Trittico della crocifissione

dal sito:
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1343784
Cristiani in Medio Oriente. Chi va, chi viene
Le antiche comunità si assottigliano sempre più. Ma dall’Asia e dall’Africa arrivano nuovi fedeli, a milioni, soprattutto nel Golfo e in Arabia Saudita. Dove però la libertà religiosa continua a essere una chimera
di Sandro Magister
ROMA, 21 giugno 2010 – Pochi l’hanno notato. Ma tra i circa 10 mila fedeli, cioè la quasi totalità dei cattolici di Cipro, che hanno assistito alla messa celebrata da Benedetto XVI a Nicosia domenica 6 giugno, la maggior parte non erano ciprioti, ma asiatici, africani, latinoamericani.
Lo stesso papa, nella sua omelia, ha rivolto un particolare saluto agli immigrati dalle Filippine e dallo Sri Lanka.
Assieme a quelli provenienti dall’India essi costituiscono, infatti, la metà dei circa 30 mila immigrati nell’isola, 60 mila se si comprendono i clandestini.
Un buon numero di loro sono cattolici. Affollano le piccole chiese. Battezzano i loro figli. Sono la faccia nuova e meno nota della presenza della Chiesa non solo a Cipro ma in altre aree della Terra Santa e del Medio Oriente.
Cipro, che fa parte dell’Unione Europea, è una delle loro mete più ambite. Una volta arrivati in Turchia, gli immigrati sbarcano senza difficoltà nel nord dell’isola sotto occupazione turca. E da lì passano facilmente la linea di confine, verso la repubblica greco-cipriota, che per molti di loro fa da tappa verso altri paesi d’Europa.
Allargando lo sguardo a tutta l’area, accade così che mentre il papa convoca un sinodo e lancia appelli accorati perché i cristiani del Medio Oriente – figli delle antiche Chiese dell’area tra il Mediterraneo e il Golfo Persico – non abbandonino le loro terre sotto le pressioni di un islam ostile, come invece stanno facendo in numero crescente, in queste stesse regioni arrivino molti altri cattolici da paesi lontani.
Questa ondata migratoria è così forte che spesso i nuovi venuti sovrastano numericamente i cristiani del posto. Inaspettatamente, però, la traccia di lavoro del sinodo dei vescovi per il Medio Oriente convocato a Roma in ottobre dedica a questo fenomeno solo un cenno fugace, nei paragrafi 49 e 50.
La Turchia è un caso a sé, ma anch’esso illuminante. Qui nell’ultimo secolo la presenza cristiana è stata quasi annientata. Ad assicurare la sopravvivenza delle piccolissime comunità cattoliche sono sacerdoti e vescovi provenienti anch’essi per la maggior parte da fuori, e in particolare dall’Italia. Lo dicono i nomi degli ultimi martiri: dal sacerdote Andrea Santoro al vescovo Luigi Padovese, quest’ultimo ucciso proprio alla vigilia del viaggio del papa a Cipro.
Il vescovo di Smirne e dell’Anatolia Ruggero Franceschini, nel raccogliere il testimone da Padovese, ha invocato che altri sacerdoti e volontari partano dall’Italia in « missione » alla volta della Turchia, al fine di tenere viva la presenza cattolica in questo paese.
Ma riguardo al fenomeno più generale della nuova immigrazione cristiana in Medio Oriente, ciò che più colpisce è che essa si concentra proprio dove l’islam ha avuto i natali: in Arabia Saudita, dove i cattolici sfiorano ormai i 2 milioni, e nei paesi del Golfo.
Relativamente alla penisola arabica, ecco qui di seguito un’analisi aggiornatissima del mutato paesaggio religioso. L’autore è uno dei maggiori esperti nel campo: Giuseppe Caffulli, direttore delle riviste e del sito web della Custodia di Terra Santa e autore di « Fratelli dimenticati. Viaggio tra i cristiani del Medio Oriente », Àncora, Milano, 2007.
L’analisi è uscita sull’ultimo numero di « Vita e Pensiero », la rivista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
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PENISOLA ARABICA. I CRISTIANI CON LA VALIGIA
di Giuseppe Caffulli
Paradossi del nostro tempo. Da quasi tre decenni la terra che ha dato i natali all’islam e al suo Profeta è in testa alla classifica delle aree del mondo dove la presenza del cristianesimo sta conoscendo il massimo incremento. Non si tratta però di un aumento legato a conversioni: in queste terre la possibilità di abbracciare la fede cristiana continua a essere illegale. L’incremento ha le sue origini in un imponente flusso migratorio che interessa tutti i paesi del Golfo.
In Arabia Saudita, su una popolazione di 27 milioni e mezzo di abitanti, si stima che gli immigrati siano oltre 8 milioni. Se si allarga lo sguardo agli Emirati Arabi Uniti (EAU, una federazione di sette emirati: Abu Dhabi, Ajman, Dubai, Al-Fujairah, Ras al-Khaimah, Sharjah e Umm al-Qaiwain, situati lungo la costa centro-orientale della penisola arabica), il quadro è ancora più impressionante: su circa 6 milioni di abitanti, la popolazione locale non è più del 12-14 per cento.
Di questi immigrati, provenienti soprattutto dall’Estremo Oriente, fanno parte cristiani appartenenti all’intero arcobaleno confessionale. In termini numerici i cattolici sono oggi la maggioranza tra i cristiani presenti nei paesi della penisola arabica.
L’immigrazione in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo (oltre ad Arabia ed Emirati, il fenomeno interessa Bahrain, Oman e Qatar) nasce con il boom petrolifero. A partire dagli anni Sessanta la sempre crescente richiesta di greggio e la necessità di sfruttare in maniera sempre più massiccia i pozzi di petrolio rendono necessario l’impiego di manodopera proveniente dall’estero. I primi lavoratori stranieri impiegati in questo nuovo miracolo economico provengono principalmente dal vicino Yemen, il paese che ancora oggi, con i suoi 23 milioni di abitanti, è il vero colosso demografico della regione.
LO YEMEN, UN CASO SPECIALE
Fino agli anni Ottanta, i lavoratori yemeniti in Arabia Saudita superano probabilmente il milione. Le rimesse in denaro di questi immigrati costituiscono una parte importante del bilancio dello Stato yemenita. Con la prima guerra del Golfo lo scenario cambia radicalmente. Il governo dello Yemen si schiera a sostegno di Saddam Hussein (che invade il Kuwait) e improvvisamente Riyadh e Sana’a si ritrovano nemiche. Nel 1991 almeno 800 mila lavoratori yemeniti vengono espulsi perché considerati una minaccia per la sicurezza nazionale. Da allora nessun lavoratore yemenita può più ottenere un permesso di lavoro in Arabia Saudita. Amareggiati e disoccupati, i lavoratori yemeniti espulsi diventano vittime di un’altra politica saudita: l’esportazione della dottrina islamica sunnita wahabita. Con il moltiplicarsi nello Yemen di scuole coraniche wahabite (volute e finanziate appunto dall’Arabia Saudita) cresce in maniera significativa anche il coinvolgimento dei giovani yemeniti nelle organizzazioni jihadiste, con una ricaduta nefasta sul fenomeno del terrorismo internazionale di matrice islamica. Un terzo dei detenuti nella base americana di Guantanamo è yemenita. Yemenita è anche la famiglia di Osama Bin Laden, capo di Al Qaeda.
Con la cacciata dei lavoratori yemeniti si aprono nel sistema economico dell’Arabia Saudita (e di riflesso nei paesi del Golfo, ugualmente schierati in politica estera su posizioni filo-occidentali) enormi falle. Dai primi anni Novanta il governo di Riyadh si vede costretto, per garantire il livello di produzione del greggio (la voce petrolifera costituisce ancora oggi l’88 per cento delle entrate dello Stato e il 90 per cento delle esportazioni), a favorire l’immigrazione di un numero sempre crescente di lavoratori stranieri dai paesi dell’Estremo Oriente, soprattutto India, Filippine, Pakistan.
L’accelerazione dell’economia dei paesi del Golfo (gli Emirati nel 2008 hanno conosciuto una crescita del prodotto interno lordo del 6,8 per cento; l’Arabia Saudita del 4,2), con la pianificazione di grandi infrastrutture e con un’imponente crescita del settore immobiliare, rendono la penisola arabica una delle aree di più forte immigrazione a livello planetario.
IL PIÙ GRANDE VICARIATO DEL MONDO
La penisola arabica ricade sotto la giurisdizione del vicariato d’Arabia, la circoscrizione ecclesiastica più grande del mondo: sei nazioni che si estendono su oltre 3 milioni di chilometri quadrati (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar e Yemen), con una popolazione di oltre 60 milioni di persone. Retto dal 2005 da Paul Hinder, cappuccino svizzero, succeduto al confratello italiano Bernardo Gremoli, il vicariato d’Arabia ha superato abbondantemente i cent’anni di vita (la sede di Aden risale al 1888).
L’attuale sede si trova ad Abu Dhabi, moderna capitale degli Emirati, e può contare su sessantuno sacerdoti e un centinaio di suore di sei differenti congregazioni. Oltre all’assistenza pastorale diretta, la Chiesa gestisce otto scuole (per un totale di 16 mila studenti, il 60 per cento dei quali musulmani), orfanotrofi e case per portatori di handicap. Fino a pochi decenni fa, il vicariato d’Arabia si occupava principalmente dell’assistenza pastorale di poche migliaia di stranieri che si trovavano a lavorare nella penisola: personale delle ambasciate, impiegati e funzionari di aziende straniere.
Con l’arrivo dei lavoratori stranieri, a partire dagli anni Novanta, tutto è cambiato. Non ci sono cifre ufficiali, ma le stime del vicariato di Abu Dhabi (sulla base delle indicazioni delle ambasciate), parlano di circa 1 milione e 400 mila filippini nel solo territorio dell’Arabia Saudita, per l’85 per cento cattolici. Non si conosce con esattezza il numero degli indiani. Ma è plausibile che il numero dei soli cattolici nel regno saudita si avvicini ai 2 milioni.
Secondo gli ultimi dati, gli abitanti degli Emirati Arabi Uniti sono circa 6 milioni, di cui 5 costituiti da lavoratori stranieri. La stragrande maggioranza di questi immigrati professa l’islam (circa 3 milioni e 200 mila), ma i cristiani sarebbero oltre un milione e mezzo, di cui 580 mila cattolici. Un buon numero è di lingua araba (oltre 100 mila, 12 mila solo ad Abu Dhabi) e provengono da Libano, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. Sono presenti decine di migliaia di cattolici di rito orientale: maroniti, melkiti, armeni, siriani, siro-malabaresi, siro-malankaresi… Le celebrazioni si svolgono, oltre che inglese e in arabo, in malayalam, konkani, tagalog, francese, italiano, tedesco, cingalese e tamil.
In Bahrein, su una popolazione di circa un milione di abitanti, i cattolici sono 65 mila. In Oman, su 3 milioni e 200 mila abitanti, i cattolici sono 120 mila. Nel Qatar, dove è stata consacrata nel 2008 la prima chiesa cattolica, su un milione e 200 mila abitanti i cattolici sono 110 mila. Difficile dare statistiche attendibili sulla globalità del fenomeno. Secondo fonti giornalistiche, negli Emirati Arabi Uniti sarebbero presenti circa 750 mila lavoratori provenienti dall’India, 250 mila dal Pakistan, 500 mila dal Bangladesh. Un milione d’immigrati è costituito da iraniani, afghani, malaysiani, indonesiani, cinesi e giapponesi. Mezzo milione sarebbero i filippini. Un altro mezzo milione è formato da africani e sudamericani. Anche per le Chiese cristiane presenti in loco non è facile offrire dati attendibili a causa della grande mobilità della popolazione cattolica (alcuni lavoratori hanno permessi molto brevi). Molti cattolici si trovano poi a lavorare in zone lontanissime dalla parrocchia o dalla comunità cristiana, o vivono in campi di lavoro che impediscono libertà di movimento.
LE CONDIZIONI DI LAVORO
La condizione dei lavoratori stranieri nella penisola arabica non è rosea. In Arabia Saudita, uno dei regimi più repressivi del mondo, i lavoratori cristiani devono ogni giorno fare i conti – oltre che con la crisi economica che ha segnato anche qui una diminuzione di posti di lavoro e del livello retributivo – con la polizia religiosa (mutawwa), che non tollera manifestazioni pubbliche della fede. Una situazione che viene costantemente denunciata dagli organismi internazionali che si occupano di diritti umani e libertà religiosa. Non è infrequente che nelle maglie della polizia cadano con accuse il più delle volte false o pretestuose i cristiani che si adoperano per tenere viva la fede nelle comunità cristiane (vedi il caso di Brian Savio O’Connor, un cristiano indiano imprigionato nel 2004 per essere stato trovato in possesso di Bibbie e libri religiosi).
A differenza di altri contesti, i lavoratori stranieri in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo non cercano l’integrazione. Si trovano in queste terre con l’intenzione di tornare un giorno a casa o di emigrare nuovamente verso USA, Canada o Australia. Una norma prevede poi che non venga rinnovato il permesso di soggiorno per i lavoratori con oltre 60 anni. Ne consegue che la Chiesa d’Arabia non ha un nucleo stabile. È formata oggi da fedeli, in massima parte giovani, che nella migliore delle ipotesi restano cinque, dieci o al massimo vent’anni.
Ci sono poi gravi situazioni di squilibrio sociale. Tra i cristiani ci sono pochi facoltosi e una gran massa di poveri, senza alcuna sicurezza sociale. I lavoratori delle fasce più basse hanno scarse tutele, anche se gli EAU, all’inizio di novembre 2009, hanno firmato con il governo di Manila un protocollo d’intesa che offre maggiori protezioni ai lavoratori filippini. C’è poi un vero e proprio traffico di braccia, lavoratori che vengono portati nel Golfo clandestinamente dalle organizzazioni criminali. E ancora la tratta delle donne, specie dalle Filippine e dall’Europa orientale, per la prostituzione. Molte vengono illuse con la promessa di un lavoro e poi si ritrovano schiave. Quelle che fuggono trovano spesso rifugio presso le organizzazioni caritative della Chiesa cattolica, che offre un servizio di assistenza psicologica e legale per chi desidera rientrare nel proprio paese.
La crisi sta comunque toccando anche la penisola arabica, con un rallentamento generalizzato dell’economia. Dopo anni d’inflazione attorno all’1 per cento, nel 2008 in Arabia Saudita c’è stata un’impennata dei prezzi che ha portato l’inflazione oltre l’11 per cento. Il governo di Riyadh sta tentando di risolvere questa crisi con un progetto di « saudizzazione ». Si vorrebbe limitare per il futuro l’ingresso di nuovi immigrati (favorendo nei fatti anche l’espulsione di milioni di operai presenti nel paese illegalmente) per sostituirli con maestranze locali. Costretti dalla crisi, molti sauditi stanno tornando a svolgere lavori che fino a poco tempo fa ritenevano indegni o troppo faticosi, e che erano quindi affidati a lavoratori stranieri. Questa « saudizzazione » ha un risvolto anche religioso: limitare al massimo l’accesso di immigrati musulmani sciiti, la corrente musulmana da sempre in contrasto con quella sunnita praticata in maniera maggioritaria nella penisola arabica.
POCA O NESSUNA LIBERTÀ RELIGIOSA
Quello della libertà religiosa è il tasto dolente in Arabia Saudita. Secondo l’annuale rapporto sulla libertà religiosa pubblicato nel 2009 dalla Commissione USA sulla libertà religiosa internazionale (USCIRF), l’Arabia Saudita rientra tra i cosiddetti paesi che destano « particolare preoccupazione », assieme a Myanmar, Cina, Corea del Nord, Eritrea, Iran, Iraq, Nigeria, Pakistan, Sudan, Turkmenistan, Uzbekistan, Vietnam.
Per quanto concerne l’Arabia Saudita, il rapporto riconosce qualche limitata riforma e qualche timida apertura sul versante del dialogo religioso. Ciò nonostante, il governo vieta ancora ogni forma di espressione religiosa pubblica che non rientri nella dottrina islamica sunnita e non ossequi la particolare interpretazione dell’islam wahabita. La Commissione accusa inoltre le autorità saudite di sostenere, a livello internazionale, gruppi che promuovono « un’ideologia estremista che contempla, in qualche caso, violenze contro i non islamici e contro i musulmani di diversa osservanza ».
Negli Emirati e negli altri paesi del Golfo il panorama è un po’ diverso. La situazione è di sostanziale tolleranza religiosa, pur in un quadro di regole ben definite. Testimonianze di questa apertura sono le parrocchie che il vicariato d’Arabia ha istituito nell’area: una parrocchia nel Bahrein, una in Qatar e sette negli Emirati: per l’esattezza due ad Abu Dhabi, due a Dubai, una a Sharjah, una ad Al-Fujairah e una a Ras al-Khaimah. Quattro parrocchie sono nell’Oman, due delle quali a Muscat. Poi ci sono quattro comunità nello Yemen, un paese che registra progressi ma dove sono ancora aperte le ferite degli episodi di violenza nei confronti dei cristiani (basti pensare all’assassinio delle tre suore di Madre Teresa il 27 luglio 1998).
Sostanzialmente ogni emiro è libero di fare la sua politica religiosa e i cristiani si trovano a vivere in condizioni diverse a seconda della realtà politica in cui si trovano a operare. Qui la tolleranza religiosa e la libertà di culto non sono paragonabili a quelle dell’Occidente: tutto si concentra negli spazi concessi alla parrocchia, senza possibilità di esporre simboli all’esterno e senza possibilità di fare attività pubblica. Ma per la Chiesa d’Arabia, che per bocca del suo vescovo si definisce « pellegrina », quella vissuta negli Emirati e nei paesi del Golfo è una situazione di relativo privilegio. Viceversa, in Arabia Saudita l’assistenza pastorale è praticamente impossibile. I milioni di fedeli che si trovano al di là della cortina di ferro dell’islam sono raggiunti di tanto in tanto, in maniera spesso rocambolesca, da qualche sacerdote in incognito che assicura la consacrazione del pane eucaristico distribuito poi dai laici nelle varie comunità.
COMUNITÀ DISPERSE
Sul piano pastorale l’emergenza principale della Chiesa d’Arabia è legata alla carenza di strutture. Si contano parrocchie con 40 mila, perfino 100 mila fedeli. Spesso è impossibile accogliere tutti i fedeli che desiderano assistere alle celebrazioni o chiedono assistenza pastorale. È poi difficile districarsi tra gli interessi e le sensibilità dei diversi gruppi etnici – almeno 90 – senza provocare tensioni e incomprensioni. Il numero dei sacerdoti è limitato ed è assai difficile strappare nuovi visti per aumentarne il numero. Non è nemmeno facile reperire preti adatti alla missione in quest’area particolare: uno dei requisiti fondamentali è che parlino diverse lingue. Inoltre i fedeli vivono dispersi, lontani dalle parrocchie; molti lavorano in villaggi che sorgono in pieno deserto, oppure sulle piattaforme petrolifere, in zone dove non è assolutamente possibile raggiungerli. La maggior parte non ha mezzi di trasporto o non è in grado di pagare il biglietto o non ottiene il permesso dai rispettivi datori di lavoro. Una delle questioni cruciali – fa sovente notare Paul Hinder – è proprio quella di proteggere questi fedeli dalla tentazione di farsi assorbire dall’islam. Cosa che effettivamente capita: se chi è musulmano trova posti di lavoro migliori e meglio pagati, la conversione diventa per molti una strada comoda e facile di promozione sociale.
Quale sarà la sorte di questi lavoratori cristiani nei prossimi anni? Difficile dirlo. Intanto la loro presenza, a livello numerico, dipende dalla situazione politica ed economica che si andrà profilando nell’area. Il mondo in cui vivono – non lo possiamo dimenticare – è totalmente imperniato sull’islam. Tanto che allo stato attuale è difficile pensare a un’apertura sul versante dei diritti umani e della libertà religiosa, anche se la gran massa di lavoratori non musulmani nella penisola arabica è un fatto che non si può più tacere o negare. E, prima o poi, bisognerà che qualcuno inizi a tener conto delle esigenze non solo economiche di questi cristiani con la valigia.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100622
Martedì della XII settimana delle ferie delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 7,6-6#Mt 7,12-14
Meditazione del giorno
San Vincenzo de’ Paoli (1581-1660), sacerdote, fondatore di comunità religiose
Colloqui del 4/5/1659
« Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro »
Qual’è il primo atto di carità? Quale opera fa che un cuore sia animato dalla carità? Cosa esce da questo cuore, e non da un cuore che ne sia sprovvisto? È questo: fare il bene a ciascuno come vorremo ragionevolmente che fosse fatto a noi: in questo consiste il concreto della carità. È forse vero che io faccio al mio prossimo quanto mi aspetto da lui? Ah! Questo è un grande esame da fare…
Guardiamo il Figlio di Dio: che cuore di carità, che fiamma di amore! Mio Gesù, dicci un po’, per favore, il motivo che ti ha portato dal cielo a venire a soffrire la maledizione della terra, le tante persecuzioni e i tormenti che hai ricevuto? O Salvatotre, o fonte dell’amore, umiliato fino a noi, fino al supplizio infame, chi ha amato il prossimo quanto tu l’hai amato? Sei venuto ad esporti a tutte le nostre miserie, a prendere forma di peccatore, a condurre una vita di sofferenze, e a soffrire una morte vergognosa, per noi. C’è forse amore simile?… Non c’è nessuno, altro che il Nostro Signore che sia così amante delle creature, da lasciare il trono di suo Padre per venire ad assumere un corpo soggetto alle infermità.
Per quale motivo? Per allacciare fra di noi, con il suo esempio e con la sua parola, la carità per il prossimo… O amici miei, se avessimo un po’ di questo amore, resteremmo forse con le mani in mano? O, no! La carità non può rimanere oziosa; ci spinge alla salvezza e alla consolazione dei nostri fratelli.
dal sito:
http://www.collevalenza.it/CeSAM/08_CeSAM_0170.htm
Anton Schlembach*
CRISTO È LO SPAZIO NEL QUALE IO VENGO AMATO DA DIO
(Il messaggio paolino)
Nei nostri giorni si diffonde nel mondo occidentale un’atmosfera piuttosto di pessimismo. Poiché le ideologie del progresso non sono più convincenti prevale uno spirito e un atteggiamento di rassegnazione.
L’angoscia del futuro scuote tanti uomini al punto che non pochi ormai disperano dell’avvenire del mondo e dell’umanità. Il rifiuto di trasmettere la vita umana è uno degli inizi di questa situazione.
Il messaggio paolino nella lettura odierna è in contrasto con questo spirito della nostra epoca postmoderna. Esso è percorso da un ardito ottimismo. E infonde l’ottimismo cristiano della fiducia pasquale.
« Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio » sono le prime parole della lettura.
Noi sappiamo – dice San Paolo. E’ la convinzione di fede che possiede una certezza assoluta, anche se non la si può dimostrare agli altri con evidenza. Questa conoscenza viene testimoniata con la parola e con la vita e si rivela come forza portante persino nella morte. Non è tanto una conoscenza di dati ma della prospettiva e dell’orizzonte che danno senso alla nostra esistenza e alla realtà cosmica.
« Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio ». Che uomini sono quelli che amano Dio?
Sono gli uomini che credono in Dio, perché la fede è la promessa dell’amore e l’amore è il compimento della fede.
Sono allora gli uomini che si sono aggrappati a Dio; che percorrono il cammino della loro vita insieme con Dio; che prestano ascolto a Dio; che ubbidiscono a Dio; che parlano con Dio; che si affidano a Dio senza riserve, senza condizioni e senza limiti nella vita e nella morte. Sono gli uomini che con il loro cuore affidano al cuore di Dio se stessi, i loro fratelli e tutta la creazione.
Per questi « tutto concorre al bene ». Tutto senza escludere nulla. Nella seconda lettera ai Corinzi l’apostolo enumera situazioni che sembrano contraddire questa certezza. Egli parla di fatiche, di prigione, di percosse. Egli scrive: « Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese » (cf. 11, 23-28). San Paolo ha visto da vicino la morte di frequente. L’acqua gli è arrivata letteralmente sino alla gola. Sapeva cosa vuol dire quando una persona viene brutalizzata. Conosceva il carcere dall’interno non come visitatore, ma da prigioniero oppresso in mille modi. Paolo non dubita che anche tutto questo porta al bene, purché uno ami Dio come unica condizione.
A questo punto si impone una domanda: E’ possibile un simile amore di Dio? E’ possibile amare Dio così, sempre ed ovunque? Anche la psicologia afferma che la possibilità di amare dipende da una condizione previa, quella cioè di essere prima amato, quella di sentirsi amati. Può amare senza riserve e limiti solo chi viene amato senza riserve e senza limiti. Possiamo dunque amare Dio con tutto il cuore solo se Dio per primo ci ama con tutto il suo cuore. Questa è la condizione di possibilità del nostro amare Iddio.
Paolo afferma che questa condizione si è compiuta.
Egli annuncia che l’unico vero Dio che esiste rivolge il suo amore a tutti gli uomini. Non come gli dei pagani capaci di amare solo qualcuno, a condizione di ricevere sacrifici e solo durante la vita terrena perché anch’essi devono arrendersi impotenti di fronte alla morte. Dio annunciato da Paolo è Iddio dell’amore illimitato, incondizionato assoluto.
Noi domandiamo all’apostolo: Dove hai imparato questo? Dove e come hai trovato questo Dio? Paolo risponde: Ho trovato Dio non attraverso speculazioni filosofiche e nemmeno mediante l’osservazione meticolosa della legge secondo lo stile dei farisei alla cui setta io ho appartenuto. Lo ho trovato nell’incontro con Gesù Cristo. Sulla via di Damasco mi è venuto incontro e così ho trovato il Dio dell’amore assoluto che ha liberato in me l’amore per lui. In quel momento io sono morto alla legge e ho cominciato una vita nuova tutta per Dio, cioè offerta a Dio nell’amore. Da allora io vivo nella fede nel figlio di Dio che mi ha amato e si è sacrificato per me (cf. Gal. 2, 19-21).
Cristo è dunque lo spazio nel quale io vengo amato da Dio e nel quale io amo Dio. In questo spazio conduco la mia esistenza e sono certo che a coloro che amano Dio tutto porta al bene; che nessuna creatura potrà separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore (cf. Rom. 8, 28-29).
Tutto ciò applicato alla nostra vita significa che noi possiamo amare Dio e di fatto lo amiamo solo se troviamo Cristo e se rimaniamo in comunione con lui.
Dov’è possibile per noi incontrare questo Cristo?
La risposta ce la dà il Vangelo di questa messa. Noi troviamo Cristo lì dove lo hanno trovato i discepoli di Emmaus.
Prima di tutto nella sua parola. Anche oggi egli riesce ad infiammare i nostri cuori se egli ci parla mediante la sacra scrittura, quando ci lasciamo ispirare da essa nella lettura personale o quando l’accogliamo con fede della predicazione della Chiesa.
Noi troviamo Cristo infine come discepoli di Emmaus nel gesto dello spezzare il pane. La celebrazione dell’eucaristia ci dona la possibilità dell’incontro più profondo con Cristo morto e risorto e in Lui con il padre ricco di misericordia, eterno e puro amore.
Noi troviamo Cristo infine come i discepoli di Emmaus nella comunità degli apostoli e dei discepoli. A questa comunità ecclesiale, a questa fraternità sempre più intensa e partecipata mira l’unione con Cristo nella parola e nel sacramento. Appare così che lo spazio visibile, tangibile, storicamente e socialmente concreto dell’amore passivo ed attivo di Dio è la comunità cristiana, è la chiesa terrena concreta.
L’appartenenza vissuta alla chiesa, corpo di Cristo, nella quale comunichiamo con Dio eterno amore è per noi pegno e garanzia che anche nella nostra vita tutto concorrerà al bene, cioè alla risurrezione della carne e alla vita eterna nel mondo che verrà. Amen.
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* Omelia di Schlembach S.E. Mons. Anton, vescovo di Speyer (Germania), nella concelebrazione da lui presieduta, commentando: Rom. 8,28-39; Sal. 136; Lc. 24, 13-35
dal sito:
http://www.zenit.org/article-22921?l=italian
Omelia del Papa per l’ordinazione presbiterale di 14 diaconi della Diocesi di Roma
CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 20 giugno 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell’omelia pronunciata questa domenica mattina da Benedetto XVI presiedendo nella Basilica Vaticana la Messa durante la quale ha conferito l’ordinazione sacerdotale a 14 diaconi della Diocesi di Roma.
* * *
Cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Carissimi Ordinandi,
Cari Fratelli e Sorelle !
come Vescovo di questa Diocesi sono particolarmente lieto di accogliere nel «presbyterium» romano quattordici nuovi Sacerdoti. Insieme col Cardinale Vicario, i Vescovi Ausiliari e tutti i Presbiteri ringrazio il Signore per il dono di questi nuovi Pastori del Popolo di Dio. Vorrei rivolgere un particolare saluto a voi, carissimi ordinandi: oggi voi state al centro dell’attenzione del Popolo di Dio, un popolo simbolicamente rappresentato dalla gente che riempie questa Basilica Vaticana: la riempie di preghiera e di canti, di affetto sincero e profondo, di commozione autentica, di gioia umana e spirituale. In questo Popolo di Dio, hanno un posto particolare i vostri genitori e familiari, gli amici e i compagni, i superiori ed educatori del Seminario, le varie comunità parrocchiali e le diverse realtà di Chiesa da cui provenite e che vi hanno accompagnato nel vostro cammino e quelle che voi stessi avete già servito pastoralmente. Senza dimenticare la singolare vicinanza, in questo momento, di tantissime persone, umili e semplici ma grandi davanti a Dio, come, ad esempio, le claustrali, i bambini, i malati e gli infermi. Esse vi accompagnano con il dono preziosissimo della loro preghiera, della loro innocenza e della loro sofferenza.
È, dunque, l’intera Chiesa di Roma che oggi rende grazie a Dio e prega per voi, che ripone tanta fiducia e speranza nel vostro domani, che aspetta frutti abbondanti di santità e di bene dal vostro ministero sacerdotale. Sì, la Chiesa conta su di voi, conta moltissimo su di voi! La Chiesa ha bisogno di ciascuno di voi, consapevole come è dei doni che Dio vi offre e, insieme, dell’assoluta necessità del cuore di ogni uomo di incontrarsi con Cristo, unico e universale salvatore del mondo, per ricevere da lui la vita nuova ed eterna, la vera libertà e la gioia piena. Ci sentiamo, allora, tutti invitati ad entrare nel «mistero», nell’evento di grazia che si sta realizzando nei vostri cuori con l’Ordinazione presbiterale, lasciandoci illuminare dalla Parola di Dio che è stata proclamata.
Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci presenta un momento significativo del cammino di Gesù, nel quale egli chiede ai discepoli che cosa la gente pensi di lui e come lo giudichino essi stessi. Pietro risponde a nome dei Dodici con una confessione di fede, che si differenzia in modo sostanziale dall’opinione che la gente ha su Gesù; egli infatti afferma: Tu sei il Cristo di Dio (cfr Lc 9,20). Da dove nasce questo atto di fede? Se andiamo all’inizio del brano evangelico, costatiamo che la confessione di Pietro è legata ad un momento di preghiera: «Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui», dice san Luca (9,18). I discepoli, cioè, vengono coinvolti nell’essere e parlare assolutamente unico di Gesù con il Padre. E in tal modo viene loro concesso di vedere il Maestro nell’intimo della sua condizione di Figlio, viene loro concesso di vedere ciò che gli altri non vedono; dall’«essere con Lui», dallo «stare con Lui» in preghiera, deriva una conoscenza che va al di là delle opinioni della gente per giungere all’identità profonda di Gesù, alla verità. Qui ci viene fornita un’indicazione ben precisa per la vita e la missione del sacerdote: nella preghiera egli è chiamato a riscoprire il volto sempre nuovo del suo Signore e il contenuto più autentico della sua missione. Solamente chi ha un rapporto intimo con il Signore viene afferrato da Lui, può portarlo agli altri, può essere inviato. Si tratta di un «rimanere con Lui» che deve accompagnare sempre l’esercizio del ministero sacerdotale; deve esserne la parte centrale, anche e soprattutto nei momenti difficili, quando sembra che le «cose da fare» debbano avere la priorità. Ovunque siamo, qualunque cosa facciamo, dobbiamo sempre «rimanere con Lui».
Un secondo elemento vorrei sottolineare del Vangelo di oggi. Subito dopo la confessione di Pietro, Gesù annuncia la sua passione e risurrezione e fa seguire a questo annuncio un insegnamento riguardante il cammino dei discepoli, che è un seguire Lui, il Crocifisso, seguirlo sulla strada della croce. Ed aggiunge poi – con un’espressione paradossale – che l’essere discepolo significa «perdere se stesso», ma per ritrovare pienamente se stesso (cfr Lc 9,22-24). Cosa significa questo per ogni cristiano, ma soprattutto cosa significa per un sacerdote? La sequela, ma potremmo tranquillamente dire: il sacerdozio, non può mai rappresentare un modo per raggiungere la sicurezza nella vita o per conquistarsi una posizione sociale. Chi aspira al sacerdozio per un accrescimento del proprio prestigio personale e del proprio potere ha frainteso alla radice il senso di questo ministero. Chi vuole soprattutto realizzare una propria ambizione, raggiungere un proprio successo sarà sempre schiavo di se stesso e dell’opinione pubblica. Per essere considerato, dovrà adulare; dovrà dire quello che piace alla gente; dovrà adattarsi al mutare delle mode e delle opinioni e, così, si priverà del rapporto vitale con la verità, riducendosi a condannare domani quel che avrà lodato oggi. Un uomo che imposti così la sua vita, un sacerdote che veda in questi termini il proprio ministero, non ama veramente Dio e gli altri, ma solo se stesso e, paradossalmente, finisce per perdere se stesso. Il sacerdozio – ricordiamolo sempre – si fonda sul coraggio di dire sì ad un’altra volontà, nella consapevolezza, da far crescere ogni giorno, che proprio conformandoci alla volontà di Dio, «immersi» in questa volontà, non solo non sarà cancellata la nostra originalità, ma, al contrario, entreremo sempre di più nella verità del nostro essere e del nostro ministero.
Carissimi ordinandi, vorrei proporre alla vostra riflessione un terzo pensiero, strettamente legato a quello appena esposto: l’invito di Gesù a «perdere se stesso», a prendere la croce, richiama il mistero che stiamo celebrando: l’Eucaristia. A voi oggi, con il sacramento dell’Ordine, viene donato di presiedere l’Eucaristia! A voi è affidato il sacrificio redentore di Cristo, a voi è affidato il suo corpo dato e il suo sangue versato. Certo, Gesù offre il suo sacrificio, la sua donazione d’amore umile e totale alla Chiesa sua Sposa, sulla Croce. E’ su quel legno che il chicco di frumento lasciato cadere dal Padre sul campo del mondo muore per diventare frutto maturo, datore di vita. Ma, nel disegno di Dio, questa donazione di Cristo viene resa presente nell’Eucaristia grazie a quella potestas sacra che il sacramento dell’Ordine conferisce a voi presbiteri. Quando celebriamo la Santa Messa teniamo nelle nostre mani il pane del Cielo, il pane di Dio, che è Cristo, chicco spezzato per moltiplicarsi e diventare il vero cibo della vita per il mondo. È qualcosa che non vi può non riempire di intimo stupore, di viva gioia e di immensa gratitudine: ormai l’amore e il dono di Cristo crocifisso e glorioso passano attraverso le vostre mani, la vostra voce, il vostro cuore! E’ un’esperienza sempre nuova di stupore vedere che nelle mie mani, nella mia voce il Signore realizza questo mistero della Sua presenza!
Come allora non pregare il Signore, perché vi dia una coscienza sempre vigile ed entusiasta di questo dono, che è posto al centro del vostro essere preti! Perché vi dia la grazia di saper sperimentare in profondità tutta la bellezza e la forza di questo vostro servizio presbiterale e, nello stesso tempo, la grazia di poter vivere questo ministero con coerenza e generosità, ogni giorno. La grazia del presbiterato, che tra poco vi verrà donata, vi collegherà intimamente, anzi strutturalmente, all’Eucaristia. Per questo, vi collegherà nel profondo del vostro cuore ai sentimenti di Gesù che ama sino alla fine, sino al dono totale di sé, al suo essere pane moltiplicato per il santo convito dell’unità e della comunione. È questa l’effusione pentecostale dello Spirito Santo, destinata a infiammare il vostro animo con l’amore stesso del Signore Gesù. È un’effusione che, mentre dice l’assoluta gratuità del dono, scolpisce dentro il vostro essere una legge indelebile – la legge nuova, una legge che vi spinge ad inserire e a far rifiorire nel tessuto concreto degli atteggiamenti e dei gesti della vostra vita d’ogni giorno l’amore stesso di donazione di Cristo crocifisso. Riascoltiamo la voce dell’apostolo Paolo, anzi in questa voce riconosciamo quella potente dello Spirito Santo: «Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3,27). Già con il Battesimo, e ora in virtù del Sacramento dell’Ordine, voi vi rivestite di Cristo. Alla cura per la celebrazione eucaristica si accompagni sempre l’impegno per una vita eucaristica, vissuta cioè nell’obbedienza ad un’unica grande legge, quella dell’amore che si dona in totalità e serve con umiltà, una vita che la grazia dello Spirito Santo rende sempre più somigliante a quella di Cristo Gesù, Sommo ed eterno Sacerdote, servo di Dio e degli uomini.
Carissimi, la strada che ci indica il Vangelo di oggi è la strada della vostra spiritualità e della vostra azione pastorale, della sua efficacia e incisività, anche nelle situazioni più faticose ed aride. Di più, questa è la strada sicura per trovare la vera gioia. Maria, la serva del Signore, che ha conformato la sua volontà a quella di Dio, che ha generato Cristo donandolo al mondo, che ha seguito il Figlio fino ai piedi della croce nel supremo atto di amore, vi accompagni ogni giorno della vostra vita e del vostro ministero. Grazie all’affetto di questa Madre tenera e forte, potrete essere gioiosamente fedeli alla consegna che come presbiteri oggi vi viene data: quella di conformarvi a Cristo Sacerdote, che ha saputo obbedire alla volontà del Padre e amare l’uomo sino alla fine.
Amen!
dal sito:
http://www.zenit.org/article-22927?l=italian
Il Papa: per essere discepoli di Cristo bisogna appropriarsi della sua Croce
Intervento in occasione dell’Angelus domenicale
CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 20 giugno 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI affacciandosi a mezzogiorno alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare la preghiera mariana dell’Angelus insieme ai fedeli convenuti in Piazza San Pietro.
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Cari fratelli e sorelle!
Questa mattina nella Basilica di San Pietro ho conferito l’ordine presbiterale a quattordici diaconi della Diocesi di Roma. Il sacramento dell’Ordine manifesta, da parte di Dio, la sua premurosa vicinanza agli uomini e, da parte di chi lo riceve, la piena disponibilità a diventare strumento di questa vicinanza, con un amore radicale a Cristo e alla Chiesa. Nel Vangelo dell’odierna domenica, il Signore domanda ai suoi Discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Lc 9,20). A questo interrogativo l’apostolo Pietro risponde prontamente: «Tu sei il Cristo di Dio, il Messia di Dio» (Ibid.), superando, così, tutte le opinioni terrene che ritenevano Gesù uno dei profeti. Secondo sant’Ambrogio, con questa professione di fede, Pietro «ha abbracciato insieme tutte le cose, perché ha espresso la natura e il nome» del Messia (Exp. in Lucam VI, 93, CCL 14, 207). E Gesù, di fronte a questa professione di fede rinnova a Pietro e agli altri discepoli l’invito a seguirlo sulla strada impegnativa dell’amore fino alla Croce. Anche a noi, che possiamo conoscere il Signore mediante la fede nella sua Parola e nei Sacramenti, Gesù rivolge la proposta di seguirlo ogni giorno e anche a noi ricorda che per essere suoi discepoli è necessario appropriarci del potere della sua Croce, vertice dei nostri beni e corona della nostra speranza.
San Massimo il Confessore osserva che «il segno distintivo del potere del nostro Signore Gesù Cristo è la croce, che egli ha portato sulle spalle» (Ambiguum 32, PG 91, 1284 C). Infatti, «a tutti diceva: « Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua »» (Lc 9,23). Prendere la croce significa impegnarsi per sconfiggere il peccato che intralcia il cammino verso Dio, accogliere quotidianamente la volontà del Signore, accrescere la fede soprattutto dinanzi ai problemi, alle difficoltà, alla sofferenza. La santa carmelitana Edith Stein ce lo ha testimoniato in un tempo di persecuzione. Scriveva così dal Carmelo di Colonia nel 1938: «Oggi capisco … che cosa voglia dire essere sposa del Signore nel segno della croce, benché per intero non lo si comprenderà mai, giacché è un mistero… Più si fa buio intorno a noi e più dobbiamo aprire il cuore alla luce che viene dall’alto». (La scelta di Dio. Lettere (1917-1942), Roma 1973, 132-133). Anche nell’epoca attuale molti sono i cristiani nel mondo che, animati dall’amore per Dio, assumono ogni giorno la croce, sia quella delle prove quotidiane, sia quella procurata dalla barbarie umana, che talvolta richiede il coraggio dell’estremo sacrificio. Il Signore doni a ciascuno di noi di riporre sempre la nostra solida speranza in Lui, certi che, seguendolo portando la nostra croce, giungeremo con Lui alla luce della Risurrezione.
Affidiamo alla materna protezione della Vergine Maria i nuovi sacerdoti oggi ordinati che si aggiungono alla schiera di quanti il Signore ha chiamato per nome: siano sempre fedeli discepoli, coraggiosi annunciatori della Parola di Dio e amministratori dei suoi Doni della salvezza.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100621
Lunedì della XII settimana delle ferie delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 7,1-5
Meditazione del giorno
Beata Teresa di Calcutta (1910-1997), fondatrice delle Suore Missionarie della Carità
No Greater Joy, 55
« Con la misura con la quale misurate sarete misurati »
Per ogni malattia, esistono parecchie medicine e cure. Ma finché una mano dolce pronta da servire, e un cuore generoso pronto ad amare non si sono offerti, non credo che si possa mai guarire di questa terribile malattia che è la mancanza di amore.
Nessuno di noi ha il diritto di condannare chiunque altro. E questo, anche quando vediamo qualcuno sprofondare, senza capire perché. Gesù non ci invita forse a non giudicare ? Forse noi abbiamo partecipato a renderlo così. Dobbiamo comprendere che si tratta di nostro fratello e sorella. Tale lebbroso, tale ubriaco, tale malato sono i nostri fratelli perché anche loro sono stati creati per un amore più grande. Non dovremmo mai dimenticarlo. Gesù Cristo stesso si è identificato a loro quando ha detto : « Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me » (Mt 25,40). E forse essi si trovano senza tetto, sprovvisti di ogni amore, di ogni cura, perché abbiamo rifiutato loro la nostra sollecitudine, il nostro affetto. Sii mite, infinitamente mite nei confronti del povero che soffre. Comprendiamo così poco ciò che sta attraversando. La cosa più difficile, è non essere accettato.