Davide (ho scelto questa immagine in riferimento ai salmi)

dal sito:
http://www.stpauls.it/jesus/0902je/0902je13.htm
Il Cantico dei Cantici
danza di fede e d’amore
di Antonio Tarzia
Poemetto nuziale d’origine pastorale o forse scritto (e musicato) per la corte del re, il Cantico dei Cantici è il più breve e antico canto d’amore tra un uomo e una donna nel fiore della giovinezza. Otto capitoli, 436 versetti con interventi del coro e monologhi che si alternano e si intersecano, fanno di questo Libro della Bibbia un capolavoro di umanità, in cui valori eterni e indiscussi sono enunciati con semplicità: «Più forte della morte è l’amore» (8,6); «l’amore non ha prezzo, non si compra» (8,7); «il mio amato è mio e io sono sua» (2,16). La parabola dell’amore ripropone, qui in versi, il momento-compimento del sogno della vita che si attua, unico e irripetibile, ogni volta che due cuori entrano in sintonia perfetta e il mistero della creazione si mette in moto.
Per parlare del Cantico, della sua poesia e dell’arte di « dire » l’amore senza scadere nell’ovvio e nel banale, siamo andati a incontrare il maestro Alessandro Nastasio, che ha appena pubblicato sul tema un prezioso volume di 25 tavole xilografate a mano, con testo introduttivo di monsignor Gianfranco Ravasi. Sulla copertina di un suo catalogo di vent’anni fa, Nastasio posava seduto « a uovo » in una curiosa performance vagamente zen, avvolto in un mantello cabalistico, tutto tessuto di numeri arabi e lettere latine. Una grande fiamma bianca lo comprendeva come nelle miniature ottomane del tardo Medioevo: emergeva la testa da profeta, fronte alta e barba folta. Incontrandolo oggi nel suo studio-bottega che scende sotto il pavimento stradale, nella centralissima via Hayez a Milano, notiamo oltre ai suoi occhi azzurri da bambino, le mani da gigante, fuori misura, pale di fico d’India che armeggiano con impaccio attorno a una pipa spenta: «È di radica d’Aspromonte, molto pregiata, tiene bene il calore e fa compagnia».
Il suo ambiente di lavoro si presenta come un museo etnico, un bazar mediorientale con campanelli e tamburi, bruciaprofumi e maschere di legno. Il tempo si è stratificato lasciandovi detriti delle esperienze vissute in Giappone, in Nord Europa, in Turchia. Dal tutto emergono come rottami le opere incompiute e lasciate lì, perse nel vuoto. Una statua in gesso troneggia vicino alla scala: è il bozzetto della Madonna dell’Accoglienza, un bronzo realizzato per la parrocchiale di Cassina de’ Pecchi. Un Cristo di vetro, alto 2 metri e 20, si impone per la struttura e la tecnica innovativa: sono 300 vetri colorati, soffiati e bloccati con mastice e raggi Wood, invece del duttile piombo. Ma la prima domanda me la impone un pannello in bronzo pesantissimo, di un metro e 50 per un metro, che chiamo Cristo quadrimano, oggi nella chiesa milanese di Santa Francesca Romana.
Maestro, cos’è questo mulinare di braccia? Un volo a farfalla, una reminescenza induista, un’assonanza con l’icona russa della Madonna delle tre mani?
«Niente di esotico o di esoterico. È una mia preghiera, un pensiero d’arte sui tempi scanditi nell’eternità. Alcuni eventi come quelli della salvezza si realizzano nella storia ma vivono in Dio, senza tempo né successione nella contemporaneità misteriosa della zona di confine. Il Cristo su questo bronzo muore e risorge nello stesso tempo perché l’azione redentiva è unitaria. È stato un mio periodo di mutazione e confusione teologica ma anche di presa di coscienza: facevo dei crocifissi vivi, con gli occhi aperti della risurrezione, a volte anche in dialogo con altri personaggi».
Tra le opere in sovrapposizione, tempi diversi vissuti in contemporanea, c’è anche il grande quadro sul Fungo atomico, oggi nel Museo di Hiroshima?
«Dopo il ’68 lavoravo molto al mosaico cercando la luminosità preziosa delle tessere con colori freddi, bluastri, siderali. Era il tempo dei « fiori cosmici », delle « isole labirinto », delle « memorie matematiche ». Seguivo le conferenze del cibernetico Silvio Ceccato, grande comunicatore, ipnotico come uno sciamano, e non riuscivo a superare l’angoscia del non-senso, il vuoto dell’attesa infinita. Il soggiorno in Giappone mi ha precipitato in una tragedia vecchia di trent’anni ma ancora in compimento. Nacquero opere disperate come Sole nero su Hiroshima, Fine della catastrofe, Mito perduto e la miniserie dei Cristo nel fungo atomico, dove nella bomba vedo il male assoluto e quindi in trasparenza, in questo enorme fiore di fuoco germinato dalle masse di blu, di grigio e di nero, in movimento come il cuore di un uragano, percepiamo il Cristo che nel peggiore atto dell’uomo ci appare morto e risorto».
Come ha superato questo momento o fase creativa disperata emotivamente ma feconda di stimoli universali e forte di abbandono nella fede?
«Dal punto di vista tecnico ho spaziato nei vari campi con tutte le possibili materie (olio, tempera, acquerello, affresco, mosaico, vetrata, scultura in pietra, bronzo e legno, xilografia, calcografia, litografia). Ho adoperato pennelli e scalpelli, sgorbie e bulini spesso con frenesia e senza pace. I temi sono struggenti come Abbandono ardente e Tre grazie iperboree oggi a Beirut, Papiri del Giordano o un po’ sognati e onirici come Altalena degli spiriti a Duisburg, e La luna presa al lazzo da un bambino. È il tempo dei balletti, che perdura ancora anche se con abbandoni e ritorni: Danza dell’assurdo, Una passione inutile, Passo a quattro, Sussurri e tentazioni, Sul lago ghiacciato».
Il balletto e la ballerina entrano di prepotenza nella sua storia d’artista. A cosa è dovuto questo giro di boa?
«A due eventi personali: l’amicizia con la signora Savignano, che ha posato per me. Credo che sia il più armonico e musicale dei corpi lanciati nello spazio! Da sola fa mezza storia del balletto italiano. Il secondo motivo fu l’iscrizione a danza di mia figlia Fulvia Maria: di lei e delle sue affermazioni ho quasi un diario puntuale di figure e di effetti motori, portati in bronzo o sulla tela».
Oltre che pittore e scultore, Lei è anche incisore, orafo, poeta. Proviamo a mettere in fila i cinque nomi di riferimento che lei a sua volta chiama « maestri » e poi inizieremo a parlare di arte e Parola di Dio.
«Non bastano le dita di una mano per enumerare i maestri utili e necessari alla formazione di un pazzo come me, sempre perso dietro all’esperienza di tecniche nuove e viaggi nei più inusitati saperi e civiltà. Con le scuole medie presi a frequentare Kodra, un musulmano di Tirana, poi Salvadori, Purificato a Roma e Sarra, che mi ospitò nel suo studio. Tornato a Milano cominciai con l’incisione, mi esaltavano le xilografie, la Bauhaus tedesca e soprattutto Kandindiskij e Klee. Intanto ho cominciato a insegnare nudo all’Accademia di Brera… frequentavo Minguzzi, Messina, Salvadori e poi Cantatore, Manfrini, Marino Marini. Tutti colleghi e tutti maestri a cui ho rubato qualcosa. Mentre ero a Parigi ho studiato molto Rouault e Braque. In America ho conosciuto Dalì che ha voluto un mio disegno e mi ha lasciato un suo omaggio».
Nella parrocchia di Sant’Antonio Maria Zaccaria di Milano ci sono cinque pannelli xilografici sgorbiati a mano su legno di tiglio sul modello di Dürer, ma con esplicito richiamo al processionale liturgico e alla sacra rappresentazione medievale, con in più una tensione ritmica propria del cinematografo. È questo il capolavoro « sacro » di Alessandro Nastasio?
«Non sta a me dirlo, ma ai fedeli di quella chiesa, se riusciranno a entrare con l’anima nella storia narrata, se avranno il coraggio o la grazia di parteciparvi avverando e rivivendo l’evento di quei tre giorni a Gerusalemme. Il tema era complesso e difficile. Io ho cercato a mia volta di farlo diventare, più che un lavoro, una preghiera personale. Quando un artista lavora in ambito sacro si spersonalizza e cerca di essere l’opera stessa: così è successo a me più volte. Lavorare per una chiesa non è come lavorare per un committente qualsiasi, una banca, un museo, un mecenate o un gallerista. C’è tutt’altra tensione, sai di essere in un crocevia dove la storia spirituale della tua anima si incontra con la spiritualità degli altri».
Nel 1969 l’editore Marzorati ha pubblicato Il Vangelo secondo Giovanni con una serie di xilografie del giovane Alessandro Nastasio in una preziosa edizione oggi introvabile. Quante altre incisioni il maestro si è permesso prima dell’attuale Cantico dei Cantici?
«Sono entrato nella Bibbia in punta di piedi, smarrito, eccitato e turbato, prendendo dimora nelle stanze più esterne, quelle letterarie, quelle che maggiormente si prestano al discorso universale e alla considerazione delle altre culture. Mi sono prima appassionato a Qoelet, dopo aver seguito la conferenza-scuola-catechesi di monsignor Ravasi in San Fedele. Allora monsignore era prefetto dell’Ambrosiana e al suo appuntamento correva in massa Milano. Il problema del limite, la dotta ignoranza, la necessità di impegnarsi oltre, anche senza vedere l’orizzonte, era diventato un pensiero cittadino e c’era chi, al bar in Galleria, finiva di girare il cucchiaino nella tazza del caffè dicendo al suo interlocutore: « C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piangere e un tempo per ridere… vanità delle vanità, tutto è vanità ». Qualche anno dopo sono stato preso dalla figura di Giobbe e il mistero del male, la felicità e il dolore del mondo. Complice sempre Ravasi, di cui ormai ero diventato buon amico, ho lavorato in 13 mesi 28 tavole sulla struggente vicenda del povero Giobbe».
A completare la trilogia, le mancava solo il Cantico…
«Io lo chiamo il « Canto d’amore del mondo ». È un testo di poco più di mille parole ebraiche, dove la poesia tocca il vertice e l’amore dell’uomo si distingue e si confonde con l’amore di Dio. Secondo me, il Cantico dei Cantici lo si può cantare solo danzando. Ho cercato di isolare 25 momenti, come fossero cifre, capolettera di un volume miniato: l’attesa triste e noiosa, l’ansia della ricerca, la gioia dell’incontro, la felicità di donarsi tra i gigli del campo, l’amore che sviluppa delle ali gigantesche pronte al volo».
Il pudore e la freschezza di questo amore colpiscono da sempre il lettore: rabbi Akiva diceva che « il mondo intero non è degno del giorno in cui il Cantico è stato donato a Israele ». E Karl Barth, il maggior teologo protestante del ’900, definiva il Cantico « Magna Charta dell’umanità ». Il Maestro Nastasio lo consiglia ancora come lettura utile ai giovani d’oggi, persi dietro al telefonino e all’i-pod?
«Ho insegnato per alcuni anni a Brera e nelle scuole liceali milanesi. Con i giovani sono vissuto e ancora adesso lavoro e dialogo. Penso che sarebbe opera meritoria e illuminata culturalmente promuovere il Cantico dei Cantici a testo scolastico obbligatorio per l’età dai 14 ai 18 anni. I giovani non riuscirebbero a odiarlo nemmeno se diventasse obbligatorio studiarlo. E avrebbero in mano il più grande trattato sulla felicità umana».
Antonio Tarzia
dal sito:
http://www.zenit.org/article-23603?l=italian
Benedetto XVI: la teologia ha bisogno della sensibilità delle donne
Nella seconda catechesi dedicata a santa Ildegarda di Bingen
ROMA, mercoledì, 8 settembre 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell’intervento pronunciato da Benedetto XVI questo mercoledì durante l’Udienza generale tenutasi a Castel Gandolfo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato ancora sulla figura di santa Ildegarda di Bingen.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei riprendere e continuare la riflessione su S. Ildegarda di Bingen, importante figura femminile del Medioevo, che si distinse per saggezza spirituale e santità di vita. Le visioni mistiche di Ildegarda somigliano a quelle dei profeti dell’Antico Testamento: esprimendosi con le categorie culturali e religiose del suo tempo, interpretava nella luce di Dio le Sacre Scritture applicandole alle varie circostanze della vita. Così, tutti coloro che l’ascoltavano si sentivano esortati a praticare uno stile di esistenza cristiana coerente e impegnato. In una lettera a san Bernardo, la mistica renana confessa: « La visione avvince tutto il mio essere: non vedo con gli occhi del corpo, ma mi appare nello spirito dei misteri … Conosco il significato profondo di ciò che è esposto nel Salterio, nei Vangeli e in altri libri, che mi sono mostrati nella visione. Questa brucia come una fiamma nel mio petto e nella mia anima, e mi insegna a comprendere profondamente il testo » (Epistolarium pars prima I-XC: CCCM 91).
Le visioni mistiche di Ildegarda sono ricche di contenuti teologici. Fanno riferimento agli avvenimenti principali della storia della salvezza, e adoperano un linguaggio principalmente poetico e simbolico. Per esempio, nella sua opera più nota, intitolata Scivias, cioè « Conosci le vie », ella riassume in trentacinque visioni gli eventi della storia della salvezza, dalla creazione del mondo alla fine dei tempi. Con i tratti caratteristici della sensibilità femminile, Ildegarda, proprio nella sezione centrale della sua opera, sviluppa il tema del matrimonio mistico tra Dio e l’umanità realizzato nell’Incarnazione. Sull’albero della Croce si compiono le nozze del Figlio di Dio con la Chiesa, sua sposa, ricolma di grazie e resa capace di donare a Dio nuovi figli, nell’amore dello Spirito Santo (cfr Visio tertia: PL 197, 453c).
Già da questi brevi cenni vediamo come anche la teologia possa ricevere un contributo peculiare dalle donne, perché esse sono capaci di parlare di Dio e dei misteri della fede con la loro peculiare intelligenza e sensibilità. Incoraggio perciò tutte coloro che svolgono questo servizio a compierlo con profondo spirito ecclesiale, alimentando la propria riflessione con la preghiera e guardando alla grande ricchezza, ancora in parte inesplorata, della tradizione mistica medievale, soprattutto a quella rappresentata da modelli luminosi, come appunto Ildegarda di Bingen.
La mistica renana è autrice anche di altri scritti, due dei quali particolarmente importanti perché riportano, come lo Scivias, le sue visioni mistiche: sono il Liber vitae meritorum (Libro dei meriti della vita) e il Liber divinorum operum (Libro delle opere divine), denominato anche De operatione Dei. Nel primo viene descritta un’unica e poderosa visione di Dio che vivifica il cosmo con la sua forza e con la sua luce. Ildegarda sottolinea la profonda relazione tra l’uomo e Dio e ci ricorda che tutta la creazione, di cui l’uomo è il vertice, riceve vita dalla Trinità. Lo scritto è incentrato sulla relazione tra virtù e vizi, per cui l’essere umano deve affrontare quotidianamente la sfida dei vizi, che lo allontanano nel cammino verso Dio e le virtù, che lo favoriscono. L’invito è ad allontanarsi dal male per glorificare Dio e per entrare, dopo un’esistenza virtuosa, nella vita « tutta di gioia ». Nella seconda opera, considerata da molti il suo capolavoro, descrive ancora la creazione nel suo rapporto con Dio e la centralità dell’uomo, manifestando un forte cristocentrismo di sapore biblico-patristico. La Santa, che presenta cinque visioni ispirate dal Prologo del Vangelo di San Giovanni, riporta le parole che il Figlio rivolge al Padre: « Tutta l’opera che tu hai voluto e che mi hai affidato, io l’ho portata a buon fine, ed ecco che io sono in te, e tu in me, e che noi siamo una cosa sola » (Pars III, Visio X: PL 197, 1025a).
In altri scritti, infine, Ildegarda manifesta la versatilità di interessi e la vivacità culturale dei monasteri femminili del Medioevo, contrariamente ai pregiudizi che ancora gravano su quell’epoca. Ildegarda si occupò di medicina e di scienze naturali, come pure di musica, essendo dotata di talento artistico. Compose anche inni, antifone e canti, raccolti sotto il titolo Symphonia Harmoniae Caelestium Revelationum (Sinfonia dell’armonia delle rivelazioni celesti), che venivano gioiosamente eseguiti nei suoi monasteri, diffondendo un’atmosfera di serenità, e che sono giunti anche a noi. Per lei, la creazione intera è una sinfonia dello Spirito Santo, che è in se stesso gioia e giubilo.
La popolarità di cui Ildegarda era circondata spingeva molte persone a interpellarla. Per questo motivo disponiamo di molte sue lettere. A lei si rivolgevano comunità monastiche maschili e femminili, vescovi e abati. Molte risposte restano valide anche per noi. Per esempio, a una comunità religiosa femminile Ildegarda scriveva così: « La vita spirituale deve essere curata con molta dedizione. All’inizio la fatica è amara. Poiché esige la rinuncia all’estrosità, al piacere della carne e ad altre cose simili. Ma se si lascia affascinare dalla santità, un’anima santa troverà dolce e amorevole lo stesso disprezzo del mondo. Bisogna solo intelligentemente fare attenzione che l’anima non avvizzisca » (E. Gronau, Hildegard. Vita di una donna profetica alle origini dell’età moderna, Milano 1996, p. 402). E quando l’Imperatore Federico Barbarossa causò uno scisma ecclesiale opponendo ben tre antipapi al Papa legittimo Alessandro III, Ildegarda, ispirata dalle sue visioni, non esitò a ricordargli che anch’egli, l’imperatore, era soggetto al giudizio di Dio. Con l’audacia che caratterizza ogni profeta, ella scrisse all’Imperatore queste parole da parte di Dio: « Guai, guai a questa malvagia condotta degli empi che mi disprezzano! Presta ascolto, o re, se vuoi vivere! Altrimenti la mia spada ti trafiggerà! » (Ibid., p. 412).
Con l’autorità spirituale di cui era dotata, negli ultimi anni della sua vita Ildegarda si mise in viaggio, nonostante l’età avanzata e le condizioni disagevoli degli spostamenti, per parlare di Dio alla gente. Tutti l’ascoltavano volentieri, anche quando adoperava un tono severo: la consideravano una messaggera mandata da Dio. Richiamava soprattutto le comunità monastiche e il clero a una vita conforme alla loro vocazione. In modo particolare, Ildegarda contrastò il movimento dei cátari tedeschi. Essi – cátari alla lettera significa « puri » – propugnavano una riforma radicale della Chiesa, soprattutto per combattere gli abusi del clero. Lei li rimproverò aspramente di voler sovvertire la natura stessa della Chiesa, ricordando loro che un vero rinnovamento della comunità ecclesiale non si ottiene tanto con il cambiamento delle strutture, quanto con un sincero spirito di penitenza e un cammino operoso di conversione. Questo è un messaggio che non dovremmo mai dimenticare. Invochiamo sempre lo Spirito Santo, affinché susciti nella Chiesa donne sante e coraggiose, come santa Ildegarda di Bingen, che, valorizzando i doni ricevuti da Dio, diano il loro prezioso e peculiare contributo per la crescita spirituale delle nostre comunità e della Chiesa nel nostro tempo.
Granduca di José Luis Hernández Zurdo
http://www.publicdomainpictures.net/browse-category.php?page=360&c=animali&s=10
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13578.html
Omelia (11-09-2008)
Monaci Benedettini Silvestrini
L’amore senza confini
Nella scelta dei nostri amori siamo ordinariamente guidati come da un intimo e nascosto dosatore che ne determina l’intensità e gli obiettivi. Ci viene perciò spontaneo amare coloro che amano ed è altrettanto immediata l’esclusione di coloro che non ci amano e non ci danno il contraccambio. Ancora una volta il Signore Gesù viene a sconvolgere la nostra logica. Egli ci dice: « A voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano ». Egli ci propone un amore senza confini, un amore che deve sospingersi fino all’eroismo. Egli, che ci dà la suprema testimonianza dell’amore con il dono supremo della vita, ha il coraggio di dire a noi suoi seguaci, di amare i nemici, di ricambiare con il bene coloro che ci odiano, di benedire coloro che ci maledicono e addirittura di pregare per coloro che ci maltrattano. Dobbiamo dire che questo è un programma di vita cristiana che si può attuare solo ed esclusivamente con la grazia divina. È troppo difforme da nostro modo di pensare e di valutare, troppo lontano dalle nostre possibilità, troppo al disopra delle nostre forze. Il nostro mondo, dove le sfide e le competizioni sono all’ordine del giorno la remissività viene scambiata con la debolezza, il perdono con la pusillanimità, l’arrendevolezza con la codardia. Inoltre anche quando coraggiosamente riusciamo a vivere concretamente la proposta di Cristo, ci capita di sentirci momentaneamente deboli e sconfitti se non è più che viva in noi la fede nella ricompensa divina. Ci conforta l’esempio dei santi e l’eroismo di tanti fratelli che hanno testimoniato il loro amore in piena conformità al messaggio cristiano. Non ci sfugge che praticando il comandamento dell’amore, noi offriamo l’esempio migliore possibile e la nostra testimonianza diventa l’annuncio più efficace della verità della dottrina cristiana. Dobbiamo ammettere con sincera umiltà che proprio dall’incapacità di vivere in pienezza questo comandamento deriva tutta la fragilità della nostra testimonianza.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100909
Giovedì della XXIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Lc 6,27-38
Meditazione del giorno
Sant’Isacco Siriano (7o secolo), monaco nella regione di Ninive (nell’Iraq attuale)
Discorsi ascetici, § 81
« Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro »
Non provare a distinguere colui che è degno da colui che non è degno. Tutti gli uomini siano pari ai tuoi occhi, per amarli e servirli. Così potrai condurli tutti al bene. Il Signore non ha forse condiviso la tavola dei pubblicani e delle donne di malaffare, senza allontanare da sè gli indegni ? Anche tu, concederai gli stessi benefici, gli stessi onori all’infedele, all’assassino, tanto più che anche lui è un fratello per te, poiché partecipa dell’unica natura umana. Ecco, figlio mio, il mio comandamento : la tua misericordia prevalga sempre nella tua bilancia, fino al momento in cui sentirai dentro di te la misericordia che Dio prova per il mondo.
Quando l’uomo riconosce che il suo cuore è giunto alla purezza ? Quando considera ogni uomo buono, e nessuno gli appare impuro o macchiato. Allora, in verità, è puro di cuore (Mt 5, 8)…
Cos’è la purezza ? In poche parole, è la misericordia del cuore nei confronti dell’universo intero. E cos’è la misericordia del cuore ? È il fuoco che lo infiamma per tutta la creazione, per gli uomini, gli uccelli, le bestie, i demoni, per ogni essere creato. Quando pensa a loro o quando li guarda, l’uomo sente i suoi occhi riempirsi delle lacrime di una profonda, di una intensa pietà che gli stringe il cuore e lo rende incapace di tollerare, di sentire, di vedere il minimo torto o la minima afflizione sopportata da una creatura. Perciò, la preghiera nelle lacrime si allarga, in ogni momento, sugli esseri privi di parola, come pure sui nemici della verità, o su coloro che le nuocciono, affinché siano custoditi e purificati. Una compassione immensa e senza misura nasce nel cuore dell’uomo, ad immagine di Dio.