http://www.artbible.net/3JC/-Luk-15,01_Son_lost_found_Fils_mort_vivant/index2.html
Archive pour le 11 septembre, 2010
Omelia 12 settembre 2010: La misericordia che fa tornare in vita
dal sito:
http://www.zenit.org/article-23635?l=italian
LA MISERICORDIA CHE FA TORNARE IN VITA
XXIV Domenica del Tempo Ordinario, 12 settembre 2010
di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 10 settembre 2010 (ZENIT.org).- “Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Egli disse loro questa parabola: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta finchè non la trova?(…) Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finchè non la trova?(…)
Disse ancora: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio, vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.(…)
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno..si indignò e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni..”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. (Lc 15,1-32).
Il figlio “più giovane” prima di partire per “un paese lontano”, era ancora vivo; quando ritorna a casa, è “tornato in vita”. In mezzo c’è stata la sua morte: “questo tuo fratello era morto” (Lc 15,32).
Viveva nella morte poichè aveva “speso tutto” (Lc 15,14).
“Tutto”: non solo il legittimo patrimonio, ma la sua stessa vita, la sua persona, se stesso.
Il Vangelo racconta altrove un fatto paragonabile: una “vedova povera” che spende “tutto quanto aveva per vivere”, però non egoisticamente, ma per un atto di estrema generosità (Mc 12,41-44). Non sappiamo come questa donna riuscì poi a sopravvivere, ma certamente non fu dimenticata da Colui che l’aveva osservata con gli occhi compiaciuti di Gesù: il Padre che “sostiene l’orfano e la vedova” (Salmo 146/145, 9).
Collegando al racconto di Marco le “parabole della misericordia” di Luca (la pecora smarrita, la moneta perduta, il figlio ritrovato vivo), abbiamo la rivelazione che il Padre della nostra vita, oltre a sostenere i giusti che lo temono (come la vedova povera), va sempre in cerca anche di ognuno di quei figli “dissoluti” che hanno abbandonato la sua e loro casa, “sciogliendosi” dal legame vitale del rapporto con lui.
Per le viscere materne del Padre, tale ricerca è un’ansia insopprimibile, dato che ogni figlio, nel Figlio, è tutto quanto “aveva per vivere”; come fa intendere l’abbandono delle novantanove pecore a causa dell’unica che si è perduta, “finchè non la trova” (Lc 15,4-6).
Torniamo al “figlio più giovane”.
Paradossalmente è tornato in vita quando stava per morire di fame. Era già “morto” e in più stava per morire di fame, ma se non avesse avuto una fame da morire non sarebbe tornato in vita.
Infatti, per fame rientra in se stesso e, vedendosi morto dentro, decide di ritornare a casa. Non lo spinge l’amore per il padre che lo aspetta, ma il digiuno: “io qui muoio di fame”; tuttavia ammette anche: “ho peccato verso il Cielo e davanti a te” (Lc 15,18).
Quest’ammissione, però, non fu il segno della vera conversione, ma solo la porta aperta alla grazia.
Infatti il giovane, pur riconoscendo il suo peccato di ingratitudine, ancora non riconosce il peccato più grande, quello che gli fa dire: “non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”; non capisce ancora né l’amore di suo padre, né la propria dignità di figlio (Lc 15,19).
Perciò fu provvidenziale per lui condividere la sorte dei porci. In tal modo cominciò a sgretolarsi nel suo cuore quel nocciolo cieco e duro che lo aveva trascinato così in basso, così lontano dalla verità del padre e di se stesso. Così “ritornò in sé”, rivide la sua casa e cominciò a muovere i passi affranti ed umiliati del ritorno.
La grazia dell’autentica conversione cominciò a sbocciare in lui nel momento dell’imprevedibile, commosso abbraccio del padre: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi” (Lc 15,22). Allora il giovane capì che non si era mai separato dal suo amore, e che nemmeno l’amara esperienza delle carrube lo aveva potuto spogliare della sua inalienabile dignità di figlio.
“Il figlio maggiore” al contrario, impeccabile e “giusto”, non aveva ancora compreso questa essenziale verità del padre e di se stesso, come dimostrano queste sue dure parole: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto..” (Lc 15,29).
Dice: “un tuo comando”…quanto feriscono queste parole! Come può un figlio sentirsi suddito del padre che lo generato?
Sì, è più doloroso di.. “trattami come uno dei tuoi salariati” (Lc 15,19), e uccide il cuore del padre per l’incomprensibile falsificazione del suo rapporto profondo col figlio.
Perciò il peccato del figlio maggiore, così sprezzante nel giudizio, appare più grave di quello del fratello dissoluto.
Ce lo fa intendere un’altra parabola di Gesù, quella sulla differenza tra il peccato-pagliuzza e il peccato-trave: “Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio?” (Lc 6,39-42). La trave è ben più pesante e difficile da rimuovere della pagliuzza!
Ecco allora che chiunque, come il figlio maggiore, giudica il fratello e crede di far bene, non vede la trave del peccato che sta nell’occhio della sua coscienza e gli impedisce di entrare nella gioia della comunione col Padre.
Perciò, tornando ai “due figli” di oggi, il più bisognoso della misericordia paterna sembra proprio colui che “si indignò e non voleva entrare”, lui che ai propri occhi appartiene alla schiera di quei “novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).
Questo “non voleva entrare”, fa intendere come un blocco, una paralisi, un impedimento profondo della volontà pratica. In effetti, in certo qual modo, egli “non poteva entrare” senza la grazia di una conversione più grande di quella che aveva fatto tornare a casa suo fratello.
Per quanto ci riguarda, poi, “non voleva entrare” dice anche quell’estrema difficoltà al perdono che la nostra natura incontra in se stessa nei confronti di chi ci offende dolorosamente: allora ci è pressoché impossibile “entrare” nella logica del Padre misericordioso, mutando il cocente risentimento in benevolenza e compassione.
Quasi senza volerlo, in queste situazioni ci ritroviamo nei panni stirati e nello sguardo freddo del figlio maggiore, e siamo portati a guardare quello che riceviamo noi e quello che ricevono gli altri, giudicando ogni cosa in base alla logica perversa del “do ut des”.
Comprendiamo allora, in conclusione, che l’oggetto più importante della misericordia di Dio non è la vita fisica su questa terra, ma la nostra conversione nella fede alla sua stessa misericordia, dalla quale dipendono la felicità e la pienezza della vita su questa terra, e la gioia della festa eterna col Padre nella sua Casa, nella quale siamo tutti predestinati ad “entrare”, dato che siamo “realmente figli di Dio” (1Gv 3,1).
* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
PAPA BENEDETTO XVI – IL MISTERO RIVELATO AI PICCOLI
dal sito:
http://www.ansdt.it/Testi/CulturaMonastica/Benedetto_XVI/index.html
PAPA BENEDETTO XVI – IL MISTERO RIVELATO AI PICCOLI
testo dell’omelia tenuta tutta a braccio da Benedetto XVI
durante la Messa celebrata in Vaticano, nella Cappella Paolina,
con i partecipanti alla plenaria della Commissione Teologica Internazionale,
il 1 dicembre 2009
———————————-
Dal Vangelo secondo Luca (10, 21-24)
In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose al sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo ».
E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: « Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono ».
———————————————–
Benedetto XVI
IL MISTERO RIVELATO AI PICCOLI
Cari fratelli e sorelle,
le parole del Signore, che abbiamo ascoltato poc’anzi nel brano evangelico (Luca 10, 21 24), sono una sfida per noi teologi, o forse, per meglio dire, un invito a un esame di coscienza: che cosa è la teologia? che cosa siamo noi teologi? come fare bene teologia? Abbiamo sentito che il Signore loda il Padre perché ha nascosto il grande mistero del Figlio, il mistero trinitario, il mistero cristologico, davanti ai sapienti, ai dotti — essi non l’hanno conosciuto —, ma lo ha rivelato ai piccoli, ai nèpioi, a quelli che non sono dotti, che non hanno una grande cultura. A loro è stato rivelato questo grande mistero.
Con queste parole il Signore descrive semplicemente un fatto della sua vita; un fatto che inizia già ai tempi della sua nascita, quando i Magi dell’Oriente chiedono ai competenti, agli scribi, agli esegeti il luogo della nascita del Salvatore, del Re d’Israele. Gli scribi lo sanno perché sono grandi specialisti; possono dire subito dove nasce il Messia: a Betlemme! Ma non si sentono invitati ad andare: per loro rimane una conoscenza accademica, che non tocca la loro vita; rimangono fuori. Possono dare informazioni, ma l’informazione non diventa formazione della propria vita.
Poi, durante tutta la vita pubblica del Signore troviamo la stessa cosa. È inaccessibile per i dotti comprendere che questo uomo non dotto, galileo, possa essere realmente il Figlio di Dio. Rimane inaccettabile per loro che Dio, il grande, l’unico, il Dio del cielo e della terra, possa essere presente in questo uomo. Sanno tutto, conoscono anche Isaia 53, tutte le grandi profezie, ma il mistero rimane nascosto. Viene invece rivelato ai piccoli, iniziando dalla Madonna fino ai pescatori del lago di Galilea. Essi conoscono, come pure il capitano romano sotto la croce conosce: questi è il Figlio di Dio.
I fatti essenziali della vita di Gesù non appartengono solo al passato, ma sono presenti, in modi diversi, in tutte le generazioni. E così anche nel nostro tempo, negli ultimi duecento anni, osserviamo la stessa cosa. Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi, maestri della fede, che ci hanno insegnato molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura, della storia della salvezza, ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che Gesù era realmente Figlio di Dio, che il Dio trinitario entra nella nostra storia, in un determinato momento storico, in un uomo come noi. L’essenziale è rimasto nascosto! Si potrebbero facilmente citare grandi nomi della storia della teologia di questi duecento anni, dai quali abbiamo imparato molto, ma non è stato aperto agli occhi del loro cuore il mistero.
Invece, ci sono anche nel nostro tempo i piccoli che hanno conosciuto tale mistero. Pensiamo a santa Bernardette Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova lettura della Bibbia « non scientifica », ma che entra nel cuore della Sacra Scrittura; fino ai santi e beati del nostro tempo: santa Giuseppina Bakhita, la beata Teresa di Calcutta, san Damiano de Veuster. Potremmo elencarne tanti!
Ma da tutto ciò nasce la questione: perché è così? È il cristianesimo la religione degli stolti, delle persone senza cultura, non formate? Si spegne la fede dove si risveglia la ragione? Come si spiega questo?
Forse dobbiamo ancora una volta guardare alla storia. Rimane vero quanto Gesù ha detto, quanto si può osservare in tutti i secoli. E tuttavia c’è una « specie » di piccoli che sono anche dotti. Sotto la croce sta la Madonna, l’umile ancella di Dio e la grande donna illuminata da Dio. E sta anche Giovanni, pescatore del lago di Galilea, ma è quel Giovanni che sarà chiamato giustamente dalla Chiesa « il teologo », perché realmente ha saputo vedere il mistero di Dio e annunciarlo: con l’occhio dell’aquila è entrato nella luce inaccessibile del mistero divino.
Così, anche dopo la sua risurrezione, il Signore, sulla strada verso Damasco, tocca il cuore di Saulo, che è uno dei dotti che non vedono. Egli stesso, nella prima Lettera a Timoteo, si definisce « ignorante » in quel tempo, nonostante la sua scienza. Ma il Risorto lo tocca: diventa cieco e, al tempo stesso, diventa realmente vedente, comincia a vedere. Il grande dotto diviene un piccolo, e proprio per questo vede la stoltezza di Dio che è saggezza, sapienza più grande di tutte le saggezze umane.
Potremmo continuare a leggere tutta la storia in questo modo. Solo un’osservazione ancora. Questi dotti sapienti, sofòi e sinetòi, nella prima lettura, appaiono in un altro modo (lsaia 11,1-10). Qui sofìa e sìnesis sono doni dello Spirito Santo che riposano sul Messia, su Cristo. Che cosa significa? Emerge che c’è un duplice uso della ragione e un duplice modo di essere sapienti o piccoli.
C’è un modo di usare la ragione che è autonomo, che si pone sopra Dio, in tutta la gamma delle scienze, cominciando da quelle naturali, dove un metodo adatto per la ricerca della materia viene universalizzato: in questo metodo Dio non entra, quindi Dio non c’è. E così, infine, anche in teologia: si pesca nelle acque della Sacra Scrittura con una rete che permette di prendere solo pesci di una certa misura e quanto va oltre questa misura non entra nella rete e quindi non può esistere. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù storico: una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è rimasto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto. Il metodo sa «captare» certi pesci, ma esclude il grande mistero, perché l’uomo si fa egli stesso la misura: ha questa superbia, che nello stesso tempo è una grande stoltezza perché assolutizza certi metodi non adatti alle realtà grandi; entra in questo spirito accademico che abbiamo visto negli scribi, i quali rispondono ai Re magi: non mi tocca; rimango chiuso nella mia esistenza, che non viene toccata. È la specializzazione che vede tutti i dettagli, ma non vede più la totalità.
E c’è l’altro modo di usare la ragione, di essere sapienti, quello dell’uomo che riconosce chi è; riconosce la propria misura e la grandezza di Dio, aprendosi nell’umiltà alla novità dell’agire di Dio. Così, proprio accettando la propria piccolezza, facendosi piccolo come realmente è, arriva alla verità. In questo modo, anche la ragione può esprimere tutte le sue possibilità, non viene spenta, ma si allarga, diviene più grande. Si tratta di un’altra sofìa e sìnesis, che non esclude dal mistero, ma è proprio comunione con il Signore nel quale riposano sapienza e saggezza, e la loro verità.
In questo momento vogliamo pregare perché il Signore ci dia la vera umiltà. Ci dia la grazia di essere piccoli per poter essere realmente saggi; ci illumini, ci faccia vedere il suo mistero della gioia dello Spirito Santo, ci aiuti a essere veri teologi, che possono annunciare il suo mistero perché toccati nella profondità del proprio cuore, della propria esistenza.
Amen.
Omelia 11 settembre 2010
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/8007.html
Omelia (16-09-2006)
Eremo San Biagio
Dalla Parola del giorno
L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore.
Come vivere questa Parola?
« Nessuno è buono se non Dio solo » (Lc 18,19) afferma Gesù al giovane ricco. L’uomo può esserlo solo se, in quanto abitazione della Trinità, ne promana il profumo e la luce. Tutta la vita deve essere permeata da questa presenza e la sede principale è il cuore.
Cuore. Parola usata in tanti modi più o meno significativi. In senso biblico questo termine connota il centro dell’essere, il centro decisionale, dove si gestisce la libertà, ci si apre o ci si chiude a Dio. Davvero è il centro misterioso dell’uomo dove Dio lo ama sempre e comunque. Oggi Gesù ci invita a scendere nel nostro cuore per valutare il « tesoro » che custodisce. È buono o cattivo? Buono se sono misericordioso come il Padre, se perdono facilmente e dono largamente. Se non giudico, ma mi lascio, ogni giorno, giudicare dalla Parola di Dio. Se, in sintesi, mi specchio in Gesù per assumerne i sentimenti. Solo allora, afferma il testo odierno, i nostri rapporti col prossimo, parole gesti scelte saranno impregnati di bontà, cioè di Dio e non del nostro « ego ». Oggi c’è tanto bisogno di uomini e donne che si lasciano « tesorizzare » da Gesù per essere portatrici e dispensatrici dell’amore del Padre, per creare cioè la « cultura della bontà ».
Oggi, nella mia pausa contemplativa, trovo un po’ di tempo per stare in silenzio con Gesù nel mio cuore. Gli chiedo di toccarmi lì, nel profondo, e di togliere via tutto ciò che non è buono. Invoco lo Spirito che lo riempia dei suoi doni.
La voce di un « profeta » dei nostri giorni
Dio ci consente di andare avanti portando, nel fondo dell’anima, una scintilla di bontà che chiede solo di diventare fiamma.
frère Roger di Taizé
San Bernardo: « Ogni albero si riconosce dal suo frutto »
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100911
Sabato della XXIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Lc 6,43-49
Meditazione del giorno
San Bernardo (1091-1153), monaco cistercense e dottore della Chiesa
24a Omelia sul Cantico dei cantici
« Ogni albero si riconosce dal suo frutto »
Se credete in Cristo, fate dunque le opere di Cristo, affinché la vostra fede viva ; l’amore animerà la vostra fede, l’azione ne darà la prova. Voi che pretendete di dimorare in Gesù Cristo, dovete camminare al suo passo. Se cercate la gloria, se invidiate i beati di questo mondo, se dite male degli assenti e se rendete il male per il male, queste sono cose che Cristo non ha fatte. Dite che conoscete Cristo, ma i vostri atti lo negano… « Questo uomo mi onora con le labbra, dice la Scrittura, mentre il suo cuore è lontano da me » (Is 29, 13)…
Ora la fede, anche retta, non basta per fare un santo, un uomo retto, se non opera nell’amore. Chi è senza amore, è incapace di amare la Sposa, la Chiesa di Cristo. E le opere, anche compiute nella rettitudine non riescono, senza la fede, a rendere il cuore retto. Non si può attribuire la rettitudine a chi non è gradito a Dio ; Infatti, la lettera agli Ebrei dice : « Senza la fede, è impossibile essergli graditi » (Eb 11, 6). Se uno non piace a Dio, Dio non potrebbe piacergli. Ma colui che ama Dio, non potrebbe non piacere a Dio. E colui al quale Dio non piace, neanche la Chiesa-Sposa potrebbe piacergli. Come dunque potrebbe essere retto, colui che non ama né Dio, né la sua Chiesa alla quale è stato detto « i giusti sanno amarti ».
Al santo, la fede non basta senza le opere, ma neanche le opere senza la fede, per fare la rettitudine dell’anima. Fratelli, noi che crediamo in Cristo, dobbiamo provare di seguire una via retta. Alziamo verso Dio i nostri cuori insieme alle nostre mani, affinché siamo trovati interamente retti, confermando con atti retti, la rettitudine della nostra fede, con l’amore per la Chiesa-Sposa, e amati dallo sposo, nostro Signore Gesù Cristo, benedetto da Dio nei secoli.