Archive pour le 4 septembre, 2010

seguire Gesù (tema del Vangelo)

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Omelia (05-09-2010) : La pienezza di gioia che sogniamo

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/19282.html

Omelia (05-09-2010) 
mons. Antonio Riboldi

La pienezza di gioia che sogniamo

Credo possa aver dato un certo ‘fastidio’ a Gesù, il fatto di vedersi seguito da molta gente, troppa, e non per il fatto che Lo seguissero, questo semmai poteva, come potrebbe essere oggi, l’occasione di annunciare la Sua Parola, ma perché sapeva che inseguivano in Lui sogni mai realizzati, speranze sempre andate deluse, sicurezze mai trovate, solitudini non più sopportabili: il sogno, insomma, di un ‘piccolo paradiso’ a misura d’uomo, che non riusciva ad oltrepassare i confini stretti di questa terra, così avara di felicità, per andare ‘oltre’, alla ricerca del Regno di Dio, dove ha sede l’unico totale e fedele Amore, e con esso la vera felicità e la vita. Quello, insomma, che ogni uomo cerca – anche se non lo sa – e di cui ha spesso una inconfessata sete.
Gesù taglia corto con queste speranze solo umane, che tante volte affondano le radici nell’effimero, proclamando invece la Sua legge, che è regola di santità, regola di vita eterna, di autentici rapporti con Dio e con il prossimo. Usa un linguaggio che ancora oggi fa venire i brividi, ma che in compenso ha il dono della chiarezza della vera Amicizia.
Racconta il Vangelo: « Siccome molta gente andava con Lui, Gesù si voltò e disse: ‘Se uno viene a me e non mi ama più di suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle e persino più della propria vita, non può essere mio discepolo… Chi di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo ». (Lc. 14, 25-33)
Parole che forse saranno suonate come una sferzata per molti che, senza tagliare nettamente i ponti con se stessi, avevano comunque abbandonato i loro cari, ma pronti a tornare indietro se le speranze, poste in quel misterioso Maestro, non si fossero avverate.
Non è che Gesù chieda di non amare i nostri cari o di possedere qualcosa su questa terra… ma chiede di avere il primo posto nel nostro cuore e nella nostra vita.
E aveva ed ha ragione. Solo con Lui è possibile amare senza voler possedere l’altro o avere, restando distaccati così che le cose non diventino idoli. Purtroppo ci sono tanti che si dicono di Cristo, ma Lui non è al centro della loro vita, perché prima, come ‘valori’ sovrani, vengono il possesso delle cose, le tante ambizioni, i tanti interessi, il proprio io.
Ma Dio non può accettare – soprattutto per il nostro bene – di essere messo in un angolo: ‘Amerai Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e il prossimo tuo come te stesso’. Eppure fa davvero impressione quanto oggi – ma in fondo sempre – si mettano al primo posto le creature.
Quando ero adolescente, dopo una prima provocazione, giunta dal cardinal Schuster, che mi aveva chiesto -senza avere una mia risposta – se volevo diventare prete, lentamente prese forma il mio sogno. In un secondo incontro, alla richiesta di cosa volevo fare di grande, prontamente risposi: ‘Il prete!’. Sorrise di tanta semplicità. Ma quando a dodici anni mi decisi ad entrare in quello che si chiamava aspirandato, presso i Padri Rosminiani, mi sentii solo, senza più i miei cari, le mie cose e mi assali un grande dolore e un desiderio smisurato di tornare a casa, come se senza la mia famiglia la mia libertà fosse spenta. Vissi un mese di continua sofferenza, ma ringrazio Dio che lentamente mi aiutò a resistere. Da allora ho capito cosa volesse dire ‘lasciare tutto’ e mettere al primo posto l’amore di Dio.
Non che i miei cari non occupassero più un grande posto nella mia vita, sempre, ma il primo posto era di Dio, al quale davvero avevo dato tutto.
Non è certamente facile per un uomo, una donna, un giovane vivere la propria esistenza mettendo al primo posto il Signore. Amo sempre ricordare mia mamma, che, nonostante la fatica di raggiungere la. Chiesa di primo mattino, lontana da casa, non passava giorno senza avere dato il primo posto a Gesù Eucaristico, ricevendo la S. Comunione.
Credo che abbia stupito tutti la canonizzazione di Gianna Beretta Molla, donna del nostro tempo, sposa e mamma. Una vita ‘comuné, semplice, ma testimone che le parole di Gesù non sono solo la via alla ‘porta strettà, ma sono soprattutto il segreto di una vita armoniosa, virtuosa, piena, sulle orme e alla Presenza di Dio. E sono tante le persone che vivono da ‘sante’: persone normali, che sanno mettere al primo posto Dio e la santità. Nella mia vita pastorale ne ho incontrate tante. Come quella anziana vedova, dal volto emaciato, che una sera, dopo una predica, venne in sacrestia e mi consegnò tutto quello che aveva e teneva ‘per la sua vecchiaia’: 500.000 lire. Chiedendole la ragione di questo suo gesto, mi rispose: ‘Tenerli è un furto rispetto a chi ne ha bisogno. A me basta Gesù e il suo amore. Lui penserà a tutto, io penserò solo a Lui’. Cara donna! Mi commosse e, senza volerlo, mi mise in crisi.
Tutte queste persone – ripeto sono tante – mi hanno sempre lasciato la lezione di cosa voglia dire ‘amare Lui più di se stessi’ e che questa è la via per quella serenità di cui tutti abbiamo bisogno e che, troppe volte, perdiamo per rincorrere un amore disordinato alle persone o alle cose, che certamente non offre la gioia che solo Gesù può donare. È difficile tutto questo? Per chi ama veramente Dio e fa dell’amore il senso della propria vita, no. Ma per chi si lascia prendere la mano – meglio il cuore – dalle creature o cose del mondo – che è poi mettere al centro se stessi e il proprio egoismo – appare impossibile.
E non è una soluzione vera dividere il cuore tra l’amore di Dio e l’amore delle cose!
Senza contare poi che, quando si ama Dio, integralmente, anche nella vita semplice e quotidiana, si riesce a donare amore a tutti, cominciando dai più vicini, e tutto acquista senso. Davvero amare è liberarsi da se stessi – la più terribile schiavitù. E se questo è vero tra di noi, quanto più è vero verso Dio.
Questo Vangelo può sembrare difficile, ma è, se capito e vissuto davvero, la Buona Novella del Regno dei Cieli: è serenità e libertà, pienezza di vita e di cuore.
Non resta che farla propria, anche se va contro corrente, rispetto alle pretese del nostro ego e agli ‘insegnamenti’ del mondo. Ma la Grazia sa aprire cuore e mente a chi ha buona volontà.
Gesù oggi ancora parla:
« Chi non porta la sua croce e non mi segue, non può essere mio discepolo. Chi di voi volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta, e non finisce il lavoro, tutti coloro che vedono, comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire ». (Lc. 14, 25-30)
Andando un giorno a La Verna – che tanti di voi avranno certamente visitato – meditando sulle stimmate di S. Francesco, mi veniva alla mente la sua preghiera: ‘Signore fammi sentire tutto il dolore e con il dolore l’amore che Tu hai provato sulla croce’. Gesù lo ha accontentato, proprio con stimmate. Furono queste solo dolore insopportabile o gioia di avere sperimentato di persona cosa abbia voluto dire in Gesù amarci’?
In un incontro di moltissimi giovani con Madre Teresa di Calcutta e il sottoscritto, un ragazzo, nel dialogo che segui, le chiese: ‘Madre Teresa, se Dio le desse la possibilità di tornare da capo a vivere, sapendo cosa voglia dire ‘seguire Gesù’, Gli direbbe ancora di si?’. La Madre si raccolse un momento, come a riepilogare tutte le tappe del suo infinito Calvario di carità e, sbalordendo tutti, rispose: ‘Gli direi di no’. Ci fu un attimo di smarrimento nell’assemblea. Ma poi, come assaporando la gioia di avere condiviso l’amore di Gesù con i Suoi poveri, riprese: ‘Ma Gli voglio talmente bene, che non esiterei a seguirLo, anche se mi chiedesse maggiori sacrifici’.
E noi, non saremmo più felici, forse, se invece di perdere tempo in lamenti, scorgessimo nei passi quotidiani, l’Amore di Gesù che ci precede, sorride e sorregge, come a dirci: ‘Coraggio, è tutto amore, e in fondo c’è la pienezza di gioia che sogni’.
Ricordiamo la preghiera, che dovremmo fare nostra, del cardinal Newmann:
« Conducimi per mano, Luce di tenerezza,
fra il buio che mi accerchia, conducimi per mano.
Guida il mio cammino: non pretendo di vedere orizzonti lontani,
un passo mi basta.
Un tempo era diverso, non Ti invocavo,
perché Tu mi conducessi per mano.
Amavo scegliere e vedere la mia strada,
ma adesso conducimi per mano.
Sia su di me la Tua potente Benedizione
e sono certo che essa mi condurrà per mano,
finché svanisca la notte e mi sorridano all’alba
volti di angeli amati a lungo e per un poco smarriti. » 

La catechesi di Benedetto XVI sulla figura di Santa Ildegarda di Bingen

dal sito:

http://www.zenit.org/article-23528?l=italian

La catechesi di Benedetto XVI sulla figura di Santa Ildegarda di Bingen

All’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 1° settembre 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell’intervento pronunciato da Benedetto XVI questo mercoledì durante l’Udienza generale tenutasi a Castel Gandolfo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sulla figura di Santa Ildegarda di Bingen.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

nel 1988, in occasione dell’Anno Mariano, il Venerabile Giovanni Paolo II ha scritto una Lettera Apostolica intitolata Mulieris dignitatem, trattando del ruolo prezioso che le donne hanno svolto e svolgono nella vita della Chiesa. « La Chiesa – vi si legge – ringrazia per tutte le manifestazioni del genio femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e a tutte le nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità; ringrazia per tutti i frutti di santità femminile » (n. 31).

Anche in quei secoli della storia che noi abitualmente chiamiamo Medioevo, diverse figure femminili spiccano per la santità della vita e la ricchezza dell’insegnamento. Oggi vorrei iniziare a presentarvi una di esse: santa Ildegarda di Bingen, vissuta in Germania nel XII secolo. Nacque nel 1098 in Renania, a Bermersheim, nei pressi di Alzey, e morì nel 1179, all’età di 81 anni, nonostante la permanente fragilità della sua salute. Ildegarda apparteneva a una famiglia nobile e numerosa e, fin dalla nascita, venne votata dai suoi genitori al servizio di Dio. A otto anni, per ricevere un’adeguata formazione umana e cristiana, fu affidata alle cure della maestra Giuditta di Spanheim, che si era ritirata in clausura presso il monastero benedettino di san Disibodo. Si andò formando un piccolo monastero femminile di clausura, che seguiva la Regola di san Benedetto. Ildegarda ricevette il velo dal Vescovo Ottone di Bamberga e, nel 1136, alla morte di madre Giuditta, divenuta Superiora della comunità, le consorelle la chiamarono a succederle. Svolse questo compito mettendo a frutto le sue doti di donna colta, spiritualmente elevata e capace di affrontare con competenza gli aspetti organizzativi della vita claustrale. Qualche anno dopo, anche a motivo del numero crescente di giovani donne che bussavano alle porte del monastero, Ildegarda fondò un’altra comunità a Bingen, intitolata a san Ruperto, dove trascorse il resto della vita. Lo stile con cui esercitava il ministero dell’autorità è esemplare per ogni comunità religiosa: esso suscitava una santa emulazione nella pratica del bene, tanto che, come risulta da testimonianze del tempo, la madre e le figlie gareggiavano nello stimarsi e nel servirsi a vicenda.

Già negli anni in cui era superiora del monastero di san Disibodo, Ildegarda aveva iniziato a dettare le visioni mistiche, che riceveva da tempo, al suo consigliere spirituale, il monaco Volmar, e alla sua segretaria, una consorella a cui era molto affezionata, Richardis di Strade. Come sempre accade nella vita dei veri mistici, anche Ildegarda volle sottomettersi all’autorità di persone sapienti per discernere l’origine delle sue visioni, temendo che esse fossero frutto di illusioni e che non venissero da Dio. Si rivolse perciò alla persona che ai suoi tempi godeva della massima stima nella Chiesa: san Bernardo di Chiaravalle, del quale ho già parlato in alcune Catechesi. Questi tranquillizzò e incoraggiò Ildegarda. Ma nel 1147 ella ricevette un’altra approvazione importantissima. Il Papa Eugenio III, che presiedeva un sinodo a Treviri, lesse un testo dettato da Ildegarda, presentatogli dall’Arcivescovo Enrico di Magonza. Il Papa autorizzò la mistica a scrivere le sue visioni e a parlare in pubblico. Da quel momento il prestigio spirituale di Ildegarda crebbe sempre di più, tanto che i contemporanei le attribuirono il titolo di « profetessa teutonica ». È questo, cari amici, il sigillo di un’esperienza autentica dello Spirito Santo, sorgente di ogni carisma: la persona depositaria di doni soprannaturali non se ne vanta mai, non li ostenta e, soprattutto, mostra totale obbedienza all’autorità ecclesiale. Ogni dono distribuito dallo Spirito Santo, infatti, è destinato all’edificazione della Chiesa, e la Chiesa, attraverso i suoi Pastori, ne riconosce l’autenticità.

Parlerò ancora una volta il prossimo mercoledì su questa grande donna « profetessa », che parla con grande attualità anche oggi a noi, con la sua coraggiosa capacità di discernere i segni dei tempi, con il suo amore per il creato, la sua medicina, la sua poesia, la sua musica, che oggi viene ricostruita, il suo amore per Cristo e per la Sua Chiesa, sofferente anche in quel tempo, ferita anche in quel tempo dai peccati dei preti e dei laici, e tanto più amata come corpo di Cristo. Così santa Ildegarda parla a noi; ne parleremo ancora il prossimo mercoledì. Grazie per la vostra attenzione.

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