Targum diventa una importantissima fonte per la conoscenza del giudaismo tanto più importante in quanto gli studiosi sono oggi per lo più d’accordo nel riconoscere un’origine precristiana al materiale targumico, anche se redatto più tardi.
    La scoperta sensazionale avvenuta nel 1956 di un manoscritto di un Targum completo – meno pochi versetti tralasciati per errore di scriba – al Pentateuco, chiamato dall’indicazione del frontespizio Codice Neofiti, ha destato nuovo interesse per questi studi, e si è visto che gli argomenti che il Kahle aveva portato per rivendicare una data assai antica ad alcuni frammenti targumici d’origine palestinese rinvenuti al Cairo, valevano anche per questo testo. 
    Il Codice Neofiti contiene un Targum per lo più – sopratutto per Levitico e Deuteronomio – sobrio e fedele al testo biblico, tanto che si pensa a una redazione più o meno ufficiale. I lunghi passi haggadici, che malgrado tutto si sono conservati, sarebbero dovuti probabilmente alla veneranda antichità di talune tradizioni o anche a particolari usi liturgici.
    Sta di fatto che la situazione degli studi targumici si è venuta capovolgendo: il Targum detto Onqelos, traduzione quasi letterale dei cinque Libri di Mosè, era ritenuto come il più antico e di origine babilonese; ora si pensa invece che esso sia un’abbreviazione del Targum palestinese, detto pseudo Jonatham e che contenga haggadah palestinese. L ‘Onqelos è redatto in un aramaico di scuole, detto « aramaico imperiale », idioma in cui sono redatte anche le parti aramaiche della Bibbia.
    Il Targum pseudo-Jonathan, detto anche Jerushalmi, copre anch’esso tutto il Pentateuco, ma è più perifrastico dell’ Onqelos, incorporando materiale haggadico, che diventa assai abbondante nella seconda recensione di esso, nota come « Targum frammentario », perché conservato solo per un numero complessivo di 800 versetti. È stato constatato che l’antico midrash Genesi rabba si riferisce sempre – meno una o due volte – al Targum palestinese, e non all’Onqelos, cosa che viene a confermare la datazione antica del primo.
    Esiste ancora un Targum ai profeti detto di Jonathan ben Uzziel, scritto nella lingua del Targum Onqelos. Anche in esso sono state conservate tradizioni assai antiche: è spiegabile ad es. che l’interpretazione in chiave messianica che esso dà del passo di Michea 5,2 «Da Te, Betlemme, uscirà il Messia » ) sia stata conservata dopo la nascita del cristianesimo, ma non si può supporre che vi sia stata inserita dopo.
     Mentre il Targum al Pentateuco e ai profeti era la traduzione ufficiale della Sinagoga palestinese, il Targum agli agiografi non ha mai raggiunto l’importanza degli altri; la cosa ha il suo lato positivo, perché esso ha così goduto di una maggiore libertà nell’uso delle parafrasi, conservando quindi tradizioni haggadiche interessanti. Le constatazioni di una parentela tra il Targum di Proverbi e la traduzione siriaca dello stesso testo, anzi la supposizione Che la seconda dipenda dal primo, fanno pensare anche in questo caso a una datazione antica.
     L’attribuzione del Targum al Pentateuco a Onqelos e di quello dei profeti a Jonathan è una finzione, con la quale si voleva affermare che quello che Aquila e Teodozione avevano fatto per gli ebrei di lingua greca era stato fatto anche per quelli fra loro che parlavano aramaico. I Targumim non sono opera personale, fatta a tavolino, ma rispecchiano la catechesi viva.
    In quanto all’importanza del Targum per la conoscenza dell’ambiente in cui è sorto il Vangelo, ci limitiamo a riportare le parole del noto studioso francese, Roger Le Deaut:
    « …le ricchezze contenute nelle fonti targumiche fanno parte di quella ‘tradizione’ del popolo di Dio, in Cui gli autori ispirati hanno attinto per esprimere il messaggio di Cristo. Noi cattolici che insistiamo tanto, a ragione, sul valore della Tradizione dovremmo essere pronti a considerare con molta simpatia tutte queste ricchezze religiose che costituivano una parte della religione di coloro per mezzo dei quali ci è venuta la luce del Vangelo » (La Nuit Pascal, Rome, 1963, p. 58).
     Ci siamo talvolta riferiti anche a testi liturgici; aggiungiamo quindi qualche notizia sommaria anche intorno ad essi.
    Il grande riformatore della liturgia giudaica fu Rabban Gamlièl Il, che visse al tempo della distruzione del Tempio (70 d. C.). Come il suo contemporaneo Rabbi Johannan ben Zakkaj riconobbe la necessità di alcuni cambiamenti nella Legge (abolì per esempio la prova delle « acque amare » per la donna sospetta di adulterio), così Rabban Gamlièl sentì un bisogno analogo per quel che riguarda la liturgia e affrontò con decisione la situazione cambiata, in conseguenza della caduta del Tempio. Come Rabbi Johannan ben Zakkaj cercò in qualche modo di sostituire Gerusalemme, organizzando l’accademia di Jabne, così Rabban Gamlièl compensò con l’ organizzazione della preghiera – considerata « sacrificio delle labbra » – il culto sacrificale, caduto con il Tempio.
    Le più antiche indicazioni liturgiche si trovano nella Mishnah e nella Tosefta, dove troviamo però per lo più indicazioni di carattere rubristico ( v. in particolare i trattati dell’ordine « Festività » ), e solo raramente il testo vero e proprio di preghiere.
    Si incomincia evidentemente ad andare verso una fissazione della struttura liturgica, rimasta fino ad allora piuttosto fluida; tale fissazione riguarda però ancora piuttosto il quadro esteriore e non le formule. Mishnah e Tosefta sono tuttavia preziose per ricostruire almeno la struttura di gran parte dell’antica liturgia ebraica, e ci permettono di constatare il perdurare fino ad oggi di antichi elementi  liturgici. Le notizie contenute nelle due antiche raccolte rabbiniche vengono naturalmente riprese e ampliate più tardi nella discussione talmudica.
    Carattere ancora più o meno rubristico ha Massekheth Sopherim (il trattato degli « Scribi » ), che fornisce fra l’altro importanti notizie intorno alle letture liturgiche sinagogali (benedizioni che le accompagnano, spiegazione e traduzione di esse, numero dei lettori, ecc.), e rispecchia gli usi gerosolomitani. Si discute se far risalire la sua redazione al VI o all’VIII sec.; comunque contiene materiale, che risale all’epoca della Mishnah.
     Non sappiamo se la terribile proibizione contenuta in Tosefta Shab. 14, 4:
« Chiunque redige in iscritto una preghiera, commette un peccato, come se bruciasse la Torah » sia stata realmente ritenuta valida e per quanto tempo. Comunque la grande epoca di redazione delle raccolte di preghiere (siddurim) inizia nell’VIII-IX sec., con il siddur di Amram gaonita (4); è un documento ufficiale dell’accademia di Sura, la cui fonte principale è il Talmud babilonese e rispecchia la tradizione liturgica babilonese.
    Nel X sec. il gaonista Saadjah redige egli pure un siddur, che rispecchia la prassi liturgica palestinese.
     Una specie di Thesaurus liturgico è il Mahsor Vitry, compilato da Simha ben Shemuel, talmudista francese del XII sec. alunno di Rashj, con aggiunte di altri; vi troviamo raccolte di rubriche, preghiere, commenti a testi liturgici ecc. Altra inesauribile fonte di notizie liturgiche è Mishneh Torah di Maimonide.  

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(1) Il Talmud babilonese è tradotto in tedesco da Goldschmidt, Berlin 1929-36 e in inglese da J. Epstein, London 1936-48; quello palestinese è tradotto in francese da M. Schwab, Paris 1871-89; ristampato a Parigi. La Mishnah è tradotta in italiano da V. Castiglioni, Mishnaioth, Sabatini 1962, di cui sono usciti per ora quattro ordini. Non ci dilunghiamo su questa letteratura, rimandando a: E. Zolli, Il Talmud Babilonese, Trattato delle Benedizioni, con Introd. alla Letteratura talmudica di S. Cavalletti, Bari 1958; Strack u. Billerbeck, Einleitung in Talmud u. Midrash, Munchen 1921.
(2) Un certo numero di midrashim è stato tradotto da A. Wünsche in « Biblioteca Rabbinica »; per notizie su di essi v. Str ack u.. Billerbeck, o. c.; il Midrash rabba è tradotto in inglese, ed. Soncino, Londra 1939, ristampato nel 1951 e 1961.
(3) V. A. DlEZ MACHO, Targum y Nuevo Testamento, Melan E. Tisserant, Città del Vaticano 1964, I, 153 ss.
(4) Di una parte del siddur di AMRAM esiste una traduzione inglese con testo e commento: Hedegard D., Lund 1951.

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buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno rainbow-lorikeet-_mg_2050nf

Rainbow Lorikeet

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Omelia (20-09-2010) : Fate attenzione dunque a come ascoltate.

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/19360.html

Omelia (20-09-2010) 
Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno

Fate attenzione dunque a come ascoltate.

Come vivere questa Parola?
Poco prima dell’episodio del Vangelo di oggi, nel versetto 11, Luca riporta la risposta di Gesù agli apostoli che lo interrogano sul significato di una parabola: « A voi è dato conoscere i misteri di Dio ». Il brano odierno illumina queste parole ancora di più; la chiave che apre i misteri e i segreti divini alla conoscenza della fede, è l’ascolto della Parola di Dio. L’Onnipotente non si chiude a noi perché non vuole farsi conoscere, siamo pPiuttosto noi che siamo incapace di raggiungerLo con i soli mezzi umani. Per questo Gesù è venuto tra noi per aprirci le orecchie: « Se uno ha orecchi per ascoltare, ascolti! » (Mc 4,23).
Il mio ascolto dipende in gran misura dalla mia capacità di aprirmi ad una realtà più ampia del mio piccolo orizzonte fisico, una realtà nascosta o non ancora conosciuta: « Non c’è nulla di segreto che non sia manifestato, nulla di nascosto che non sia conosciuto e venga in piena luce ». Tocca a me attivare un ascolto integrale, costante, obbediente, calato nell’esistenza per vedere la luce e farne luce per gli altri, metterla sul candelabro perché tutti possano goderne.

Nella mia pausa contemplativa oggi, cerco chiedo il dono dell’ascolto: un ascolto attento di amore e di fede per crescere come discepolo; un ascolto coraggioso che non nasconde o soffoca la Parola di Dio; un ascolto responsabile per far brillare la Parola di Dio davanti a tutti.

Signore, donami il tuo Spirito Santo, perché possa cogliere il tuo piano d’amore per tutti noi, dentro le vicende del quotidiano. Fammi ardente nel rimettermi in cammino dentro uni ascolto della tua Parola giorno dopo giorno. Amen!

La voce di un grande santo e mistico
Ti raccomanda una sola cosa: devi scendere con la mente fino all’interno del cuore e rimanervi di fronte al Signore che è sempre presente, che vede tutto dentro di te.
Teofane il Recluso 

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