Archive pour juin, 2010

buona notte

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http://www.publicdomainpictures.net/browse-category.php?page=90&c=fiori&s=2

Catechismo della Chiesa cattolica: « Prenda la sua croce ogni giorno e mi segua »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100620

XII Domenica delle ferie delle ferie del Tempo Ordinario – Anno C : Lc 9,18-24
Meditazione del giorno
Catechismo della Chiesa cattolica
§ 306-308

« Prenda la sua croce ogni giorno e mi segua »

        Dio è il Padrone sovrano del suo disegno. Però, per realizzarlo, si serve anche della cooperazione delle creature. Questo non è un segno di debolezza, bensì della grandezza e della bontà di Dio onnipotente. Infatti Dio alle sue creature non dona soltanto l’esistenza, ma anche la dignità di agire esse stesse, … e di collaborare in tal modo al compimento del suo disegno.

        Dio dà agli uomini anche il potere di partecipare liberamente alla sua provvidenza, affidando loro la responsabilità di « soggiogare  la terra e di dominarla » (Gen 1, 26-38). In tal modo Dio fa dono agli uomini di essere cause intelligenti e libere per completare l’opera della creazione, perfezionandone l’armonia, per il loro bene e per il bene del loro prossimo. Cooperatori spesso inconsapevoli della volontà divina, gli uomini possono entrare deliberatamente nel piano divino con le loro azioni, le loro preghiere, ma anche con le loro sofferenze. Allora diventano in pienezza « collaboratori di Dio » (1 Cor 3, 9 ; 1 Tes 3, 2) e del suo Regno.

        Dio agisce in tutto l’agire delle sue creature : è una verità inseparabile dalla fede in Dio Creatore. Egli è la causa prima che opera nelle cause seconde e per mezzo di esse : « È Dio infatti che suscita » in noi « il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni » (Fil 2, 13).

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http://www.artbible.net/Jesuschrist_fr.html

Publié dans:immagini sacre |on 19 juin, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia (20-06-2010) : Per trovare bisogna perdere

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/18723.html

Omelia (20-06-2010) 
don Marco Pedron

Per trovare bisogna perdere

Questo brano segue quello di domenica scorsa della moltiplicazione dei pani. Siamo nel vangelo di Lc e gli apostoli sono alla scuola di Gesù. Un po’ lo seguono, lo ascoltano e imparano; un po’ fanno anche loro le prime esperienze tra la gente (9,1-6). Gesù è il maestro, ma lo scopo di Gesù è di fare degli apostoli degli altri maestri. Lo scopo di Gesù non è di fare seguaci, proseliti, fedeli dipendenti dalle sue labbra: Gesù vuole che le persone siano adulte, autonome, loro stesse dei maestri.
Gli apostoli hanno ricevuto un apprendistato di circa tre anni. C’è un periodo nella vita dove si impara, dove bisogna crescere e divenire, ma non può essere eterno. Lo scopo di questo periodo è che una persona diventi radicata in sé, in ciò che crede, in ciò che vive, in modo da rispondere personalmente delle proprie scelte e della propria vita, in modo da incanalare e da decidere autonomamente come vivere, in modo da non delegare a nessuno le responsabilità sul proprio cammino.
L’amore vero rende liberi. L’amore di un genitore per il proprio figlio è renderlo adulto, è renderlo a sua volta un genitore alla pari; se lo tiene dipendente da sé, se lo ricatta facendogli sentire la sua superiorità o rendendolo un proprio satellite, lo rovina. L’amore rende adulti. La fede ci deve rendere adulti. L’amore di un prete o di un cristiano è rendere adulto chi segue Gesù.
Se ti rendo dipendente da me, dalle decisioni dall’alto, ossequioso, avrò creato uno obbediente, uno che non crea problemi, uno che esegue, ma non avrò formato una coscienza libera e autonoma. Sarà uno che in continuo chiederà: « Cosa devo fare? Cosa è giusto, cristiano? Cosa bisogna fare?’ ». « Ma sei o non sei grande? Prenditi le tue responsabilità! ». « Perché deleghi a me una scelta che è tua? Come faccio a sapere io cosa tu vivi? ». « Hai una coscienza, hai un cuore, credi in qualcosa? Beh, vivi secondo ciò che credi ».
E’ importante che ci sia una direzione, una strada, dei riferimenti ai quali le persone possono rifarsi. Ma è ancor più importante insegnare alle persone che hanno una coscienza, che sono libere e responsabili, che devono diventare non delle fotocopie ma degli originali. La chiesa fallirà sempre se non avrà il coraggio di far crescere cristiani adulti, « grandi », autonomi. Solo così sapranno rifarsi al proprio credo, al proprio profondo anche nel mondo del lavoro, del sociale o della politica.
Il più grande peccato, e forse l’unico, sarà quando Dio ci metterà davanti la nostra vita, il motivo per cui eravamo a questo mondo e ci dirà: « Magari non hai fatto niente di male, ma non hai vissuto. Tu non sei stato te stesso. Hai seguito sempre gli altri, hai fatto quello che facevano tutti; non c’è niente di personale, di tuo nella tua vita. Una vita sprecata ». E scopriremo tutta la nostra paura di vivere e diventare uomini adulti.
Ad un certo punto Gesù inizia a chiedere: « Cosa si dice in giro di me? ». E gli apostoli riportano alcune opinioni: « Giovanni Battista, Elia, un profeta », cose molto belle!; altrove invece si dice di Gesù: « Un mangione, un beone, un amico dei pubblicani e dei peccatori (un uomo, cioè, di malaffare, pericoloso), un eretico, ecc ».
E’ importante sapere cosa dice il catechismo di Lui; è importante sapere cosa si crede in giro; è importante farci dire dagli altri le loro esperienze su di Lui. Ma ciò che è decisivo non è tutto questo. Ciò che è decisivo è: « E per te, chi sono io? ». « Qual è la mia presenza nella tua vita? Come/quanto pulso in te? Come/quanto vivo in te e tu di me? Come/quanto ti ho cambiato la vita, modo di pensare, di sentire, di amare, di dare priorità alle scelte ». Tutte le risposte preconfezionate, le « belle rispostine », le frasi fatte, qui non c’entrano più.
Ci si può ingannare facilmente riportando cosa si sa, cosa si ha studiato, cosa si dice in giro. Magari si fa una bella figura, magari si è anche ammirati. Ma la domanda decisiva è: « Chi sono per te? E dammi una risposta che venga da te! ». Non si può sempre rifarsi a qualcun altro nella vita, ripararsi dietro agli altri chiamando in causa ciò che loro vivono. « Tu cosa vivi di Dio? Tu cos’hai nella tua anima? Tu sei disposto a lasciarti coinvolgere? ». « Non scappare, rispondi: tu… ».
Dio ci ama anche se gli diciamo di « no ». Dio ci accoglie anche se noi gli diciamo: « Non mi interessi; non voglio avere a che fare con te ». L’importante è essere chiari e veri con sé e non mentirsi. Non dire: « Io credo in Dio » e poi vivere falsificando tutto questo, relegando Dio nel ripostiglio o nella soffitta della nostra vita, esibendo una facciata di fede che nasconde invece un vuoto di fede.
L’esperienza cristiana è un incontro tra me e Lui. Leggiamo pure i santi e proponiamoli, andiamo pure a fare esperienze spirituali e religiose in giro, pellegrinaggi e messe da carismatici, ma non idolatriamoli. Perché ciò che conta è che tutto questo mi dia la forza di incontrare Lui, di sceglierlo, di lasciargli spazio, di trasformarmi, di diventare io stesso protagonista, partner di Dio.
Pietro qui risponde: « Tu sei il Cristo di Dio ». Questa frase condensa tutto ciò che era il Cristo per gli apostoli.
Dio è Colui che ti accoglierà in maniera incondizionata, che ti amerà al di là di ogni sbaglio, di ogni errore, dal quale potrai sempre andare con tutti i tuoi sbagli, errori, pianti, fallimenti e non dovrai rimediare; non dovrai rimeritarti l’amore; non dovrai fare qualcosa per dimostrargli che sei degno del suo amore; non dovrai sentirti in colpa. Dovrai semplicemente stendere le tue braccia e farti abbracciare da Lui.
Questa è l’esperienza centrale della fede. E’ l’esperienza che si può vivere, osare, esporsi perché Lui c’è e ci sarà in ogni caso, sempre.
Perché sarà inevitabile il momento della difficoltà e della prova. Ci saranno dei giorni in cui non ci piacerà essere amici e discepoli di Gesù; ci saranno dei giorni in cui malediremo il giorno in cui l’abbiamo incontrato; ci saranno dei giorni in cui sarà rischioso seguire il Signore, in cui ci verrà chiesto di osare, di buttarci, di smetterla con tutti i nostri calcoli logici soppesando ogni cosa; ci saranno dei giorni in cui saremo chiamati ad esporci e a metterci in prima linea; ci saranno dei giorni in cui pagheremo il coraggio di seguirlo e di credere alla forza dei nostri sogni e del nostro cuore; ci saranno dei giorni in cui proprio i genitori dell’amore o della fede, gli « scribi, i sacerdoti », cioè proprio quelli che dovrebbero capirci, aiutarci, che dovrebbero sostenerci, si rivolteranno contro di noi.
E che faremo in quel giorno? Solamente chi è radicato in profondità; solamente chi ha fatto un incontro trasformante e decisivo; solamente chi lo sente vivo per davvero nella propria vita terrà e avrà il coraggio di non tradire la propria strada, la propria coscienza, il proprio cuore. Solamente chi avrà fatto un incontro sconvolgente con Lui e quindi coinvolgente sarà fedele a se stesso, alla propria anima e a Lui.
C’è un proverbio russo che dice: « Con la menzogna puoi girare tutto il mondo, ma non arrivi mai a casa ». Chi si piega alla paura del giudizio degli altri, chi ha bisogno di essere approvato e non può accettare di « essere riprovato », giudicato e considerato male, tenterà di mostrare al mondo una facciata diversa da quella che ha nell’intimo e così facendo si allontanerà sempre più da se stesso. Non c’è altra scelta: bisogna vivere ciò che Dio ha riposto nel nostro cuore; bisogna prendere le parti di ciò che è vivo; bisogna trovare il coraggio della verità e dell’amore libero scoprendo la forza del nostro cuore; bisogna soprattutto rinnegare tutte le maschere che ci costruiamo per paura.
Le persone vogliono « serenità e salute ». E’ un modo per dire che vorrebbero essere felici. Ma non c’è nessun supermercato per la felicità (ce ne sono tanti per altre cose, ma non per questo); non c’è nessuna ricetta per essere felici e per stare bene; nessun libro, nessun guru, nessuna rispostina risolutiva. Bisogna avere il coraggio di vivere la propria vita in prima persona e questo è tutto. Perché la felicità della vita non può che derivare dal vivere la vita stessa con intensità.
Le persone si dicono: « Io mi amo ». Amarsi (e amare) può essere indicibilmente duro e difficile. E’ difficile rinnegarsi, dirsi di « no ». Perché amarsi è rinnegare se stessi, cioè tutte quelle false maschere che ci impediscono di vedere chi siamo e di prendere la nostra croce, la nostra strada, la nostra vita. E’ difficile dire « no » alla maschera del sorriso a tutti i costi, dell’essere sempre generosi e buoni, tutti per gli altri, dei bravi bambini. E’ difficile dirsi « no » e deporre certi atteggiamenti: « L’uomo non piange mai; mai chiedere aiuto a nessuno; io ce la faccio da solo; non ascoltare mai i propri sentimenti; non essere mai arrabbiati ». E’ difficile dirsi « no » e non cedere quando gli altri ci fanno del male, non posso sempre far finta di niente e passare sopra, anche se ci verrebbe da appianare sempre tutto. E’ difficile dire « no » e smettere di chiamare amore ciò che non è amore, ciò che è solo sfruttamento, servilismo, dipendenza, morbosità. E’ difficile dire di « no » alla superficialità e mettersi davanti le reali questioni della propria vita senza scavalcarle sempre. E’ difficile dirsi « no » e smettere di mentirsi sul proprio rapporto di coppia, al fatto che si finge di essere felici e che le cose vadano bene. E’ difficile dire « no » a certe abitudini. Questo comportamento (bestemmiare, fumare, bere, dormire poco, averla sempre vinta, lavorare sempre, ecc) mi fa male, mi distrugge, mi aliena, mi allontana dalle persone, mi rende in-sensibile.
E’ difficile dire « no » ai nostri pensieri. « Per me tutto è così difficile, nessuno si occupa di me, non ce la faccio più; nessuno mi vuole bene, ce l’hanno tutti con me; a me tutto va storto, cos’avrò fatto di male io per meritarmi tutto questo, perché tutte a me; sbaglio sempre tutto; non ce la farò mai ». Allora io mi affeziono alla mia tristezza, mi aggrappo all’illusione che gli altri siano responsabili della mia vita, che la debbano rendere felice; mi sta bene vedermi sfortunato e vittima, così mantengo le cose così e mi evito la fatica di crescere e di diventare adulto.
Oppure: « E’ colpa sua; che schifo questo mondo; non ci si può fidare di nessuno; tutti ti odiano; chi fa da sé fa per tre; non ti fidare di nessuno ».
Oppure insulto l’altro dentro di me, sparlo di lui, lo giudico, cerco tutti i suoi punti deboli, lo penso e lo rivango dentro di me fino all’esaurimento; gli faccio fare brutta figura, lo copro di ridicolo, gli auguro il male, lo ferisco, rido o sorrido (senza che nessuno mi veda) quando gli capita qualcosa di male; cerco tutti i motivi per non riconciliarmi, per non dargli la parola, per stargli lontano. Allora io mi affeziono alla mia rabbia, alla mia inferiorità, all’invidia e alla gelosia che provo e continuo a scaricarla addosso agli altri.
Devo dirmi: « No, smettila di buttare sugli altri ciò che è tuo, smetti di fare come il bambino che accusa sempre gli altri ». Allora mi devo dire: « No, basta. Guardati dentro e smetti di guardare gli altri ». E fa male!
Oppure: « Sono più bravo? Sono più bello? Io sono di più! Per fortuna che non sono come quello lì. Nessuno è bravo come me. Se non ci fossi io in casa! ».
O viceversa: « Ecco sono sempre l’ultimo, incapace, buono a nulla; lo sapevo che finiva così!; o tutto o niente; sono un perdente; non farò mai niente di buono nella vita; non concludo nulla ». Allora mi devo dire: « No, smettila di buttarti giù solo perché non sei il primo. Inizia ad accoglierti ed amarti non perché sei più o meno degli altri ma perché sei tu ». E’ difficile dirsi « no » ma nessuno ha mai detto che amarsi sia facile. Ogni « no » è sempre un « sì ». Ogni « no » a ciò che ci fa male è sempre un « sì » a ciò che ci fa bene. Mia madre mi ha amato molto dicendomi « sì », ma molto di più dicendomi « no ». E così devo fare io con me. Se mi voglio bene devo dire « no » a tutto ciò che mi fa male, a tutto ciò che mi allontana da me e da Lui.
Gesù è stato Gesù e io sono io. Non devo essere invidioso di chi era lui, né copiarlo. Lui ha avuto la sua vita ed io ho la mia. Da lui devo imparare il coraggio di vivere la mia vita (croce), quell’unica vita che Dio ha destinato per me. Gesù ha compiuto il suo viaggio che l’ha portato a conoscere il suo cuore, se stesso, la sua missione e il Dio che era in Lui. Io devo compiere il mio viaggio che mi porta a conoscere il mio cuore, me stesso con tutto ciò che vuol dire, la mia missione e il Dio che abita in me.
Prendere la propria croce non è farsi del male, imporsi sofferenze o punizioni, ma accogliere la propria vita in tutte le sue dimensioni, in tutta la sua radicalità, in tutta la sua compresenza di luce ed ombra, in tutti i suoi richiami e in tutte le sue contraddizioni.
Prendere la propria croce è accettare la dura croce della realtà della propria vita. E chi non è disposto a fare questo, chi tenta di salvarsi, si perde.
Chi vuol salvare, cioè non mettere in gioco la propria vita, mantenere tutti gli equilibri esistenti, conservare tutto, la perderà: è ovvio, è inevitabile.
Quante persone per mantenere una facciata o delle situazioni morte, finite, o solo per paura di cambiare e di mettersi in gioco, hanno perso la loro vitalità, la loro creatività, la loro voglia di vivere, di ridere, di spendersi, di lottare, di amare; non c’è più forza in loro, non c’è più vibrazione nei loro sentimenti e non c’è più passione nelle loro giornate. Pur in vita qualcosa si è spento.
E così! Chi vuol salvarsi dall’evolvere muore; chi vuol mantenere la fissità della situazione presente vi perirà dentro.
Quante cose dobbiamo perdere per salvarci!
Nella prima parte della vita si crede che salvarsi sia ottenere. Allora si rincorre la posizione sociale; si accumulano soldi, denaro, posizioni, onorabilità; si cerca di avere cose, case e quant’altro. Si cerca di salire nella scala sociale dell’apprezzamento altrui. Ottenere, avere, raggiungere, arrivare, sembrano la nostra salvezza.
Ma nella seconda parte si impara (si potrebbe!) che tutto questo non ci fa felici e che la salvezza è proprio il contrario: non ottenere ma perdere. Bisogna perdere tutte le maschere e le facciate che ci siamo costruiti; bisogna perdere tante illusioni (« Ce la faremo; avremo delle relazioni meravigliose; si vive per sempre; siamo perfetti; certe cose non capiteranno a noi… »); bisogna perdere tanti rivestimenti e vestiti per ritornare alla nudità essenziale e all’essenziale nudità della vita; bisogna svestirsi di tutto e ritrovarsi.
La vita più che un processo di acquisizione, di apprendimento (necessario) è un grande processo di spogliazione e di perdita. La vita vive della paradossale verità che per trovare bisogna perdere.

E’ assurdo dice la ragione.
E’ una disgrazia dice l’astuzia.
Non è che dolore dice la paura.
E’ senza speranza dice il senno.
E’ ridicolo dice l’orgoglio.
E’ sconsiderato dice la prudenza.
E’ impossibile dice l’esperienza.
E’ come è dice l’amore. 

Il Papa al Convegno ecclesiale diocesano sull’Eucarestia domenicale

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22880?l=italian

Il Papa al Convegno ecclesiale diocesano sull’Eucarestia domenicale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 16 giugno 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato da Benedetto XVI il 15 giugno nell’inaugurare nella Basilica di San Giovanni in Laterano il Convegno della Diocesi di Roma sul tema: “’Si aprirono loro gli occhi, lo riconobbero e lo annunziarono’. L’Eucarestia domenicale e la testimonianza della carità”.

* * *

Cari fratelli e sorelle!

Dice il Salmo: « Ecco, com’è bello e com’è dolce / che i fratelli vivano insieme! » (Sal 133,1). È proprio così: è per me motivo di profonda gioia ritrovarmi con voi e condividere il tanto bene che le parrocchie e le altre realtà ecclesiali di Roma hanno realizzato in questo anno pastorale. Saluto con fraterno affetto il Cardinale Vicario e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha indirizzato e per l’impegno che quotidianamente pone nel governo della Diocesi, nel sostegno ai sacerdoti e alle comunità parrocchiali. Saluto i Vescovi Ausiliari, l’intero Presbiterio e ciascuno di voi. Rivolgo un pensiero cordiale a quanti sono ammalati e in particolari difficoltà, assicurando loro la mia preghiera.

Come ha ricordato il Cardinale Vallini, ci stiamo impegnando, dallo scorso anno, nella verifica della pastorale ordinaria. Questa sera riflettiamo su due punti di primaria importanza: « Eucaristia domenicale e testimonianza della carità ». Sono a conoscenza del grande lavoro che le parrocchie, le associazioni e i movimenti hanno realizzato, attraverso incontri di formazione e di confronto, per approfondire e vivere meglio queste due componenti fondamentali della vita e della missione della Chiesa e di ogni singolo credente. Ciò ha anche favorito quella corresponsabilità pastorale che, nella diversità dei ministeri e dei carismi, deve sempre più diffondersi se desideriamo realmente che il Vangelo raggiunga il cuore di ogni abitante di Roma. Tanto è stato fatto, e ne rendiamo grazie al Signore; ma ancora molto, sempre con il suo aiuto, rimane da fare.

La fede non può mai essere presupposta, perché ogni generazione ha bisogno di ricevere questo dono mediante l’annuncio del Vangelo e di conoscere la verità che Cristo ci ha rivelato. La Chiesa, pertanto, è sempre impegnata a proporre a tutti il deposito della fede; in esso è contenuta anche la dottrina sull’Eucaristia – mistero centrale in cui « è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua » (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Presbyterorum ordinis, 5) –; dottrina che oggi, purtroppo, non è sufficientemente compresa nel suo valore profondo e nella sua rilevanza per l’esistenza dei credenti. Per questo è importante che una conoscenza più approfondita del mistero del Corpo e del Sangue del Signore sia avvertita come un’esigenza dalle diverse comunità della nostra diocesi di Roma. Al tempo stesso, nello spirito missionario che vogliamo alimentare, è necessario che si diffonda l’impegno di annunciare tale fede eucaristica, perché ogni uomo incontri Gesù Cristo che ci ha rivelato il Dio « vicino », amico dell’umanità, e di testimoniarla con una eloquente vita di carità.

In tutta la sua vita pubblica Gesù, mediante la predicazione del Vangelo e i segni miracolosi, ha annunciato la bontà e la misericordia del Padre verso l’uomo. Questa missione ha raggiunto il culmine sul Golgota, dove Cristo crocifisso ha rivelato il volto di Dio, perché l’uomo, contemplando la Croce, possa riconoscere la pienezza dell’amore (cfr BENEDETTO XVI, Enc. Deus caritas est, 12). Il Sacrificio del Calvario viene mistericamente anticipato nell’Ultima Cena, quando Gesù, condividendo con i Dodici il pane e il vino, li trasforma nel suo corpo e nel suo sangue, che poco dopo avrebbe offerto come Agnello immolato. L’Eucaristia è il memoriale della morte e risurrezione di Gesù Cristo, del suo amore fino alla fine per ciascuno di noi, memoriale che Egli ha voluto affidare alla Chiesa perché fosse celebrato nei secoli. Secondo il significato del verbo ebraico zakar, il « memoriale » non è semplice ricordo di qualcosa che è avvenuto nel passato, ma celebrazione che attualizza quell’evento, in modo da riprodurne la forza e l’efficacia salvifica. Così « si rende presente e attuale il sacrificio che Cristo ha offerto al Padre, una volta per tutte, sulla Croce in favore dell’umanità » (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, 280). Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo la parola sacrificio non è amata, anzi essa sembra appartenere ad altre epoche e a un altro modo di intendere la vita. Essa, però, ben compresa, è e rimane fondamentale, perché ci rivela di quale amore Dio, in Cristo, ci ama.

Nell’offerta che Gesù fa di se stesso troviamo tutta la novità del culto cristiano. Nell’antichità gli uomini offrivano in sacrificio alle divinità gli animali o le primizie della terra. Gesù, invece, offre se stesso, il suo corpo e l’intera sua esistenza: Egli stesso in persona diventa quel sacrificio che la liturgia offre nella Santa Messa. Infatti, con la consacrazione il pane e il vino diventano il suo vero corpo e sangue. Sant’Agostino invitava i suoi fedeli a non soffermarsi su ciò che appariva alla loro vista, ma ad andare oltre: « Riconoscete nel pane – diceva – quello stesso corpo che pendette sulla croce, e nel calice quello stesso sangue che sgorgò dal suo fianco » (Disc. 228 B, 2). Per spiegare questa trasformazione, la teologia ha coniato la parola « transustanziazione », parolache risuonò per la prima volta in questa Basilica durante il IV Concilio Lateranense, di cui fra cinque anni ricorrerà l’VIII centenario. In quell’occasione furono inserite nella professione di fede le seguenti espressioni: « il suo corpo e il suo sangue sono contenuti veramente nel sacramento dell’altare, sotto le specie del pane e del vino, poiché il pane è transustanziato nel corpo, e il sangue nel vino per divino potere » (DS, 802). È dunque fondamentale che negli itinerari di educazione alla fede dei bambini, degli adolescenti e dei giovani, come pure nei « centri di ascolto » della Parola di Dio, si sottolinei che nel sacramento dell’Eucaristia Cristo è veramente, realmente e sostanzialmente presente.

La Santa Messa, celebrata nel rispetto delle norme liturgiche e con un’adeguata valorizzazione della ricchezza dei segni e dei gesti, favorisce e promuove la crescita della fede eucaristica. Nella celebrazione eucaristica noi non inventiamo qualcosa, ma entriamo in una realtà che ci precede, anzi che abbraccia cielo e terra e quindi anche passato, futuro e presente. Questa apertura universale, questo incontro con tutti i figli e le figlie di Dio è la grandezza dell’Eucaristia: andiamo incontro alla realtà di Dio presente nel corpo e sangue del Risorto tra di noi. Quindi, le prescrizioni liturgiche dettate dalla Chiesa non sono cose esteriori, ma esprimono concretamente questa realtà della rivelazione del corpo e sangue di Cristo e così la preghiera rivela la fede secondo l’antico principio lex orandi – lex credendi. E per questo possiamo dire che « la migliore catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata » (BENEDETTO XVI, Esort. ap. post-sinod. Sacramentum caritatis, 64). È necessario che nella liturgia emerga con chiarezza la dimensione trascendente, quella del Mistero, dell’incontro con il Divino, che illumina ed eleva anche quella « orizzontale », ossia il legame di comunione e di solidarietà che esiste fra quanti appartengono alla Chiesa. Infatti, quando prevale quest’ultima non si comprende pienamente la bellezza, la profondità e l’importanza del mistero celebrato. Cari fratelli nel sacerdozio, a voi il Vescovo ha affidato, nel giorno dell’Ordinazione sacerdotale, il compito di presiedere l’Eucaristia. Abbiate sempre a cuore l’esercizio di questa missione: celebrate i divini misteri con intensa partecipazione interiore, perché gli uomini e le donne della nostra Città possano essere santificati, messi in contatto con Dio, verità assoluta e amore eterno.

E teniamo anche presente che l’Eucaristia, legata alla croce alla risurrezione del Signore, ha dettato una nuova struttura al nostro tempo. Il Risorto si era manifestato il giorno dopo il sabato, il primo giorno della settimana, giorno del sole e della creazione. Dall’inizio i cristiani hanno celebrato il loro incontro con il Risorto, l’Eucaristia, in questo primo giorno, in questo nuovo giorno del vero sole della storia, il Cristo Risorto. E così il tempo inizia sempre di nuovo con l’incontro con il Risorto e questo incontro dà contenuto e forza alla vita di ogni giorno. Perciò è molto importante per noi cristiani, seguire questo ritmo nuovo del tempo, incontrarci col Risorto nella domenica e così « prendere » con noi questa sua presenza, che ci trasformi e trasformi il nostro tempo. Inoltre, invito tutti a riscoprire la fecondità dell’adorazione eucaristica: davanti al Santissimo Sacramento sperimentiamo in modo del tutto particolare quel « rimanere » di Gesù, che Egli stesso, nel Vangelo di Giovanni, pone come condizione necessaria per portare molto frutto (cfr Gv 15,5) ed evitare che la nostra azione apostolica si riduca a uno sterile attivismo, ma sia invece testimonianza dell’amore di Dio.

La comunione con Cristo è sempre anche comunione con il suo corpo che è la Chiesa, come ricorda l’apostolo Paolo dicendo: « Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane » (1Cor 10,16-17). È, infatti, l’Eucaristia che trasforma un semplice gruppo di persone in comunità ecclesiale: l’Eucaristia fa Chiesa. È dunque fondamentale che la celebrazione della Santa Messa sia effettivamente il culmine, la « struttura portante » della vita di ogni comunità parrocchiale. Esorto tutti a curare al meglio, anche attraverso appositi gruppi liturgici, la preparazione e la celebrazione dell’Eucaristia, perché quanti vi partecipano possano incontrare il Signore. È Cristo risorto, che si rende presente nel nostro oggi e ci raduna intorno a sé. Nutrendoci di Lui siamo liberati dai vincoli dell’individualismo e, per mezzo della comunione con Lui, diventiamo noi stessi, insieme, una cosa sola, il suo Corpo mistico. Vengono così superate le differenze dovute alla professione, al ceto, alla nazionalità, perché ci scopriamo membri di un’unica grande famiglia, quella dei figli di Dio, nella quale a ciascuno è donata una grazia particolare per l’utilità comune. Il mondo e gli uomini non hanno bisogno di un’ulteriore aggregazione sociale, ma hanno bisogno della Chiesa, che è in Cristo come un sacramento, « cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano » (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Lumen gentium, 1), chiamata a far risplendere su tutte le genti la luce del Signore risorto.

Gesù è venuto per rivelarci l’amore del Padre, perché « l’uomo senza amore non può vivere » (GIOVANNI PAOLO II, Enc. Redemptor hominis, 10). L’amore è, infatti, l’esperienza fondamentale di ogni essere umano, ciò che dà significato al vivere quotidiano. Nutriti dall’Eucaristia anche noi, sull’esempio di Cristo, viviamo per Lui, per essere testimoni dell’amore. Ricevendo il Sacramento, noi entriamo in comunione di sangue con Gesù Cristo. Nella concezione ebraica, il sangue indica la vita; così possiamo dire che nutrendoci del Corpo di Cristo noi accogliamo la vita di Dio e impariamo a guardare la realtà con i suoi occhi, abbandonando la logica del mondo per seguire quella divina del dono e della gratuità. Sant’Agostino ricorda che durante una visione gli parve di udire la voce del Signore, il quale gli diceva: « Io sono il nutrimento degli adulti. Cresci, e mi mangerai, senza per questo trasformarmi in te, come il nutrimento della tua carne; ma tu ti trasformerai in me » (cfrConfessioni VII,10,16). Quando riceviamo Cristo, l’amore di Dio si espande nel nostro intimo, modifica radicalmente il nostro cuore e ci rende capaci di gesti che, per la forza diffusiva del bene, possono trasformare la vita di coloro che ci sono accanto. La carità è in grado di generare un cambiamento autentico e permanente della società, agendo nei cuori e nelle menti degli uomini, e quando è vissuta nella verità « è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera » (BENEDETTO XVI, Enc. Caritas in veritate, 1). La testimonianza della carità per il discepolo di Gesù non è un sentimento passeggero, ma al contrario è ciò che plasma la vita in ogni circostanza. Incoraggio tutti, in particolare la Caritas e i Diaconi, a impegnarsi nel delicato e fondamentale campo dell’educazione alla carità, come dimensione permanente della vita personale e comunitaria.

Questa nostra Città chiede ai discepoli di Cristo, con un rinnovato annuncio del Vangelo, una più chiara e limpida testimonianza della carità. È con il linguaggio dell’amore, desideroso del bene integrale dell’uomo, che la Chiesa parla agli abitanti di Roma. In questi anni del mio ministero quale vostro Vescovo, ho avuto modo di visitare vari luoghi dove la carità è vissuta in modo intenso. Sono grato a quanti si impegnano nelle diverse strutture caritative, per la dedizione e la generosità con le quali servono i poveri e gli emarginati. I bisogni e la povertà di tanti uomini e donne ci interpellano profondamente: è Cristo stesso che ogni giorno, nei poveri, ci chiede di essere sfamato e dissetato, visitato negli ospedali e nelle carceri, accolto e vestito. L’Eucaristia celebrata ci impone e al tempo stesso ci rende capaci di diventare, a nostra volta, pane spezzato per i fratelli, venendo incontro alle loro esigenze e donando noi stessi. Per questo una celebrazione eucaristica che non conduce ad incontrare gli uomini lì dove essi vivono, lavorano e soffrono, per portare loro l’amore di Dio, non manifesta la verità che racchiude. Per essere fedeli al mistero che si celebra sugli altari dobbiamo, come ci esorta l’apostolo Paolo, offrire i nostri corpi, noi stessi, in sacrificio spirituale gradito a Dio (cfr Rm 12,1) in quelle circostanze che richiedono di far morire il nostro io e costituiscono il nostro « altare » quotidiano. I gesti di condivisione creano comunione, rinnovano il tessuto delle relazioni interpersonali, improntandole alla gratuità e al dono, e permettono la costruzione della civiltà dell’amore. In un tempo come il presente di crisi economica e sociale, siamo solidali con coloro che vivono nell’indigenza per offrire a tutti la speranza di un domani migliore e degno dell’uomo. Se realmente vivremo come discepoli del Dio-Carità, aiuteremo gli abitanti di Roma a scoprirsi fratelli e figli dell’unico Padre.

La natura stessa dell’amore richiede scelte di vita definitive e irrevocabili. Mi rivolgo in particolare a voi, carissimi giovani: non abbiate paura di scegliere l’amore come la regola suprema della vita. Non abbiate paura di amare Cristo nel sacerdozio e, se nel cuore avvertite la chiamata del Signore, seguitelo in questa straordinaria avventura di amore, abbandonandovi con fiducia a Lui! Non abbiate paura di formare famiglie cristiane che vivono l’amore fedele, indissolubile e aperto alla vita! Testimoniate che l’amore, così come lo ha vissuto Cristo e lo insegna il Magistero della Chiesa, non toglie nulla alla nostra felicità, ma al contrario dona quella gioia profonda che Cristo ha promesso ai suoi discepoli.

La Vergine Maria accompagni con la sua materna intercessione il cammino della nostra Chiesa di Roma. Maria, che in modo del tutto singolare visse la comunione con Dio e il sacrificio del proprio Figlio sul Calvario, ci ottenga di vivere sempre più intensamente, piamente e consapevolmente il mistero dell’Eucaristia, per annunciare con la parola e la vita l’amore che Dio nutre per ogni uomo. Cari amici, vi assicuro la mia preghiera e imparto di cuore a tutti voi la Benedizione Apostolica. Grazie.

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 19 juin, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

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Amaryllis

http://www.floralimages.co.uk/index2.htm

Catechismo della Chiesa cattolica : « Per la vostra vita non affannatevi »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php

Sabato della XI settimana delle ferie delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 6,24-34
Meditazione del giorno
Catechismo della Chiesa cattolica
§ 302-305

« Per la vostra vita non affannatevi »

        La creazione ha la sua propria bontà e perfezione, ma non è uscita dalle mani del Creatore interamente compiuta. È creata « in stato di via » verso una perfezione ultima alla quale Dio l’ha destinata, ma che ancora deve essere raggiunta. Chiamiamo divina provvidenza le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce la creazione verso questa perfezione…

        La testimonianza della Scrittura è unanime : la sollecitudine della divina Provvidenza è concreta e immediata ; essa si prende cura di tutto, dalle più piccole cose fino ai grandi eventi del mondo e della storia. Con forza, i Libri Sacri affermano la sovranità assoluta di Dio sul corso degli avvenimenti : « Il nostro Dio è nei cieli, egli opera tutto ciò che vuole » (Sal 115, 3) ; e di Cristo si dice: « Quando egli apre, nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre » (Ap 3, 7) ;  « Molte sono le idee nella mente dell’uomo, ma solo il disegno del Signore resta saldo » (Pr 19, 21)…

        Gesù chiede un abbandono filiale alla provvidenza del Padre celeste, il quale si prende cura dei più elementari bisogni dei suoi figli : « Non affannatevi dunque dicendo: « Che cosa mangeremo ? Che cosa berremo ? » … Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta ».

Mat-06,01-Prayer Our Father_Priere Notre Pere

Mat-06,01-Prayer Our Father_Priere Notre Pere  dans immagini sacre 18%20WEIGEL%20%20JESUS%20PRAYS%20FOR%20HIMSELF%20AND%20THE%20WORLD
http://www.artbible.net/3JC/-Mat-06,01-Prayer%20Our%20Father_Priere%20Notre%20Pere/index2.html

Publié dans:immagini sacre |on 18 juin, 2010 |Pas de commentaires »

La preghiera orale e vocale : Il valore della preghiera orale

dal sito:

http://www.esicasmo.it/esicasmo.it.htm

Ignatij Brjancaninov

La preghiera orale e vocale

Il valore della preghiera orale

Nessuno tra coloro che desiderano progredire sulla via della preghiera pensi con leggerezza che la preghiera pronunciata dalle labbra e dalla voce e con la partecipazione dell’intelligenza sia di poco valore e non meriti la nostra stima. Se i Santi Padri parlano della sterilità della preghiera orale e vocale quando non è unita all’attenzione, non bisognerà concludere che hanno respinto o disprezzato questa preghiera come tale. Tutt’altro! Essi insistono solamente perché la si compia con attenzione. La preghiera orale e vocale compiuta con attenzione è l’inizio e la causa dell’orazione mentale; è anche una preghiera mentale. Abituiamoci per cominciare, a pregare attentamente in tal maniera, ed allora apprenderemo facilmente a pregare anche con il solo spirito nel silenzio della nostra interiorità.
 
La Testimonianza della Sacra Scrittura

La preghiera orale e vocale è menzionata nella Sacra Scrittura. L’esempio di questa preghiera e del canto vocale ci è dato dal Salvatore stesso e dagli Apostoli che l’avevano ricevuto da Lui. L’evangelista Matteo ci riferisce che dopo aver cantato l’inno alla fine della Mistica Cena, il Signore e gli Apostoli salirono verso il monte degli Ulivi. Il Signore pregò in modo da essere inteso da tutti prima della resurrezione di Lazzaro, morto da quattro giorni. Mentre erano rinchiusi in prigione, l’apostolo Paolo ed il suo compagno di viaggio Silas erano in preghiera a mezzanotte e cantavano le lodi di Dio: gli altri prigionieri potevano ascoltarli. Improvvisamente, coprendo la voce del loro canto, si verificò un grande terremoto, in modo che le fondamenta della prigione furono scosse; nel medesimo tempo, tutte le porte si aprirono, e le catene di tutti i prigionieri furono spezzate. La preghiera di sant’Anna, madre del profeta Samuele, sovente presentata dai Santi Padri come un modello di preghiera, non era solamente mentale. “Quella – dice la Scrittura – parlava in cuor suo: solo le labbra si muovevano, ma non si udiva la voce”. Questa preghiera non era vocale, ma, pur essendo una preghiera del cuore, era anche orale.
 L’apostolo Paolo chiama la preghiera orale il frutto delle labbra. Ordina di offrire senza sosta a Dio un sacrificio di lode, cioè il frutto delle labbra che pronunciano il suo nome; comanda di intrattenersi con dei salmi, con degli inni, e con dei canti spirituali, ed unendo la preghiera vocale ed orale al canto, di cantare e di celebrare nei nostri cuori le lodi del Signore. Rimprovera la mancanza d’attenzione durante la preghiera orale e vocale. Se la tromba ha un suono confuso, chi si preparerà al combattimento? Da voi stessi, se con la lingua non dite una parola distinta (cioè intelligibile), come si saprà ciò che dite? Perché parlate a vuoto. Benché l’Apostolo abbia detto queste parole a coloro che pregavano e che proclamavano ciò che il Santo Spirito loro ispirava nelle lingue straniere, i Santi Padri le applicano con ragione anche a coloro che pregano senza attenzione. Colui che prega così e che, per conseguenza, non comprende le parole che pronuncia, che è per se stesso se non uno straniero?

L’attenzione è essenziale

Fondandosi su questo insegnamento, san Nilo di Sora dice che colui che prega con le labbra e con la voce, ma senza attenzione, fa salire la preghiera in aria, ma non verso Dio, “È paradossale desiderare che Dio ti intenda, quando tu non comprendi te stesso”, diceva san Demetrio di Rostov, prendendo in prestito queste parole dal Santo vescovo e martire Cipriano di Cartagine. È esattamente ciò che succede a coloro che pregano oralmente e vocalmente, ma senza attenzione; non si capiscono, si lasciano trascinare dalle distrazioni, i loro pensieri vagano lontano nelle preoccupazioni, si estraniano dalla preghiera che spesso giunge ad arrestarsi bruscamente, senza ricordarsi di ciò che devono leggere; o invece di pronunciare le parole della preghiera che sono intenti a leggere, cominciano a dire quelle di altre preghiere, benché il libro sia aperto sotto i loro occhi. Come i Santi Padri non rimprovererebbero una simile preghiera recitata senza attenzione, mutilata, distrutta dalle distrazioni!

La Testimonianza dei Padri

“L’attenzione, dice san Simeone il Nuovo Teologo, deve essere anche strettamente legata alla preghiera come il corpo lo è all’anima: questi ultimi non possono essere separati; non possono esistere l’uno senza l’altro. L’attenzione deve essere come una sentinella in agguato per sorvegliare l’attacco del nemico. Che sia la prima a lottare contro il peccato, ad opporsi ai pensieri malvagi che si avvicinano al cuore! Quindi, dopo l’attenzione intervenga la preghiera per estirpare ed annientare istantaneamente tutti i pensieri malvagi contro i quali l’attenzione aveva prima ingaggiato il combattimento, perché, lei sola, l’attenzione non può dominarli. La vita e la morte dell’anima dipendono da questa battaglia condotta congiuntamente dall’attenzione e dalla preghiera. Se, per mezzo dell’attenzione, proteggiamo la purezza della preghiera, progrediremo. Se, al contrario, non ci preoccuperemo di conservarla pura, ma la lasceremo senza sorveglianza, i pensieri malvagi la insudiceranno, diventeremo uomini rilassati e non potremo fare dei progressi”.
 L’attenzione deve assolutamente accompagnare la preghiera orale e vocale, come d’altra parte… ogni altra forma di preghiera. Quando è presente, i frutti della preghiera orale sono innumerevoli. L’asceta deve cominciare dalla preghiera orale. È quella che la Santa Chiesa insegna per prima ai fanciulli. “La radice della vita monastica, è la salmodia”, ha detto san Isacco Siro. “La Chiesa”, insegna san Pietro Damasceno, “ha adottato per uno scopo lodevole e gradevole a Dio, dei canti e diversi inni in ragione della debolezza dell’intelletto, affinché, noi che non conosciamo, si sia attratti dalla dolcezza della salmodia e cantiamo, per così dire malgrado noi, le lodi a Dio. Coloro che possono comprendere e penetrare il senso delle parole che pronunciamo, entrano in uno stato di umile commozione del cuore. Così, come con una scala, ci eleviamo verso i santi pensieri. Nella misura con cui progrediamo nell’abitudine di questi pensieri divini, un desiderio divino sorge e ci fa scoprire ciò che significa l’adorazione del Padre in Spirito ed in Verità, secondo le parole del Signore”.

I frutti della preghiera orale

La bocca e la lingua che si esercitano spesso nella preghiera e nella lettura della Parola di Dio si santificano; non possono più dire parole oziose o ridere, e diventano incapaci di pronunciare delle celie, delle oscenità o dei propositi turpi. Vuoi progredire nell’orazione mentale e nella preghiera del cuore? Allora incomincia ad essere attento durante la preghiera orale e vocale: la preghiera orale detta con attenzione si trasformerà essa stessa in preghiera mentale e del cuore. Vuoi iniziare a respingere rapidamente e con forza i pensieri seminati in noi dal nemico comune dell’umanità? Respingili, quando sei solo nella cella, con una preghiera orale attenta, pronunciando le parole pacatamente, con un’umile commozione del cuore. L’aria risuona di una preghiera orale e vocale attenta, ed i santi Angeli si avvicinano a coloro che pregano e cantano; si rallegrano e partecipano ai canti spirituali come furono giudicati degni di vederli alcuni santi e, fra loro, un nostro contemporaneo, il beato staretz Serafino di Sarov.

La pratica dei Padri

Numerosi padri illustri sono vissuti nella preghiera orale e vocale, e ciò non ha impedito loro di essere colmi dei doni dello Spirito. La causa dei loro progressi si trova nel fatto che in loro l’intelletto, il cuore, l’anima e tutto il corpo erano uniti alla voce ed alle labbra; pronunciavano la preghiera con tutta la loro anima, con tutte le loro forze, con tutto il loro essere, in breve con l’uomo tutto intero. È così che san Simeone della Montagna Ammirabile recitava durante la notte tutto il Salterio. San Isacco Siro menziona un felice staretz che aveva per occupazione la lettura dei salmi; gli fu concesso di non proseguire la lettura che per tre o quattro salmi, dopo di che la consolazione divina s’impadroniva di lui con una tale forza che rimaneva giorni interi in uno stato di felicissima estasi, cosciente né del tempo, né di se stesso.
Durante la lettura dell’Akatistos, san Sergio di Radonez fu visitato dalla Madre di Dio accompagnata dagli apostoli Pietro e Giovanni. Si racconta a proposito di san Ilarione di Suzdal che quando leggeva l’Akatistos in chiesa, le parole uscivano dalla sua bocca come se fossero fuoco, con una forza ed un’efficacia sugli ascoltatori che non si poteva spiegare. La preghiera orale dei santi era vivificata dall’attenzione e dalla grazia divina che ristabilisce l’unità delle potenze dell’uomo divise dal peccato; ciò che spiega che diffondeva una uguale forza sovrannaturale e che produceva un’impressione prodigiosa sugli ascoltatori. I santi hanno celebrato Dio con tutto il cuore; hanno cantato e professato Dio con una fermezza incrollabile, cioè senza distrazione, hanno cantato per Dio con saggezza.

Salmodia

Bisogna notare che i santi monaci dei primi secoli e tutti coloro che desideravano progredire nella preghiera non si preoccupavano del tutto o non si preoccupavano che molto poco del canto. Sotto il vocabolo “salmodia”, di cui si parla nelle loro Vite e nei loro scritti, bisogna intendere una lettura estremamente lenta dei salmi e delle preghiere. Una simile lettura è indispensabile se si vuole conservare un’attenzione vigilante ed evitare le distrazioni. A causa della lentezza e dell’affinità con il canto, questa lettura è stata chiamata “salmodia”. Si faceva con il cuore; i monaci di quei tempi avevano infatti per regola di imparare a memoria il Salterio. La recitazione dei salmi a memoria contribuisce molto a fissare l’attenzione. Una simile lettura – a dire il vero non è una lettura, perché non si fa per mezzo di un libro, ma si tratta proprio della salmodia – può essere compiuta in un’oscura cella, con gli occhi chiusi, ciò che protegge dalle distrazioni; quando una cella è illuminata quanto è indispensabile per la lettura di un libro e semplicemente per vederlo – distrae lo spirito e lo allontana dal cuore verso l’esterno. “Cantano, dice san Simeone il Nuovo Teologo, cioè le loro labbra pregano”. “Coloro che non cantano assolutamente, dice san Gregorio Sinaita, fanno bene, anche loro, se hanno già progredito; non hanno infatti, bisogno di recitare i salmi, ma hanno necessità di silenzio e della preghiera incessante”.

Lettura e preghiera

Per dirla chiaramente, i Padri chiamano “lettura” quella della Sacra Scrittura e degli scritti dei Santi Padri, e “preghiera” soprattutto la Preghiera di Gesù, come la preghiera del Pubblicano e altre preghiere estremamente brevi. Che queste preghiere sostituiscano vantaggiosamente la salmodia è incomprensibile per i principianti e non può essere loro spiegato in modo soddisfacente, perché ciò oltrepassa la saggezza psichica e non si spiega che con la felice esperienza.
Fratelli, stiamo attenti durante le preghiere orali e vocali che pronunciamo nei servizi in chiesa e nella solitudine della cella. Non rendiamo i nostri sforzi e la nostra vita in monastero sterile a causa della mancanza di attenzione e della negligenza nell’opera di Dio. La negligenza nella preghiera è fatale! Maledetto, dice la Scrittura, sia colui che compie l’opera di Dio con negligenza. Il risultato di questa maledizione è evidente: una sterilità spirituale totale e l’assenza totale di progressi malgrado i numerosi anni trascorsi nella vita monastica. Mettiamo alla base dell’ascesa di preghiera la preghiera attenta, orale e vocale, è il principale ed il più importante tra i lavori monastici e quello per cui tutti gli altri esistono. In risposta a questa preghiera, il Signore misericordioso darà, a suo tempo, all’asceta perseverante, paziente ed umile la preghiera dell’intelletto e del cuore mosso dalla grazia. Amìn.
 ————————
Trad. di M. C.
in: “Messaggero Ortodosso”, Roma, agosto-settembre 1985, pp. 10-16
Cfr. Matteo 26, 30.
Cfr. Giovanni 11, 41-42.
Atti 16, 26.
1 Re 1, 12-13.
Ebrei 13, 15.
Cfr. Efesini 5, 19.
1 Corinti 14, 8-9.
Cfr. Giovanni 4, 24.
Salmo 46, 8.
Geremia 48, 20

Publié dans:preghiera (sulla) |on 18 juin, 2010 |Pas de commentaires »

Il Sacro Cuore di Gesù: Dio è Amore. C’è lo dice chiaramente anche Giovanni nella sua lettera (4 , 8-19) :

dal sito:

http://www.preghiereonline.it/sacro_cuore/pol_scg_introduzione.htm

IL SACRO CUORE DI GESÙ

Introduzione

Dio è Amore. C’è lo dice chiaramente anche Giovanni nella sua lettera (4 , 8-19) :

« Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi. Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito. E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo.Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio. Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. Per questo l’amore ha raggiunto in noi la sua perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo. Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore. Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo.  »
 
Il Sacro Cuore
 
 Giovanni che ci svela così chiaramente questo amore è lo stesso discepolo che nell’ultima cena ebbe l’onore di poggiare il proprio capo sul petto di Gesù. Molte raffigurazioni dell’ultima cena, dipinti, icone, affreschi e quant’altro l’uomo abbia voluto utilizzare per imprimere qui in terra quella scena, avvenuta molti anni fa nella storia, ci mostrano Gesù al centro della tavola ed un discepolo chinato sul suo petto. Questa immagine è tratta da vangelo secondo Giovanni cap. 13, 23-25 « Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: «Di’, chi è colui a cui si riferisce?». Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?».  »
E’ una bellissima scena che ci fa desiderare di essere al posto di quel discepolo, li ad ascoltare quel petto dal qual esce l’amore di Dio. Da quel petto santo è sgorgata la giustificazione del peccatore, da quel petto santo è zampillato sangue ed acqua per lavare i nostri peccati e donarci la vita eterna « uno dei soldati gli colpì il costato con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua » Gv 19, 34. E’ in previsione di questo evento che il profeta Zaccaria dice queste parole « Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto, e lo piangeranno come si piange la morte di un figlio unico… In quel giorno vi sarà una fontana zampillante per gli abitanti di Gerusalemme, per espiazione e per purificazione » (Zc 12,10 ss).
La devozione al Sacro Cuore di Gesù è vecchia quanto la chiesa stessa. Se si esclude Origene e la scuola siriana la maturazione è avvenuta nel secondo millennio. Il mistero del cuore di Gesù è già così esplicito da caratterizzare la vita spirituale di autori quali san Bernardo, Ugo di San Vittore. L’Ordine benedettino ha avuto la sua espressione più suggestiva nel gruppo di Helfta: Matilde di Magdeburgo, santa Matilde di Hackeborn, che Gesú favorì dello scambio dei cuori, e santa Gertrude che scrisse il celebre libro L’araldo dell’amore divino. Per queste sante, il Cuore di Gesù è il santuario glorioso dell’amore, dove si riassume il culto che, da tutto il creato, sale verso il trono dell’Altissimo. Gertrude di Helfta è ritenuta l’iniziatrice della devozione al Sacro Cuore. E’ detta infatti « la teologa del Sacro Cuore »
Proprio san Geltrude chiese a san Giovanni perché non avesse detto nulla del Cuore di Gesù sul quale aveva potuto posare familiarmente il capo nel Cenacolo. L’Apostolo rispose: « Era mia missione dire alla Chiesa nascente, in relazione al Verbo, una semplice parola, che fino alla fine del mondo, bastasse a nutrire l’intelligenza di tutta la stirpe umana. La Provvidenza manifesterà più tardi quanto nascondono di dolcezza e di soavità le divine pulsazioni e l’amore immenso del Cuore sacro dell’Uomo-Dio, per rianimare la fiamma della carità, fattasi fredda in un mondo invecchiato e languente » (S. Gertrude. L’Araldo dell’amore divino, I, IV, c. IV).
Non a caso Gesù rivela le dolcezze del suo Cuore a san Geltrude. Proprio per ammissione della santa la sua vita di religiosa era scivolata nell’ozio dell’orgoglio intellettualistico. A venticinque anni, Gertrude è un pozzo di scienza, ma soprattutto per quel che riguarda le conoscenze profane. Conduce un’esistenza claustrale tranquilla e, in apparenza, appagante: lavoro, preghiera, studio, lectio divina, canto, insomma il normale bagaglio quotidiano di ogni buon religioso appartenente all’ordine benedettino. Ed è proprio sullo sfondo di questa vita tranquilla che si dibatte un’anima che è inquieta e non trova pace. Proprio davanti ad una crisi di coscienza che il 27 gennaio del 1281 incominciano le rivelazione e quello che lei stessa definirà una seconda conversione.
Il messaggio della vicenda di Gertrude, è chiaro: l’intelligenza, la ragione, non esaurisce tutto l’uomo. Anzi: è forse qui la radice del peccato d’origine, l’eterna, sottile tentazione dei teologi di professione. Semmai, secondo la celebre espressione agostiniana, è l’amore che esaurisce l’uomo: amare et amari, hic est totus homo.
Oltre a santa Geltrude di Helfta altri santi furono arricchiti dalla conoscenza della devozione al Cuore di Gesù. La scuola francescana è rappresentata da san Bonaventura, autore di Vitis mystica; la beata Angela da Foligno, che scrisse il Libro della grazia speciale; e Ubertino da Casale, il quale, per il suo Arbor vitae crucifixae Jesu, è detto il doctor medievalis cordis Jesu. L’Ordine domenicano è rappresentato soprattutto da sant’Alberto Magno e dai mistici tedeschi G. Taulero ed E.Suso. Spiritualmente apparentata alla scuola domenicana è anche santa Caterina Da Siena con la contemplazione delle piaghe di Nostro Signore.
Ma perché parlare proprio del cuore ? Il termine « cuore » nel simbolismo occidentale e soprattutto quello ebraico designa il nucleo, l’essenza dell’uomo. E’ con cognizione di causa che Gesù afferma: « Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore » (Mt 6,21). San Tommaso ci dice « Come è naturale per il fuoco bruciare così è naturale per il cuore amare; e poiché esso nell’uomo è l’organo primario del sentimento, è conveniente che l’atto comandato dal primo di tutti i precetti sia reso sensibile mediante il cuore ».
Tutto ciò che riguarda la Persona del Figlio di Dio è infinitamente degno di venerazione. Una sia pur minima particella del corpo, la più impercettibile goccia del suo sangue meritano le adorazioni del cielo e della terra. A maggior ragione è giusto e lodevole rivolgere le nostre preghiere a quel cuore che ha consumato tutto per noi sino alla morte ed alla morte di croce.
Con il passaggio dal Medio Evo all’età moderna la tendenza assolutistica dei sovrani si manifesta anche nel campo religioso. La monarchia assoluta non tollera l’ingerenza nel territorio nazionale di forze sottratte al proprio potere: si afferma, così, progressivamente, l’esigenza di una Chiesa nazionale, sotto il controllo dello Stato. Le tendenze gallicane in Francia, il movimento luterano in Germania e quello calvinista nei Paesi Bassi, I’anglicanesimo in Inghilterra, sono fenomeni, oltre che religiosi, di carattere politico, che possono essere intesi solo in rapporto alla nuova situazione politico-economico-sociale determinatasi in Europa. La rottura dell’unità politica era fatalmente accompagnata dalla rottura dell’unità religiosa.
Nell’epoca moderna il culto al Cuore del Salvatore conobbe nuovi sviluppi. In un tempo in cui il giansenismo proclamava i rigori della giustizia divina, ed il protestantesimo sotto le varie denominazioni, spaccava la chiesa di Dio, la devozione al Cuore di Cristo, costituì un efficace antidoto per suscitare e rinnovare nei fedeli l’amore al Signore e la fiducia nella sua infinita misericordia, di cui il Cuore è pegno e simbolo.
San Francesco di Sales († 1622), che assunse come norma di vita e di apostolato l’atteggiamento fondamentale del Cuore di Cristo, cioè l’umiltà, la mansuetudine, l’amore tenero e misericordioso; santa Margherita Maria Alacoque († 1690), a cui il Signore mostrò ripetutamente le ricchezze del suo Cuore; san Giovanni Eudes († 1680), promotore del culto liturgico al Sacro Cuore; san Claudio la Colombière († 1682), san Giovanni Bosco († 1888) e altri santi e sante sono stati insigni apostoli della devozione al Sacro Cuore. Le forme di devozione al Cuore del Salvatore sono molto numerose; alcune sono state esplicitamente approvate e frequentemente raccomandate dalla Sede Apostolica. Tra esse sono da ricordare:

- la consacrazione personale, che, secondo Pio XI, «fra tutte le pratiche riferentisi al culto del Sacro Cuore è senza dubbio la principale»;
- la consacrazione della famiglia, mediante la quale il nucleo familiare, già partecipe in virtù del sacramento del matrimonio del mistero di unità e di amore fra Cristo e la Chiesa, viene dedicato al Signore, perché egli regni nel cuore di ognuno dei suoi membri;
- le Litanie del Cuore di Gesù, approvate nel 1891 per tutta la Chiesa, di contenuto segnatamente biblico e arricchite di indulgenze;
- l’atto di riparazione, formula di preghiera con cui il fedele, memore dell’infinita bontà di Cristo, intende implorare misericordia e riparare le offese recate in tanti modi al suo Cuore dolcissimo;
- la pratica dei nove primi venerdì del mese, che trae origine dalla « grande promessa » fatta da Gesù a santa Margherita Maria Alacoque. In un’epoca in cui la comunione sacramentale era molto rara presso i fedeli, la pratica dei nove primi venerdì del mese contribuì significativamente al ripristino della frequenza ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia.
Non a caso Santa Margherita Maria ricevette la rivelazione del Sacro Cuore mentre era dinanzi al SS.mo Sacramento; Gesù le si svelò in un’Ostia mostrandole il suo Cuore e dicendole quelle parole adorabili che costituiscono il commento più eloquente alla presenza reale del SS.mo Sacramento: « Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini! »
E, apparendo alla ven. M. Matilde, fondatrice di una società di adoratrici, le comandò di amare ardentemente, e di onorare il suo Sacro Cuore nel SS. Sacramento; questo perché fosse pegno del suo amore, perché fosse il suo rifugio in vita, e la sua consolazione nell’ora della morte.
Del resto lo scopo della festa del Sacro Cuore è quello di onorare con maggior fervore e devozione l’amore di Gesù Cristo che soffre ed istituisce il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue.
Per entrare nello spirito della devozione verso il Sacro Cuore, bisogna dunque onorare i patimenti passati del Salvatore e riparare le ingratitudini di cui è colmato ogni giorno nell’Eucaristia.
Nel nostro tempo la devozione dei primi venerdì del mese, se praticata in modo corretto, può recare ancora indubbi frutti spirituali. È necessario tuttavia essere sufficientemente istruiti: sul fatto che non si deve riporre in tale pratica una fiducia che rasenta la vana credulità, la quale, in ordine alla salvezza, annulla le insopprimibili esigenze della fede operante e l’impegno di condurre una vita conforme al Vangelo; sul valore assolutamente predominante della domenica, la «festa primordiale» che deve essere caratterizzata dalla piena partecipazione dei fedeli alla celebrazione eucaristica. La devozione al Sacro Cuore costituisce una grande espressione storica della pietà della Chiesa per Gesù Cristo, suo Sposo e Signore; essa richiede un atteggiamento fatto di conversione e riparazione, di amore e gratitudine, di impegno apostolico e di consacrazione nei confronti di Cristo e della sua opera salvifica.

Al Cuore dì Gesù vivente nel SS.mo Sacramento, amore, lode, adorazione nei secoli dei secoli!

Documenti pontifici sul Cuore di Gesù sono :
· Annum Sacrum (25 Maggio 1899):
· Miserentissimus Redemptor (8 Maggio 1928)
· Haurietis Aquas (15 Maggio 1956)
· Investigabiles divitias Christi (6 Febbraio 1965)
· Diserti interpretes (25 Maggio 1965)
Tutti i documenti possono essere visionati nel sito ufficiale del Vaticano.

Publié dans:preghiera (sulla) |on 18 juin, 2010 |Pas de commentaires »
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