Archive pour juillet, 2010

CI CHIAMI DA TUTTO IL MONDO (preghiera, Giovanni Paolo II)

dal sito:

http://www.monasterovirtuale.it/home/testimoni-del-tempo/testimoni-del-tempo/20.html

CI CHIAMI DA TUTTO IL MONDO

Giovanni Paolo II

——————-

Dio, Padre di misericordia

e fonte della vita,

tu ci chiami da tutto il mondo

per celebrare con rinnovato fervore

il grande mistero dell’eucaristia,

memoriale perenne

della Pasqua del tuo Figlio.

Entrando nel Terzo Millennio,

riconoscenti per la salvezza

che ci è stata donata,

con fiducia ti chiediamo:

Fa’ che partecipando

dell’unico pane e dell’unico calice

diveniamo un solo corpo in Cristo,

e viviamo della vita divina

che egli ci ha ottenuto

a prezzo del suo Sangue.

Vivificati dal suo Santo Spirito

annunceremo al mondo

le meraviglie del tuo amore.

Per Gesù Cristo tuo figlio

nato dalla Vergine Maria

che è Dio e vive e regna con te,

nell’unità dello Spirito Santo

per tutti i secoli dei secoli. Amen.

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In Cristo nulla è vanità (Omelia)

dal sito:

http://zenit.org/article-23361?l=italian

In Cristo nulla è vanità

XVIII Domenica del Tempo Ordinario, 1° agosto 2010

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 30 luglio 2010 (ZENIT.org).- “Uno della folla gli disse: “Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità”. Ma egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. E disse loro: “Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”. Poi disse loro una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così, disse, demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti! Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non arricchisce presso Dio”. Poi disse ai suoi discepoli: “Per questo io vi dico: non preoccupatevi per la vita, di quello che mangerete; né per il corpo, di quello che vestirete. La vita infatti vale più del cibo e il corpo più del vestito. Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto più degli uccelli valete voi! Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? Se non potete fare neppure così poco, perché vi preoccupate per il resto? Guardate come crescono i gigli: non faticano e non filano. Eppure io vi dico: neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Se dunque Dio veste così bene l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più farà per voi, gente di poca fede. E voi non state a domandarvi che cosa mangerete e berrete e non state in ansia: di tutte queste cose vanno in cerca i pagani di questo mondo, ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta” (Lc 12,13-21).

Oggi il Signore ci invita a guardare gli uccelli del cielo e l’erba del campo con lo sguardo dell’intelletto, quello capace di “leggere dentro” la realtà e gli avvenimenti che ci circondano. E Gesù chiarisce subito il messaggio delle parabole che sta per raccontare: “Anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che possiede”.

Tale verità, a dire il vero, da sempre non è meno evidente della nostra stessa esistenza, come sottolinea tristemente Qoelet: “Vanità delle vanità, dice Qoelet, vanità delle vanità: tutto è vanità. Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?”(Qo 1,2-3).

La domanda di Qoelet (con il suo pessimistico messaggio iniziale) è stata posta nel III secolo a.C. in vista del Vangelo odierno di Gesù, la cui risposta potrei sintetizzare così: nessun guadagno, se la fatica con cui l’uomo si affanna sotto il sole non è nella volontà di Dio, ma se l’uomo compie la volontà di Dio in tutto ciò che fa, allora nulla è vanità, nemmeno un atomo.

Gesù fa appello anzitutto all’intelligenza naturale: “Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. (…)Guardate come crescono i gigli: non faticano e non filano. Eppure neanche Salomone vestiva come uno di loro. Se Dio dunque veste così bene l’erba del campo..” (Lc 12,24.28). Gli esempi possono continuare: Dio nutre le balene con il plancton del mare e i ghepardi con le gazzelle; l’ippopotamo con quaranta chili d’erba al giorno e i merli con le ciliegie degli alberi e i vermi della terra. Queste risorse non sono meritate dagli animali.

D’altra parte è pur vero che, tanto una formica che un elefante devono darsi da fare per sopravvivere, e non sempre trovano il necessario. Se poi pensiamo ai cataclismi naturali, vediamo con sgomento che in un attimo Dio spazza via dalla faccia della terra tutto ciò che ha creato in un determinato luogo, uomini compresi.

E non sono solo gli uragani a mettere in crisi la fiducia nella divina Provvidenza, ma anche i fatti quotidiani, come quello recentissimo dei nostri due soldati morti in Afghanistan per una tragica “fatalità”. Sì, a sentire e vedere il telegiornale viene da pensare che Qoelet aveva ragione, mentre le parole rassicuranti del Signore sembrano essere smentite ogni giorno e mille volte dai fatti.

Certo il paragone di Gesù calza fino a un certo punto: infatti piante ed animali non hanno quell’intelligenza e quella coscienza umana che permettono un autentico e libero rapporto di fiducia nel Padre celeste, fonte di ogni bene.

Cosa vuol dire, allora, realisticamente, che se “Dio nutre gli uccelli del cielo”, a fortiori, molto più “ farà per voi, gente di poca fede”?

Vuol dire anzitutto la verità della creazione.

Vale a dire: Dio ha inscritto nel DNA di ogni creatura l’informazione necessaria perchè si rivesta e si difenda da sé secondo la propria specie (pensiamo alla mirabile organizzazione delle difese immunitarie), e quella che insegna ad ogni animale a procurarsi il cibo, a costruirsi il nido, o a migrare per decine di migliaia di chilometri da un continente all’altro per riprodursi ogni anno nello stesso luogo.

Comunemente si dice che tutto ciò è opera di “madre natura”, ma oltre al fatto che, da che mondo è mondo non s’è mai sentito che una madre sia l’insieme del suoi figli, il concetto non può non far risalire all’Autore di tutte le cose, se solo ci si libera, in tutta umiltà e verità, del pregiudizio ateo.

Tuttavia, la conclusione di Gesù non è facile: “Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta” (Lc 12,21).

Si può comprendere solo se, alla luce della parabola dell’uomo ricco colto da morte improvvisa, riconosciamo e perseguiamo il vero valore da salvare nella vita per essere felici, sia concretamente giorno per giorno, sia come necessaria opzione fondamentale. Allora pur in mezzo alla precarietà dell’umana avventura, sarà dato sperimentare la verità della promessa di Gesù: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10); ma nessuno potrà sperimentare tale abbondanza se non possiede la povertà del cuore: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno di Dio” (Mt 5,1).

Se dunque vivo secondo la fede che il Figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me, obbedendo in tutto alla sua Parola e alla voce della retta coscienza che mi aiuta a riconoscere e a compiere attimo per attimo la volontà di Dio (cosa che equivale alla comunione piena con il suo amore di Padre), allora non solamente farò l’esperienza che Dio provvede sempre al mio vero bene, servendosi di tutto e di tutti, ma in tale volontà troverò effettivamente la vera gioia del cuore, profonda e inalienabile come gli abissi del mare, gioia che non mi sarà tolta da ogni genere di difficoltà materiale e morale, né dalla tristezza del dolore umano (nostra sorte ed eredità su questa terra), come non fu tolta dal cuore di Gesù crocifisso e da quello di sua Madre presso la croce.

In definitiva: perché Gesù fa’ bene a volgere il nostro sguardo agli uccelli del cielo e ai gigli del campo? Non sono queste creature irrazionali? Che paragone può esserci con la nostra libertà?

In effetti, poiché gli animali e i vegetali non sono esseri razionali, non possono disobbedire alla propria specifica “legge naturale”, geneticamente inscritta nel DNA. Ciò consente a Dio di disporre sapientemente ogni cosa in natura, così da assicurare il mirabile equilibrio dell’ecosistema planetario, cui contribuiscono anche le catastrofi naturali. In tal modo biologico, queste ed altre creature non razionali sono comunque per noi un esempio di perfetta conformità alla volontà divina. L’unica causa, infatti, di devastazione/impedimento di tale stupefacente armonia della natura è l’uomo, la cui libertà, usata in disobbedienza al “DNA” della legge naturale che il Creatore gli ha inscritto nell’anima, di fatto ostacola e vanifica la divina Provvidenza verso tutti, impedendo a Dio di essere il Dio della vita, e della vita abbondante (Gv 10,10).

Certo, tale abbondanza non va ricercata sul piano effimero delle cose di questo mondo, ma su quello spirituale della Vita eterna di Dio, a noi comunicata in Cristo. Tale verità fa comprendere che anche il tragico, dolorosissimo destino delle vite innocenti stroncate dal Male (pensiamo ai milioni di uomini concepiti e uccisi in provetta e nel grembo!), mentre ci sforziamo di confidare nel misterioso disegno di Dio che sa trarre il bene anche dal peccato, non vanifica né contraddice la promessa di quella eredità migliore che è la sorte predestinata per ogni uomo concepito: la gioia dell’unione beata con il Dio dell’Amore e della Vita, a partire da questa terra e per sempre.

——-

* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

Benedetto XVI: la Chiesa continua ad essere giovane

dal sito:

http://www.zenit.org/article-23369?l=italian

Benedetto XVI: la Chiesa continua ad essere giovane

Dopo aver visto un film sui primi anni del suo pontificato

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 30 luglio 2010 (ZENIT.org).- Papa Benedetto XVI ha affermato questo giovedì pomeriggio che la Chiesa, “benché soffra tanto”, “non è una Chiesa invecchiata”, ma giovane e piena di gioia.

Lo ha dichiarato dopo la presentazione del film “Cinque anni di Papa Benedetto XVI. Impressioni a Roma e nei viaggi”, che descrive i suoi primi anni di pontificato, opera della Bayerischer Rundfunk, la radio bavarese.

Per il Papa, il film è pieno di momenti commoventi, come “quello nel quale il Signore impose sulle mie spalle il servizio petrino”.

Il papato è “un peso che nessuno potrebbe portare da sé con le sue sole forze, ma lo può portare soltanto perché il Signore ci porta e mi porta”, ha aggiunto.

Benedetto XVI ha sottolineato l’idea dei realizzatori della pellicola di inserire tutto nel contesto della Nona sinfonia di Beethoven, l’Inno alla gioia.

“Abbiamo visto che la Chiesa anche oggi benché soffra tanto, come sappiamo, tuttavia è una Chiesa gioiosa, non è una Chiesa invecchiata, ma abbiamo visto che la Chiesa è giovane e che la fede crea gioia”, ha detto il Vescovo di Roma.

Per questo, l’inno “esprime come dietro tutta la storia ci sia la gioia della nostra redenzione”.

“Ho trovato anche bello che il film finisca con la visita presso la Madre di Dio, che ci insegna l’umiltà, l’obbedienza e la gioia che Dio è con noi”, ha aggiunto.

Nella pellicola, ha affermato il Papa, sono presenti “la ricchezza della vita della Chiesa, la molteplicità delle culture, dei carismi, dei doni diversi che vivono nella Chiesa e come in questa molteplicità e grande diversità vive sempre la stessa, unica, Chiesa”.

“Il primato petrino ha questo mandato di rendere visibile e concreta l’unità, nella molteplicità storica, concreta, nell’unità di presente, passato, futuro e dell’eterno”, ha concluso.

Il film, ricorda “L’Osservatore Romano”, mostra “alcuni momenti significativi della vita quotidiana del Papa in Vaticano, a cominciare dall’Eucaristia che ogni mattina celebra nella cappella privata del Palazzo Apostolico, per finire con la recita del rosario mentre passeggia nei Giardini Vaticani in compagnia dei suoi segretari”.

La panoramica si allarga poi su alcuni viaggi del Pontefice in Italia e all’estero, cominciando da quello a Bari del 29 maggio 2005.

Alla proiezione erano presenti, tra gli altri, il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, gli Arcivescovi Fernando Filoni, sostituto della Segreteria di Stato, e Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati, e padre Federico Lombardi, portavoce della Sala Stampa della Santa Sede.

Prima della proiezione, l’autore e regista Michael Mandlik ha rivolto un breve saluto al Pontefice esprimendo i motivi ispiratori della pellicola, che racconta “i primi cinque anni di pontificato, attraverso scene e immagini che certamente sono rimaste impresse in modo duraturo, e che permettono la visione di un quadro d’insieme, di una composizione, che si è già rivelata molto più complessa, più ampia e al contempo anche più armonica di quanto consentirebbe la semplice visione limitata dei singoli eventi”.

Mandlik ha donato al Papa un frammento di roccia proveniente dallo Zugspitze, il monte più alto della Germania, dove quasi trent’anni fa il Cardinale Ratzinger consacrò la cappella Maria Heimsuchung.

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buona notte

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Red Valerian

http://www.floralimages.co.uk/index2.htm

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Omelia per il 31 luglio 2010

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/15768.html

Monaci Benedettini Silvestrini
Costui è Giovanni, il Battista

La liturgia di oggi ci propone una delle pagine più crudeli del Vangelo: il martirio di Giovanni Battista. Il precursore del Signore lo anticipa anche con l’effusione del sangue in nome della verità. Il suo coraggio è premiato con la corona gloriosa del martirio. La difesa dei valori fondamentali della vita non può ammettere compromessi. E’ duro, per noi applicare fino in fondo questa legge. Siamo tentati a considerare questo episodio con un brillante esempio della vita di un santo ma che è lontano dalla nostra vita. Volgiamo invece l’attenzione di Erode, che sembra riluttante ad essere complice di quello che è un omicidio eppure compie un gesto obbrobrioso. Erode, senza rendersene conto, è costretto però, costretto ad accettare il martirio di Giovanni non solo dal desiderio di vendetta di Erodìade; è proprio la sua condotta di vita che lo conduce inesorabilmente a scelte drammatiche. E’ qui l’insegnamento anche per noi, in tutte le situazioni della vita e non necessariamente così estreme. E’ l’invito a considerare sempre la nostra condotta di vita piuttosto che colpevolizzare sempre «gli altri» per scelte che sentiamo non conformi alla vera giustizia. Cerchiamo di vedere quanto effettivamente noi siamo costretti a subire i condizionamenti esterni o piuttosto non siamo sempre alla ricerche di scusanti per i nostri atteggiamenti. 

Catechismo della Chiesa Cattolica : Il martirio di Giovanni Battista, testimonianza alla verità

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100731

Sabato della XVII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 14,1-12
Meditazione del giorno
Catechismo della Chiesa Cattolica – Copyright © Libreria Editrice Vaticana
§ 2471-2474

Il martirio di Giovanni Battista, testimonianza alla verità

        Davanti a Pilato, Cristo proclama di essere « venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità » (Gv 18, 37). Il cristiano non deve vergognarsi « della testimonianza da rendere al Signore » (2 Tm 1, 8). Nelle situazioni in cui si richiede che si testimoni la fede, il cristiano ha il dovere di professarla senza equivoci, come ha fatto san Paolo davanti ai suoi giudici. Il credente deve « conservare una coscienza irreprensibile davanti a Dio e davanti agli uomini » (At 24, 16).

        Il dovere dei cristiani di prendere parte alla vita della Chiesa li spinge ad agire come testimoni del Vangelo e degli obblighi che ne derivano. Tale testimonianza è trasmissione della fede in parole e opere. La testimonianza è un atto di giustizia che comprova o fa conoscere la verità. Tutti i cristiani, dovunque vivono, sono tenuti a manifestare con l’esempio della vita e con la testimonianza della parola l’uomo nuovo, che hanno rivestito col Battesimo, e la forza dello Spirito Santo, dal quale sono stati rinvigoriti con la Confermazione (Vaticano II).

        Il martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede ; il martire è un testimone che arriva fino alla morte. Egli rende testimonianza a Cristo, morto e risorto, al quale è unito dalla carità. Rende testimonianza alla verità della fede e della dottrina cristiana. Affronta la morte con un atto di fortezza …

        Con la più grande cura la Chiesa ha raccolto i ricordi di coloro che, per testimoniare la fede, sono giunti sino alla fine. Si tratta degli Atti dei Martiri. Costituiscono gli archivi della Verità scritti a lettere di sangue :… « Ti benedico per avermi giudicato degno di questo giorno e di quest’ora, degno di essere annoverato tra i tuoi martiri… Tu hai mantenuto la tua promessa, o Dio della fedeltà e della verità. Per questa grazia e per tutte le cose, ti lodo, ti benedico, ti rendo gloria per mezzo di Gesù Cristo, sacerdote eterno e onnipotente, Figlio tuo diletto. Per lui, che vive e regna con te e con lo Spirito, sia gloria a te, ora e nei secoli dei secoli. Amen » (San Policarpo).

Sant’Ignazio da Loyola

 

Sant'Ignazio da Loyola dans Santi

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 30 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

31 luglio: Sant’ Ignazio di Loyola Sacerdote (m)

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/23800

Sant’ Ignazio di Loyola Sacerdote

31 luglio
 
Azpeitia, Spagna, c. 1491 – Roma, 31 luglio 1556

Il grande protagonista della Riforma cattolica nel XVI secolo, nacque ad Azpeitia, un paese basco, nel 1491. Era avviato alla vita del cavaliere, la conversione avvenne durante una convalescenza, quando si trovò a leggere dei libri cristiani. All’abbazia benedettina di Monserrat fece una confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi e fece voto di castità perpetua. Nella cittadina di Manresa per più di un anno condusse vita di preghiera e di penitenza; fu qui che vivendo presso il fiume Cardoner decise di fondare una Compagnia di consacrati. Da solo in una grotta prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che successivamente rielaborate formarono i celebri Esercizi Spirituali. L’attività dei Preti pellegrini, quelli che in seguito saranno i Gesuiti, si sviluppa un po’in tutto il mondo. Il 27 settembre 1540 papa Paolo III approvò la Compagnia di Gesù. Il 31 luglio 1556 Ignazio di Loyola morì. Fu proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV. (Avvenire)

Etimologia: Ignazio = di fuoco, igneo, dal latino
Emblema: IHS (monogramma di Cristo)

Martirologio Romano: Memoria di sant’Ignazio di Loyola, sacerdote, che, nato nella Guascogna in Spagna, visse alla corte del re e nell’esercito, finché, gravemente ferito, si convertì a Dio; compiuti gli studi teologici a Parigi, unì a sé i primi compagni, che poi costituì nella Compagnia di Gesù a Roma, dove svolse un fruttuoso ministero, dedicandosi alla stesura di opere e alla formazione dei discepoli, a maggior gloria di Dio.

Il primo scritto che racconta la vita, la vocazione e la missione di s. Ignazio, è stato redatto proprio da lui, in Italia è conosciuto come “Autobiografia”, ed egli racconta la sua chiamata e la sua missione, presentandosi in terza persona, per lo più designato con il nome di “pellegrino”; apparentemente è la descrizione di lunghi viaggi o di esperienze curiose e aneddotiche, ma in realtà è la descrizione di un pellegrinaggio spirituale ed interiore.
Il grande protagonista della Riforma cattolica nel XVI secolo, nacque ad Azpeitia un paese basco, nell’estate del 1491, il suo nome era Iñigo Lopez de Loyola, settimo ed ultimo figlio maschio di Beltran Ibañez de Oñaz e di Marina Sanchez de Licona, genitori appartenenti al casato dei Loyola, uno dei più potenti della provincia di Guipúzcoa, che possedevano una fortezza padronale con vasti campi, prati e ferriere.
Iñigo perse la madre subito dopo la nascita, ed era destinato alla carriera sacerdotale secondo il modo di pensare dell’epoca, nell’infanzia ricevé per questo anche la tonsura.
Ma egli ben presto dimostrò di preferire la vita del cavaliere come già per due suoi fratelli; il padre prima di morire, nel 1506 lo mandò ad Arévalo in Castiglia, da don Juan Velázquez de Cuellar, ministro dei Beni del re Ferdinando il Cattolico, affinché ricevesse un’educazione adeguata; accompagnò don Juan come paggio, nelle cittadine dove si trasferiva la corte allora itinerante, acquisendo buone maniere che tanto influiranno sulla sua futura opera.
Nel 1515 Iñigo venne accusato di eccessi d’esuberanza e di misfatti accaduti durante il carnevale ad Azpeitia e insieme al fratello don Piero, subì un processo che non sfociò in sentenza, forse per l’intervento di alti personaggi; questo per comprendere che era di temperamento focoso, corteggiava le dame, si divertiva come i cavalieri dell’epoca.
Morto nel 1517 don Velázquez, il giovane Iñigo si trasferì presso don Antonio Manrique, duca di Najera e viceré di Navarra, al cui servizio si trovò a combattere varie volte, fra cui nell’assedio del castello di Pamplona ad opera dei francesi; era il 20 maggio 1521, quando una palla di cannone degli assedianti lo ferì ad una gamba.
Trasportato nella sua casa di Loyola, subì due dolorose operazioni alla gamba, che comunque rimase più corta dell’altra, costringendolo a zoppicare per tutta la vita.
Ma il Signore stava operando nel plasmare l’anima di quell’irrequieto giovane; durante la lunga convalescenza, non trovando in casa libri cavallereschi e poemi a lui graditi, prese a leggere, prima svogliatamente e poi con attenzione, due libri ingialliti fornitagli dalla cognata.
Si trattava della “Vita di Cristo” di Lodolfo Cartusiano e la “Leggenda Aurea” (vita di santi) di Jacopo da Varagine (1230-1298), dalla meditazione di queste letture, si convinse che l’unico vero Signore al quale si poteva dedicare la fedeltà di cavaliere era Gesù stesso.
Per iniziare questa sua conversione di vita, decise appena ristabilito, di andare pellegrino a Gerusalemme dove era certo, sarebbe stato illuminato sul suo futuro; partì nel febbraio 1522 da Loyola diretto a Barcellona, fermandosi all’abbazia benedettina di Monserrat dove fece una confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi vestendo quelli di un povero e fece il primo passo verso una vita religiosa con il voto di castità perpetua.
Un’epidemia di peste, cosa ricorrente in quei tempi, gl’impedì di raggiungere Barcellona che ne era colpita, per cui si fermò nella cittadina di Manresa e per più di un anno condusse vita di preghiera e di penitenza; fu qui che vivendo poveramente presso il fiume Cardoner “ricevé una grande illuminazione”, sulla possibilità di fondare una Compagnia di consacrati e che lo trasformò completamente.
In una grotta dei dintorni, in piena solitudine prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che successivamente rielaborate formarono i celebri “Esercizi Spirituali”, i quali costituiscono ancora oggi, la vera fonte di energia dei Gesuiti e dei loro allievi.
Arrivato nel 1523 a Barcellona, Iñigo di Loyola, invece di imbarcarsi per Gerusalemme s’imbarcò per Gaeta e da qui arrivò a Roma la Domenica delle Palme, fu ricevuto e benedetto dall’olandese Adriano VI, ultimo papa non italiano fino a Giovanni Paolo II.
Imbarcatosi a Venezia arrivò in Terrasanta visitando tutti i luoghi santificati dalla presenza di Gesù; avrebbe voluto rimanere lì ma il Superiore dei Francescani, responsabile apostolico dei Luoghi Santi, glielo proibì e quindi ritornò nel 1524 in Spagna.
Intuì che per svolgere adeguatamente l’apostolato, occorreva approfondire le sue scarse conoscenze teologiche, cominciando dalla base e a 33 anni prese a studiare grammatica latina a Barcellona e poi gli studi universitari ad Alcalà e a Salamanca.
Per delle incomprensioni ed equivoci, non poté completare gli studi in Spagna, per cui nel 1528 si trasferì a Parigi rimanendovi fino al 1535, ottenendo il dottorato in filosofia.
Ma già nel 1534 con i primi compagni, i giovani maestri Pietro Favre, Francesco Xavier, Lainez, Salmerón, Rodrigues, Bobadilla, fecero voto nella Cappella di Montmartre di vivere in povertà e castità, era il 15 agosto, inoltre promisero di recarsi a Gerusalemme e se ciò non fosse stato possibile, si sarebbero messi a disposizione del papa, che avrebbe deciso il loro genere di vita apostolica e il luogo dove esercitarla; nel contempo Iñigo latinizzò il suo nome in Ignazio, ricordando il santo vescovo martire s. Ignazio d’Antiochia.
A causa della guerra fra Venezia e i Turchi, il viaggio in Terrasanta sfumò, per cui si presentarono dal papa Paolo III (1534-1549), il quale disse: “Perché desiderate tanto andare a Gerusalemme? Per portare frutto nella Chiesa di Dio l’Italia è una buona Gerusalemme”; e tre anni dopo si cominciò ad inviare in tutta Europa e poi in Asia e altri Continenti, quelli che inizialmente furono chiamati “Preti Pellegrini” o “Preti Riformati” in seguito chiamati Gesuiti.
Ignazio di Loyola nel 1537 si trasferì in Italia prima a Bologna e poi a Venezia, dove fu ordinato sacerdote; insieme a due compagni si avvicinò a Roma e a 14 km a nord della città, in località ‘La Storta’ ebbe una visione che lo confermò nell’idea di fondare una “Compagnia” che portasse il nome di Gesù.
Il 27 settembre 1540 papa Polo III approvò la Compagnia di Gesù con la bolla “Regimini militantis Ecclesiae”.
L’8 aprile 1541 Ignazio fu eletto all’unanimità Preposito Generale e il 22 aprile fece con i suoi sei compagni, la professione nella Basilica di S. Paolo; nel 1544 padre Ignazio, divenuto l’apostolo di Roma, prese a redigere le “Costituzioni” del suo Ordine, completate nel 1550, mentre i suoi figli si sparpagliavano per il mondo.
Rimasto a Roma per volere del papa, coordinava l’attività dell’Ordine, nonostante soffrisse dolori lancinanti allo stomaco, dovuti ad una calcolosi biliare e a una cirrosi epatica mal curate, limitava a quattro ore il sonno per adempiere a tutti i suoi impegni e per dedicarsi alla preghiera e alla celebrazione della Messa.
Il male fu progressivo limitandolo man mano nelle attività, finché il 31 luglio 1556, il soldato di Cristo, morì in una modestissima camera della Casa situata vicina alla Cappella di Santa Maria della Strada a Roma.
Fu proclamato beato il 27 luglio 1609 da papa Paolo V e proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV.
Si completa la scheda sul Santo Fondatore, colonna della Chiesa e iniziatore di quella riforma coronata dal Concilio di Trento, con una panoramica di notizie sul suo Ordine, la “Compagnia di Gesù”.
Le “Costituzioni” redatte da s. Ignazio fissano lo spirito della Compagnia, essa è un Ordine di “chierici regolari” analogo a quelli sorti nello stesso periodo, ma accentuante anche nella denominazione scelta dal suo Fondatore, l’aspetto dell’azione militante al servizio della Chiesa.
La Compagnia adattò lo spirito del monachesimo, al necessario dinamismo di un apostolato da svolgersi in un mondo in rapida trasformazione spirituale e sociale, com’era quello del XVI secolo; alla stabilità della vita monastica sostituì una grande mobilità dei suoi membri, legati però a particolari obblighi di obbedienza ai superiori e al papa; alle preghiere del coro sostituì l’orazione mentale.
Considerò inoltre essenziale la preparazione e l’aggiornamento culturale dei suoi membri. È governata da un “Preposito generale”.
I gradi della formazione dei sacerdoti gesuiti, comprendono due anni di noviziato, gli aspiranti sono detti ‘scolastici’, gli studi approfonditi sono inframezzati dall’ordinazione sacerdotale (solitamente dopo il terzo anno di filosofia), il giovane gesuita verso i 30 anni diventa professo ed emette i tre voti solenni di povertà, castità e obbedienza, più in quarto voto di obbedienza speciale al papa; accanto ai ‘professi’ vi sono i “coadiutori spirituali” che emettono soltanto i tre voti semplici.
Non c’è un ramo femminile né un Terz’Ordine. La spiritualità della Compagnia si basa sugli ‘Esercizi Spirituali’ di s. Ignazio e si contraddistingue per l’abbandono alla volontà di Dio espresso nell’assoluta obbedienza ai superiori; in una profonda vita interiore alimentata da costanti pratiche spirituali, nella mortificazione dell’egoismo e dell’orgoglio; nello zelo apostolico; nella totale fedeltà alla Santa Sede.
I Gesuiti non possono possedere personalmente rendite fisse, consentite solo ai Collegi e alle Case di formazione; i professi fanno anche il voto speciale di non aspirare a cariche e dignità ecclesiastiche.
Come attività, in origine la Compagnia si presentava come un gruppo missionario a disposizione del pontefice e pronto a svolgere qualsiasi compito questi volesse affidargli per la “maggior gloria di Dio”.
Quindi svolsero attività prevalentemente itinerante, facendo fronte alle più urgenti necessità di predicazione, di catechesi, di cura di anime, di missioni speciali, di riforma del clero, operante nella Controriforma e nell’evangelizzazione dei nuovi Paesi (Oriente, Africa, America).
Nel 1547, s. Ignazio affidò alla sua Compagnia, un ministero inizialmente non previsto, quello dell’insegnamento, che diventò una delle attività principali dell’Ordine e uno dei principali strumenti della sua diffusione e della sua forza, lo testimoniano i prestigiosi Collegi sparsi per il mondo.
Alla morte di s. Ignazio, avvenuta come già detto nel 1556, la Compagnia contava già mille membri e nel 1615, con la guida dei vari Generali succedutisi era a 13.000 membri, diffondendosi in tutta Europa, subendo anche i primi martiri (Campion, Ogilvie, in Inghilterra).
Ma soprattutto ebbe un’attività missionaria di rilievo iniziata nel 1541 con s. Francesco Xavier, inviato in India e nel Giappone, dove i successivi gesuiti subirono come gli altri missionari, sanguinose persecuzioni.
Più duratura fu la loro opera in Cina con padre Matteo Ricci (1552-1610) e in America Meridionale, specie in Brasile, con le famose ‘riduzioni’. Più sfortunata fu l’opera dei Gesuiti in America Settentrionale, in cui furono martiri i santi Giovanni de Brebeuf, Isacco Jogues, Carlo Garnier e altri cinque missionari.
Col passare del tempo, nei secoli XVII e XVIII i Gesuiti con la loro accresciuta potenza furono al centro di dispute dottrinarie e di violenti conflitti politico-ecclesiatici, troppo lunghi e numerosi da descrivere in questa sede; che alimentarono l’odio di tanti movimenti antireligiosi e l’astio dei Domenicani, dei sovrani dell’epoca e dei parlamentari e governi di vari Stati.
Si arrivò così allo scioglimento prima negli Stati di Portogallo, Spagna, Napoli, Parma e Piacenza e infine sotto la pressione dei sovrani europei, anche allo scioglimento totale della Compagnia di Gesù nel 1773, da parte di papa Clemente XIV.
I Gesuiti però sopravvissero in Russia sotto la protezione dell’imperatrice Caterina II; nel 1814 papa Pio VII diede il via alla restaurazione della Compagnia.
Da allora i suoi membri sono stati sempre presenti nelle dispute morali, dottrinarie, filosofiche, teologiche e ideologiche, che hanno interessato la vita morale e istituzionale della società non solo cattolica.
Nel 1850 sorse la prestigiosa e diffusa rivista “La Civiltà Cattolica”, voce autorevole del pensiero della Compagnia; altre espulsioni si ebbero nel 1880 e 1901 interessanti molti Stati europei e sud americani.
Nell’annuario del 1966 i Gesuiti erano 36.000, divisi in 79 province nel mondo e 77 territori di missione. In una statistica aggiornata al 2002, la Compagnia di Gesù annovera tra i suoi figli 49 Santi di cui 34 martiri e 147 Beati di cui 139 martiri; a loro si aggiungono centinaia di Servi di Dio e Venerabili, avviati sulla strada di un riconoscimento ufficiale della loro santità o del loro martirio.
L’alto numero di martiri, testimonia la vocazione missionaria dei Gesuiti, votati all’affermazione della ‘maggior gloria di Dio’, nonostante i pericoli e le persecuzioni a cui sono andati incontro, sin dalla loro fondazione.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:Santi, santi: biografia |on 30 juillet, 2010 |Pas de commentaires »

L’uomo di fronte al male (di Bruno Forte)

dal sito:

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L’uomo di fronte al male (di Bruno Forte)

La ricerca di una speranza dalla filosofia  alla letteratura

Nella serata di giovedì 29 gennaio al Teatro Argentina di Roma si svolge un colloquio  organizzato dall’Ufficio di pastorale universitaria del Vicariato. Al tavolo dei relatori Pierluigi Celli, direttore generale dell’università Luiss Guido Carli, e l’arcivescovo di Chieti-Vasto. Dell’intervento di quest’ultimo anticipiamo ampi stralci.
di Bruno Forte
Di fronte al male si misura l’impotenza dell’uomo, la condizione tragica del suo esistere. Tragico è il non poter fare il bene che vorremmo e il non riuscire a impedire il male. L’apostolo Paolo ha descritto con incisività la condizione tragica dell’essere umano sfidato dal male nel capitolo settimo della Lettera ai Romani:  è la condizione dell’”io”, impotente di fronte al bene che non fa e al male che fa.
Per Paolo è questa impotenza che il Figlio di Dio ha fatto propria, per la forza di un amore senza misura, grazie al quale il tragico viene a essere accolto negli abissi della divinità. È l’inquietante rivelazione di Romani:  Dio “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi” (8, 32), costruita sul modello del sacrificio che Abramo si dispone a fare del suo figlio amato, Isacco (Genesi, 22).
Abissalmente proiettato in Dio, il tragico è abitato dal suo Spirito, i cui gemiti – descritti in Romani – segnalano la distanza fra il male presente e il promesso bene, fra l’esperienza e l’attesa. Il tragico in Dio diventa così la vera rivelazione di ciò che siamo:  solo grazie a questa rivelazione è possibile percepire in tutta la sua tragicità la contingenza del mondo.
Proprio così, però, la redenzione è possibile:  se Dio abita l’impotenza, questa è redenta. Solo l’infinita compassione riscatta la scena di questo mondo che passa, senza indebolirne la contingenza, esaltandola anzi nella sua dignità perché fatta propria dal Redentore.
Un’attenta lettura della Lettera ai Romani dimostra che il messaggio cristiano è tutt’altro che la distruzione del tragico attraverso un moralismo a buon mercato, bensì l’evoluzione del tragico nella condizione stessa di quanti sperimentano la debolezza e la sofferenza, pur essendo stati giustificati per la loro adesione a Cristo.
Il tragico cristiano coinvolge non soltanto il Figlio, ma anche Dio che non lo ha risparmiato per noi, e lo Spirito che condivide il nostro gemito e quello di tutta la creazione. Solo un Dio che abita la tragicità porta in essa la buona novella della grazia:  solo il Dio umano, che si carica del peso del male che devasta la terra, può liberarci e liberare il mondo.
Il male è stato assunto in Dio, l’unico che così poteva vincerlo. Questo dice la Lettera ai Romani, di così bruciante attualità di fronte al nostro presente e alla sua condizione di naufragio, che non cerca salvatori a buon mercato, ma una prossimità altra e profonda capace di restituire il senso del cammino comune. È Paolo a dirci che in Cristo Dio si è fatto compagno del dolore umano, e proprio così fondamento della speranza possibile:  in questa “follia” il suo messaggio.
Nel paradosso di questo “vangelo tragico” sta tutta la sua provocatoria attualità:  è qui che la speranza cristiana si mostra per quello che è, non evasione consolatoria, ma anticipazione militante dell’avvenire entrato in questo mondo nel Figlio, che ha abitato il nostro dolore, il male che ci ferisce e la morte.
Alla condizione “tragica” dell’esistere umano ha dedicato la sua attenzione più alta Fëdor Dostoevskij:  scavando nelle profondità del cuore umano, da vero “psicologo del sottosuolo”, egli ne scopre le ambiguità strutturali, l’abisso dei “doppi pensieri”. “Chiunque sia passato per Dostoevskij e abbia sofferto con lui – afferma Nikolaj Berdjaev – ha conosciuto il mistero dello sdoppiamento, ha ottenuto la conoscenza degli opposti, si è armato nella lotta contro il male di una nuova potentissima arma, la conoscenza del male”.
E proprio in questo Dostoevskij è cristiano, in quanto unisce in maniera inseparabile, e al tempo stesso carica di eccezionale tensione, il problema di Dio e il problema dell’uomo, che solo nel cristianesimo si sono incontrati fino all’abissale esperienza del Dio crocifisso nelle tenebre del Venerdì Santo:  “Dostoevskij è lo scrittore più cristiano in quanto al centro della sua opera c’è sempre l’uomo, l’amore umano e la rivelazione dell’anima umana. Egli stesso è la rivelazione del cuore dell’essere umano, del cuore di Gesù”.
Pellegrino nei meandri dello spirito, Dostoevskij ne esprime la radicale e costitutiva ambiguità. Attraverso paradossi spinti fino all’estremo, in cui esercita tutta la sua potenza di negazione, egli scopre la tragicità dell’esistenza nel suo essere permanentemente assediata dal nichilismo:  il nulla fascia lo spirito nella sua conoscenza del vero, nella sua volontà del bene, nel suo sentimento del bello.
Lungo le vie della conoscenza del vero, la questione del male si presenta come la sfida alla fede in un Dio, che sia la verità eterna e assoluta del mondo. Il ragionamento è stringente, terribile:  se Dio esiste, l’orrore del male che devasta la terra è senza fine. Ma questo orrore è infinito:  dunque, Dio esiste.
Al tempo stesso però l’argomento si rovescia nel suo contrario:  se Dio esiste, non può essere ammesso l’orrore di un male infinito. Ma questo orrore c’è:  dunque, Dio non esiste. Dal paradosso non si esce che per una radicale conversione del concetto di Dio:  solo se Dio fa sua la sofferenza infinita del mondo abbandonato al male, solo se egli entra nelle tenebre più fitte della miseria umana, il dolore è redento ed è vinta la morte.
Questo è avvenuto sulla Croce del Figlio:  perciò Cristo è la verità, alternativa alle presunte verità che la ragione è capace di costruirsi con le sue dimostrazioni. La “singolarità del Vero”, la verità incarnata in un Singolo, identificata con la sua persona, è quanto di più lontano possa esserci rispetto a un pensiero euclideo.
È quanto Dostoevskij sceglie, precisamente in alternativa all’esito nichilista della metafisica occidentale:  “Se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo, anziché con la verità”.
La verità che dà ragione di tutto e tutto organizza in un’armonia universale, l’”apoteosi della conoscenza” di cui parla Ivan Karamazov, non vale il suo prezzo:  al Dio di questa verità lo stesso Ivan non esita a restituire il biglietto d’ingresso nel suo regno. Solo la verità che è passata attraverso il fuoco della negazione e si è lasciata lambire dal nulla, solo quella verità salverà il mondo:  è la risposta di Alësa a Ivan. “Fratello (…) tu mi hai chiesto dianzi se esiste in tutto il mondo un essere che possa perdonare e abbia il diritto di farlo. Ma questo essere c’è, e lui può perdonare tutto, tutti, e per tutti, perché lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto”.
Solo dal suo interno, insomma, il nichilismo si lascia confutare:  dalle tenebre del Venerdì Santo, dove Dio soffre e muore per amore del mondo, è possibile proclamare la vittoria della vita, perché quella morte è la morte della morte. Il Dio che è morto non è che la verità concepita metafisicamente come ragione e fondamento del mondo, garante di questa totalità, tutta pervasa dall’orrore dell’infinita sofferenza umana.
Sta qui appunto la tragicità ineliminabile dalla conoscenza del vero:  non si arriva alla luce che attraverso la croce; non si entra nella vita che conoscendo la morte. Perciò la fede deve passare nel travaglio del dubbio, l’affermazione nella notte della negazione, e la verità farsi strada nello scandalo e nelle tenebre più fitte, dove ci aspetta il Dio vivo. Anche per questo “è terribile cadere nelle mani del Dio vivente” (Ebrei, 10, 31).
La tragicità dell’esistenza umana si affaccia non di meno sul piano etico:  la dignità del patire – che pure appare fra le forme più alte di purificazione e di accesso al bene – si rivela anch’essa ambigua all’uomo del sottosuolo! Egli non esita a smascherare le torbide delizie e l’equivocità della volontà, che si accompagnano tanto spesso alla sofferenza:  “Il godimento proveniva dalla troppo chiara coscienza che avevo della mia bassezza (…) non c’era scampo, non potevo diventare un altro uomo:  che se anche fossero rimasti ancora tempo e fede per trasformarmi in qualche cosa di diverso, io non avrei potuto mutarmi”.
Ma è appunto in questa affermazione tragica di sé, nutrita dei godimenti più ardenti della disperazione, che il nulla s’affaccia:  “Noi siamo nati morti, e già da molto nasciamo da padri che non sono vivi; e ciò ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto”.
Ed è qui che la volontà di vivere impone un rovesciamento morale, un atto coraggioso, che si esprime in un’etica della decisione. L’alternativa è fra l’abbandonarsi al nulla e il reagire. Ma essa può porsi soltanto a chi ha toccato il fondo disperante del nichilismo:  è lì che l’espiazione diventa possibile, precisamente per chi si pone davanti al Dio entrato nell’abisso, come compagno del dolore umano e insieme supremo e misericordioso giudice del peccato del mondo. Solo chi accetta di fare compagnia alla sofferenza di Dio di fronte al male per amore del mondo, può sperare di vincere il male.
È infine sulla via del sentimento, che anela alla gioia e alla bellezza, che si sperimenta la tragicità dell’esistenza umana e possibilità di una via di uscita:  pochi, come Dostoevskij, hanno percepito la rilevanza del piano estetico in ordine alla redenzione del mondo. È al principe Myskin – il protagonista de L’idiota, enigmatica figura dell’innocente che soffre per amore del mondo – che il giovane nichilista Ippolit pone la domanda:
“È vero, principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza?”. E il giovane – condannato a morte dalla tisi – si sente in diritto di aggiungere: “Quale bellezza salverà il mondo?”.
Lo spettacolo della sofferenza è tale che nessuna redenzione può essere cercata nella direzione di un’armonica conciliazione, che salti sullo scandalo del dolore del mondo. Ecco perché la bellezza deve essere altra rispetto a tutti i sogni e i desideri possibili di armonia:  senza passare attraverso la sua negazione – che è lo scandaloso spettacolo del male che copre la terra – nessuna bellezza potrà salvarsi e salvare.
Ed ecco che è proprio l’avvicinarsi della fine che rivela la bellezza nascosta:  il tempo rimanda all’eternità proprio perché passa con tanta, inesorabile fugacità. Solo la morte conferisce all’attimo la profondità di una totalità e di un’eternità raggiunte:  solo se ci si approssima al nulla del morire si percepisce la meraviglia del tempo, la gioia della vita.
Anche la bellezza si offre allora nel segno dell’ambiguità, sulla frontiera fra l’essere e il nulla, carica di un’aura tragica:  “La bellezza – dice Dmitrij Karamazov – è una cosa terribile e paurosa, perché è indefinibile, e definirla non si può, perché Dio non ci ha dato che enigmi. Qui le due rive si uniscono, qui tutte le contraddizioni coesistono (…)
La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”. Solo alla fine la bellezza si manifesterà vittoriosa:  “Quando sarà passato il presente e sarà venuto il futuro, allora il futuro artista troverà forme bellissime anche per la rappresentazione del trascorso disordine e caos”.
Nel presente resta aperto verso la bellezza l’approccio della conversione del cuore, del “dono delle lacrime”, di cui parla lo starec Zosima:  “La natura è bella e innocente, solo noi siamo empi e sciocchi, e non vediamo che la vita è un paradiso! Perché basterebbe che noi volessimo capire, e subito avremmo il paradiso in tutta la sua bellezza, e allora ci abbracceremmo piangendo”.
Il piano del vero si congiunge così a quello del bene, e questo alla ricerca della bellezza. Se è la decisione di fede che apre alla singolarità del vero, rivelata nel Dio crocifisso, la via della verità si incontra con quella della decisione morale; e se è la conversione del cuore che apre al riconoscimento della bellezza che salva, la via estetica si congiunge a quella etica.
La rilevanza della dimensione morale emerge in primo piano:  in realtà è proprio in essa che si gioca più intensamente il conflitto fra nichilismo e redenzione. Ed è qui che si rivela il livello più profondo della tragicità dell’esistenza umana, quello che maggiormente è in gioco nell’eticità dell’atto:  il livello della libertà.
In questo senso, la Leggenda del grande inquisitore è il grande apologo dell’eterno conflitto che rende tragica la vita umana:  il conflitto fra l’audacia della libertà e la tentazione rassicurante della rinuncia a essa. Il cardinale inquisitore di cui narra la Leggenda è la figura di chi ha sacrificato la libertà alla felicità; il Cristo, che gli sta davanti come imputato, è invece il paladino della libertà a prezzo anche della felicità.
Il conflitto fra i due è insanabile:  essi rappresentano l’alternativa radicale che si annida nel cuore di ogni uomo. Fra le due opzioni non c’è via di mezzo, soluzione conciliatoria:  l’aut aut è senza remissione, totale. Ecco perché è in ultima analisi nel mistero del Dio crocifisso che la profonda tragicità dell’esistenza umana è rivelata e redenta:  se Dio ha fatto sua la morte, pagando fino in fondo il prezzo della libertà, la via della croce resterà per sempre su questa terra la via della libertà. E, proprio perché l’amaro calice è stato bevuto fino all’ultima goccia dal Figlio eterno, sarà questa anche la via che porterà alla vita.
Della tragicità dell’esistenza sfidata dal male è consapevole anche un genio speculativo come Immanuel Kant. Nel rigore della sua onestà intellettuale egli non esita a riconoscere le aporie della ragione:  idee, ad esempio, come quelle di Dio e della vita futura, non suscettibili di dimostrazione per via speculativa, costituiscono per lui presupposti inseparabili degli obblighi morali che la ragione ci impone.
Ciò che viene a mostrarsi nell’opera sulla religione entro i limiti della semplice ragione è però tutt’altro che la constatazione pacifica del limite della ragione, quanto piuttosto il quadro di una lotta, il disegno di quelle che potrebbero definirsi le “agonie della ragione” lungo il cammino della libertà:  “La lotta che in questa vita ogni uomo moralmente predisposto al bene deve sostenere, sotto la guida del principio buono, contro gli assalti del principio cattivo, non può procurargli, per quanto si sforzi, un vantaggio maggiore della liberazione dal dominio del principio cattivo. Il guadagno più alto che egli può raggiungere è quello di diventare libero, “di essere liberato dalla schiavitù del peccato per vivere nella giustizia” (Romani, 6, 17).
Nondimeno, l’uomo resta pur sempre esposto agli attacchi del principio cattivo, e per conservare la propria libertà, costantemente minacciata, è necessario che egli resti sempre armato e pronto alla lotta”.
In questo quadro, “quello che meraviglia non è che il filosofo prenda in generale in seria considerazione il male (…) bensì il fatto che egli parli di un principio malvagio, e dunque di una origine del male nella ragione e in questo senso di un male radicale”. “Radicale” è tale male “perché corrompe il fondamento di tutte le massime e a un tempo perché, essendo una tendenza naturale, non può essere sradicato da forze umane”.
Il fondamento del male radicale è presentato da Kant come in qualche modo intrecciato con l’umanità stessa e, per così dire, radicato in essa. Al tempo stesso Kant muove dalla considerazione che non può darsi male morale senza libertà:  il fondamento del male, allora, “dev’essere necessariamente un atto di libertà”.
Ciò che emerge è una vera e propria aporia:  come può la libertà essere al tempo stesso la fonte della moralità e il luogo e principio della sua negazione? È giocoforza cercare la causa altrove, fuori del soggetto. Lo ammette lo stesso Kant:  “Risulta facile capire come dei filosofi, poco inclini ad ammettere un principio esplicativo eternamente avvolto nell’oscurità (ma indispensabile), abbiano potuto misconoscere il vero avversario del bene, pur credendo di combatterlo”.
Quest’avversario  il  pensatore  di Königsberg non esita a chiamarlo Spirito maligno (böser Geist), ricorrendo per descriverlo alle parole dell’apostolo Paolo lì dove egli presenta la condizione umana come lotta contro i principati e le potestà. A presentare il principe di questo mondo, il Satana, quale coprotagonista del dramma del male, è dunque il razionalissimo Kant.
Lontano da ogni spirito illuministico accecato, il filosofo descrive con rara efficacia la tragicità della condizione umana facendo ricorso a Paolo:  “La fragilità della natura umana ha trovato espressione anche nel lamento dell’apostolo:  “Io ho senz’altro la volontà, ma mi manca l’esecuzione” (cfr. Romani,in thesi), è un movente invincibile – soggettivamente (in hypothesi), quando la massima dev’essere applicata, è invece il movente più debole (nei confronti dell’inclinazione)”. 7, 18); vale a dire:  io accolgo il bene (la legge) nella massima del mio arbitrio, ma questo bene – che oggettivamente, nell’idea (
Le sorprese, però, non finiscono qui:  l’alterità irriducibile e inspiegabile che si affaccia nel volto conturbante del male radicale, proprio a partire da questa esperienza si affaccia anche in un altro volto, quello della grazia del Dio onnipotente e misericordioso. La domanda che porta Kant a riconoscere quest’altra forma dell’esperienza dell’Altro è l’antica domanda della salvezza, che nasce dalla conoscenza del male:  come essere liberati dal principio maligno?
La risposta del filosofo si muove all’interno della tradizione teologica cristiana:  “Se in virtù di quel bene che è nella fede siamo esonerati da ogni responsabilità, ciò avviene sempre e soltanto per un decreto di grazia pienamente conforme alla giustizia eterna”. La formulazione che Kant dà all’idea della giustificazione per fede giunge a identificarsi alla lettera con quella della più pura ortodossia luterana:  “Certo, si tratterà pur sempre di una giustizia che non è la nostra”.
Non mancano, però, passi in cui la sintonia con la teologia cattolica della giustificazione sembra evidente:  “La ragione non ci lascia del tutto senza consolazione. Essa ci dice infatti che l’uomo che, animato da una sincera intenzione verso il dovere, fa tutto il possibile per adempiere ai propri obblighi (…) può lecitamente sperare che quanto non è in suo potere verrà in qualche modo completato dalla saggezza suprema”. Lo stesso Barth, riscontrando l’ambivalenza delle posizioni, conclude che Kant risulta più vicino all’anima cattolica, che a quella protestante del cristianesimo.
Al di là dell’interesse teologico che queste tesi comportano, ciò che le rende significative è che esse fanno proprio dell’etica senza trascendenza di Kant la testimonianza dell’impossibilità di una simile etica:  mai si affronterà il male e lo si potrà superare senza la presenza dell’Altro, trascendente e sovrano! Negli abissi della stessa forma “a priori” della moralità – il mondo dell’arbitrio libero e della legge morale – è innegabile la presenza conturbante di un’alterità negativa, cui Kant riconosce la dignità di “princi”.
Proprio l’esperienza e il riconoscimento di questo “male radicale” appellano a un più grande bene, che non può esser frutto solo della carne e del sangue, ma viene da altrove. Le kantiane “agonie della ragione” sono così una sorta di prova sub contraria specie della necessità ineliminabile della trascendenza per la vittoria sul male in questo mondo. Il “razionalista puro” in campo etico-religioso riconosce nelle “agonie della ragione” le sorprendenti, ineliminabili e inquietanti “tracce dell’Altro”. Dal male solo Dio ci può salvare:  non un qualunque Dio, ma quello che ha abitato nella nostra condizione tragica, e l’ha fatta sua, per vincerla al posto nostro e per noi. Il Dio della carità infinita:  il Dio di Gesù Cristo.

(L’Osservatore Romano – 29 gennaio 2009)

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buona notte

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Robin su ramo di Petr Kratochvil

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